Socrate – Vivere o morire, quale sia migliore è cosa oscura a tutti

 

Nel FLIP di oggi poniamo in evidenza il giudizio di una delle grandi firme del “Corriere della Sera”, come Paolo Mieli, che recensisce il saggio di un’altra grande firma del “Corriere” e de “la Lettura” qual è Mauro Bonazzi autore di “Processo a Socrate”, pubblicato da Laterza. Bonazzi, che insegna Storia della filosofia antica presso l’Università di Utrecht e l’Università Statale di Milano, pone la domanda delle domande, ovvero quella che ogni studente di filosofia di liceo, interessato al grande filosofo greco, in cuore suo si è posto: E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire? A sentire Platone e Senofonte, due degli allievi del filosofo, se fosse stato un tantino più conciliante avrebbe potuto ottenere l’assoluzione. Il fatto è che il settantenne Socrate – secondo Aristofane, che ne tratteggia figura e pensiero nella sua celebre commedia «Le Nuvole» (423 a.C.) – non solo era strambo, come poteva essere un “sofista”, ma rappresentava «il peggio della nuova cultura», soprattutto per due motivi. Il primo: era sospetto di ateismo, poiché negava l’idea stessa di divinità. Il secondo: corrompeva i giovani, sovvertendo in loro lo schema tradizionale riguardante l’autorità, da quella familiare all’intera organizzazione sociale. Bonazzi nel suo libro spiega quello che sarebbe da interpretare come «uno scontro tra la filosofia e la democrazia». Da una parte c’è Socrate, che rivendica autonomia e indipendenza contro conformismo e pregiudizi; dall’altra c’è Atene, che lo accusa di cospirare contro le istituzioni democratiche. Socrate rifiuta la difesa offerta da Lisia, preferendo l’autodifesa. Rispetto a coloro che sostengono la tesi politica, Bonazzi suggerisce cautela poiché mancano consistenti indizi in tal senso e la figura di Socrate è «difficilmente riducibile negli schemi tutti politici dell’opposizione tra oligarchi e democratici».

Riassumiamo i momenti salienti del processo come li sintetizza Mieli: «L’uditorio era composto da 501 giudici e da un folto pubblico. Socrate scelse di preparare da solo i suoi due (forse tre) discorsi di difesa, rifiutando l’aiuto del già citato Lisia, uno dei più celebri oratori dell’Atene dell’epoca. Il processo poi aveva norme garantiste: se, ad esempio, un imputato fosse stato assolto, gli accusatori rischiavano di essere puniti. “A ulteriore conferma”, nota Bonazzi, “del fatto che non mancavano strumenti per impedire che si intentassero processi con troppa disinvoltura”. Ciò che in quel frangente il filosofo temeva di più era il boato del pubblico, che effettivamente fu usato contro di lui (ne parla Platone per stigmatizzarlo). Comunque la prima votazione si risolse in favore sì dell’accusa, ma con uno scarto tutto sommato ridotto: 280 voti contro 221, e Socrate si lasciò persino andare a qualche dileggio nei confronti di chi lo aveva trascinato in giudizio. Ma la seconda votazione, quella in cui si doveva decidere tra una sentenza di morte e il pagamento di un’ammenda, si concluse con una maggioranza a favore della pena capitale. Una maggioranza netta».

Cosa dettò l’andamento sfavorevole di questo processo che portava in tribunale l’intera esistenza del filosofo? La risposta di Bonazzi è inequivocabile: un «doppio fallimento». Quello della democrazia ateniese «incapace di ascoltare il tafano che cercava di risvegliarla dal torpore dei suoi pregiudizi», ma anche il fallimento dello stesso Socrate, incapace di trovare «le parole giuste per far capire le sue ragioni». In realtà la linea di difesa adottata dal filosofo fu alquanto incomprensibile, preferendo la provocazione alla pacificazione. Socrate propose come soluzione del processo (quasi a mo’ di sberleffo) «di essere mantenuto a vita nel Pritaneo a spese dello Stato, un privilegio normalmente riservato agli orfani di guerra e ai vincitori delle gare olimpiche». In alternativa il pagamento di una cifra irrisoria. Non è irritando giudici che si può evitare una punizione dura ed esemplare, come la pena capitale. È vero, oggi possiamo condividere le parole di Mauro Bonazzi, piene di grandi idealità, quando sostiene che in qual senso Socrate è il vincitore morale del processo, in quanto «è riuscito nell’impresa di far finire sul banco degli imputati Atene, la città che non aveva saputo accettare la sua sfida e per questo aveva scelto di ripiegarsi su sé stessa e sui propri pregiudizi». Pur condannato a morte dal Tribunale di Atene, Socrate è stato «assolto e premiato da quello della storia». Vale domandarsi, però, se ne è valsa la pena e se un’assoluzione, scaturita da un chiarimento fra le parti, non avrebbe ugualmente premiato le ragioni della ragione. Che Aristofane avesse per caso un pizzico di ragione?

LEGGI PER INTERO IL LIBRO DI PLATONE “APOLOGIA DI SOCRATE”

SOCRATE, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (Atene, 470 a.C./469 a.C. – Atene, 399 a.C.), è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d’indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell’elenchos (ἔλεγχος, “confutazione”) applicandolo prevalentemente all’esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell’etica o filosofia morale. Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d’investigazione». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Socrate provocò la giuria del processo Quasi cercando la condanna a morte

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