Jacopo Passavanti – Il carbonaio di Niversa

Leggesi scritto da Elinando, che nel contado di Niversa fu uno povero uomo il quale era buono, e temeva Iddio; ed era carbonaio, e di quell’arte si viveva. E avendo egli accesa la fossa de’ carboni, una volta, istando la notte in una sua capannetta a guardia dell’accesa fossa, sentì in su l’ora della mezzanotte, grandi strida. Uscì fuori per vedere che fusse, e vide venire in verso la fossa correndo e stridendo una femmina iscapigliata e ignuda; e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero, correndo, con uno coltello ignudo [sguainato] in mano; e della bocca, e degli occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva di gittarsi, ma correndo intorno alla fossa fu sopraggiunta dal cavaliere, che dietro le correva: la quale traendo guai [gemendo], presa per li svolazzanti capelli, crudelmente ferì per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E, cadendo in terra, con molto spargimento di sangue, sì la riprese per li insanguinati capelli, e gittolla nella fossa de’ carboni ardenti: dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa [infuocata] e arsa la ritolse; e ponendolasi davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò per la via onde era venuto. E così la seconda e la terza notte vide il carbonaio simile visione. Onde, essendo egli dimestico del conte di Niversa, tra per l’arte sua de’ carboni e per la bontà sua la quale il conte, che era uomo d’anima, gradiva, venne al conte, e diss’egli la visione che tre notti avea veduta. Venne il conte col carbonaio al luogo della fossa. E vegghiando [vegliando] il conte e il carbonaio insieme nella cappannetta, nell’ora usata venne la femmina stridendo, e il cavaliere dietro, e feciono tutto ciò che il carbonaio aveva veduto. Il conte, avvegna ché [sebbene] per l’orribile fatto che aveva veduto fosse molto spaventato prese ardire. E partendosi il cavaliere ispietato con la donna arsa, attraversata [posta di traverso] in su ‘l nero cavallo, gridò iscongiurandolo che dovesse ristare, e isporre la mostrata visione. Volse il cavaliere il cavallo e fortemente piangendo rispuose e disse: Da poi, conte, che tu vuoi sapere i nostri martiri i quali Dio t’ha voluto mostrare, sappi ch’io fui Giuffredi tuo cavaliere, e in tua corte nutrito. Questa femmina contro alla quale io sono tanto crudele e fiero [feroce], è dama Beatrice, moglie che fu del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere di disonesto amore l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato; il quale a tanto condusse lei che, per potere più liberamente fare il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato insino alla infermitade della morte; ma nella infermitade della morte, in prima ella e poi io tornammo a penitenzia; e, confessando il nostro peccato, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna dello inferno in pena temporale di purgatorio. Onde sappi che non siamo dannati, ma facciamo in cotale guisa come hai veduto, nostro purgatorio, e averanno fine, quando che sia, i nostri gravi tormenti. E domandando il conte che gli desse ad intendere le loro pene più specificamente, rispuose con lacrime e con sospiri, e disse: Imperò che [poiché] questa donna per amore di me uccise il marito suo, le è data questa penitenzia, che, ogni notte tanto quanto ha istanziato [stabilito] la divina iustizia, patisca per le mie mani duolo di penosa morte di coltello, e imperò ch’ella ebbe in verso di me ardente amore di carnale concupiscienza, per le mie mani ogni notte, è gittata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo con grande disio e con piacere di grande diletto, così ora ci veggiamo con grande odio, e ci perseguitamo con grande sdegno. E come l’uno fu cagione all’altro d’accendimento di disonesto amore, così l’uno è cagione all’altro di crudele tormento: ché ogni pena ch’io fo patire a lei, sostengo io, ché il coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco che non si spegne; e, gittandola nel fuoco, e traendonela e portandola, tutto ardo io di quello medesimo fuoco che arde ella. Il cavallo è uno dimonio al quale noi siamo dati, che ci ha a tormentare. Molte altre sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi, e fate limosine e dite messe, accio che Dio alleggeri i nostri martirii. E, detto questo, sparirono come fussono una saetta.

J. Passavanti, Lo specchio di vera penitenza, Libreria Ed. Fiorentina, Firenze 1925, pp. 20-21, 56-59.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Alexas_Fotos da Pixabay 

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