Luigi Capuana – Il mistero di don Ciccio

 

Luigi Capuana

 

La storia di don Ciccio Curti l’ho sentita raccontare da parecchi e sempre in un modo diverso dall’altro. Ognuno di essi mi ha detto:
— Oh, caro don Felice, come posso saperla io!… Quasi dalla stessa bocca di don Ciccio; si figuri!
Ma, allora, vuol dire che la bocca di lui si divertiva a raccontare oggi una cosa, domani un’altra. Va’ a trovare qual è la verità vera tra tante! Vi sono dei punti sui quali tutti vanno d’accordo. Questo per esempio:
— Don Ciccio Curti era un galantuomo nel vero senso di questa parola.
Benissimo! Ciò però non ha impedito che commettesse una cattiva azione sposando per forza la bella figliuola dei Mandrà….
Per forza? Il mistero sta appunto qui.
Giusto ieri il dottor Colla, a cui avevo rivolto alcune domande, mi rispondeva:
— Che ve ne importa, caro don Felice?
— E la scienza? E la storia?
— Parole grosse, caro don Felice!
— Per chi non capisce — scusate — che un caso raro, rarissimo può dar la soluzione di parecchi problemi psicologici dietro cui gli scienziati si affaticano invano; per chi non capisce che la storia non è formata soltanto dai grandi avvenimenti, ma anche da tanti piccoli casi individuali….
— Parole grosse! Parole grosse!
Quel dottor Colla sarà — non ne dubito — un valentissimo chirurgo; ma levato dal bisturi, dal forcipe, dai tagli, dalle punture, da tutte queste utilissime però manualissime cose, è — sia detto tra noi, — una bestia.
E mettiamo che io agisca per pura curiosità! Non voglio calunniare nè denigrare nessuno, molto meno don Ciccio Curti, buona memoria.
Arrivar ad assodar se ha sposato per forza o no, può riuscire cosa onorifica per lui o, almeno, una scusa.
Come? Il Cavalier Daeli ignora chi è don Ciccio Curti? È la prima volta che lo sente nominare? Mi pare incredibile…. Tanto meglio. Voi, Cavaliere, che non avete preconcetti di sorta alcuna, siete in caso di giudicare spassionatamente.
Mi credete capace di dire bugie? D’inventare per comodo della mia tesi, — sì, tesi giacché quel che vi dirò vi contraddice, smentisce, annulla tante sciocche dicerie di certa gente — d’inventare un fatto di sana pianta per mio uso e consumo?
A che scopo? domando io, a che scopo?
Con voi, dunque, occorre che mi rifaccia da capo. Accendete il vostro sigaro, sdraiatevi sulla poltrona, così, comodamente, e abbiate la pazienza di ascoltarmi.
Io lo riconosco, ho il difetto di parlar molto, senza rifiatare e senza far rifiatare, me lo hanno rimproverato…. Mah! Non obbligo nessuno a starmi a sentire. Mi stuzzicano, mi punzecchiano, mi provocano. Voi ridete, perché siete una persona educata, non siete cavaliere di nascita per nulla, vi vedo già disposto a starmi ad ascoltare benevolmente. Ecco, vengo sùbito a don Ciccio Curti.
Non dico: un bell’uomo, ma quasi. Figlio di contadini che lo avevano mandato a scuola dal «Domine» Speranza — allora si diceva così — avrebbe potuto prendere una professione; e si era arrestato a mezza via. Speziale, no! Agrimensore, no! Santo sacerdote servo di Dio, lo avrebbe voluto sua madre! Lui intanto non aveva fretta; aspettava la vocazione…. Quella di fannullone l’aveva già, come gli diceva suo padre. Le lavate però di capo del buon uomo a quel figlio unico non approdavano a niente. Gli parve, per ciò, di aver toccato il cielo con un dito quando lo seppe allogato come scritturale presso il Notaio «Brà-brà», così chiamato perché aveva il vezzo di fare continuamente «brà-brà» con le labbra, scrivendo o stando a sentire.
Il padre morì senza accorgersi di una specie di malattia di suo figlio. Durante la giornata era buono, tranquillo; ma, di mano in mano che s’inoltrava la sera, il giovane don Ciccio diveniva irrequieto, smanioso, intrattabile.
— Che hai?
— Niente!
— Va’ a fare due passi. Trova qualche amico.
— Do fastidio, forse?
— Non posso vederti aggirare per le stanze come una mosca senza capo.
— Me ne vado a letto; sarà meglio.
E a sua madre che andava a trovarlo in camera e tornava a domandargli con insistenza se si sentisse male, rispondeva soltanto:
— Fammi il piacere di chiudere a chiave l’uscio; così dormirò senza disturbi.
— Quali disturbi?
— Non so quel che dico, mezzo stordito dal sonno…. A doppia mandata, mamma!
La povera donna girava la chiave a doppia mandata nella toppa e spesso rimaneva a lungo a origliare. Lo sentiva voltarsi e rivoltarsi sul lettino coi trespoli, sospirare forte e anche borbottare. Fantasticava che il figlio fosse perseguitato da qualche «Spirdu» maligno e non volesse dirgliene niente per non metterle paura.
Poi, passata una certa ora, non si sentiva nessun rumore, nessun sospiro, nessun borbottamento; e la mattina dopo non si vedeva traccia di sofferenza e d’insonnia nel viso del giovane, che aveva ripreso la sua tranquillità, il suo umore allegro. A tavola imitava perfettamente il suo principale nell’atteggiamento indolente, nei brevi gesti, nel «brà-brà» ripetuto con sempre varie intonazioni. Ma, appena s’inoltrava la sera, ridiveniva irrequieto, smanioso, intrattabile. Pareva che soffrisse di non poter fare qualcosa che gli avrebbe dato gran piacere se gli fosse stato permesso di farla.
Chi glielo impediva?
E ogni sera si ripeteva, quasi parola per parola, lo stesso dialogo….
— Ma, insomma, che hai?
— Niente.
— Ti annoi, lo vedo; va a fare due passi; va a trovare qualche amico.
— Preferisco di andarmene a letto.
E alla madre, sopraggiunta col pretesto di dargli la buona notte, e che insisteva: — Ti senti male? — ripeteva:
— Fammi il piacere di chiudere l’uscio a chiave, a doppia mandata.
Tutte queste minuzie, caro cavalier Daeli, posso garantirvele con giuramento. Paiono sciocchezzole e sono importantissime per la personalità di don Ciccio Curti. Potrete dirmi: — Anche il lettino coi trespoli? — Sissignore, anche quello, perché non vi figuriate che la camera del giovane don Ciccio fosse mobigliata come la vostra di oggi, nè come la mia; e non vi lasciate ingannare neppure dal «don» troppo facilmente acquistato. Don Ciccio Curti rimase sempre un contadino…. ripulito. Ripulito esteriormente. Infatti, appena perdette i genitori, diè in affitto il podere paterno, smise di far lo scritturale presso il Notaio «Brà-brà», e cominciò quella sua vita vegetativa, di fannullone, di bighellone che parecchi amici gli rimproveravano.
— È meglio che io non faccia niente, invece di far del male… — rispondeva.
Il farmacista Milazzo si rammenta ancora di queste strane parole. Infatti lo rimbeccò— Perché dovreste far del male?
— Perché…. non saprei far altro. Dovrei tagliarmi le mani. Non le adopro; è quasi lo stesso.
E il farmacista Milazzo mi ha, più volte, raccontato che pronunziando queste parole don Ciccio diventava pallido, gli tremava la voce.
Supponendo che, innamorato non corrisposto, covasse nel cuore qualche vendetta, il farmacista lo ammoniva affettuosamente:
— Non vi perdete dietro alle donne, caro don Ciccio. Se dovete fare una sciocchezza — suol dirsi così, ma è cosa santa e giusta — prendete moglie!
— Le donne? Sciù! Per me sono come le mosche, le caccio via…. Sciù! In quanto alla moglie, se fosse cosa santa e giusta, l’avreste già presa da un pezzo….
Il farmacista l’avrebbe presa volentieri. Aveva però addosso gli orfani di suo fratello avvocato, tre ragazze e due maschi….
Ma questo non c’entra.
L’importante è il sapere che, a trent’anni, don Ciccio Curti riteneva le donne simili alle mosche e che le cacciava via: Sciù! Sciù!
Eppure, come contadino ripulito, era quasi un bel giovane. Avrebbe trovato parecchie donne pronte a sposarlo. Dava occhiate di qua, occhiate di là; non era fatto di legno! Appena però si accorgeva che quelle occhiate potevano esser prese sul serio, smetteva.
Per un uomo di trent’anni, questo gran riserbo faceva specie.
Fece maggiormente specie quando si seppe che ogni sera una vecchierella, sua vicina di casa, era incaricata di chiudergli la porta a doppia mandata e di aprirgliela all’alba.
Durava da un bel pezzo senza che ne fosse trapelato niente; ma una mattina, aspetta aspetta….
Don Ciccio si affaccia alla finestra. Vede che la porta della casetta terrena della sua «carceriera» è ancora chiusa e si rassegna ad attendere fino a mezzogiorno.
Viene un parente della vecchia. Picchia, ripicchia. Nessuno risponde…. Per farla breve, nella nottata la vecchierella era morta di sincope…. E don Ciccio fu costretto a dire:
— Badate: a un chiodo dev’esserci appesa la chiave della mia porta…. Fatemi il favore….
Chi rideva, chi fantasticava tante cose. Si faceva chiudere la porta di casa a doppia mandata…. perché? Nessuno riusciva a indovinarlo. E se qualcuno glielo domandava, don Ciccio rispondeva con una spallucciata. Giacché morta la vecchia, egli aveva trovato sùbito un’altra «carceriera», attenta, paziente, ma non discreta quanto la prima; la serrata della porta, in poche settimane, era diventata un piccolo spettacolo pel vicinato. Don Ciccio, volendo evitare il pettegolezzo, aveva dovuto incaricare di quel confidenziale ufficio un uomo, il sagrestano di una chiesetta della via traversa. Ogni sera, egli andava a suonare le due ore di notte, e, al ritorno, passando davanti alla casa di don Ciccio — a quell’ora la via era deserta — dava una doppia mandata alla chiave della porta, poi la mattina all’alba, ripassando per andar a suonare la prima Messa, apriva lasciando nella toppa la chiave, che don Ciccio si affrettava a levar via.
Capite bene, caro cavaliere, che la curiosità degli sfaccendati era diventata vivissima. Si seppe anche del sagrestano; e allora don Ciccio non ebbe più pace.
— Perchè? Avete paura che vi scappino le pulci?
— La casa mia è pulita e pulci non ce ne sono.
— O dunque?
— Badate ai fatti vostri!…
E a qualcuno non diceva: «ai fatti vostri», ma una brutta parola.
I curiosi sono così: quando si accorgono che ogni loro insistenza non approda a niente, si stancano, cercano un nuovo pascolo alla loro stupida avidità. Per ciò, dopo qualche mese, nessuno si occupò più della serale chiusura a chiave della porta di don Ciccio. Se egli avesse avuto moglie, il fatto si sarebbe potuto interpretare per atto di gelosia. Quando si è gelosi, non si ragiona. Ma don Ciccio era solo.
Una vicina andava a fargli le faccende di casa, gli preparava il desinare, il letto. Alla cena, molto semplice, pensava lui. E, durante la giornata, egli bighellonava, si sedeva davanti a una merceria, a una bottega di barbiere, si divertiva a veder giocare al bigliardo, o a tresette nel mezzanino di Campoccia.
Se non che, da qualche tempo, non era più dell’umore allegro di una volta. Pareva che un pensiero triste, molto triste, lo affliggesse e lo facesse smaniare. Che gli mancava? Tutto gli andava bene! Nel suo podere, per caso, era stata scoperta una polla d’acqua che ne aumentava il valore. Un lontano parente gli aveva lasciato in eredità parecchie migliaia di lire, depositate presso una Banca. E la gente diceva che appunto tutte queste buone fortune lo facevano stare di malumore perchè don Ciccio era…. un egoista. Povero uomo!
Invece, si seppe da lì a poco ch’egli, improvvisamente, si era deciso a prender moglie.
Allora tutti s’interessarono del bel caso.
— È dunque vero? Bravo, don Ciccio….
— La vedova Sincona, don Ciccio? Un po’ matura, ma donna di casa…. Bravo!
— La nipote di mastro Stefano il crivellatore? Troppo giovane, don Ciccio. Badiamo!
Quasi avesse dovuto sposare, venti, trenta donne!
Ma i mesi passavano, e lui non sposava nessuna delle tante che gli venivano appioppate come future mogli.
Poi…. Qui comincia il mistero.
Mistero! L’ho detto anch’io, al pari di tanti altri. In questo momento però mi vien da riflettere che non c’è niente di misterioso nella condotta di don Ciccio. E se mi son lasciato scappar di bocca ch’egli ha commesso una cattiva azione sposando la bella figlia dei Mandrà, voglio riconoscere, caro cavaliere, davanti a voi, che ho avuto torto. Le cattive azioni consistono nell’intenzione. Uno sbaglio, — ne convenite? — non potrà mai esser detto cattiva azione. Sbagli ne può commettere l’uomo più onesto del mondo, senza cessare per ciò di essere onesto.
E rifletto: — Sbaglio? Perché? — Bisogna vedere in che senso la prendeva lui da principio. Se, dopo, le circostanze si sono mutate che colpa ne ha un galantuomo?
Pare che le cose siano andate così:
Don Ciccio aveva visto Fina, la bella figlia dei Mandrà il giorno della festa della Madonna degli Angeli, durante la processione. Come se non avesse mai visto una donna!
Otto giorni dopo, si presentava al padre della ragazza.
— Quattro e quattro fa otto, chiedo la mano di vostra figlia.
— Otto e otto fa sedici, non ho mano di figlia da darvi!
— Sedici e sedici fa trentadue, me la prenderò a vostro marcio dispetto….
E mantenne la parola.
Fu una violenza; ma in certi momenti mi si affaccia alla mente il sospetto che la ragazza si sia lasciata rapire volentieri.
Gli graffiò la faccia? Gli strappò una ciocca di capelli? Certamente, vedendosi afferrata all’improvviso, quantunque già sapesse della richiesta e della risposta del padre, non poteva accarezzarlo, attaccarglisi a un braccio.
Stupore generale! Nessuno si sarebbe atteso un atto di simile arditezza da don Ciccio Curti.
Fin qui, però, gli avvenimenti non hanno nulla di straordinario.
Massaio Mandrà strillò, minacciò il finimondo, non voleva affatto dare il suo consenso. Ma quando don Ciccio, per bocca del Notaio Brà-brà, che ci si era messo di mezzo, mandò a dirgli che rinunziava alla dote, benché la cosa potesse sembrare una canzonatura, perché la ragazza era figlia unica, si rabbonì, pur continuando a nicchiare.
Don Ciccio si era comportato da galantuomo, quantunque contadino. Dopo la prima sera del rapimento, aveva condotto la ragazza in casa del farmacista Milazzo, raccomandandola alla sua buona signora.
Avvenuto il matrimonio…. appena scorsa una settimana, ricevendo una visita della madre, le si era buttata tra le braccia piangendo:
— Ah! Mamma!… Mamma!
La mamma le aveva fatto un’interrogazione così brutale, che donna Fina aveva arrossito sino alla radice dei capelli.
— No! No, mamma! — protestava. — È pazzo…. non so!… Mi fa paura!
— Pazzo? Perché?
— Mi dice: Va’ a letto, vengo sùbito. E si mette ad andare su e giù per le tre stanze e la cucina. Gesticola, borbotta, non sembra lui; sposta seggiole, sposta oggetti, pesta i piedi. L’ho guardato dall’uscio della camera…. Mi fa paura!… Mamma!
— E poi?
— Poi, questa notte, sentendogli scendere cautamente le scale, ho aperto a fessura la finestra…. Andava via, come brancolando nel buio…. lo vedevo appena…. svoltò cauto…. E di lì a poco tornò, in fretta…. Portava qualcosa in una mano…. Io mi rimisi a letto…. Lo vidi entrare calmo. — Come? Non ti sei addormentata? — mi disse. — Io non ho potuto chiuder occhio, ma lui ha fatto tutto un sonno fino a stamattina….
Non vi stupite, caro cavaliere…. Vi annoio? No? Grazie…. Non vi stupite che io abbia potuto sapere questi intimi particolari; li ho saputi dopo parecchi anni, in gran confidenza, stavo per dire sotto sigillo di confessione. Perché i Mandrà sospettano tuttavia che don Ciccio Curti fosse un lupomannaro, e che fosse costretto dal suo male ad andare attorno quando faceva la luna, urlando, con la schiuma alla bocca…. Sciocchezza! Perché, egli andava fuori di casa ogni notte, assai prima della mezzanotte, e non urlava, non mandava schiuma dalla bocca…. Nè stava fuori più di un quarto d’ora, di mezz’ora al massimo, e tornava a casa tranquillo e dormiva tutt’un sonno fino alla mattina…. Ma i Mandrà sono contadini ignoranti.
Non vi riferisco, caro cavaliere, le minchionerie degli altri. Secondo parecchi, don Ciccio andava attorno con le Nonne. Faceva serrare a doppia mandata la porta di casa sua…. ma usciva e rientrava pel buco della serratura. E c’era chi giurava di averlo visto coi suoi propri occhi; e chi giurava di aver tentato di seguirlo, e tutt’a un tratto gli era sparito davanti. Minchionerie senza capo nè coda.
Figuratevi, caro cavaliere…. Vi annoio? No? Grazie; sto per finire…. Figuratevi quel che si fantasticò e si disse quando si seppe che donna Fina era scappata dalla casa del marito, rifugiandosi presso i genitori! I Mandrà non diedero a nessuno la sodisfazione di rispondere: È stato questo e questo! Don Ciccio poi pretendeva di far credere che sua moglie era andata dai suoi parenti per ragioni di salute…. Poteva dire la vera ragione? Chi gli avrebbe creduto, se non gli credeva neppure la moglie?
Vi confesso, cavaliere, che non oso di crederci nemmeno io! Eppure è la spiegazione più verosimile.
Una notte sua moglie, atterrita di quell’agitazione, di quella smania, avea voluto impedirgli di andar fuori; voleva, a ogni costo, sapere perché…. Voleva, soprattutto, sapere che significavano quei sassi che, ogni notte, egli riportava a casa, uno alla volta…. Ho dimenticato di dirvi ch’egli, ogni notte, tornava a casa con un grosso sasso in mano, e lo buttava in un canto del bugigattolo a pianterreno…. Quella cinquantina di sassi ammonticchiati là, la povera donna Fina li credeva cosa di magia, poiché suo marito sfuggiva di darle una spiegazione.
— Che te n’importa? — le rispondeva. — Mi servono per la fabbrica. — E rideva. — Non fanno ingombro.
Una notte, dunque, donna Fina aveva voluto impedirgli di andar fuori.
Dice — l’ho saputo dalla stessa bocca di lei, dopo la morte del povero don Ciccio — dice che egli, diventato più irrequieto, più smanioso, supplicava: — Lasciami andare; torno sùbito! — quasi con le lacrime agli occhi. Poi le si buttò ai piedi, singhiozzando.
— Perdonami! Perdonami!… Sono un gran ladro, d’istinto! Arrivata una cert’ora, di notte, dovrei andar a rubare, e soffro e smanio, perché la mia volontà dice di no, e…. un’altra volontà vorrebbe costringermi a commettere anche un delitto, pur di rubare!… Non mi riconosco io stesso in quei momenti. Ma ho vinto sempre io, sempre! Notte per notte, da anni!… Prima, per non uscire di casa, facevo chiudere a chiave la porta…. Ora non resisto più! Non potrei prender sonno se non rubassi…. qualcosa. Ed esco a rubare…. un sasso dal mucchio preparato per una fabbrica, laggiù!… Uno ogni notte!… E mi accheto, e posso dormire…. Ecco!… Non mi credi? — Era possibile? — concluse donna Fina. — E non gli ho creduto! E non ho più voluto stare con lui. Avevo paura! Lui dormiva, dopo di esser tornato a casa con uno di quei maledettissimi sassi; io non dormivo più…. Non ho saputo resistere…. Come a un confessore, don Felice!
— Ma questa del rubare è anche una vera malattia — le dissi.
— E se gli veniva quella di ammazzare la gente? Io avevo paura…. Soffrivo più di lui….
Come levarle dal capo che si trattava di pazzia e di magia? E lei e i suoi, intanto, non ne parlavano con nessuno per…. non disonorare la famiglia!
Io ora penso che don Ciccio Curti — se quel che egli disse alla moglie era vero — è stato più che un martire, un eroe! Ha dimostrato col suo esempio che non è difficile vincere anche un forte cattivo istinto, di quelli che la madre natura ha spesso il barbaro capriccio di regalarci fin dalla nascita.
E penso pure: Perché non dev’esser vero? Perché?
Ragiono bene, cavaliere? Eh! Cavaliere, che ne dite?

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