Se sai usarlo, anche WhatsApp è strumento di cultura

di Sergio Bertolami

Capita sempre più spesso che qualcuno mi chieda d’iscrivermi a uno dei gruppi nati sui social che vanno per la maggiore. Le relazioni oggi iniziano e si sviluppano, non più in una piazza cittadina, ma su WhatsApp, Facebook o Twitter. Da principio si mantengono gli assunti di base che hanno portato a costituire il gruppo, ma quando i componenti superano il “numero di Dunbar” la coesione comincia a incrinarsi. L’antropologo Robin Dunbar è attualmente alla guida di un team di ricerca sulle neuroscienze sociali ed evolutive dell’Università di Oxford. Il numero massimo di persone, che non bisognerebbe oltrepassare per mantenere relazioni stabili, è stato da lui fissato intorno ad una media di 150. Fino a cento contatti siamo ancora nell’ambito delle conoscenze private, superata questa soglia ci troviamo fra persone con le quali intratteniamo rapporti di lavoro; ancora oltre i rapporti divengono saltuari e occasionali. Questo, a mio avviso, può spiegare, in qualche modo, perché nei social network i gruppi numerosi possono diventare stucchevoli e irritanti. I componenti si conoscono sempre meno fra di loro e finiscono col non conoscersi affatto. Si accresce, pertanto, quella sorta di promozione personale che arriva all’esibizionismo: sopportarli è il prezzo da pagare se si vuole continuare a rimanere nel gruppo. Un prezzo che tuttavia potrebbe essere, sempre e comunque, vantaggioso.

Mi faceva notare un’amica che ognuno di noi legge in virtù delle proprie conoscenze. Alcuni tendono a percepire più di quanto è espresso in un testo, poiché attivano confronti e relazioni. Per altri può valere esattamente l’opposto, cioè non capiscono nulla di quanto leggono oppure tendono a travisarlo. Naturalmente questo vale pure per i social, anche perché queste letture sono colte al volo mentre si svolgono mille faccende. Nondimeno sono convinto che, se sai usarli bene, anche i social potrebbero essere strumenti di cultura. Infatti, nei giorni scorsi mi sono reso conto, in modo ancora più tangibile, che la cultura non è semplicemente il complesso delle conoscenze che abbiamo appreso attraverso lo studio e l’esperienza, ma anche la ricerca continua di allargare i propri limitati confini o il rielaborare quanto credevamo acquisito. Mi è bastato leggere in un post l’espressione “Sic est” per richiamare alla memoria un’affermazione di Seneca ben più incisiva. “Sic est, non muto sententiam”, che tradotto suona “è così, non cambio opinione”. Di primo acchito avrei postato l’espressione latina così com’era; ma ho pensato che sarebbe passata come una superflua e banale ostentazione linguistica. Tuttavia, ripescare nel mio passato, dal Libro I, la Lettera Decima che Seneca scrive al suo amico Lucilio è stata per me una letizia inaspettata. Lo dico col sorriso sulle labbra, perché vi assicuro che è insistente in me il desiderio di abbandonare specialmente WhatsApp, con tutti quei post di condiscendenze esagerate e ostentate, condivisioni, réclame autoreferenziali, idee fisse e ripetitive che qualcuno ha opportunamente definito pandemiche.

La lettera di Seneca parla vivaddio del valore che ha la solitudine. «Rifuggi dalla moltitudine, dai pochi, persino da uno solo», consiglia il filosofo all’amico. E gli racconta di quando Cratete di Tebe – nel suo vagare come un cane randagio, perché per lui la casa e la città si trovavano in ogni punto dell’universo – incontrò un ragazzo che se ne stava in disparte. Gli domandò cosa facesse lì tutto solo. «Parlo con me stesso», fu la risposta. E Cratete ribatté: «Fa’ molta attenzione, stai parlando con un cattivo individuo». Ognuno di noi sa bene che sovente chi si isola dagli altri rimugina pensieri tristi e melanconici. Solitamente, chiarisce Seneca, teniamo d’occhio chi è in preda al dolore e alla paura, perché non faccia uso cattivo della solitudine. Se è dissennato è bene che non sia lasciato solo con sé stesso: ora rimugina brutti propositi, ora manifesta sentimenti che prima nascondeva. Eppure, spiega Seneca a Lucilio, «non c’è nessuno con cui vorrei che tu avessi rapporti se non con te stesso». Oso addirittura affidarti proprio a te stesso. Vedi come ti stimo? Ripenso a quanta forza d’animo esprimi nelle tue parole; per questo mi sono subito rallegrato fra me e me e ho detto: «Queste frasi nascono dal cuore, non dalle labbra; costui non è uno dei tanti, mira al bene». E quale bene, Lucilio, bisognerebbe chiedere a Dio? «Chiedi l’integrità della mente, la salute dell’anima e infine quella del corpo».

Probabilmente nessuno si è curato di tradurre il testo originale latino che ho inserito su WhatsApp e che ora ho sintetizzato. Con certezza so che una sola persona del gruppo ha scoperto che si trattava di Seneca. Spesso metto alla prova i miei interlocutori con una sorta di esercizi iniziatici, ai quali sottopongo per primo me stesso. Esercizi di concentrazione e di riflessione. In questo caso occorreva che, spontaneamente, qualcuno manifestasse la volontà di scoprire l’autore e quale messaggio volesse trasmettere. Non ho messo nel mio post l’ultima parte della lettera. Era mio desiderio che il lettore scoprisse il “piccolo dono” che Seneca spedisce al suo amico Lucilio. Lo ha trovato nelle pagine di Atenodoro. «Sappi che sarai libero da ogni passione, quando arriverai al punto di chiedere a Dio solo ciò che puoi chiedere davanti a tutti». Invece, come sono stolti gli uomini, commenta Seneca: quando parlano a Dio gli si rivolgono sottovoce; se qualcuno li ascolta, tacciono, e quello che non vogliono che gli uomini sappiano lo raccontano a Dio. «Vedi, dunque, se non è utile questo insegnamento: vivi in mezzo agli uomini come se Dio ti vedesse e parla con lui come se gli uomini ti udissero. Stammi bene». Amici miei, questi sono i messaggi che hanno oltrepassato la profondità del tempo. Non sono figurine trovate su Google.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Thomas Ulrich da Pixabay

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