William Hogarth: Marriage à-la-mode / Il suicidio della contessa

di Sergio Bertolami

I dipinti delle sei scene che abbiamo presentato in queste pagine, acquistati dal signor John Lane per £ 126, sono oggi conservati alla National Gallery di Londra. È utile, quindi, sintetizzare la scheda che compare a corredo del ciclo pittorico. Leggiamo che per secoli gli inglesi sono stati affascinati dalle problematiche sessuali e dalla squallida avidità dell’aristocrazia. Ecco perché il soggetto, rappresentato da Hogarth in Marriage à-la-mode è sempre stato uno dei massimi successi della pittura britannica, dal momento che illustra le disastrose conseguenze di un matrimonio fatto per soldi piuttosto che per amore. Di questa serie Hogarth ha inventato i personaggi, la trama e il titolo di ogni scena. Tuttavia, ciò che appare di grande interesse è che le scene erano dipinte espressamente per essere incise. In seguito, le stampe erano messe in vendita ad un prezzo accessibile e i dipinti originali concessi “al migliore offerente”, solo dopo che le incisioni erano state completate. Hogarth probabilmente lavorò ai dipinti di Marriage à-la-mode per tutto il 1743, e forse nella prima parte del 1744. Per questa serie decise di impiegare tre incisori francesi, che vivevano e lavoravano a Londra, ognuno dei quali si impegnò su due tavole. Le stampe, pubblicate nel 1745, sono versioni rovesciate dei dipinti poiché per essere incise occorreva copiarle allo specchio. Naturalmente erano realizzate in bianco e nero, ma l’acquirente successivamente avrebbe potuto farle colorare ad acquarello. Nelle sue “Note autobiografiche”, compilate nel 1763, Hogarth ricorda che dopo “alcuni anni” di ritratti e conversazioni, si rese conto che il modo corrente di dipingere non era sufficientemente ben pagato “per fare tutto ciò che la famiglia richiedeva”. Decise, quindi, di provare un nuovo approccio alla pittura e all’incisione realizzando “soggetti morali moderni” che descriveva come una novità assoluta tanto da poter essere considerato un “campo inesplorato in qualsiasi Paese o in qualsiasi età”. La sua attenzione si concentrò sulla moralità, che bene si attagliava al suo modo di intendere la vita, attraverso un approccio satirico del vizio e della follia. Hogarth intendeva dimostrare, in altri termini, che una varietà infinita di personaggi poteva essere presentata senza ricorrere necessariamente alla caricatura, come allora si faceva. Queste sue pitture o incisioni, naturalmente, all’epoca, non potevano competere con la grande pittura storica, che era il più prestigioso fra i generi artistici, raffigurando scene eroiche del passato o scene mitologiche intese a ispirare ed educare lo spettatore. Pur tuttavia, i personaggi dei “soggetti morali moderni” di Hogarth, tutt’altro che eroici, hanno sempre avuto lo stesso scopo di istruire. E noi oggigiorno possiamo ben capirlo ed apprezzarlo.

Scena sesta – Il suicidio della contessa

(S.B.) La sesta è l’ultima scena della tragicommedia di Marriage à-la-mode. Il titolo che compare sulla cornice è The Lady’s Death, ovvero La morte della signora. La sua non è, però, una morte naturale. Sembra piuttosto un suicidio. La contessa si è infatti avvelenata (forse volutamente, forse incidentalmente), dopo avere appreso che il suo amante è stato giustiziato per aver ucciso in duello suo marito. Giace riversa su di una poltrona. Ai suoi piedi una bottiglietta di Laudanum, narcotico con effetti antidolorifici e antispastici, ma velenoso se preso in dosi eccessive. Accanto alla bottiglietta un foglio a stampa che porta scritto: “Ultimo discorso del consigliere Silvertongue condannato a morte”, con le parole da lui pronunciate prima dell’impiccagione. La forca è stata issata a Tyburn, dove scorre un affluente del Tamigi, luogo da secoli utilizzato per l’esecuzione dei condannati. Dopo la notte tragica nell’albergo Testa del Moro, la giovane donna ha deciso di rifugiarsi nella casa paterna per riflettere su quel crimine, ultimo fra i tanti errori del suo rapporto coniugale. Errori che hanno distrutto ogni speranza in un futuro migliore e in una reputazione che, nonostante ogni incoscienza, aveva raggiunto il massimo splendore di prosperità. Da allora la contessa ha consumato i giorni con i fantasmi del suo passato disastroso, che hanno preso avvio col matrimonio combinato frutto dei piani ambiziosi del padre. Un genitore avido, che certamente neppure davanti alla tragica morte del genero ha pensato a consolare la figlia per attenuarne la sofferenza e proteggerla dalle sue fragilità. Al contrario non ha fatto altro che avventarsi su di lei, sovrastandola di terribili rimproveri. Finché, nella solitudine, abbandonata da tutti gli amici che ipocritamente l’attorniavano, la vita è diventata insuperabile, tanto da pensare che solo la morte potesse offrirle l’unico sollievo.

La scena che Hogarth prospetta è, dunque, una strana commistione di pathos e di indifferenza. La contessa si è assicurata il veleno grazie al quale ha compiuto il suo cieco proposito. L’infelice è rappresentata in agonia. Il volto teso, sbiancato, fa da pendant, in simmetrica corrispondenza, a quello del marito morente nella scena precedente. La ricordiamo illuminata dalle frivolezze, interessata unicamente ai piaceri, incurante di quanto la circondasse. Ora, per aumentare nel contrasto la forza d’attrazione delle linee mute di questa immagine, l’artista introduce per la prima volta la bambina, figlia più che trascurata dai genitori. L’anziana nutrice la porge alla madre morente per l’ultimo abbraccio. La sua tenera età fornisce l’idea del breve tempo trascorso. È il commento amaro dell’autore rispetto ad un senso di colpa che non è mai emerso in nessuna delle precedenti scene. La piccola creatura è contaminata dalla sifilide: la macchia è evidente sulla guancia e almeno per una delle sue gambette è obbligata a portare un tutore di ferro. La malattia le è stata trasmessa da suo padre. La scelleratezza del conte è punita con l’estinzione della sua stessa stirpe. Ma è anche punita l’ambizione egoista del nonno della piccina, che ha preteso di innestare la propria famiglia sul fiero ceppo di una nobiltà decaduta economicamente e moralmente, attraverso il matrimonio di una figlia con un giovane conte debosciato. L’unico utile che il vecchio può ora cogliere è l’anello prezioso che sfila con freddezza dal dito della moribonda, prima che intervenga il rigor mortis. Non il decesso prematuro di sua figlia causato da un atto inconsulto come il suicidio, né la condizione indifesa della sua nipotina rimasta orfana di ambedue i genitori, possono prevalere contro la sua istintiva avarizia. L’espressione distaccata rende la sua azione ancora più ripugnante. Solo la balia e la bambina esprimono un senso di pietà per la contessa morente. Per lei non c’è più nulla da fare. Lo stesso medico chiamato per salvarla sta uscendo dalla porta: la sua presenza è ormai superflua. Dall’altro lato della stanza il farmacista, inutilmente accorso con un clistere e una bottiglia di giulebbe in tasca, strapazza il cameriere, un babbeo con la livrea troppo grande, di sicuro appartenente a un precedente servitore (particolare che denota l’avarizia del suo signore). Lo sprovveduto cameriere ha obbedito agli ordini della contessa, quando lo ha spedito in farmacia per acquistare il Laudanum, ignaro delle sue intenzioni suicide.

La residenza, che costituisce l’ambiente scenico, è vicino al vecchio London Bridge, che dalla finestra aperta si può intravedere, gremito di case, come appariva in origine, prima che nel 1758 fosse demolito. In alto, tra l’infisso e l’imbotto, si distingue una ragnatela. Lo stemma della città spicca intagliato nei vetri, di cui qualcuno è mancante. Rappresenta il potere di pubblico amministratore raggiunto dal facoltoso padre della giovane contessa, che (a ben osservarlo) non dimentica mai di indossare la catena d’oro di assessore. Sul davanzale, la sua lunga pipa e una scatola di tabacco, che fuma affacciato alla finestra sognando la scalata al successo, con gli occhi e magari anche le mani sulla città. Nonostante tutto, la sua casa è quella di un piccolo borghese (ben lontana dal lussuoso palazzo del conte) arredata in un modesto stile fiammingo. Un tendaggio dimesso, a mezza altezza, quanto basta per oscurare la stanza. Alle pareti, oltre ad un Almanack, pochi quadri di gusto conservatore attraverso i quali Hogarth si fa gioco dei soggetti banali della pittura fiamminga: due ubriachi, alla Brouwer, che bevono e fumano la pipa in una taverna, con il primo che cerca di accendere la pipa dal naso del compare, rosso come una brace ardente; un uomo che orina contro un muro, alla Teniers; una natura morta sottosopra che contrasta con il cibo disposto ordinatamente sulla tavola. Il pranzo per una persona è, infatti, apparecchiato in modo quasi impeccabile, con piatti di peltro. È stato servito alla vista del Tamigi. Il pasto frugale si è interrotto col tragico malore della contessa, che non lo ha neppure iniziato: per primo un uovo sodo ritto su di un piatto di riso in bianco, per secondo una testa di maiale, che un cane smilzo sta addentando con voracità (pari a quella del suo padrone), qualche fetta di pane, un secchiello in argento per il vino la cui bottiglia non è stata neppure portata in tavola, pochi accessori: le due posate, un vassoio per gli scarti, uno spiedo da carne, una presa di sale. Quando la contessa, da sola, si è seduta a tavola stava già male, perché la brocca a terra le è servita per affrontare i conati di vomito. Poi improvvisamente è peggiorata. Si è alzata di scatto, rovesciando a terra la sedia di legno. È stata fatta accomodare sulla confortevole poltrona del padre, dove usa spulciare i suoi libri contabili. Li tiene proprio in quell’angolo, riposti in un armadietto a muro, col dorso voltato perché non si sciupino. Sono identificabili, perché riportano scritto “Libro giornaliero, Libro mastro, Libro degli affitti, Interesse composto”. Nell’armadietto conserva anche un sacchetto di tabacco, una scelta di pipe e un fiasco di corroborante acquavite. L’orologio a pendolo affisso a muro segna le undici e dieci. Quando il padre è stato avvertito non era in casa: lui esce di buon mattino per sviluppare affari. Indossa ancora cappotto e parrucca. Non era comunque ad una riunione della giunta comunale, perché la sua toga da assessore e il suo cappello di rito sono in bella mostra sull’appendiabiti.

Che contrasto tra la prima scena e l’ultima! Tra questo ambiente modesto e l’avito palazzo nobiliare in cui l’indifferente ragazza civettuola e il giovane visconte narciso si sono incontrati.  Erano ambedue oggetto di contrattazione fra due padri egoisti in eguale misura. Un assessore londinese, impenitente nella propria scalata, ha desiderato un giorno per sua figlia di stringere alleanza con un gran signore; il quale, da parte sua, vi ha acconsentito a condizione di accrescere le ricchezze di suo figlio, dopo la congerie di affari andati a male. Tutto questo perché, nella natura umana, c’è sempre qualcosa che rende infelici: i blasonati non sono mai sufficientemente ricchi per soddisfare il desiderio di vivere continuamente negli agi, e gli arricchiti non sono mai abbastanza distinti per primeggiare su tutti.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica dell’incisione di William Hogarth dal dipinto conservato alla National Gallery di Londra

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