Nicoletta Gini – Il riso di Montaigne tra filosofia burlona e malinconia negli Essais

Il 18 Agosto del 1563, intorno alle 3 del mattino, a fianco dell’amato amico che tirava l’ultimo grande sospiro, Michel de Montaigne fu avvolto dalla tristezza. Gli spiriti vitali e il calore naturale si ritirarono verso il suo cuore, dove si ammassarono come per consolarlo o, piuttosto, per fuggire l’occasione dell’angoscia. Il viso si fece pallido, il naso sembrò allungarsi, le labbra si abbassarono e si gonfiarono d’aria per la mancanza di materia in quei muscoli deputati a mantenerle al loro posto. Gli occhi persero la loro gaia vivacità, arrestati da una grande pesantezza che scacciò via ciò che li rendeva lucenti. Il corpo dimorava smagrito e atrofizzato, incapace di produrre nuovi spiriti vitali, pronto ad attendere esso stesso la morte che, infatti, dicono i medici, spesso segue la tristezza. Cominciò così la solitudine di Montaigne.
È forse di qualche utilità prendere in considerazione la prospettiva che Montaigne stesso assume nel giustificare la scrittura degli Essais: essa colloca l’azione creatrice in un mutevole assetto corporeo e la pone conseguente a uno stato che lo sconvolge in modo organico. Egli, infatti, fa risalire l’inizio della sua attività letteraria all’invasione dell’umore melanconico causata dalla solitudine.

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IMMAGINE DI APERTURA – Montaigne   

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