Art Nouveau il primo vero stile internazionale dell’età moderna

di Sergio Bertolami

18 – Un movimento dalle poliedriche manifestazioni.

Tchudi Madsen in Sources of Art Nouveau del 1956 elencava una serie di nomi utilizzati, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, per identificare il nuovo fenomeno artistico. Alcuni di questi nomi li abbiamo già incontrati, ma ne vorrei aggiungere altri, per chiarire qualche importante concetto. Cominciamo dai nomi. Troviamo un sintetico Style 1900 e appellativi che alludono agli aspetti puramente formali: Stile anguilla (Paling Sijl), Lombrico arrabbiato (Gereitzer Regenwurm), Stile onda (Wellenstil), Stile giglio (Lilienstil), Stile spaghetti (Style Nouille), Stile a spirale (Schnörkestil), Linea giarrettiera moderna (Moderne Strumpfbandlinien). Con riferimento agli ambiti geografici, oltre a quelli già detti, in Inghilterra a Modern Style si affianca Glasgow Style, Style Morris, dal nome del critico William Morris; in Francia oltre ad Art Nouveau, scopriamo Style Jules Verne, oppure Style Guimard o Style Métro, associato al disegno particolare degli ingressi alle stazioni della metropolitana parigina progettati appunto dall’architetto Hector Guimard. In Germania, oltre a Stile nuovo (Neustil) e Nuova arte tedesca (Neudeutche Kunst), si parla anche di Tenia belga (Belgoscher Bandwurm). Per contro in Belgio si usa Belgische Stil, Style des Vingt dal gruppo artistico dei Venti, e ancora Veldesche Stil o Stil van de Velde e Style Horta, in relazione all’arte innovativa dei noti architetti Henry van de Velde e Victor Horta. 

Si potrebbe continuare nell’elencazione, ma dovremmo domandarci piuttosto: perché tante e così varie denominazioni? L’idea che restituiscono questi nomi è sicuramente meno “generica” di Arte nuova, declinata nelle differenti lingue nazionali. Generica, perché è “nuova” qualsiasi cosa «avvenuta o manifestatasi da poco, spesso in contrapposizione diretta a vecchio, antico, e quindi con significato prossimo a recente, attuale, moderno» (Treccani). Basterà ricordare il titolo del libro già citato di Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894). Ai tempi, si voleva, dunque, generare un’arte “nuova e moderna”, quale espressione di tutte le forme peculiari ancorate al progresso e all’evoluzione che caratterizzavano l’età che si stava vivendo. Tutto ciò in contrapposizione a quanto era vecchio e antiquato, o quantomeno convenzionale, accademico, canonico. Lo attestavano gli stessi protagonisti del cambiamento, come ad esempio Henry van de Velde ed Hermann Muthesius. Van de Velde contestava l’idea che si dovesse raccordare l’arte con l’industria. Idea sostenuta da Muthesius, che aveva fondato la Deutscher Werkbund, un’associazione orientata ad aumentare la qualità dei prodotti artigianali e industriali. Non era una semplice polemica fra architetti di diverse nazionalità, il primo belga, il secondo tedesco. Era il cuore del problema. Affermava Van de Velde: «Finché ci saranno nel Werkbund degli artisti […] essi contesteranno ogni tipo di standardizzazione. L’artista è essenzialmente un appassionato individualista, un creatore spontaneo. Non si sottoporrà mai ad un canone». Affronteremo questa tematica nello specifico, perché aprirà un importante ragionamento su “Arte e Industria”. Per ora cerchiamo di comprendere meglio questa “Arte nuova” che pervade l’orizzonte europeo.

Dalla molteplicità delle denominazioni si ravvisa che l’Art Nouveau è l’insieme di esperienze individuali influenzate dalla cultura di Paesi differenti. Per cui è comprensibile la contrapposizione fra il belga van de Velde e il tedesco Muthesius, l’uno interessato alla libertà creativa dell’artista, l’altro precursore dell’Industrial design. Così come è evidente un’altra contrapposizione, tra le aspirazioni dello stesso Muthesius, indirizzato alla “progettazione industriale”, e le aspirazioni dell’austriaca Wiener Werkstätte attratta dal prodotto di “alto artigianato”, seguendo la lezione inglese delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri). In pratica l’Art Nouveau si presentava come un movimento rivoluzionario dalle mille sfaccettature e dalle mille contraddizioni, tanto da poter essere recepito per alcuni aspetti estremi quasi come un movimento reazionario. Rifiutava lo storicismo, ma assecondava i revival ; anticipava sorprendentemente gli sviluppi futuri, ma elogiava il pezzo unico frutto del lavoro artigianale di qualità e per questo avversava la meccanizzazione. Alcuni celebravano le scoperte della tecnica, mentre altri segnalavano i pericoli della produzione seriale nel livellamento dei gusti di massa. Il dibattito culturale si presentava, dunque, sfaccettato. Da tutto ciò conseguiva l’impossibilità, a tutti gli effetti, di definire nell’Art Nouveau un’estetica modernista univoca. Nonostante questo, il fenomeno si riverberò di nazione in nazione investendo tutta l’Europa e, oltrepassando l’Oceano, approdò anche in America.

Le tre Gorgoni all’ingresso al Palazzo della Secessione a Vienna progettato da Joseph Olbrich nel 1898
Alfons Mucha, Le quattro stagioni, 1897

Tutte quelle differenti denominazioni rappresentavano la prova tangibile che l’Art Nouveau, pur costituendo il primo vero stile internazionale dalla diffusione globale, era sfaccettato in poliedriche manifestazioni non riunite da un comune programma. Si moltiplicava in area europea la frammentarietà già riscontrata nelle stesse Secessioni, dove quella di maggior vigore fu l’austriaca, perché s’identificò almeno inizialmente con le idee del “gruppo Klimt”. Per comprendere queste contrapposizioni, basterebbe limitarsi a confrontare, in massima sintesi, proprio i caratteri della Secessione viennese con quelli della più ampia Art Nouveau europea: senso della decadenza – senso della modernità; solennità – vitalismo; staticità – dinamismo; forme geometriche – forme naturalistiche; linea spezzata – linea sinuosa; donna idolatrata – donna floreale. Quale era, al contrario, la linea comune che legava insieme questa tavolozza dalle tinte variegate? Direi l’opposizione all’Accademia e la volontà di portare avanti, comunque, la ricerca estetica verso sempre nuove sperimentazioni. Ma un altro aspetto pare non trascurabile e davvero unificante. Lo evidenziava bene Theodor Adorno, quando sottolineava che l’emancipazione dell’arte fu possibile solo sviluppando una sorta di “ideologia della citazione a domicilio dell’arte nella vita” attraverso l’assimilazione del “carattere di merce” quale preludio dell’industria culturale: «Il progredire di una differenziazione soggettiva, la crescita e l’ampliamento della sfera degli stimoli estetici, rese questi ultimi disponibili; essi poterono essere prodotti per il mercato culturale. L’accordo dell’arte con le reazioni individuali più fuggevoli si alleò con la reificazione dell’arte, la sua crescente somiglianza col soggettivamente fisico la allontanò, nella ampiezza della produzione, dalla sua obiettività e si raccomandò al pubblico; pertanto, la parola d’ordine l’art pour l’art fu la copertura del contrario».

Copertina del libro Wren’s City Churches di Mackmurdo, una stampa da The Hobby Horse (Inghilterra), pubblicata da G. Allen nel 1883

Il dibattito artistico, di per sé astratto, dunque, secondo Adorno trovò la propria concretezza in un’ampia produzione merceologica da offrire al pubblico. Ad avvalorare questo pregnante concetto è il fatto che in genere i maggiori esponenti dell’Art Nouveau, più che dall’architettura o dalla pittura, furono attratti dalle arti decorative, dal nascente design e dall’arredamento d’interni, dalla grafica e dall’editoria. Certo non mancarono architetti innovatori, come vedremo, né scarseggiarono pittori, ma quest’ultimi per esempio continuarono i temi simbolisti, rileggendoli in chiave personale e originale attraverso una notevole varietà di soggetti che influiranno su molti dei movimenti futuri. A ben guardare fra i primi esempi di questa nuova sensibilità “floreale” vanno citati i lavori di Arthur Heygate Mackmurdo. Ad esempio, la copertina di un libro del 1883 sulle chiese londinesi di Wren (Wren’s city churches) oppure i suoi disegni di stoffe, arazzi o lavori in metallo e mobili degli anni Novanta dell’Ottocento. Sicuramente è il pioniere di un linguaggio che si svilupperà nei decenni successivi, partendo dall’Inghilterra. Non va dimenticato, infatti, che Mackmurdo aveva studiato alla Ruskin School of Drawing and Fine Art di Oxford e nel 1874 aveva accompagnato lo stesso John Ruskin in Italia. In questo contesto culturale non è possibile non riferirsi anche a William Morris. Il primo effetto – osservava Nikolaus Pevsner – fu che sotto l’influsso degli insegnamenti di Ruskin e di Morris «molti giovani artisti, architetti e dilettanti, decisero di dedicarsi all’arte applicata. Ciò che per oltre mezzo secolo era stata considerata una occupazione inferiore, diventò nuovamente un compito nobile e degno». Sono questi gli anni in cui cominciò l’importazione degli oggetti orientali grazie all’apertura di una politica di scambi col Giappone. Probabilmente si deve proprio a questi scambi l’humus dell’innovazione; in modo particolare all’opera degli importatori di quei manufatti, tra i quali si distinsero Arthur Lasenby Liberty – il cognome del quale indicò in Italia quello che al momento era chiamato Stile floreale – o Sigfriend Bing, la cui bottega d’arte orientale a Parigi dette alla nuova produzione artistica la denominazione di Art Nouveau. Su Liberty e Bing ci soffermeremo ampiamente nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

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