In Böcklin e Bracht dei luoghi tranquilli dove ricordare o dimenticare

di Sergio Bertolami

9 – Il simbolismo in Germania: Böcklin e Bracht.

Le associazioni culturali di questo periodo affondano le proprie radici nelle esperienze trascorse. Ovverosia, da una parte, nei valori e negli ideali del Movimento romantico, che aveva come punto nodale la vita e i sentimenti dell’umanità. Dall’altra, a più forte ragione, nel Simbolismo, incentrato su tutti quegli elementi immateriali, irrazionali ed emozionali che indiscutibilmente coinvolgono l’esistenza. Ecco allora che non poteva essere dimenticata la lezione di autori importanti, come lo svizzero Heinrich Füssli, l’inglese William Blake, il tedesco Caspar David Friedrich, il francese Jean-Auguste-Dominique Ingres. Le nuove manifestazioni dell’arte non rigettavano, infatti, il passato romantico nelle sue diverse estrazioni nazionali, ma lo modificavano. Così come John Ruskin è testimone dell’insegnamento dei Preraffaelliti, che non rimane affatto circoscritto alla cultura vittoriana, ma è alla base di molte manifestazioni del Simbolismo e dell’Art Nouveau, reali movimenti di transizione dal Tardo romanticismo al nascente Decadentismo.
Anche gli artisti tedeschi continuavano la tradizione del Grand Tour; viaggiavano cioè per portare a perfezione il proprio sapere non solo artistico, ma anche culturale e politico, per maturare esperienze dirette e non soltanto teoriche. Venivano soprattutto in Italia, lo vedremo prossimamente con l’austriaco Gustav Klimt, ma per ora soffermiamoci sullo svizzero Arnold Böcklin.

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872, Alte Nationalgalerie, Berlino

Inizialmente interessato alla mitologia, negli ultimi vent’anni della sua vita riesce a cogliere le atmosfere del Simbolismo, e le sa combinare sapientemente con gli aneliti classici e con la tradizione romantica tedesca. La maggiore eredità trasmessa è tutta nel suo dipinto più noto, quello che nella prima versione del 1880 (conservato nella collezione d’arte pubblica del Kunstmuseum di Basilea dal 1920) aveva denominato Un luogo tranquillo, ma che presto tutti impareranno a conoscere come Die Toteninsel ovvero L’isola dei morti. Lo ha battezzato così il suo mercante d’arte berlinese Fritz Gurlitt, che fece la fortuna economica del pittore. Böcklin utilizzò subito questo nuovo titolo, annunciando al proprio mecenate Alexander Günther di avere completato l’opera: «L’isola dei morti è pronta, finalmente, e sono convinto che susciterà l’impressione che desidero». Nonostante fosse un quadro fortemente autobiografico, il dipinto divenne una delle opere più famose e indicative del Simbolismo tedesco.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti, Versione originale, 1880, Museo d’arte di Basilea

Il quadro fu elaborato dal pittore, tra il 1880 e il 1886, in cinque versioni, tutte diverse per gradazioni di luce e toni di colori. I cinque dipinti mostrano un’isola rocciosa che si erge a picco sul mare, al centro caratterizzata da un gruppo incombente di cipressi neri. Incastonate nelle rocce si scorgono le camere funerarie. Su di una barca, che si accinge ad approdare sull’isola, una figura in piedi accompagna una bara velata e un vogatore, rappresentato inspiegabilmente da una figura femminile. Secondo i critici l’immagine sarebbe frutto di fantasticherie funebri per aver perso un gran numero di figli – chi dice sei, chi dice otto – e per aver temuto lui stesso di morire di tifo o a causa di un ictus. È certo però che il tema romantico (e simbolico) della morte è sempre stato presente nelle sue composizioni. Basti ricordare Autoritratto con la Morte che suona il violino (1872) oppure La peste (1898), che mostra la “Cavalcata della Morte” su di una creatura simile a un pipistrello, divenuto in questi nostri tempi di pandemia fra i dipinti più evocati. Secondo l’autore, l’immagine avrebbe dovuto produrre un tale silenzio che il semplice bussare alla porta dovrebbe ancora oggi fare sussultare lo spettatore. Il silenzio è percepibile nell’immobilità del contesto, rotto solo dallo sciabordio dell’acqua rimossa dalla rematrice. In verità, nelle prime due versioni non erano presenti né bara e né figura ammantata di bianco. Furono aggiunte successivamente. Propose, per l’appunto, la seconda versione del quadro alla vedova Marie Berna che gli chiedeva un’opera “per sognare”. Nell’aprile del 1880 Böcklin in una lettera a lei indirizzata tratteggiava le suggestioni di Un luogo tranquillo dove avrebbe «sognato nel buio mondo delle ombre». Qui si sarebbe potuto percepire leggero «il tiepido alito di vento increspare le onde del mare, in un silenzio solenne e irreale che una sola parola bastava a turbare». Fu dopo le modifiche che il soggetto divenne, dapprima, L’isola delle tombe e, in seguito al suggerimento di Gurlitt, L’isola dei morti.

Il castello Aragonese di Ischia

Chi chiedesse dove si trova quest’isola tenebrosa, stupirebbe a sapere che potrebbe essere stata ispirata sotto il sole di Ischia. Lo ha rivelato lo storico dell’arte svizzero Hans Holenweg, dell’Università di Basilea, fondatore e curatore dell’archivio di Böcklin, aprendo nel 2011 una mostra al palazzo comunale di Fiesole, cittadina toscana dove il pittore si spense nella villa di San Domenico sei anni dopo averla acquistata nel 1895. Come ha spiegato Holenweg, Böcklin aveva visitato Ischia per la prima volta col suo amico Hans von Marées, pittore tedesco. Era il settembre del 1879, a conti fatti appena sei mesi prima di realizzare il dipinto nelle due versioni conservate l’una a Basilea e l’altra a Berlino. Fu lo stesso Böcklin a confidare al suo allievo Friedrich Albert Schmidt che l’idea scaturì dalla vista del castello ischitano di Alfonso d’Aragona. «In effetti – commenta Holenweg – quest’isola presenta notevoli somiglianze con le rocce e le pareti che si ergono sul mare. E poiché in Böcklin la scelta del soggetto nasceva spesso da una suggestione visiva, si può affermare che lo spettacolo di quell’isola rocciosa abbia ispirato in lui la concezione del quadro. Proprio di fronte all’isola con il castello, c’è un cimitero a terrazze addossato alla roccia, con un approdo a riva che sorse nel 1836 durante un’epidemia di colera. Evidentemente a quel tempo i morti venivano trasportati al camposanto anche via mare. Böcklin nel 1879 alloggiò a Villa Drago, nei pressi di questo vecchio cimitero, ora ricoperto di sterpaglie e completamente privo di croci».

Eugen Bracht

Il tema della morte non è certo fra quelli privilegiati nelle sue opere da Eugen Bracht. Anch’egli svizzero come Böcklin, tuttavia, dal 1887 è attratto da paesaggi rocciosi fortemente caricati di significati simbolici. Rive dell’oblio (Gestade der Vergessenheit) e l’Isola dei morti di Arnold Böcklin sono considerate fra le più famose opere del simbolismo tedesco. Se Böcklin ne realizzò cinque versioni, Bracht la stessa opera la moltiplicò per otto, tra il 1889 e il 1916. Cosa accumunava i due pittori? Sicuramente i viaggi in Italia, ma soprattutto la “pittura del pensiero”, come la chiamava Bracht, manifestato attraverso quel sottile simbolismo che i loro dipinti restituivano. Bracht lo esprimeva con la rappresentazione dei fenomeni naturali, con inquietanti paesaggi costieri e rocce selvagge e aspre, col trattamento della luce da poterne leggere risvolti quasi mistici. Molteplici rappresentazioni espressive che riflettevano il talento dell’artista. Un talento che non passò inosservato ad Anton von Werner, direttore dell’Università di Belle Arti di Berlino, che gli offrì di dipingere insieme a lui le parti di paesaggio all’interno de La battaglia di Sedan e parallelamente assumere l’incarico per la cattedra di “pittura di paesaggio” nell’Accademia da lui diretta. Proposte irrinunciabili per nessuno, specialmente per un pittore che sin dall’inizio della sua carriera non era stato ancora baciato dalla fortuna. Bracht, insoddisfatto del proprio lavoro di quegli anni, era alla ricerca di nuove forme d’espressione. Pensava addirittura di lasciare Berlino e trasferirsi a Parigi. Anzi, si racconta che vi avesse mandato sua moglie alla ricerca di un appartamento. Fu allora che Anton von Werner venuto a conoscenza di tali intenzioni, grazie ad un collega pittore che soggiornava nello stesso Hotel della moglie, evitò di non farsi sfuggire il talentoso giovane pittore, offrendogli un posto d’eccezione all’Accademia di Berlino.

Eugen Bracht, Rive dell’oblio, Versione originale, 1889, Hessisches Landesmuseum, Darmstadt

In questi “anni panoramici”, come Bracht era solito chiamarli, iniziò il successo artistico e la sua entusiasmante ascesa sociale. Tuttavia, Bracht non era artista che si rivolgeva al passato, e quando si trovò a vivere l’acceso dibattito tra forze conservatrici e progressiste che si scatenò sulla scena artistica berlinese prese una posizione molto precisa e inaspettata da parte del mondo accademico. Protestò vigorosamente, con altre settanta personalità della cultura, allorché Anton von Werner – che dopotutto era il suo superiore e il suo amico – nel 1892 fece chiudere anticipatamente, dopo appena una settimana, la mostra di Edvard Munch. Per dimostrare in modo inequivocabile le proprie posizioni, rassegnò le dimissioni da tutti gli incarichi ufficiali e onorari. Dimissioni che furono chiaramente rifiutate, considerato che il corso di Bracht era il più frequentato e che i suoi allievi erano spesso vincitori di premi alle mostre d’arte. Lasciò la cattedra di Berlino per trasferirsi a Dresda solo nel 1901, quando cambiò la direzione dell’Accademia. Rifiutò persino un’importante opera pubblica, tanto da scandalizzare lo stesso Kaiser Guglielmo II. Si prese a dire di lui: «Nato col romanticismo, passato attraverso il naturalismo, approdò infine all’impressionismo». La pittura di Stato era, infatti, per lui ormai alle spalle e ora veniva considerato come un rappresentante dell’avanguardia berlinese e uno degli artisti più famosi del tempo. Vita e opere di Bracht potevano leggersi anche nella seconda edizione del libro di Julius Norden, Berliner Künstler-Silhouetten del 1902. Una serie di saggi che tratteggiavano le “silhouette degli artisti berlinesi”.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

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