Con le stampe esotiche artisti e pubblico si appassionano per l’arte giapponese

di Sergio Bertolami

21 – Il Giapponismo nella seconda metà dell’Ottocento.

L’Art Nouveau è sostanzialmente legata alle arti dell’Estremo Oriente, che nella seconda metà dell’Ottocento tornarono ad incidere sulle inclinazioni degli artisti e del pubblico più ampio. Non perché dal secolo XVIII – durante il quale avevano profondamente sedotto le élite – erano state poi sprezzate o disconosciute, ma perché in verità erano ormai del tutto cadute nell’oblio. Quello che però sarà chiamato Giapponismo non è mutuato soltanto da un fatto di gusto estetico, ma ha diretti riscontri politici ed economici. La riscoperta prese avvio, infatti, con la Convenzione di Kanagawa, un trattato di amicizia e pace tra Giappone e Stati Uniti, sottoscritto il 31 marzo 1854. Un trattato che mise fine a due secoli di isolazionismo e alla nascita dell’Impero nipponico. Dal 1641, infatti, solo le navi cinesi e quelle olandesi della Compagnia delle Indie orientali avevano diritto di approdare in un unico porto giapponese, Nagasaki. Per la precisione a Dejima (letteralmente isola d’uscita), una piccola piattaforma artificiale a ventaglio, appositamente costruita all’ingresso della città portuale. Fino ad allora solo pochi prodotti, nonostante i divieti di esportazione, riuscivano a filtrare in Europa. I servizi in porcellana o gli opuscoli illustrati e le xilografie giapponesi, per il loro costo eccessivo, erano acquistabili soltanto dalla ristretta cerchia aristocratica. Ora, invece, il trattato rompeva, a tutti gli effetti, le maglie di un ferreo isolamento che durava da duecento anni. Per la verità, il trattato aveva per oggetto il salvataggio marittimo e non il libero scambio commerciale. Era stato imposto al Giappone sotto la minaccia di cannoneggiamenti da parte della Marina statunitense, in seguito ai maltrattamenti subiti dagli equipaggi balenieri americani naufragati al largo della costa nipponica. Vi si specificava chiaramente: «Il porto di Simoda [Yedo], nel principato di Idzu, e il porto di Hakodade, nel principato di Matsmai [Hokkaido], sono concessi dai giapponesi come porti per l’accoglienza delle navi americane, dove potranno essere rifornite con legna, acqua, provviste, carbone e altri articoli di loro necessità, da richiedere secondo le disponibilità giapponesi». Per assolvere ai compiti di accoglienza dei naufraghi – salvati lungo le coste e successivamente trasferiti nei porti di Simoda e di Hakodade – furono nominati, dal Governo degli Stati Uniti, consoli ed agenti. Per quella che fu considerata un’ingerenza esterna, il trattato divenne causa di gravi conflitti politici interni. Ne conseguì una guerra civile, risolta soltanto nel 1869 con la restaurazione del potere imperiale Meiji e la fine dello shogunato Tokugawa. L’accordo fu seguito da analoghe convenzioni, questa volta commerciali, con gli Stati Uniti ed anche con Inghilterra, Francia, Russia e naturalmente Olanda. Volendo richiamare un fatto già detto in precedenza, ecco il motivo per cui nel 1870 Martin Michael Bair, cognato di Siegfried Bing, fu nominato console nella nuova capitale, che da Edo (entrata della baia) trasformò il nome in Tokyo (capitale d’Oriente). La strada della modernizzazione si stava aprendo anche nel lontano arcipelago.

Mappa illustrata di Nagasaki Maruyama Okyo, Nagasaki Museum of History and Culture Collection

Con questo avvio di libero scambio commerciale fra Oriente ed Occidente, manufatti giapponesi cominciarono a circolare in Europa in maniera più cospicua, finendo col comparire persino nelle vetrine e sui banchi dei negozi di curiosità. Le “giapponeserie” si diffusero come nel secolo precedente avevano fatto le “cineserie”. In questo caso la mania per tutto ciò che era insolito e raro, raffinato e suggestivo, iniziò con la raccolta di porcellane, lacche, piccole sculture e bronzi, sete, kimoni, soprattutto stampe Ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante) dei grandi maestri Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kunisada, Eisen. Giunsero anche i Mangwa (immagini casuali), album di schizzi a tema. Si racconta che Félix Bracquemond, interessato più che mai alla tecnica dell’incisione, fu forse il primo artista parigino a prendere spunto dall’arte giapponese, riproponendo quelle esotiche figure su di un servizio di porcellana, decorato nel 1867 per Eugene Rousseau. Fu, infatti, nella bottega del suo stampatore, Auguste Delâtre, al 171 di rue Saint-Jacques, che nel 1856 trovò un Mangwa di Katsushika Hokusai. Le sue pagine erano servite casualmente ad avvolgere la spedizione di fragili porcellane. Riproducevano gli schizzi sparsi che il pittore aveva catturato col suo pennello: paesaggi, uccelli, animali, piante ed alberi, scene di vita quotidiana. Il minuscolo fascicolo, che Delâtre aveva ricomposto da quei fogli, produsse un’impressione vivissima in Bracquemond. Riuscì ad acquisirlo soltanto un paio d’anni dopo, grazie ad uno scambio con delle incisioni di Eugène Lavieille che conservava. Bracquemond ne fece quasi un breviario. Portava quel libretto di schizzi in tasca e lo mostrava a tutti, per giudicare dalla sorpresa degli interlocutori l’ammirazione e la curiosità che suscitava.

Hokusai manga vol.15

A giugno del 1862 il pittore si unì con un gruppo di giovani artisti alla Société des aquafortistes, fondata dall’editore Alfred Cadart con la collaborazione dello stesso tipografo Delâtre. L’associazione voleva rinnovare il modo di produrre le incisioni moderne. Sempre nel 1862, si aprì anche La Porte Chinoise al 220 di rue de Rivoli, vicino al Louvre. Una boutique di paccottiglia orientale condotta da Madame De Soye, che fece crescere l’entusiasmo. Qualche nome dei suoi clienti? Whistler e Fantin-Latour, i Goncourts e Baudelaires, Bracquemond e Millet, Manet, Degas, Monet, Zola, Champfleury, e si potrebbe continuare. Baudelaire scriveva a sua madre: «Ho ricevuto un pacco di giapponeserie, le ho condivise con alcuni amici». Un visitatore dello studio di Whistler riferiva ad un amico: «Qui, sono quasi in paradiso. Crederesti di essere stato a Nagasaki o al Palazzo d’Estate, Cina, Giappone, è splendido». L’inglese Dante Gabriel Rossetti, mentre cercava articoli giapponesi a Parigi, venne a sapere che «tutti i costumi erano acquistati da un artista francese, Tissot, che sembra stia facendo tre quadri giapponesi, descritti a me dalla proprietaria del negozio come le tre meraviglie del mondo».

James Tissot, La Japonaise au bain (c.1865 ), Musée de Dijon, Francia. 
 

Il gusto per l’arte giapponese era inizialmente limitato ai circoli ristretti di intenditori, letterati e artisti. Fu l’Esposizione Universale del 1867 a diffondere davvero questa attrazione, dedicando ampi spazi all’Estremo Oriente. Col prorompere del gusto, nacque anche il termine Japonisme, coniato dall’incisore Philippe Burty nel 1873. All’inaugurazione dell’Esposizione, fra le tante cronache, si poteva leggere di tutto. Ad esempio, un pezzo che rendeva noto di un artista della Maison Christofle che aveva avuto l’idea di applicare lo stile di decorazione giapponese ai gioielli di oreficeria, ai flaconi, alle scatole di caramelle. In un altro articolo si leggeva che il gioielliere Martz aveva ideato degli smalti orientali, traendo ispirazione da alcuni album di Hokusai, Toyokuni e Kuniyoshi che si era procurato. Bracquemond, il quale rivendicava il merito di aver “scoperto” il primo libro illustrato proveniente dal Giappone – e non era chiaramente il primo –, fondò “Jinglar” un’associazione che mensilmente si riuniva a cena chez Solon, ovvero dal direttore della Manifattura di Sèvres. Tra i proseliti del nuovo gusto c’erano Zacharie Astruc, Fantin-Latour, Philippe Burty, l’incisore Jacquemard. In questi incontri mangiavano riso con le bacchette; spegnevano i sigari in posacenere orientali; tutto era ispirato al Giappone, compreso il servizio da tavolo inciso da Bracquemond. Jules de Goncourt terminava una lettera a Philippe Burty inneggiando: «Japonaiserie for ever». Dal canto suo anche Edmond de Goncourt, nei suoi scritti, rivendicava per sé e suo fratello il primato di questo interesse verso il Sol Levante. Dal momento che Edmond non visitò mai l’Estremo Oriente, le sue osservazioni evidentemente si basavano sulle opere d’arte che studiava e che raccoglieva in una interessante collezione privata. Poteva pure contare sui giapponesi che incontrava a Parigi. Fra questi, Hayashi Tadamasa, un commerciante che, stabilitosi a Parigi, è oggi riconosciuto come figura importante per l’importazione e diffusione dell’arte e della cultura giapponese in Europa. Nel 1878, in occasione dell’Esposizione Universale di quell’anno, Tadamasa era giunto a Parigi al seguito del mercante e antiquario Kenzaburô Wakaï, per il quale faceva da venditore e interprete. Presentò porcellane i cui prezzi si quadruplicarono in un batter d’occhio.

The Kiryu Kosho Kaisya Standing Industry and Trading Company (1873-1891)

L’allestimento di una fattoria giapponese sembrava essere una delle “meraviglie della mostra” e la Kiryo Kosho Kaisha, rifornì di merci il padiglione giapponese. Le finalità di quella che rappresentava la prima società di produzione e commercio giapponese erano esplicite: «La nostra azienda, Kiriu Kosho Kuwaisha, è stata fondata con lo scopo di incoraggiare le industrie giapponesi e promuoverne la massima perfezione possibile». Tadamasa rimase a Parigi, dapprima per vendere la merce restante alla chiusura dell’Esposizione, ma finì con aprire un negozio e così diventò, con Siegfried Bing, uno dei migliori mercanti d’arte giapponese a Parigi. Da lui acquistavano i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, le voci più entusiaste verso il Giapponismo. Non furono probabilmente i primi a comprendere le raffinatezze di quest’arte esotica, ma Edmond – Jules era scomparso nel 1870 – espresse in due pubblicazioni la sua passione: nel 1891, pubblicò la prima monografia storica su Kitagawa Utamaro, seguita nel 1896 da un’altra monografia su Katsushika Hokusai.

Ospiti a una cena annuale della London Japan Society, 1900. Fotografia. (Fonte Japan Society, Londra)
Biglietto d’invito che annuncia una conferenza di Siegfried Bing alla Japan Society di Londra (Fonte Japan Society, Londra)

Bing propose Edmond de Goncourt per l’ingresso alla The Japan Society di Londra, il 10 marzo 1893, anche se, in verità, il loro rapporto era spesso teso, a causa dell’idea di Edmond di ritenersi il principale fautore dell’arte giapponese in Francia, quasi l’esperto assoluto. Si accapigliavano in strenui dibattiti riguardo ad alcuni passi del libro su Hokusai. Fin dall’inizio delle attività di Bing come negoziante d’arte, Goncourt era comunque un suo assiduo frequentatore. Dal momento che Bing ne riconosceva la fama di scrittore, con uno schietto impegno di lunga data riguardo al Giappone, pensò bene di candidarlo come socio della prestigiosa Società londinese.

A sinistra: Hiroshige, Cento vedute di Edo, n. 30, Pruneraie à Kameido (1857), a destra: Van Gogh, Japonerie. Plum Blossoms (1887), Museo Van Gogh, Amsterdam.

Qualche anno fa, lo storico Jean Chesneaux – esperto di Asia orientale – si rammaricava che analogamente al Giappone di oggigiorno che ha preso in prestito le nostre arti meccaniche, la nostra arte militare, le nostre scienze, così gli europei dell’Ottocento ghermivano le arti decorative giapponesi. «Non era più una moda, era un’infatuazione, una follia». Chesneaux, in verità, stigmatizzava soprattutto l’imitazione volgare. Questo perché le opere giapponesi conquistavano anche i dilettanti, si allargavano sempre più nel gusto popolare, inquietando il mondo della cultura. Dal 1878 al 1895 l’ossessione continuò ad espandersi. Tuttavia, fra gli specialisti iniziarono le prime ricerche sistematiche: l’inglese W. Anderson nel 1879 e 1886, Théodore Duret nel 1882, Louis Gonse nel 1883, Madsen nel 1885 e naturalmente Edmond de Goncourt negli anni Novanta. Questo per dire delle pubblicazioni e non dilungarsi sulle mostre. Giova però citarne qualcuna. Nel 1887, una piccola vetrina a Parigi fu dedicata alle sole stampe giapponesi. Al caffè Le Tambourin di avenue de Clichy, la organizzò uno sconosciuto olandese, Vincent Van Gogh, che passò inosservato. Era completamente irretito da quelle stampe, che ne comprò centinaia. In una lettera da Arles del 15 Luglio 1888 Vincent esortava il fratello Théo ad acquistare xilografie nella galleria di Siegfried Bing, con la quale aveva un conto aperto: «Ti prego conserva il deposito di Bing, i vantaggi sono troppo grandi».

Exposition de la Gravure Japonaise (Mostra di stampe giapponesi) di Jules Chéret, Chaix et Malherbe 1890. Dalle collezioni dei musei de Young e Legion of Honor di San Francisco, CA.

Nel 1888 Bing stesso offrì all’ammirazione del pubblico, nel suo negozio, centosessanta pezzi della sua “meravigliosa collezione”. Ma le mostre si ripeterono ancora, perché due anni dopo, una superba retrospettiva storica ebbe luogo addirittura nella sede ufficiale della cultura accademica francese. In tale circostanza, Mary Cassatt, statunitense, scriveva a Berthe Morisot, ambedue pittrici impressioniste: «Devi vedere le stampe giapponesi. Vieni appena puoi all’École des Beaux-Arts». L’ampia presentazione era stata organizzata proprio da Siegfried Bing, e fu particolarmente significativa sia per il numero degli esemplari – vi erano presentate più di 700 stampe – che per la qualità degli espositori. Georges Clemenceau, futuro primo ministro, era tra questi. Nonostante l’impegno culturale, le Japoneries si trovavano ormai dappertutto. Anche nei bazar. La merce scadente aveva invaso i banchi dei grandi magazzini: il Petit Saint-Thomas aveva preso a diffonderla in provincia. Siegfried Bing, da quell’abile uomo di affari qual era, vide il pericolo in tempo. Trasformando La Maison Bing, mise a segno il suo ennesimo successo. La rinnovata galleria d’arte si chiamò L’Art Nouveau.

Il padiglione giapponese Midori no Sato

Poco si sa del primissimo padiglione giapponese fondato in Francia (1886), quello del giardino di Hugues Krafft chiamato Midori no Sato, scomparso pochi decenni fa. Gli scavi effettuati nel sito ci hanno permesso di trovare le fondamenta del padiglione e di tentarne la ricostruzione.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

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