Lavorare sulla cultura senza inseguire il gusto

 

C’è bisogno di cultura. Cosa intendere? L’ultima volta che sono stato a Pisa, nel museo dell’Opera del Duomo eravamo quattro persone; ma dalle finestre vedevo brulicare nella Piazza dei Miracoli migliaia di visitatori presi a scattare foto nella posa spassosa di “sorreggere” la Torre pendente. Sto parlando di una città icona del turismo internazionale. Quale cultura, dunque? Personalmente sono per una conoscenza democraticamente diffusa. So bene che pochi fra quei vacanzieri sono interessati al tema dell’arcata cieca nell’architettura del romanico pisano; ma compito di chi si occupa di cultura non è nascondere la complessità del sapere, ma comunicarlo in modo semplice e interessante. Ho trascorso un bel pomeriggio con mio figlio a discutere sull’approccio ai problemi intricati escogitato da Richard Feynman quando era studente a Princeton. A volte la cultura è considerata pure noiosa. Benedetto Croce, in un saggio sui Teatri di Napoli, racconta di quel gesuita settecentesco che mentre predicava in piazza si vide sottrarre ascoltatori dalla comparsa di un Pulcinella. Ricorrendo anche lui a frizzi e lazzi da commedia dell’arte, il predicatore riuscì di nuovo ad attrarre il pubblico che via via stava dileguandosi. Croce non dice se il religioso abbia continuato poi a far riflettere sulla vita e sulla morte. Perché l’importante è non smarrire la linea dell’orizzonte, nel tentativo di calcare la scena a favore del pubblico. La cultura è sempre edificante. Ecco perché all’Entertainment è preferibile l’Edutainment, cioè quel trattenimento educativo che suole richiamarsi all’espressione latina “ludendo docere”, insegnare giocando. Divertire sì, non mancando di seminare e raccogliere frutti, come vuole l’etimologia della parola “cultura”. Conservare sementi. Sempre più. Per dare valore al presente e proiettarlo nel futuro.

Pubblicato su 100NOVE n. 34 del 7 settembre 2017

About the author: Sergio Bertolami