Quando rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato

di Sergio Bertolami

Un giorno il professore Giancarlo De Carlo mi disse che quando gli architetti passeranno dalla parte della gente, la gente difenderà l’architettura. Forse è per questo che misuriamo lo scollamento esistente. Da parte mia, ancora oggi, rileggo con ammirazione le lezioni di Architettura pratica di Daniele Donghi, che fra il 1905 e il 1935 pubblicò i dieci fondamentali volumi del Manuale dell’architetto. Pochi colleghi ne hanno scorso le pagine, la cui lettura al contrario contribuirebbe a comprendere l’eclettismo delle nostre città. Come Messina, ad esempio, ricostruita dopo la furia del sisma del 1908. Non conoscere questi dieci volumi è un vuoto culturale non indifferente, che si riflette sul restauro delle opere del primo Novecento.

C’è chi parla della poesia che suscitano gli edifici del passato, intendendo quelli giunti almeno fino agli albori del Movimento moderno. Io vorrei aggiungere una personale annotazione su certi momenti in cui resto irretito da un dialogo con le pietre mute.  Come quello del giovane e disilluso Le Corbusier, nel corso del suo Voyage d’Orient, davanti al Partenone, quando considerava: «Chi fa dell’architettura e si trova – il cervello vuoto, il cuore spezzato dal dubbio – davanti a questo compito di dovere dare forma vitale ad una materia morta, capirà la tristezza malinconica dei soliloqui tra questi resti, del mio freddo intrattenermi con le mute pietre».

A riprova vorrei raccontare una storia mia. Qualche anno fa, di primo pomeriggio mi reco in cantiere, ma non vi trovo nessuno. Tutto sprangato. Mando un messaggio col cellulare dove, come direttore dei lavori, chiedo spiegazioni all’impresa, ma non attendo più di tanto la risposta. Ho le chiavi ed entro. Risalgo il ponteggio fino all’ultimo livello d’impalcato e percorro in lungo e largo l’intera volta. Nel silenzio irreale ammiro le tempere sapienti, le lumeggiature e le ombreggiature delle decorazioni, il disegnarsi delle modanature. Rimango idealmente a parlare coi costruttori del passato: con l’architetto che ha progettato quel capolavoro, con le maestranze che l’hanno realizzato. Ogni segno murario – un dentello, una fusarola, sia pure un ritocco o una scalfittura – è un’allocuzione che voglio recepire. Una meraviglia indescrivibile e questo perché, inaspettatamente, sto vivendo un momento magico. Non avviene quasi mai, giacché quando arrivo in cantiere ognuno preme per mostrarmi il suo lavoro, per chiedere un consiglio, per domandare spiegazioni su di un dettaglio di progetto. Io ascolto tutti, rispondo a tutti.

Dopo circa un’ora, comprendo finalmente che è venerdì di fine mese e che ho accordato di chiudere il cantiere in anticipo, per consentire ai lavoratori fuori provincia di rientrare prima in famiglia. Mi accorgo, inoltre, che il cellulare era rimasto in auto, ecco perché per tutto il tempo passato in solitudine nessuno ha chiamato. Trovo una quantità di telefonate. Molte sono degli operai preoccupati che mi sia avventurato sul ponteggio da solo. Li ho ringraziati tutti, ma non ho avuto il coraggio di dire loro che non ero affatto solo, ma in compagnia di certi fantasmi che vi parlano quando rimanete al cospetto della vera architettura. Voi probabilmente non lo avvertite, ma c’è sempre la possibilità di colloquiare con quelle pietre, solo apparentemente mute. Fanno capire il legame imprescindibile che esiste tra vita e architettura, tra passato e presente, come dire, fra tangibile e intangibile.

IMMAGINE DI APERTURA – Quaderno di schizzi di Villard de Honnecourt, circa 1230 (Fonte Wikipedia)

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