Nel silenzio Fernand Khnopff ha chiuso la porta su sé stesso

di Sergio Bertolami

6 – Il Simbolismo in Belgio: Fernand Khnopff.

Lo chiamavano “le Castel du rêve”, il castello del sogno, “la chapelle votive”, la cappella votiva, per l’estetica tutta personale e complicata. Eppure, era di una linearità esemplare, la sua casa. Non il palazzo in cui si è isolato Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di “A Rebours”, romanzo di Joris Karl Huysmans. Mi riferisco alla sofisticata residenza di Fernand Khnopff, tanto lontana nell’immaginario collettivo dalla “scatola” altrettanto sofisticata in cui Edmond Goncourt organizzava la domenica incontri di artisti, in soffitta, ricevendo fra i suoi amici Alphonse Daudet, Guy de Maupassant, Émile Zola. Il paragone tra Khnopff e Des Esseintes è opera di Dumont-Wilden, biografo di Khnopff che designa l’artista come «un Des Esseintes che non ha mai subito l’educazione romantica e non ha mai frequentato la soffitta d’Auteuil». Tre case, dunque; legate tra loro da un filo estetizzante; ma gli ambienti vissuti dai Goncourt e quelli visionari di Des Esseintes o di Khnopff , si delineano differenti quanto distanti.

Facade of the Villa Khnopff. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB

I fratelli Huot de Goncourt abitavano una casa acquistata in boulevard Montmorency, nell’attuale quartiere di Auteuil a Parigi. Fernand Khnopff eresse, invece, dalle fondamenta la sua villa a Bruxelles, in Avenue des Courses, ai margini del verde del Bois de la Cambre. Le due case non hanno nulla in comune se non che sono delle case d’artista. Letterati i Goncourt, uno dei massimi pittori simbolisti Khnopff. I primi però erano tesi a valorizzare ed esaltare la bellezza del passato, il secondo a prefigurare il cambiamento del prossimo futuro. I fratelli Edmond e Jules de Goncourt si stabilirono in quel loro villino nel 1868. Due anni dopo – alla morte di Jules, il più giovane – Edmond avrebbe voluto vendere tutto e fuggire dai ricordi. Fu allora che cominciò a pensare a un’asta in cui smembrare, quando fosse sopraggiunta anche la sua ora, la collezione d’arte francese del Settecento e le preziose stampe orientali che avevano contribuito alla moda della «Japonaiserie» parigina. Nel Journal – il diario dei due fratelli rimasto famoso per la quantità di notizie, aneddoti, scene di vita – emerge spesso l’amarezza per il disinteresse verso la casa da parte dei visitatori, l’inadeguatezza dei loro commenti, incuriositi soltanto dall’età degli oggetti o dal loro valore commerciale. Ogni angolo, dal pavimento al soffitto, era invece degno d’attenzione, per la cura dei particolari, delle soluzioni, oltre che per le raffinate collezioni d’arte. Fragilissime. Non mancano note sull’inquietudine ansiosa del padrone di casa nel vedere sfiorare i propri tesori da mani incaute. Il catalogo in due volumi di questa casa d’artista, redatto da Edmond de Goncourt, è arricchito da evocazioni fotografiche e descrizioni. Accompagnano il lettore da una stanza all’altra, da percorrere come un museo. È infatti, tuttora, un museo da visitare.

Edmond Pelseneer, L’Atelier Fernand Khnopff 1900, Archives D’Architecture Moderne, Brussels

Anche le immagini della villa di Fernand Khnopff a Bruxelles le troviamo riprodotte su pochi, selezionatissimi libri. Comparvero nella prima biografia dell’artista, pubblicata dal suo amico Louis Dumont-Wilden nel 1907, poi nell’articolo del 1912 di Hélène Laillet. Oggi quelle foto, che ritraggono stanze e corridoi vuoti – così diversi dalla casa densa di oggetti dei fratelli Goncourt – sono le uniche testimonianze rimaste, perché l’edificio è stato abbattuto dagli eredi tra il 1938 e il 1940 per elevare un anonimo condominio.

Fernand Khnopff, Chiudo la porta su me stessa (1891), Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
Fernand Khnopff, Le carezze (1896); Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

Quegli intellettuali che conoscono Fernand Khnopff, lo ricordano soprattutto quale pittore e fra le sue opere rammentano senz’altro dipinti enigmatici come Chiudo la porta su me stessa (1891) oppure Le carezze (1896). Nondimeno, Khnopff assistito dall’architetto belga Edouard Pelseneer ha elaborato le linee eleganti ed eteree della costruzione che sarà la sua abitazione e il suo atelier. I primi schizzi furono probabilmente compiuti nell’ottobre del 1899; il progetto elaborato nel marzo 1900 e la costruzione conclusa nel 1902. Poche persone sono state ammesse al suo interno e fra queste Hélène Laillet che scrive: «Se hai la fortuna di entrare, il domestico apre silenziosamente la porta e ti fa passare in un’anticamera decorata interamente di bianco, con pareti di stucco lucido. Da una posizione di orgoglio, un superbo pavone indiano impagliato osserva con la coda dell’occhio; è il guardiano altero di questa austera dimora».

The Antechambre. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Villa Khnopff era internamente tinteggiata di bianco, blu e oro. Il nero laccava soltanto i telai di porte e finestre. L’articolo di Hélène Laillet offre al lettore una vivida descrizione degli ambienti. Persino le foto possono riuscire fuorvianti, perché, quando si scorgono grigi alle pareti o al soffitto, sono semplicemente ombre. «Un drappo serico di un blu grigiastro, artisticamente sbiadito, si scosta e Fernand Khnopff, uomo di mondo, ti dà il benvenuto. Ma non ha quasi il tempo di assumere questa maschera mondana prima che venga messa da parte; dall’altra parte del sipario di seta esiste solo la personalità dell’artista, si impone e si ritrova in ogni minimo dettaglio dell’armonioso ambiente. Sembra quasi impossibile rendersi conto che cinque minuti fa eri per le strade trafficate di Bruxelles, perché qui nessun suono dal mondo esterno turba la mente, nessuna finestra ti mette in contatto con la vita; la tua immaginazione ti porta via e ti senti lontano da tutto ciò che è basso, meschino e senza valore; sei nel regno del bello e in questa atmosfera purificata senti un bisogno impellente di silenzio per poter ottenere, solo un momento, qualcosa d’ideale. Sì, il silenzio è necessario in questo lungo corridoio bianco pieno di una radiosità dolce e riposante; la luce del giorno entra attraverso curiose finestre di vetro colorato su cui i colori del blu e dell’oro, in combinazione, formano fiamme e figure fantastiche».

The Corridor. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.
The White Room (Dining Room). © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

C’è qualcosa di vago e inquieto nell’atmosfera di queste stanze. Sapendosi poco compreso Khnopff si rifugia nella solitudine e nel silenzio. Pare che abbia voluto riproporre le parole di Alfred de Vigny «Solo il silenzio è grande, tutto il resto è debolezza». L’essenza della casa è immateriale. Se l’artista non ce lo dicesse, noi visitatori occasionali non ci accorgeremmo, per esempio, di essere entrati in sala da pranzo fino all’ora dei pasti, quando compare un tavolino, per poi scomparire subito dopo essere stato sparecchiato. Diversi gradini alla fine del corridoio conducono allo studio. Qui, rispetto alle altre stanze, pare di sentirsi più a proprio agio, ma il senso di mistero diviene, al contrario, maggiore. Di fronte alla porta c’è un altare sacro a Hypnos, composto da una vetrina in cristallo poggiante su un piedistallo in vetro, fuso da Tiffany; due chimere di bronzo dorato mettono in risalto la scritta “On n’a que soi”. È il motto distintivo del pittore: “Non abbiamo che noi stessi”. Khnopff ripete spesso queste parole. Hypnos – una copia della testa in bronzo conservata al British Museum, risalente al IV secolo a.C. – è il dio greco del sonno. «Hypnos – osserva Hélène Laillet – diffonde in tutta la casa l’atmosfera del sonno, un sonno che conduce ai sogni».

Bronze head from a statue of Hypnos, 350 – 200 B.C. The British Museum, London.
The main studio with the altar of Hypnos on the right. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

L’atelier è diviso in due ambienti, separati da tendaggi: uno per i lavori completati, che sembra quasi una sala espositiva, l’altro per i lavori in corso. Non c’è un solo dettaglio che non denoti il desiderio di una completa armonia, come in quel motto inglese che il pittore ha fatto suo: “Make the best of everything”, Ottieni il meglio da tutto. Non è facile leggere la mente creativa di Khnopff, neppure osservando minuziosamente i numerosi disegni in cui ha espresso qualcosa di sé. Neppure nel vederlo all’opera. In una delle foto, l’artista si fa riprendere mentre lavora a un grande dipinto posto sul cavalletto. Anche la sua figura sembra parte della ricercatezza che si respira nella villa, dove lo spazio di lavoro e di vita sono stati trasformati in un tempio dell’arte.

Fernand Khnopff in his studio.
The Blue Room.© Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Al piano superiore, riposa dopo il suo lavoro, cullato dai suoni del pianoforte. Dal bay-window non vede altro che fogliame verde. In questa “Chambre bleue”, come in quella di Mme de Rambouillet, tutti gli oggetti sono pezzi unici e portano firme illustri: un quadro di Delacroix, alcune opere di Gustave Moreau. Immerso nel suo preziosismo seducente Khnopff sogna e compone opere bellissime. Quasi sottovoce, Hélène Laillet annota: «Nella sua casa, espressione del suo ideale, lontano dal mondo, tagliato fuori da tutte le influenze esterne, solo nella sua solitudine altezzosa, Fernand Khnopff ascolta soltanto la voce dell’arte, e lavora metodicamente allo sviluppo della coscienza di sé stesso. Quando i giovani pittori vengono a chiedergli un consiglio risponde: “Siate soprattutto sinceri; se non avete niente da dire, non dite niente”. “L’arte non è una necessità”, aggiunge».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

About the author: Sergio Bertolami