Teresa Lazzaro – Ravensbrück, breve viaggio nella memoria 1/2

Appunti di Teresa Lazzaro

Nell’inferno dei campi di concentramento, al momento dell’arrivo, le donne, costrette a spogliarsi completamente nude e a lasciare ogni cosa, dalla fede nuziale al fazzoletto, rasate e tatuate, perdendo la loro dignità e identità, cessavano anche di potere essere madri. Gravissimo era pertanto il trauma subito dalla disumanizzazione provocata dalle SS. Condizioni di vita terribili da schiave era ciò che le attendeva non appena un numero tatuato dolorosamente con inchiostro indelebile le trasformava in pezzi. Teniamo anche conto del fatto che si giungeva all’inferno dopo un viaggio di circa cinque giorni e che arrivando, a malapena coscienti, quando si spalancavano le porte dei vagoni in cui respirare era stato faticoso, le SS gridavano tenendo a guinzaglio i cani, mostrando la frusta e prendendo a calci le vittime, costrette a raggiungere il luogo dello sterminio e rimanere per ore in piedi senza potersi muovere e sopportare le terribili rigide temperature. La rasatura era un terribile e umiliante degrado. Poi c’erano quelle che venivano sfruttate sessualmente. Tutte quelle deportate nel campo di Ravensbrück raggiungevano il campo a piedi da Füstenberg.

Nella sua testimonianza, Jacqueline Péry d’Alincourt, ricorda di aver scoperto molto dopo, che il famigerato luogo fosse nella Germania settentrionale vicino al Baltico. La stessa rivive raccontandola, la terribile angoscia subentrata con la confisca di qualunque cosa, una foto, un libro, una semplice lettera. Per lei fu terribile, trovarsi completamente nuda, pigiata con le altre e tutte, evitando per la vergogna di guardarsi, obbligate ad imparare a memoria il numero assegnato, nel suo caso il 35243, confinate ad uno spazio ristretto in cui era impossibile avere un attimo di privacy. Lei, prigioniera politica, arrestata nel settembre del 1943 e rinchiusa a Fresnes, sei mesi dopo era stata portata a Romainville, un’installazione militare ad est di Parigi, dove non più sola, per qualche settimana era riuscita a sentirsi viva! Lei apparteneva al gruppo francese conosciute come les politiques, quelle prigioniere dal triangolo rosso. Dopo tre settimane di isolamento si riunì con l’amica Geneviève de Gaulle, con la quale avrebbe poi diviso per alcuni mesi lo stesso pagliericcio!

Le donne del campo di Ravensbrück, determinate a sopravvivere, riuscirono a sostenersi a vicenda e ad esprimere sofferenza e disagi in varie espressioni artistiche. In modo silenzioso riuscirono a lottare e le loro espressioni artistiche, dopo la guerra, costituirono prove che dimostrano di quali orrori erano state testimoni e vittime. Quella di Grażyna Chrostowska fu la prima voce femminile dell’Olocausto ad essere conosciuta anche se poi la risonanza l’avrebbe avuta quella di Anna Frank, accanto a quelle maschili di Elie Wiesel e Primo Levi. Oggi grazie a diari, libri e numerose testimonianze orali, aumenta il numero delle voci femminili conosciute. Poche quelle voci disponibili in lingua italiana, ma in crescente aumento quelle in altre lingue.

Metà delle vittime furono donne e la loro esperienza, per motivi biologici, fu diversa da quella degli uomini. Un fatto interessante emerge dal campo di Ravensbrück: le deportate riuscivano a scambiarsi regali e ricette. Spesso il loro spirito di adattamento costituì la loro forza, quella marcia in più, che le donne ebbero, rispetto ai maschi, per sopravvivere, pur essendo ridotte peggio di animali sporchi e senza cibo. L’orrore da loro affrontato era diverso, basti pensare al trauma della rasatura delle loro bellissime chiome e all’amenorrea che sopraggiungeva. Cercarono tutte di aiutarsi tra loro e la forza dell’amicizia permise loro di dare, in quel contesto doloroso, il meglio delle loro capacità mentali.

Ravensbrück fu un campo molto diverso dagli altri. Non fu concepito come campo di sterminio ma prigione per disadattate. Essendo situato nella Germania orientale si è potuto avere accesso in quel luogo soltanto negli anni Novanta, dopo la riunificazione del paese.

Nel 1935 i Nazisti implementarono un programma, meglio noto come Lebensborn. In una serie di case, donne singole o maritate, di “pura” razza potevano far nascere i loro figli che là potevano crescere ben accuditi. Nello stesso tempo l’aborto divenne illegale per le donne “pure” mentre aumentarono i controlli sulle nascite e le restrizioni per le altre donne costrette alla sterilizzazione. Non possiamo dimenticare a tal proposito la testimonianza di Ceja  Stojka, bambina dall’infanzia rubata, che prima di finire nei campi di concentramento era già prigioniera da libera e che a Ravensbrück venne sterilizzata insieme a tante altre deportate, contro la sua volontà.

Alla fine del 1938 i Nazisti decisero di costruire un campo di prigionia per sole donne a poca distanza da Berlino per internare il crescente numero di prigioniere politiche che il regime considerava sgradite. Dal vicino campo di Sachenhausen  arrivarono i prigionieri per costruire le diverse strutture femminili ai margini del lago vicino il villaggio di Füstenberg. Il campo di concentramento di Ravensbrück, aperto il 18 Maggio dell’anno successivo accolse quasi 900 donne tedesche ed austriache precedentemente internate nella fortezza di Lichtenberg. Fu utilizzato soprattutto per prigioniere politiche, asociali, criminali, Testimoni di Geova ed Ebree. Inizialmente costruito per la detenzione di 4000 persone, il campo nel 1945 aveva 50000 prigioniere, provenienti da 23 nazioni.

Diverse le trasformazioni del luogo che da prigione divenne campo di lavoro, rimanendo operativo fino al 30 Aprile 1945 quando la Croce Rossa si prese cura delle ultime tremila donne. Le donne trasferite in questo campo servivano come manodopera per la macchina da guerra nazista. Nel 1944 fu costruito un forno crematorio e nella primavera successiva venne fatta una camera a gas, in cui morirono 6000 donne. In precedenza, le donne venivano invece mandate a morire nei sottocampi o ad Auschwitz. Cambiando le caratteristiche del campo cambiò anche la tipologia delle deportate. Furono solo 15000 quelle tornate libere con le proprie gambe! Poi furono anche trasferiti nel corso degli anni degli uomini da Buchenwald per le riparazioni delle automobili e per lavori elettrici, uomini che erano alloggiati in una struttura isolata dalle donne.

In media le donne qui avevano meno di trenta anni e provenivano soprattutto da Polonia, Russia e Germania. Queste erano le percentuali: 78% prigioniere politiche, 12% Ebree, 7.1% asociali, 2.8% criminali. Le asociali comprendevano zingare, prostitute, alcolizzate e senzatetto. Nel triangolo che le deportate dovevano cucirsi indosso c’era anche l’iniziale del paese di provenienza. L’unico triangolo che a Ravensbrück non si vedeva era quello rosa, usato per gli omosessuali. Le SS consideravano l’omosessualità una malattia da curare, quindi le lesbiche che venivano arrestate rientravano nel gruppo delle asociali, sebbene negli elenchi accanto al nome c’era un’annotazione come si legge nella testimonianza di Nanda Hebermann, cattolica, che fu arrestata nella Cattedrale di Munster l’8 febbraio 1941 per l’aiuto che offriva alla Resistenza e che scrisse un memoriale sulla sua esperienza, lei che fu costretta a vivere proprio nel blocco delle prostitute. Donna pia e buona, si trovò malissimo in mezzo a loro il cui linguaggio era volgare e scurrile e che avrebbe voluto essere in un’altra baracca magari insieme alle combattenti della Resistenza. Per lo più francesi queste erano classificate come prigioniere Nacht und Nebel. Vivevano completamente isolate dal mondo e non potevano né ricevere né scrivere lettere. Scomparvero senza lasciare tracce e di loro non fu rilasciata alcuna notizia. Le ceneri delle donne uccise venivano gettate nel lago Schwetd. Oggi in loro ricordo chi visita il campo getta rose nelle acque del lago.

Molti disegni fatte dalle deportate del campo mettono in evidenza il sovraffollamento ed una prigioniera politica, Nina Jirsikova ne fa un quadro alquanto umoristico. Il disegno conosciuto come Block Assignment fa vedere le donne una sull’altra. Dalle figure si notano le diverse nazionalità e la mancanza di privacy. Accumunate solo dall’essere donne, tutte di etnia e religione diversa! E nel disegno si notano le babuskas, tipiche babucce russe.

IMMAGINE DI APERTURA: Monumento alle vittime dell’Olocausto a Minsk – Foto di Lynn Greyling da Pixabay 

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