Mandanici 2020: Sergio Bertolami – I colori del colera

di Sergio Bertolami

«Ne abbiamo viste di tutti i colori». Quante volte abbiamo utilizzato questa espressione? Anche col covid-19 ne stiamo vedendo di tutti i colori. Ma quali sono i colori di una pandemia? Sono quelli dei mille fatti vissuti direttamente o indirettamente. Quelli descritti dai mezzi d’informazione o dagli instant book, oppure quelli che ritroviamo sui libri di una biblioteca, se concernono la storia. Allora comprendiamo, più che mai, che esiste una continuità tra passato e presente, che non c’è bisogno di inventare ogni giorno l’ombrello, ma semmai di migliorarne l’efficacia. Il “distanziamento sociale”, ad esempio, non è invenzione dei nostri giorni. Agli inizi dell’Ottocento il dibattito sulla natura parassitaria delle malattie epidemiche si sviluppò col sopraggiungere in Europa della prima grande ondata epidemica di colera (1817-1823) dopo la conquista dell’India da parte delle truppe coloniali inglesi. Rispetto all’India, però, il “distanziamento” fra le città europee era minore, così come tra i centri rurali e le rispettive città. Anche la seconda pandemia di colera (1826-1837) ebbe origine ancora una volta in India. A differenza, tuttavia, delle pandemie di peste, febbre gialla o malaria, la propagazione del colera non dipende dai roditori o dagli insetti, ma dagli spostamenti delle popolazioni umane. In tutta Europa il treno a vapore era diventato un simbolo di progresso, un veloce ed efficiente mezzo di trasporto. La ferrovia Napoli-Portici è stata la prima linea ferroviaria italiana, realizzata sotto Ferdinando II delle Due Sicilie. Fu inaugurata il 3 ottobre 1839.

A quelle già citate dobbiamo aggiungere altre tre pandemie prima di arrivare alla fine del secolo. Napoli, su cui vorrei soffermarmi, è passata dalle pesti secentesche ai colera più moderni. Solo da metà Ottocento ha subito il colera del 1855, del 1866, del 1873 e ancora quello del settembre 1884 che con estrema violenza divampò nei quartieri bassi, quelli di Mercato, Vicaria, Pendino e Porto.  Era giunto il momento di risolvere veramente i problemi sociali. La rivoluzione di Pasteur e l’isolamento dell’agente patogeno da parte di Koch (proprio nel 1884) permettevano la giusta diagnosi batteriologica, quindi efficaci controlli sanitari, una altrettanto efficace opera di prevenzione supportata dall’adozione della quarantena. Ma a Napoli non poteva bastare. I quartieri degradati versavano in pessime condizioni igienico-sanitarie. Questa tragedia di risonanza nazionale fu denunciata da Matilde Serao (scrittrice, giornalista, fondatrice e direttrice del quotidiano Il Mattino). Il libro di Matilde Serao si intitola Il ventre di Napoli nel quale descrisse una realtà umana, materiale, spirituale, ormai infetta e insostenibile. Questo l’incipit: «Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto».

Continuiamo a leggere: «Il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere?».

Il problema era che i Governi succedutesi nel tempo avevano trascurato il risanamento urbano particolarmente in quelle città (come Genova, Palermo, Napoli) dove la pressione demografica era più alta e i quartieri si erano trasformati in ghetti malsani. Con l’epidemia del 1884 le province italiane colpite furono 44, ma solo Napoli contò 7994 morti. Ecco dunque che, dopo il clamore suscitato dalle condizioni di vita aberranti, Agostino Depretis, presidente del Consiglio, dichiarò la necessità di “sventrare Napoli”, utilizzando il neologismo “sventramento” ripreso dal libro della Serao.

La terribile epidemia di colera evidenziava l’urgenza di un intervento decisivo sul tessuto urbano. Nell’area dei cosiddetti quartieri bassi gran parte della popolazione napoletana versava in misere condizioni abitative: sporcizia, sovraffollamento, immobili inadatti a ospitare una popolazione di 200.000 abitanti, senza servizi igienici e con sistema fognario inadeguato per la raccolta di acque nere e acque meteoriche. Pasquale Villari, in un Discorso al Senato del 10 gennaio 1885 denunciava che in quei fondaci “non si può entrare per il puzzo delle immondizie ammassate da tempi immemorabili, si vede spesso solamente un mucchio di paglia, destinata a far dormire un’intera famiglia, maschi e femmine tutti insieme. Di cessi non se ne parla, perché a ciò bastano le strade vicine ed i cortili”.

Matilde Serao scriveva: «[Onorevole Depretis…] Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole…».

Luigi Settembrini proponeva di «bonificare i quartieri popolari gradatamente e diradando man mano quelle affollate abitazioni». Proponeva, in altri termini, una azione mirata con sottinteso riferimento ad un preciso modello urbanistico. Tale modello è il grande piano per la modernizzazione di Parigi (1852-1869), realizzato dal barone Haussmann, prefetto del dipartimento della Senna sotto il regno di Napoleone III.

Urgeva dunque un ripensamento totale, non una operazione di maquillage urbano: costruzione di nuove infrastrutture, alloggi popolari, pianificazione di nuovi quartieri d’espansione. La risposta del Governo in materia apparve estremamente sollecita: il 15 gennaio 1885 è emanata la Legge pel risanamento della città di Napoli, nel 1888 è adottato il Codice di igiene e salute pubblica e costituita la Società pel Risanamento di Napoli. Questa legge per Napoli segnò un punto di svolta urbanistico: ne usufruirono oltre una sessantina di comuni in Italia: a Sud come Caltanissetta, Trapani, Catania ma anche a Nord come Genova, La Spezia, Torino, Milano.

Cercherò di sintetizzare ciò che avvenne. A pochi anni dall’unificazione d’Italia, è promulgata la prima Legge urbanistica (25 giugno 1865 n. 2359) che porta il titolo Disciplina sull’espropriazione forzata per pubblica utilità. L’esproprio avveniva a prezzi di mercato per la realizzazione di opere pubbliche (quali strade, ferrovie, canali). Con tale legge si prevedeva, inoltre, che i Comuni con una popolazione riunita di 10.000 abitanti potessero dotarsi di un Piano Regolatore, grazie al quale tracciare precisi allineamenti nella costruzione di nuove abitazioni, con il duplice scopo di rimediare alla “viziosa disposizione degli edifici” e per “provvedere alla salubrità degli abitati”.

Anche con la Legge pel risanamento della città di Napoli (15 gennaio 1885 n. 2892) si prevedeva la possibilità di risanamento dell’abitato. Ma a differenza della legge del 1865 il sistema espropriativo aumentò fortemente i valori di indennizzo, ciò con lo scopo di non penalizzare i proprietari espropriati. Infatti, gli immobili oggetto di esproprio nei quartieri vecchi della città avevano un basso valore venale (a causa del loro degrado), ma erano invece capaci di produrre dei redditi derivanti dai fitti. Motivo per cui il legislatore ritenne di non calcolare l’indennità soltanto sul valore venale dell’immobile, ma facendo una media tra questo e il coacervo dei fitti (cioè la somma). Con tali provvedimenti legislativi furono, però, facilitati gli investimenti finanziari di molte società appaltatrici (banche, imprese immobiliari e di costruzione), in gran parte provenienti dal Nord Italia. Quelle stesse imprese che nel dicembre 1888 avevano istituito il consorzio della Società pel Risanamento di Napoli. Si scatenò di conseguenza una vera e propria speculazione edilizia che portò a edificare, nelle aree del piano di risanamento urbano, come nelle zone libere e di espansione della città.

Corso Umberto I (detto ‘Rettifilo’) in una vista dall’alto della città di Napoli

Cambiò il volto di Napoli, ma a quale prezzo?  Scriveva Matilde Serao: «L’impressione che si aveva, entrando in Napoli, dalla stazione ferroviaria, venti anni or sono, era di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case di tutte le altezze, di tutti i colori, portanti, tutte, il marchio del decadimento e del sudiciume».

Il principale obiettivo del piano – affidato nell’ottobre 1884 agli ingegneri Gaetano Bruno e Adolfo Giambarba – fu in effetti quello di avviare la bonifica igienico-sanitaria dell’area racchiusa tra il litorale e i quartieri meridionali del centro storico, l’attuazione di un moderno sistema fognario e di una rete idrica potabile, la realizzazione di infrastrutture e servizi collettivi, soprattutto il ridisegno della rete viaria incentrato su di un asse portante soprannominato dai napoletani “Rettifilo” e che noi conosciamo col nome di corso Umberto I. Un vero boulevard hausmanniano.

Ascoltiamo ancora Matilde Serao: «Il Rettifilo ha tagliato in due il ventre di Napoli, attraversando i quattro quartieri popolari e popolosi di Mercato, Vicaria, Pendino e Porto; questo Rettifilo non è stato fatto solo per arrivare più presto e meglio alla stazione ferroviaria; non è stato fatto solo per i grandi industriali che vendono tessuti di lana e di cotone; non è stato fatto solo per avere una larghissima via; ma è stato fatto in nome di un criterio assoluto d’igiene e quindi di civiltà… Il Rettifilo era, doveva essere, dovrebbe essere l’apportatore dell’aria, della salute, della pulizia di migliaia e migliaia di popolani napoletani».

Parigi, a differenza di Napoli, si era rinnovata attraverso un processo di funzionalizzazione e di qualificazione del territorio cittadino, dotandosi di nuovi grandi viali, piazze, spazi collettivi, giardini pubblici, vasti polmoni verdi, luogo di svago. Parigi era diventata un autentico modello di città borghese europea, uniformando l’edilizia privata alle nuove tipologie residenziali disegnate per il ceto medio. A Napoli avvenne il contrario, si verificò l’insuccesso dell’ambizioso programma del “Risanamento”.

«Sapete che è accaduto? – spiegava Matilde Serao – Che il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è stato respinto, respinto, dietro il paravento! Così si è accalcato molto più di prima; così il Censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo, è poco abitata, e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano otto persone, ora sono dodici; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute; che il Rettifilo, infine, ha fatto al popolo napoletano più male che bene! In quell’intrico che va da Porto a Mercato, a Vicaria, si aggroviglia una folla spaventosa; non vi sono che poche fontanelle di acqua e le case, che debbono essere demolite (?), ne mancano; non vi sono fognature regolari, non vi sono lampioni, poiché il piano stradale è assolutamente dissestato: tutto ciò che serve alla vita, vi manca. Se una epidemia, lontana sia, dovesse capitarci, impossibile circoscriverla, impossibile dominarla: in quei quartieri farebbe novellamente strage, come venti anni or sono; e i nostri edili nulla ne sanno; e nessuno vuol saperne niente».

Tirando le somme, anziché abbatterli, i focolai di infezione aumentarono. È una tipica storia italiana, fatta di luci e ombre. Le luci, in campo medico, dove attraverso una ricerca continua si è passato dal concetto di “salute” a quello attuale di “sicurezza”. La salute è la resistenza alla malattia, mentre la sicurezza è l’esigenza di non dovere sperimentare la malattia. La luce, in campo urbanistico, è l’introduzione di un nuovo strumento quale il Piano Regolatore. A tutto questo fanno riscontro le ombre. In campo urbanistico l’assalto della speculazione edilizia e l’impossibilità di applicare un «piano di ingrandimento e di livellazione, o di nuovi allineamenti» per le amministrazioni Comunali con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, che in verità costituiscono l’oggettività del Paese. Occorrerà attendere, perciò, la legge urbanistica del 1942 (n. 1150).

Per tornare a Napoli dobbiamo ricordare che nel 1893 la città fu ancora una volta colpita dal colera, che interessò pochissimo gli altri centri urbani italiani. Volendo, però, concludere questa relazione guardando alle luci, si potrebbe sottolineare che il 3 ottobre 1888 il municipio di Napoli si impegnò a «realizzare case di tipo esclusivamente economico per metri quadri 45.000 di suolo, e tutto ciò nel primo biennio dal 6 giugno 1889 al 6 giugno 1991». Il complesso fu progettato dall’architetto Piero Quaglia (noto già per aver realizzato il palazzo dell’Università) il quale nei tempi stabiliti dette a Napoli uno dei primi esempi di case economiche popolari in condominio.

Come avrete compreso, con responsabilità e competenza, dedizione e senso del dovere, si possono affrontare epidemie e pandemie, ma non solo, si potranno sempre curare anche IL CORPO, LA MENTE E L’ANIMA – delle persone come delle città – giacché (e chiudo citando ancora una volta Matilde Serao): «Tutto sarà trasformato, miracolosamente, fra lo stupore di tutti, solo perché, chi doveva si è scosso dalla mancanza, dalla trascuranza, dall’inerzia, dall’ignavia e ha fatto quel che doveva».

IL PROGRAMMA DEL CONVEGNO

IMMAGINE DI APERTURA Elaborazione grafica della locandina del Convegno

 

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