12- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Le Turche

12- Le Turche

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

È una grande sorpresa per chi arriva a Costantinopoli, dopo aver inteso parlar tanto della schiavitù delle donne turche, il veder donne da tutte le parti e a tutte le ore del giorno, come in una qualunque città europea. Pare che appunto in quel giorno a tutte quelle rondini prigioniere sia stato dato il volo per la prima volta e che sia cominciata un’era nuova di libertà per il bel sesso musulmano. La prima impressione è curiosissima. Lo straniero si domanda, al vedere tutte le donne con quei veli bianchi e quelle lunghe cappe di colori ciarlataneschi, se son maschere o monache o pazze; e siccome non se ne vede una sola accompagnata da un uomo, pare che non debbano essere di nessuno, che siano tutte vedove o ragazze, o che appartengano tutte a un qualche grande ritiro di «malmaritate». Nei primi giorni non ci si può persuadere che tutti quei turchi e tutte quelle turche che s’incontrano e si toccano senza guardarsi e senza accompagnarsi mai, possano avere tra loro qualcosa di comune. E ogni momento s’è costretti a fermarsi per osservare quelle strane figure e per meditare su quello stranissimo uso. Son queste dunque, si dice, son proprio queste quelle «avvincitrici di cuori», quelle «fonti di piacere», quelle «piccole foglie di rosa» e «uve primaticcie» e «rugiade del mattino» e «aurore» e «vivificatrici» e «lune splendenti» di cui mille poeti ci hanno empita la testa? Queste le hanum e le odalische misteriose, che a vent’anni, leggendo le ballate di Victor Hugo all’ombra d’un giardino, abbiamo sognate tante volte, come creature d’un altro mondo, di cui un solo amplesso avrebbe consunto tutte le forze della nostra giovinezza? Queste le belle infelici, nascoste dalle grate, vigilate dagli eunuchi, separate dal mondo, che passano sulla terra, come larve, gettando un grido di voluttà e un grido di dolore? Vediamo che cosa c’è ancora di vero in tutta questa poesia.

Prima di tutto, il viso della donna turca non è più un mistero, e perciò una gran parte della poesia che la circondava è svanita. Quel velo geloso che, secondo il Corano, doveva essere «un segno della sua virtù e un freno ai discorsi del mondo» non è più che un’apparenza. Tutti sanno come è fatto il jasmac. Sono due grandi veli bianchi, di cui uno, stretto intorno al capo come una benda, copre la fronte fino alle sopracciglia, s’annoda dietro, nei capelli, al di sopra della nuca, e ricade sulla schiena, in due lembi, fino alla cintura; l’altro copre tutta la parte inferiore del viso, e va ad annodarsi col primo, in modo che par tutto un velo solo. Ma questi due veli, che dovrebbero essere di mussolina e stretti in maniera da non lasciar vedere che gli occhi e la sommità delle guance, sono invece di tulle radissimo, e allentati tanto, che lasciano vedere non solo il viso, ma gli orecchi, il collo, le trecce, e spesso anche i cappellini all’europea, ornati di penne e di fiori, che portano le signore «riformate». E perciò accade appunto il contrario di quello che si vedeva una volta, quando alle donne attempate era lecito di andare col viso un po’ più scoperto, e alle giovani era imposto di coprirsi più rigorosamente. Ora son le giovani, e specialmente le belle, quelle che si mostrano meglio, e son le vecchie che per ingannare il mondo portano il velo fitto e serrato. Quindi un’infinità di bei misteri e di belle sorprese, raccontate dai romanzieri e dai poeti, non sono più possibili; ed è una fiaba, fra le altre, quella che lo sposo veda per la prima volta il viso della sua sposa nella notte nuziale. Ma fuorché il viso, tutto è ancora nascosto; non si può intravvedere né il seno, né la vita, né il braccio, né il fianco; il feregé nasconde rigorosamente ogni cosa. È una specie di tonaca, guernita d’una pellegrina, di maniche lunghissime, larga, senza garbo, cadente come un mantellaccio dalle spalle ai piedi, di panno l’inverno, di seta l’estate, e tutta d’un colore, quasi sempre vivissimo: ora rosso vivo, ora ranciato, ora verde; e l’uno o l’altro predomina d’anno in anno, rimanendo inalterata la forma. Ma benché insaccate in quel modo, tanta è l’arte con cui sanno aggiustarsi il jasmac, che le belle paiono bellissime, e le brutte graziose. Non si può dire che cosa fanno con quei due veli, con che grazia se li dispongono a corona e a turbante, con che ampiezza e con che nobiltà di pieghe li ravvolgono e li sovrappongono, con che leggerezza e con che elegante trascuranza li allentano e li lasciano cadere, come li fanno servire nello stesso tempo a mostrare, a nascondere, a promettere, a proporre degli indovinelli e a rivelare inaspettatamente delle piccole meraviglie. Alcune pare che abbiano intorno al capo una nuvola bianca e diafana, che debba svanire ad un soffio; altre sembrano inghirlandate di gigli e di gelsomini; tutte paiono di pelle bianchissima, e prendono da quei veli delle sfumature nivee e un’apparenza di morbidezza e di freschezza che innamora. È un’acconciatura ad un tempo austera e ridente, che ha qualche cosa di sacerdotale e di virgineo; sotto la quale pare che non debbano nascere che pensieri gentili e capricci innocenti…. Ma vi nasce un po’ d’ogni cosa.

È difficile definire la bellezza della donna turca. Posso dire che quando ci penso vedo un viso bianchissimo, due occhi neri, una bocca purpurea e un’espressione di dolcezza. Quasi tutte però son dipinte. S’imbiancano il viso con pasta di mandorle e di gelsomino, s’ingrandiscono le sopracciglia con inchiostro di china, si tingono le palpebre, s’infarinano il collo, si fanno un cerchio nero intorno agli occhi, si mettono dei nei sulle guance. Ma fanno questo con garbo; non come le belle di Fez, che si danno delle pennellate da imbianchini. La maggior parte hanno un bel contorno ovale, un nasino un po’ arcato, le labbra grossette, il mento rotondo, colla fossetta; molte hanno le fossette anche nelle guance; un bel collo lunghetto e flessibile; e mani piccine, quasi sempre coperte, peccato, dalle maniche della cappa. Quasi tutte poi sono grassotte e moltissime di statura più che mezzana: rarissime le acciughe e i crostini dei nostri paesi. Se hanno un difetto comune, è quello di camminar curve e un po’ scomposte, con una certa cascaggine di bambolone cresciute tutt’a un tratto; il che deriva, si dice, da una mollezza di membra, di cui è cagione l’abuso del bagno, ed anche un po’ dalla calzatura disadatta. Si vedono, infatti, delle donnine elegantissime, che debbono avere un piedino di nulla, calzate di babbucce da uomo o di stivaletti lunghi, larghi e aggrinziti, che una pezzente europea sdegnerebbe. Ma anche in quella brutta andatura hanno un certo garbo fanciullesco che, quando ci si è fatto l’occhio, non dispiace. Non si vede nessuna di quelle figure impettite, di quelle mostre da modista, così frequenti nelle città europee, che vanno a passetti di marionetta, e che par che saltellino sopra uno scacchiere. Non hanno ancora perduto la pesantezza e la trascuranza naturale dell’andatura orientale, e se la perdessero, riuscirebbero forse più maestose, ma meno simpatiche. Si vedono delle figure bellissime e di bellezza infinitamente svariata, poiché c’entra col sangue turco, il sangue circasso, l’arabo, il persiano. Ci sono delle matrone di trent’anni, di forme opulente, che il feregé non basta a nascondere, altissime, con grandi occhi scuri, colle labbra tumide, colle narici dilatate, – pezzi di hanum da far tremare cento schiave con uno sguardo, – vedendo le quali, par davvero una ridicola e temeraria spacconata quella dei signori turchi che pretendono d’esser quattro volte mariti. Ce n’è dell’altre, piccolette e paffutelle, che han tutto rotondo – volto, occhi, naso, bocca – ed un’aria così queta, così benevola, così bambina, un’apparenza di rassegnazione così docile al loro destino, di non essere che un trastullo e una ricreazione, che passandogli accanto, vi verrebbe voglia di mettergli in bocca una caramella. Ci son poi anche le figurine svelte, sposine di sedici anni, ardite e vivacissime, cogli occhi pieni di capricci e d’astuzie, che fanno pensare con un sentimento di pietà al povero effendi che le ha da tenere in freno e al disgraziato eunuco che le deve tener d’occhio. E la città si presta mirabilmente a inquadrare, per dir così, la loro bellezza e il loro vestiario. Bisogna vedere una di quelle figurine col velo bianco e col feregé purpureo, seduta in un caicco, in mezzo all’azzurro del Bosforo; o adagiata sull’erba, in mezzo al verde bruno d’un cimitero; o anche meglio, vederla venir giù per una stradetta ripida e solitaria di Stambul, chiusa in fondo da un grande platano, quando tira vento, e i veli e il feregé svolazzano, e scoprono collo, piedino e calzina; e v’assicuro che in quel momento, se fosse sempre in vigore l’indulgente decreto di Solimano il Magnifico, che multa d’un aspro ogni bacio dato alla moglie e alla figliola altrui, allungherebbe un calcio all’avarizia anche Arpagone. E non c’è caso che quando tira vento, la donna turca s’affanni a tener basso il feregé, perché il pudore delle musulmane non va più in giù delle ginocchia, e s’arresta qualche volta assai prima.

Una cosa che stupisce, sulle prime, è la loro maniera di guardare e di ridere, che scuserebbe qualunque giudizio più temerario. Accade spessissimo che un giovane europeo, guardando fisso una donna turca, anche di alto bordo, sia ricambiato con uno sguardo sorridente o con un sorriso aperto. Non è raro nemmeno che una bella hanum in carrozza, faccia, di nascosto all’eunuco, un saluto grazioso colla mano a un giovanotto franco a cui si sia accorta di piacere. Qualche volta, in un cimitero o in una strada appartata, una turca capricciosa s’arrischia perfino a gettare un fiore passando, o a lasciarlo cadere in terra coll’intenzione manifesta che sia raccolto dal giaurro elegante che le vien dietro. Per questo un viaggiatore fatuo può prendere dei grandi abbagli, e ci sono infatti degli europei scimuniti, che, essendo stati un mese a Costantinopoli, credono in buona fede d’aver rubata la pace a un centinaio di sventurate. C’è senza dubbio, in quegli atti, un’espressione ingenua di simpatia; ma c’entra in parte assai maggiore uno spirito di ribellione, che tutte le turche hanno in cuore, nato dall’uggia della soggezione in cui sono tenute, e al quale danno sfogo, come e quando possono, in piccole monellerie, non fosse che per far dispetto, in segreto, ai loro padroni. Fanno in quel modo più per fanciullaggine che per civetteria. E la loro civetteria è d’un genere singolarissimo, che somiglia molto ai primi esperimenti delle ragazzine quando cominciano ad accorgersi d’esser guardate. È un gran ridere, un guardare in su colla bocca aperta in atto di stupore, un fingere d’aver male al capo o a una gamba, certi atti di dispetto il feregé che le imbarazza, certi scatti da scolarette, che sembrano fatti più per far ridere che per sedurre. Mai un atteggiamento da salotto o da fotografia. Quella po’ d’arte che mostrano è proprio un’arte rudimentale. Si vede, come direbbe il Tommaseo, che non hanno molti veli da gettar via; che non sono abituate ai lunghi amoreggiamenti, ad «essere circuite alla muta» come le donne geroglifiche del Giusti; e che quando hanno una simpatia, invece di star lì tanto a sospirare e a girar gli occhi, direbbero addirittura, se potessero esprimere il loro sentimento: – Cristiano, tu mi piaci. – Non potendolo dire colla voce, glie lo dicono francamente, mostrando due belle file di perle luccicanti, ossia ridendogli sul viso. Sono belle tartare ingentilite.

E son libere: è una verità che lo straniero tocca con mano appena arrivato. È una esagerazione il dire come Lady Montague che son più libere delle europee; ma chiunque è stato a Costantinopoli non può a meno di ridere quando sente parlare della loro «schiavitù». Le signore, quando vogliono uscire, ordinano agli eunuchi di preparar la carrozza, escono senza chiedere il permesso a nessuno, e tornano a casa quando vogliono, purché sia prima di notte. Una volta non potevano uscire senz’essere accompagnate da un eunuco, o da una schiava, o da un’amica, e le più ardite, se non avessero voluto altri, avrebbero dovuto almeno condurre con sé un figlioletto, che fosse come un titolo al rispetto della gente. Se qualcheduna si faceva veder sola in un luogo appartato, era facilissimo che una guardia di città o un qualunque vecchio turco rigorista la fermasse e le domandasse: – Dove vai? D’onde vieni? Perché non hai nessuno con te? Così rispetti il tuo effendi? Torna a casa! – Ma ora escono sole a centinaia, e se ne vedono a tutte le ore per le vie dei sobborghi musulmani e della città franca. Vanno a far visita alle amiche da un capo all’altro di Stambul, vanno a passar delle mezze giornate nelle case di bagni, fanno delle gite in barchetta, il giovedì alle Acque dolci d’Europa, la domenica alle acque d’Asia, il venerdì al cimitero di Scutari, gli altri giorni alle isole dei Principi, a Terapia, a Bujukderé, a Kalender, a far merenda colle loro schiave, in brigatelle di otto o dieci; vanno a pregare alle tombe dei Padiscià e delle Sultane, a vedere i conventi dei dervis, a visitare le mostre pubbliche dei corredi nuziali, e non c’è effigie d’uomo, non che le accompagni o le segua, ma che, se anche son sole, ardisca di far loro un’osservazione. Vedere un turco in una via di Costantinopoli, non dico a braccetto, ma al fianco, ma fermo per un momento a discorrere con una «velata», quando anche portassero scritto in fronte che son marito e moglie, parrebbe a tutti la più strana delle stranezze, o per meglio dire un’impudenza inaudita, come nelle nostre vie un uomo e una donna che si facessero ad alta voce delle dichiarazioni d’amore. Da questo lato le donne turche sono veramente più libere che le europee, e non si può dire questa libertà quanto la godano, e con che matto desiderio corrano allo strepito, alla folla, alla luce, all’aria aperta, esse che in casa non vedono che un uomo solo, ed hanno finestre e giardini claustrali. Escono e scorrazzano per la città coll’allegrezza di prigioniere liberate. C’è da divertirsi a pedinarne una a caso, alla lontana, per vedere come sanno sminuzzarsi e raffinarsi i piaceri del vagabondaggio. Vanno nella moschea più vicina a dire una preghiera e si fermano a cicalare un quarto d’ora con un’amica sotto le arcate del cortile; poi al bazar a dare una capatina in dieci botteghe, e a farne metter sottosopra un paio, per comprare una bagattella; poi pigliano il tramway, scendono al mercato dei pesci, passano il ponte, si fermano a contemplare tutte le trecce e tutte le parrucche dei parrucchieri di via di Pera, entrano in un cimitero e mangiano un dolce sopra una tomba, ritornano in città, ridiscendono al Corno d’oro scantonando cento volte e guardando colla coda dell’occhio ogni cosa – vetrine, stampe, annunzi, signore che passano, carrozze, insegne, porte di teatri – comprano un mazzo di fiori, bevono una limonata da un acquaiolo, fanno l’elemosina a un povero, ripassano il Corno d’oro in caicco, ricominciano a far dei nastri per Stambul; poi pigliano il tramway un’altra volta, e arrivate sulla porta di casa, son capaci di tornare indietro, per fare ancora un giro di cento passi intorno a un gruppo di casette; tale e quale come i ragazzi che escono soli la prima volta, e che in quell’oretta di libertà ci vogliono far entrare un po’ di tutto. Un povero effendi corpulento che volesse tener dietro a sua moglie per scoprire se ha qualche ripesco, rimarrebbe sgambato a mezza strada.

Per vedere il bel sesso musulmano, bisogna andare un giorno di gran festa alle Acque dolci d’Europa, in fondo al Corno d’oro, o a quelle d’Asia, vicino al villaggio di Anaduli- Hissar; che sono due grandi giardini pubblici, coperti da boschetti foltissimi, attraversati da due piccoli fiumi, e sparsi di caffè e di fontane. Là sopra un vasto piano erboso, all’ombra dei noci, dei terebinti, dei platani, dei sicomori, che formano una successione di padiglioni verdi, per cui non passa un raggio di sole, si vedono migliaia di turche sedute a gruppi e a circoli, circondate di schiave, d’eunuchi, di bambini, che merendano e folleggiano per una mezza giornata, in mezzo a un via vai di gente infinito. Appena giunti si rimane come trasognati. Par di vedere una festa del paradiso islamitico. Quella miriade di veli bianchissimi e di feregé scarlatti, gialli, verdi e cinerei, quegli innumerevoli gruppi di schiave vestite di mille colori, quel formicolio di bimbi in costume di mascherine, i grandi tappeti di Smirne distesi in terra, i vasellami argentati e dorati che passano di mano in mano, i caffettieri musulmani, in abito di gala, che corrono in giro portando frutti e gelati, gli zingari che danzano, i pastori bulgari che suonano, i cavalli bardati d’oro e di seta che scalpitano legati agli alberi, i pascià, i bey, i giovani signori che galoppano lungo la riva del fiume, il movimento della folla lontana che sembra il tremolio d’un campo di camelie e di rose, i caicchi variopinti e le carrozze splendide che arrivano continuamente a versare in quel mare di colori altri colori, e il suono confuso dei canti, dei flauti, delle zampogne, delle nacchere, delle grida infantili, in mezzo a quella bellezza di verde e d’ombra, svariata qua e là da piccole vedute luminose di paesaggi lontani; presentano uno spettacolo così festoso e così nuovo che al primo vederlo vien voglia di batter le mani e di gridare: – Bravissimi! – come a scena di teatro.

Ed anche là, malgrado la confusione, è rarissimo il cogliere sul fatto un turco e una turca che amoreggino cogli occhi o si scambino dei sorrisi e dei gesti d’intelligenza. Là non esiste la galanteria coram populo come nei nostri paesi; non ci sono né le sentinelle melanconiche, che vanno e vengono sotto le finestre, né le retroguardie affannose che camminano per tre ore sulle orme delle loro belle. L’amore si fa tutto in casa. Se qualche volta, in una strada solitaria, si sorprende un giovane turco che guarda in su a una finestrina ingraticolata dietro la quale scintilla un occhietto nero o spunta una manina bianca, si può esser quasi certi che è un fidanzato. Ai fidanzati soli si permette il servizio di ronda e di scorta e tutte le altre fanciullaggini dell’amore ufficiale, come quella di parlarsi di lontano con un fiore, con un nastro, o per mezzo del colore d’un vestito o di una ciarpa. E in questo le turche sono maestre. Hanno migliaia di oggetti, tra fiori, frutti, erbe, penne, pietre, ciascuno dei quali possiede un significato convenuto, che è un epiteto o un verbo od anche una proposizione intera, in modo che possono mettere insieme una lettera con un mazzetto e dir mille cose con una scatolina o una borsa piena di oggettini svariatissimi, che paiono riuniti a caso; e siccome il significato d’ogni oggetto è per lo più espresso in un verso, così ogni amante è in grado di comporre una poesia amorosa od anche un poemetto polimetrico in cinque minuti. Un chiodetto di garofano, una striscia di carta, una fettina di pera, un pezzetto di sapone, un fiammifero, un po’ di fil d’oro e un grano di cannella e di pepe, vogliono dire: – È molto tempo che t’amo –, che ardo –, che languisco –, che muoio d’amore per te. – Dammi un po’ di speranza – non mi respingere – rispondimi una parola. – E oltre all’amore, c’è modo di dir mille cose: si possono far dei rimproveri, dar consigli, avvertimenti, notizie; ed è una grande occupazione delle giovanette, al tempo dei primi palpiti, quella d’imparare questo frasario simbolico, e di comporne delle lunghe lettere dirette a dei bei sultani ventenni, veduti in sogno. E fanno lo stesso per il linguaggio dei gesti, alcuni dei quali sono graziosissimi; quello che fa l’uomo, per esempio, fingendo di lacerarsi il petto con un pugnale, che significa: – Sono lacerato dalle furie dell’amore –; a cui la donna risponde lasciando cader le braccia lungo i fianchi, in modo che s’apra un poco dinanzi il feregé, che vuol dire: – Io t’apro le mie braccia. – Ma non c’è forse un Europeo che abbia mai visto far queste cose; le quali, d’altra parte, sono oramai piuttosto tradizioni che usi; e non s’imparano dai Turchi, i quali arrossirebbero di parlarne, ma da qualche ingenua hanum, che le confida a qualche amica cristiana.

Per questo mezzo pure si conosce il modo di vestire della donna turca fra le pareti dell’arem, quel bel costume capriccioso e pomposo, di cui tutti hanno un’idea, e che dà a ogni donna la dignità d’una principessa e la grazia d’una bambina. Noi non lo vedremo mai, eccetto che la moda lo porti nei nostri paesi, perché, se anche un giorno cadrà il feregé, le turche saranno allora vestite all’europea anche di sotto. Che rodimento per i pittori e che peccato per tutti! Bisogna raffigurarsi una bella turca «svelta come un cipresso» e colorita «di tutte le sfumature dei petali della rosa» con una berrettina di velluto rosso o di stoffa argentata, un po’ inclinata a destra; colle treccie nere giù per le spalle; con una veste di damasco bianco ricamata d’oro, colle maniche a gozzi e un lunghissimo strascico, aperta dinanzi in modo da lasciar vedere due grandi calzoni di seta rosea, che cascano con mille pieghe su due scarpettine ritorte in su alla cinese; con una cintura di raso verde intorno alla vita; con diamanti nelle collane, negli spilloni, nei braccialetti, nei fermagli, nelle trecce, nella nappina del berretto, sulle babbucce, sul collo della camicia, sulla cintura, intorno alla fronte; lampeggiante da capo a piedi come una madonna delle cattedrali spagnole, e adagiata, in un atteggiamento infantile, sopra un largo divano, in mezzo a una corona di belle schiave circasse, arabe e persiane, ravvolte, come statue antiche, in grandi vesti cadenti; – o immaginare una sposa «bianca come la cima dell’Olimpo», vestita di raso cilestrino e tutta coperta da un grande velo intessuto d’oro, seduta sopra un’ottomana imperlata, dinanzi alla quale lo sposo, inginocchiato sopra un tappeto di Teheran, fa la sua ultima preghiera prima di scoprire il suo tesoro; – o rappresentarsi una favorita innamorata, che aspetta il suo signore nella stanza più segreta dell’arem, non più vestita che della zuavina e dei calzoncini, che mettono in rilievo tutte le grazie del suo corpo flessibile, e le danno l’aspetto d’un bel paggio snello e elegante; e bisogna convenire che quei brutti turchi «riformati» colla testa pelata e il soprabito nero, hanno assai più di quello che meritano. Questo vestiario di casa, però, va soggetto ai capricci della moda. Le donne, non avendo altro da fare, passano il tempo a cercare nuove acconciature; si coprono di gale e di fronzoli, si mettono penne e nastri nei capelli, bende intorno al capo, pellicce intorno al collo e alle braccia; prendono qualcosa ad imprestito da tutti i vestimenti orientali; mescolano la moda europea colla moda turca; si mettono delle parrucche, si tingono i capelli di nero, di biondo, di rosso, si sbizzarriscono in mille modi e gareggiano fra di loro come le più sfrenate ambiziose delle grandi città europee. Se un giorno di festa, alle Acque dolci, si potessero far sparire con un colpo di bacchetta magica tutti i feregé e tutti i veli, si vedrebbero probabilmente delle turche vestite da regine asiatiche, altre da crestaine francesi, altre da gran signore in abbigliamento da ballo, altre da mercantesse in pompa magna, da vivandiere, da cavallerizze, da greche, da zingarelle: tante varietà di vestiario quante se ne vedono nel sesso mascolino sul ponte della Sultana Validè.

Gli appartamenti dove stanno queste belle e ricche maomettane corrispondono in qualche modo al loro vestiario seducente e bizzarro. Le stanze riserbate alle donne sono per lo più in bei siti, da cui si godono vedute meravigliose sulla campagna o sul mare o sopra una gran parte di Costantinopoli. Sotto, c’è un giardinetto chiuso da alti muri, rivestiti d’edera e di gelsomini; sopra, una terrazza; dalla parte della strada, dei camerini sporgenti e vetrati, come i miradores delle case spagnole. L’interno è delizioso. Sono quasi tutte piccole sale: i palchetti coperti di stuoie cinesi o di tappeti, i soffitti dipinti di frutti e di fiori, larghi divani lungo le pareti, una fontanella di marmo nel mezzo, vasi di fiori alle finestre, e quella luce vaga e soavissima, che è tutta propria della casa orientale, una luce di bosco, che so io? di claustro, di luogo sacro e gentile, che impone di camminare sulla punta dei piedi, di parlar con un filo di voce, di non dire che parole umili e dolci, di non discorrere che d’amore o di Dio. Questa luce languida, i profumi del giardino, il mormorio dell’acqua, le schiave che passano come ombre, il silenzio profondo che regna in tutta la casa, le montagne dell’Asia di cui si vede l’azzurro a traverso i fori delle grate e i rami del caprifoglio che fanno tenda alle finestre, destano nelle europee, che entrano fra quelle mura per la prima volta, un sentimento inesprimibile di dolcezza e di malinconia. La decorazione della maggior parte di questi arem è semplice e quasi severa; ma ve ne sono pure degli splendidissimi, colle pareti coperte di raso bianco rabescato d’oro, coi soffitti di cedro, colle grate dorate, con suppellettili preziose. Dalle suppellettili s’indovina la vita. Non si vedono che poltrone, ottomane grandi e piccine, piccoli tappeti, sgabelli, panchettini, cuscini di tutte le forme e materasse coperte di scialli e di broccati; un mobilio tutto mollezza e delicature, che dice in mille modi: – Siedi, allungati, ama, addormentati, sogna. – Ci si trovano qua e là degli specchietti a mano e dei larghi ventagli di penne di struzzo; dalle pareti pendono dei cibuk cesellati; ci son gabbie d’uccelli alle finestre, profumiere in mezzo alle stanze, orologi a musica sui tavolini, balocchi e gingilli d’ogni maniera, che accusano i mille capricci puerili d’una donnina sfaccendata che si secca. E non c’è soltanto il lusso delle cose apparenti. Ci son case in cui tutto il servizio da tavola è d’argento dorato, d’oro massiccio i vasi delle acque odorose, le serviette di raso frangiate d’oro, e brillanti e pietre preziose nelle posate, nelle tazze da caffè, nelle anfore, nelle pipe, nelle tappezzerie, nei ventagli; come ci son altre case, e in molto maggior numero, si capisce, in cui nulla o quasi nulla è mutato dall’antica tenda o capanna tartara, di cui tutta la masserizia sta sul dorso di un mulo, dove tutto è pronto per un nuovo pellegrinaggio a traverso l’Asia; case verginalmente maomettane ed austere, nelle quali, quando sia giunta l’ora della partenza, non suonerà che la voce pacata del padrone, che dirà: – Olsun! – Così sia! –

La casa turca è divisa, come tutti sanno, in due parti: l’arem e il selamlik. Il selamlik è la parte riserbata all’uomo. Qui egli ci lavora, ci desina, ci riceve gli amici, ci fa la siesta, e ci dorme la notte quando amore «non gli detta dentro». La donna non ci penetra mai. E come nel selamlik è padrone l’uomo, nell’arem è padrona la donna. Essa ne ha l’amministrazione ed il governo e ci fa quello che vuole fuorché ricevervi degli uomini. Quando non le garbi di ricevere suo marito, può anche fargli dire cortesemente che torni un’altra volta. Una sola porta e un piccolo corridoio dividono per lo più il selamlik dall’arem; eppure sono come due case lontanissime l’una dall’altra. Gli uomini vanno a visitar l’effendi e le donne vanno a trovar la hanum senza incontrarsi e senza sentirsi, e il più delle volte son gente sconosciuti gli uni agli altri. Le persone di servizio sono separate, e separate quasi sempre le cucine. Ciascuno si diverte e scialacqua per conto suo. Raramente il marito desina colla moglie, in ispecie quando ne ha più d’una. Non hanno nulla di comune fuorché il divano su cui s’avvicinano. L’uomo non entra quasi mai nell’arem come marito, ossia come compagno e come educatore dei figliuoli; non v’entra che come amante. Entrandovi, lascia sulla soglia, se può, tutti i pensieri che potrebbero turbare il piacere ch’egli va a cercarvi; tutta quella parte di sé stesso, che non ha che fare col suo desiderio di quel momento. Egli va là per dimenticare le cure o i dolori della giornata, o piuttosto per assopirne in sé il sentimento; non per domandar lume a una mente serena e conforto a un cuore gentile. Né la sua donna, sarebbe atta a quell’ufficio. Egli non si cura nemmeno di presentarsele circondato di quella qualsiasi gloria d’ingegno o di sapere o di potenza, che potrebbe renderlo più amabile. A che pro? Egli è il dio del tempio e l’adorazione gli è dovuta; non ha bisogno di farsi valere; la preferenza ch’egli dà alla donna che ricerca basta a far sì ch’essa gli dia con un sentimento di gratitudine che sembra amore l’amplesso desiderato da lui. «Donna» per lui significa «piacere». Quel nome porta il suo pensiero diritto a quel senso; è anzi quasi il nome stesso del senso; e per questo gli pare impudico il pronunziarlo, e non lo pronuncia mai; e se ha da dire: – M’è nata una femmina – dice: – M’è nata una velata, una nascosta, una straniera. – Così non ci può essere un’intimità vera fra loro, perché v’è sempre tra l’uno e l’altro come il velo del senso, il quale nasconde quegli infiniti segretissimi recessi dell’anima, che non si vedono se non a traverso la limpidezza d’una famigliarità lunga e tranquilla. Oltreché la donna, sempre preparata alla visita, abbigliata e atteggiata quasi per quel momento, intesa sempre a vincere una rivale o a conservare una predominanza che è continuamente in pericolo, dev’essere sempre un po’ cortigiana, far forza a sé stessa perché tutto sorrida intorno al suo signore, anche quando il suo cuore è triste, mostrargli sempre la maschera ridente d’una donna fortunata e felice, perchè egli non se ne uggisca e se ne sdia. Perciò il marito la conosce di rado come sposa, come non ha e non può averla conosciuta figliuola, sorella, amica; come non la conosce madre. Ed essa lascia così isterilire a poco a poco in sé medesima le qualità nobili che non può rivelare o che non le sono pregiate; s’abitua a non curare se non quello che le si cerca, e soffoca spesso risolutamente la voce del suo cuore e del suo spirito, per trovare in una certa sonnolenza di vita animalesca, se non la felicità, la pace. Ha, è vero, il conforto dei figliuoli, e il marito li cerca e li abbraccia dinanzi a lei; ma è un conforto amareggiato dal pensiero che forse, un’ora prima, egli ha baciato i figliuoli d’un’altra, che bacerà forse un’ora dopo quelli d’una terza, e che bacerà quelli d’una quarta tra qualche anno. L’amore d’amante, l’affetto di padre, l’amicizia, la confidenza, tutto è diviso e suddiviso, ed ha il suo orario, i suoi riguardi, le sue misure, le sue cerimonie; quindi tutto è freddo e insufficiente. E poi v’è sempre in fondo qualcosa di sprezzante e di mortalmente ingiurioso per la donna nell’amore del marito che le tiene ai fianchi un eunuco. Egli le dice in sostanza: – Io t’amo, tu sei «la mia gioia e la mia gloria», tu sei «la perla della mia casa»; ma sono sicuro che se questo mostro che ti sorveglia fosse un uomo, tu ti prostituiresti al tuo servitore.

Variano però grandemente le condizioni della vita coniugale secondo i mezzi pecuniari del marito, anche non tenuto conto di questo, che chi non ha mezzi di mantenere più d’una donna è costretto ad avere una moglie sola. Il ricco signore vive separato di casa e di spirito dalla moglie, perché può tenere un appartamento od anche una casa per lei sola, e perché, volendo ricevere amici, clienti, adulatori, senza che le sue donne siano viste o disturbate, è costretto ad avere una casa separata. Il turco di mezzo ceto, per ragioni d’economia, sta più vicino a sua moglie, la vede più sovente e vive con essa in maggiore famigliarità. Il turco povero, in fine, che è costretto a vivere nel minor spazio e colla minor spesa possibile, mangia, dorme, passa tutte le sue ore libere colla moglie e coi figliuoli. La ricchezza divide, la povertà unisce. Nella casa del povero non c’è differenza reale tra la vita della famiglia cristiana e quella della famiglia turca. La donna, che non può avere una schiava, lavora, e il lavoro rialza la sua dignità e la sua autorevolezza. Non è raro che essa vada a tirar fuori il marito ozioso dal caffè o dalla taverna, e che lo spinga a casa a colpi di pantofola. Si trattano da pari a pari, passano la sera l’uno accanto all’altro davanti alla porta di casa; nei quartieri più appartati, vanno sovente insieme a far le spese per la famiglia; e occorre molte volte di vedere, in un cimitero solitario, il marito e la moglie che fanno merenda vicino al cippo d’un parente, coi loro bambini intorno, come una famigliola d’operai dei nostri paesi. Ed è uno spettacolo più commovente appunto perché è più singolare. E non si può, vedendolo, non sentire che c’è qualcosa di necessario e d’universalmente ed eternamente bello in quel nodo d’anime e di corpi, in quel gruppo unico d’affetti; che non c’è posto per altri; che una nota di più in quell’armonia la guasta o la distrugge; che s’ha un bel dire e un bel fare, ma che la forza prima, l’elemento necessario, la pietra angolare d’una società ordinata e giusta è là; – che ogni altra combinazione d’affetti e d’interessi è fuori della natura; – che quella sola è una famiglia, e l’altra un armento; – che quella sola è una casa, e l’altra un lupanare.

E v’è chi dice che le donne orientali sono soddisfatte della poligamia e che non ne comprendono neppure l’ingiustizia. Per creder questo bisogna non conoscere, non dico l’Oriente, ma nemmeno l’anima umana. Se questo fosse vero, non seguirebbe quello che segue: cioè che non v’è quasi ragazza turca la quale, accettando la mano d’un uomo, non gli metta per condizione di non sposarne un’altra, lei viva; non ci sarebbero tante spose che ritornano alla loro famiglia quando il marito manca a quella promessa; e non ci sarebbe un proverbio turco che dice: – casa di quattro donne, barca nella burrasca. – Anche se è adorata da suo marito, la donna orientale non può che maledire la poligamia, per cui vive sempre con quella spada di Damocle sul capo, di avere di giorno in giorno una rivale, non nascosta o lontana e sempre colpevole, com’è necessariamente quella di una moglie europea; ma installata accanto a lei, in casa sua, col suo titolo, coi suoi stessi diritti; di vedere fors’anche una delle sue schiave, prescelta a odalisca, alzare tutt’a un tratto la fronte dinanzi a lei, e trattarla da eguale, e mettere al mondo dei figliuoli che hanno gli stessi diritti dei suoi. È impossibile che il suo cuore non senta l’ingiustizia di quella legge. Quando il marito amato da lei, le conduce in casa un’altra donna, essa avrà un bel pensare che, facendo questo, l’uomo non fa che valersi d’un diritto che gli dà il codice del Profeta. In fondo all’anima sua sentirà che v’è una legge più antica e più sacra che condanna quell’atto come un tradimento e una prepotenza, sentirà che quell’uomo non è più suo, che il nodo è sciolto, che la sua vita è spezzata, ch’essa ha il diritto di ribellarsi e di maledire. E se anche non ama suo marito, ha mille ragioni di detestare quella legge: l’interesse leso dei suoi figliuoli, il suo amor proprio ferito, la necessità in cui è posta, o di vivere abbandonata o di non essere più cercata dall’uomo che per compassione o per un desiderio senz’amore. Si dirà che la donna turca sa che queste cose accadono pure alla donna europea: è vero; ma sa pure che la donna europea non è costretta dalla legge civile e religiosa a rispettare e a chiamar sorella colei che le avvelena la vita, e che ha almeno la consolazione di esser considerata come una vittima, e che ha mille modi di consolarsi e di vendicarsi senza che il marito le possa dire, come può dire il poligamo a una delle sue mogli infedeli: – Io ho il diritto di amare cento donne, e tu hai il dovere di non amar che me solo.

È vero che la donna turca ha molte guarentigie dalla legge e molti privilegi per consuetudine. È generalmente rispettata con una certa forma di gentilezza cavalleresca. Nessun uomo oserebbe alzar la mano sopra una donna in mezzo alla via. Nessun soldato, anche nel tafferuglio d’una sedizione, s’arrischierebbe a maltrattare la più insolente delle popolane. Il marito tratta la moglie con una certa deferenza cerimoniosa. La madre è oggetto d’un culto particolare. Non c’è uomo che osi far lavorare la donna per campare sul suo lavoro. È lo sposo che assegna una dote alla sposa; essa non porta alla casa maritale che il suo corredo e qualche schiava. In caso di ripudio o di divorzio, il marito è obbligato a dare alla moglie tanto che basti per vivere senza disagio; e quest’obbligo lo trattiene da usar con lei dei cattivi trattamenti, che le diano il diritto d’ottenere la separazione. La facilità del divorzio rimedia in parte alle tristi conseguenze dei matrimoni, fatti quasi sempre alla cieca per effetto della costituzione speciale della società turca, nella quale i due sessi vivono divisi. Alla donna, per ottenere il divorzio, basta poca cosa: che il marito l’abbia maltrattata una volta, che l’abbia offesa parlando con altri, che l’abbia trascurata per un certo tempo. Quando essa ha da lagnarsi di suo marito, non ha che da presentare le sue lagnanze per scritto al tribunale; può, quando occorra, presentarsi in persona a un visir, al gran visir stesso, da cui è quasi sempre ricevuta e ascoltata senza ritardo e benignamente. Se non può andar d’accordo colle altre mogli, il marito è tenuto a darle una casa separata; e se anche va d’accordo, ha diritto a un appartamento per sé sola. L’uomo non può né sposare né far sue odalische le schiave che la moglie ha portato con sé dalla casa paterna. Una donna stata sedotta e abbandonata, può farsi sposare dal suo seduttore, se questi non ha già quattro mogli; e se ne ha quattro, farsi pigliare in casa come odalisca, e il padre deve riconoscere il figliuolo; il perché fra i turchi non ci son bastardi. Rarissimi i celibi, rarissime le vecchie ragazze; assai meno frequenti che non si creda i matrimoni forzati, perché la legge punisce i padri che se ne rendono colpevoli. Lo Stato dà una pensione alle vedove senza parenti e senza mezzi, e provvede alle orfane; molte bambine rimaste in mezzo alla strada, sono pure raccolte da signore ricche, che le educano e le maritano; è raro che una donna sia lasciata nella miseria. Tutto questo è vero ed è buono; ma non toglie che i Turchi ci facciano ridere quando vogliono confrontare con vantaggio la condizione sociale della loro donna a quella della nostra, e affermare la loro società immune dalla corruzione di cui accusano la società europea. Che valgono alla donna le forme del rispetto, se la sua condizione di moglie suppletoria è per sè stessa umiliante? Che le vale la facilità di divorziare e di rimaritarsi, se qualunque altro uomo la sposi, ha il diritto di metterla nelle condizioni medesime, per le quali s’è separata dal primo marito? Che gran cosa che l’uomo abbia l’obbligo di riconoscere il figlio illegittimo se non ha i mezzi di mantenerlo, e se può averne legittimamente cinquanta, ai quali, se non il nome, tocca di bastardi la miseria o l’abbandono? Ci dicono che non commettono infanticidi; ma li aborti voluti, per i quali hanno delle case apposite, chi li conta? Ci dicono che non hanno prostituzione. Ma come! E che altro mestiere è quello delle mille concubine causasse, comprate e rivendute cento volte? Dicono: non c’è almeno quella pubblica. Che baie! Murad III non avrebbe ordinato di mandare di là dal Bosforo tutte le donne di mala vita, e si sa che ne fu fatta una grande retata. Vorrebbero poi farci credere che è più facile ad uomo aver la fedeltà di quattro donne che di una sola? E darci ad intendere che il turco che ha quattro mogli, non commette più peccati fuori di casa e fuori della propria religione? E ci parleranno di moralità gli uomini più devoti alla nefanda voluptas che siano sulla terra?

Da tutto questo è facile argomentare che cosa siano le donne turche. Non sono la maggior parte che «femmine piacevoli». Le più non sanno che leggere e scrivere, e né leggono né scrivono; e sono creature miracolose quelle che hanno una superficialissima coltura. Già ai turchi, secondo i quali le donne «hanno i capelli lunghi e l’intelligenza corta», non garba ch’esse coltivino la mente perché non conviene che siano in nulla eguali o superiori a loro. Così, non ricavando istruzione dai libri, e non potendo riceverne dalla conversazione cogli uomini, rimangono in una crassa ignoranza. Dalla separazione dei due sessi nasce che all’uno manca qualche cosa di gentile e all’altro qualche cosa di alto: gli uomini diventano rozzi, le donne diventano comari. E non praticando della società altro che un piccolo cerchio donnesco, ritengono quasi tutte fino alla vecchiezza qualche cosa di puerile nelle idee e nelle maniere: una curiosità matta di mille cose, uno stupirsi di tutto, un fare un gran caso d’ogni inezia, una maldicenza piccina, un’abitudine di sdegni e di dispettucci da educande, un ridere sguaiato a tutti i propositi, e un divertirsi per ore a giochi bambineschi, come inseguirsi di stanza in stanza e strapparsi di bocca i confetti. È vero che hanno per contrapposto, per dirla alla rovescia dei francesi, la buona qualità nel difetto; ed è che sono nature schiette e trasparenti, dentro alle quali si legge alla prima; che sono quello che paiono, persone vere, come diceva la signora di Sevigné, non maschere, né caricature, né scimmie; donne aperte e tutte d’un pezzo anche nella tristizia; e se è vero che basta che una di esse giuri e spergiuri una cosa perché nessuno ci creda, vuol dire appunto che non hanno arte abbastanza per riuscire nell’inganno. E non è una piccola lode il dire anche che non ci sono fra loro né dottoresse pesanti, né maestruccole che non ciancino altro che di lingua e di stile, né creature vaporose che vivano fuori della vita. Ma è anche vero che in quella vita angusta, priva di alte ricreazioni dello spirito, nella quale rimane perpetuamente insoddisfatto il desiderio istintivo della gioventù e della bellezza, di essere ammirate e lodate, l’animo loro s’inasprisce; e che, non avendo il freno dell’educazione, corrono a qualunque eccesso, quando una brutta passione le muove. E l’ozio fomenta in loro mille capricci insensati, in cui s’ostinano con furore, e li vogliono appagati a qualunque prezzo. Oltreché, in quell’aria sensuale dell’arem, in quella compagnia di donne inferiori a loro di nascita e d’educazione, lontane dall’uomo che servirebbe loro di freno, s’assuefanno a una crudità indicibile di linguaggio, non conoscono le sfumature dell’espressione, dicono le cose senza velo, amano la parola che fa arrossire, lo scherzo inverecondo, l’equivoco plebeo; diventano sboccatamente mordaci ed insolenti; tanto che all’europeo che intende il turco, occorre qualche volta di sentire dalla bocca d’una hanum d’aspetto signorile, stizzita contro un bottegaio indiscreto o sgarbato, delle impertinenze che non sfuggono tra noi se non alle donne della specie peggiore. E questa loro acrimonia va crescendo col crescere delle loro relazioni colle donne europee o della loro conoscenza dei nostri costumi, che alimentano in esse lo spirito di ribellione; e quando sono amate, si vendicano con una tirannide capricciosa sui loro mariti della tirannide sociale a cui sono soggette. Molti hanno dipinte le donne turche tutte dolci, mansuete, peritose. Ma ci sono anche fra loro le anime ardite e feroci. Anche là, nelle sommosse popolari, si vedono le donne in prima linea; si armano, s’assembrano, arrestano le carrozze dei visir invisi, li coprono di contumelie, li pigliano a sassate e resistono alla forza. Sono dolci e mansuete, come tutte le donne, quando nessuna passione le rode o le accende. Trattano amorevolmente le schiave, se non ne sono gelose; dimostrano tenerezza pei figliuoli, benché non sappiano o non si curino d’educarli; contraggono fra di loro, specialmente quelle divise dai mariti o afflitte dallo stesso dolore, delle amicizie tenerissime, piene d’entusiasmo giovanile, e si dimostrano l’affetto reciproco vestendosi degli stessi colori, profumandosi colle medesime essenze, e facendosi dei nei della stessa forma. E qui potrei aggiungere quello che scrisse più d’una viaggiatrice europea, «che ci sono fra loro tutti i vizi di Babilonia»; ma mi ripugna, in una cosa così grave, l’affermare sulla fede altrui.

Quale è la loro indole, tali sono le loro maniere. Somigliano la maggior parte a quelle ragazze di buona famiglia, ma cresciute in campagna, le quali, nell’età in cui non sono più bambine e non sono ancora donne, commettono in società mille piacevolissime sconvenienze, per cui ogni momento si fanno far gli occhiacci dalla mamma. Bisogna sentirne parlare da una signora europea, che abbia visitato un arem. È una cosa comicissima. La hanum, per esempio, che nei primi minuti sarà stata seduta sopra il sofà nello stesso atteggiamento composto della sua visitatrice, tutt’a un tratto incrocicchierà le dita sopra la testa, o tirerà un lungo sbadiglio, o si piglierà un ginocchio tra le mani. Abituate alla libertà, per non dire alla licenza, dell’arem, agli atteggiamenti cascanti dell’ozio e della noia, e ammollite come sono dai lunghi bagni, si stancano subito d’una qualunque compostezza forzata. Si coricano sul divano, si voltano e si rivoltano continuamente attorcigliando e districando in mille modi il loro lunghissimo strascico, si raggomitolano, si pigliano i piedini in mano, si mettono un cuscino sulle ginocchia e i gomiti sul cuscino, s’allungano, si storcono, si stirano, fanno la gobbina come i gatti, rotolano dal divano sulla materassa, dalla materassa sul tappeto, dal tappeto sul marmo del pavimento, e s’addormentano dove il sonno le coglie come i bambini. Una viaggiatrice francese ha detto che hanno qualcosa del mollusco. Son quasi sempre in un atteggiamento da poterle prendere fra le braccia come una cosa rotonda. La loro posizione meno rilassata è quella di star sedute a gambe incrociate. E dicono che derivi appunto dallo star sedute quasi sempre in questa maniera, fin dall’infanzia, il difetto che hanno quasi tutte delle gambe un po’ arcate. Ma con che garbo si siedono! Si vede nei cimiteri e nei giardini. Cascano a piombo e rimangono sedute in terra, senza puntar le mani, immobili come statue, e si drizzano poi in piedi, senz’appoggiarsi, d’un sol tratto, come se scattassero. Ma è forse questo il loro solo movimento vivace. La grazia della donna turca è tutta nel riposo; – nell’arte di mettere in evidenza le belle curve con atteggiamenti stanchi d’addormentata, col capo arrovesciato indietro, coi capelli sciolti, colle braccia penzoloni, – l’arte che strappa l’oro e i gioielli al marito, e sconvolge il sangue e la ragione all’eunuco.

E lo studio di quest’arte non è l’ultimo dei mezzi con cui esse cercano di alleggerire la noia mortale che pesa sulla maggior parte degli arem; noia che deriva non tanto dalla mancanza d’occupazioni e di distrazioni, quanto dall’esser queste tutte d’un colore; come certi libri che, pure essendo svariati nella sostanza, seccano per l’uniformità dello stile. Per salvarsi dalla noia fanno di tutto; la loro giornata non è spesso che una lotta continua contro questo mostro ostinato. Sedute sui cuscini o sui tappeti, accanto alle loro schiave, orlano innumerevoli fazzoletti da regalare alle amiche, ricamano berretti da notte o borse da tabacco pei mariti, per i padri, e per i fratelli; fanno scorrere cento volte le pallottoline del tespì; contano fin al numero più alto a cui sanno contare; seguitano coll’occhio, per lunghi tratti, dai finestrini rotondi delle stanze alte, i bastimenti che passano sul Bosforo o sul Mar di Marmara, o si mettono a fantasticare ricchezze, libertà ed amori accompagnando collo sguardo le spire azzurrine del fumo della sigaretta. Quando son stanche della sigaretta assaporano nel cibuk i «biondi capelli del Latachié»; sazie di fumare, sorbono una tazzina di caffè di Siria; rosicchiano frutta e confetti; si fanno durare mezz’ora un gelato; poi fanno un’altra fumatina col narghilè profumato d’acqua di rosa; poi succhiano un po’ di mastico per levarsi il sapore del fumo; poi prendono la limonata per levarsi il sapore del mastico. Si vestono, si svestono, si mettono tutte le robe del loro cassettone, esperimentano tutte le tinture dei loro vasetti, si fanno e si disfanno dei nei in forma di stelle e di mezzelune, e combinano in tutte le maniere possibili una dozzina di specchi e di specchietti per vedersi da tutte le parti, finché si vengono in uggia. Allora due schiave di quindici anni ballano il balletto obbligato colle nacchere e col tamburello; una terza ripete per la centesima volta una canzonetta o una favola che sanno tutte a memoria; o le due solite maschiotte vestite da acrobata fanno la solita lotta, che finisce con un pattone sul pavimento e una risata senza sapore. Qualche volta c’è la novità d’una brigatella di ballerine egiziane, e allora è una piccola festa; qualche altra volta capita una zingara, e allora la hanum si fa dir la ventura sulla palma, o compera un talismano per esser sempre giovane, un decotto per aver figliuoli, un filtro per farsi amare. Stanno ore col viso alle grate a guardar la gente e i cani che passano, insegnano una parola nuova a un pappagallo, scendono in giardino a fare all’altalena, risalgono in casa a dir le preghiere, tornano a sdraiarsi sul divano per giocare alle carte, saltano su per ricever la visita d’una parente o d’un’amica, e allora ricomincia la solita sequela di caffè, di fumatine, di limonate, di merenduccie, di risate stanche e di sbadigli sonori, fin che l’amica se ne va, e l’eunuco, apparendo sulla soglia, dice a bassa voce: – L’Effendi. – Ah! finalmente! È proprio Allah che lo manda, foss’anche il più brutto marito di Stambul.

Questo segue negli arem dove c’è, se non altro, la pace; negli altri la noia è soffocata dal furore delle passioni, e vi si mena una vita affatto diversa. Regna la pace nell’arem in cui v’è una donna sola, amata da suo marito, il quale non bada alle schiave, e non ha intrighi fuor di casa. C’è pure, se non felicità, pace, negli arem dove sono parecchie mogli di carattere leggiero o freddo, indifferenti per il marito, il quale non fa differenza tra loro, che ricevono ciascuna alla propria volta le sue preferenze senza amore, senza gelosia e senza ambizione di predominio. Queste mogli di buona pasta cercano di cavare all’Effendi tutto il denaro che possono, stanno nella stessa casa, vivono d’accordo, si chiamano sorelle, si divertono insieme, e addio; la barca è fatta alla diavola, ma tanto e tanto va avanti. C’è ancora la pace, un’apparenza almeno di pace, negli arem dove la moglie posposta a una nuova venuta, si rassegna tristamente al suo destino, e pure rifiutando i ritagli d’amore che le vorrebbe dar suo marito, rimane amica sua, nella sua casa, e cerca un conforto nei figli, e vive in un raccoglimento dignitoso. Ma è un tutt’altro vivere negli arem dove ci sono donne di cuor fiero e di sangue ardente che non vogliono sottostare al trionfo d’una rivale, che non possono sopportar l’onta dell’abbandono, che non si rassegnano a veder posposti i propri figli a quelli d’un’altra madre. In questi arem c’è l’inferno. Qui si piange, si strepita, si spezzano porcellane e cristalli, si fanno morir delle schiave a colpi di spillo, si ordiscono delle congiure, si meditano dei delitti, e qualche volta si consumano: si avvelena, si stiletta, si gettano delle bocce di vetriolo nel viso; qui la vita non è che una trama orribile di persecuzioni, di odii implacabili, di guerre sorde e feroci. L’uomo che ha più mogli, in conclusione, o ne ama una sola davvero, e non ha la pace; o le ama tutte ad un modo per aver la pace, e non ha l’amore. E nell’un caso e nell’altro, va quasi sempre diritto alla rovina, poiché se fra le sue donne non c’è gelosia d’amore, c’è sempre gelosia d’amor proprio, rivalità d’ambizione, gara di splendidezze; ed egli non può regalare alla sua prediletta del giorno un gioiello o una carrozza o una villetta sul Bosforo, senza che ne nasca un sottosopra; il perché è costretto a far per tutte quello che vorrebbe fare per una, vale a dire a comprar la pace a peso d’oro. E quello che segue tra le donne, segue tra i figliuoli, i quali o son figli della madre negletta, e odiano; o son figli della favorita, e sono odiati. Ed è facile immaginare che educazione possono ricevere nell’arem, in quelle case piene di rancori e d’intrighi, in mezzo alle schiave e agli eunuchi, senza l’assistenza del padre, senza l’esempio del lavoro, in quell’aria bassa e sensuale; le ragazze in special modo, che s’avvezzano fin dai primi anni a fondare tutte le speranze della propria fortuna sopra le arti d’una seduzione per la quale è troppo alto l’epiteto di «amorosa», e che imparano queste arti dalla madre, e il rimanente dalle schiave, e il di più da Caragheuz.

Vi sono poi due altre specie di arem, oltre ai pacifici e ai tempestosi: l’arem del turco giovane e spregiudicato, che seconda le tendenze europee della moglie, e quello del turco o rigorista per sentimento proprio, o dominato da parenti, e in particolar modo da una vecchia madre, musulmana inflessibile, avversa ad ogni novità, che gli fa governar la casa a modo suo. Fra questi due arem corre una gran differenza. Il primo arieggia la casa d’una signora europea. C’è un pianoforte che la hanum impara a sonare da una maestra cristiana; ci son dei tavolini da lavoro, delle seggiole impagliate, un letto di mogogon, una scrivania; c’è appeso a una parete un bel ritratto a matita dell’Effendi fatto da un pittore italiano di Pera; c’è in un cantuccio uno scaffaletto con una ventina di libri, fra i quali un piccolo dizionario turco e francese e l’ultimo numero della Mode illustrée che la signora riceve di seconda mano dalla consolessa di Spagna. La signora possiede pure tutto l’occorrente per dipingere all’acquerello e dipinge con passione fiori e frutti. Essa assicura alle sue amiche che non ha un momento di noia. Tra un lavoro e l’altro scrive le sue memorie. A una cert’ora riceve il maestro di francese (un vecchio gobbo e sfiatato, s’intende) col quale fa esercizio di conversazione. Qualche volta viene a farle il ritratto una fotografa tedesca di Galata. Quando è malata, viene a visitarla un medico europeo, il quale può anche essere un bel giovane, chè il marito non è poi così bestialmente geloso come certi suoi amici antiquati. E viene una volta ogni tanto anche una modista francese a misurarle un vestito tagliato proprio sull’ultimo figurino del giornale della moda, col quale la signora vuol fare una bella sorpresa al marito la sera del giovedì, che è la sera sacramentale degli sposi musulmani, nella quale l’effendi ha una specie di cambiale galante da pagare alla sua «foglia di rosa». E l’effendi, che è uomo d’alto affare, le ha promesso di farle vedere dallo spiraglio d’una porta il primo gran ballo che darà nel prossimo inverno l’ambasciata d’Inghilterra. La hanum, insomma, è una signora europea di religione musulmana, e lo dice con compiacenza alle amiche: – Io vivo come una cocona, – come una cristiana; – e le amiche e le parenti sue professano almeno gli stessi principii, se non possono condurre la stessa vita, e fra lei e loro si discorre di mode e di teatri, si canzonano le «superstizioni», le «pedanterie», le «bigotterie della vecchia Turchia» e si finisce ogni discorso col dire che «è tempo di cominciare a vivere in una maniera più ragionevole». Ma nell’altro arem? Qui tutto è rigorosamente turco dal vestire della signora fino alla più piccola suppellettile. Di libri non c’entra che il Corano, di giornali non ci penetra che lo Stambul. Se la signora s’ammala, non si chiama il medico, ma una di quelle tante dottoresse turche, che hanno uno specifico miracoloso per tutti i mali. Se il padre e la madre della signora son gente infetta dalla tabe europea, non si permette loro di veder la figliuola che una volta la settimana. Tutte le aperture della casa sono bene ingraticolate e chiavistellate, e d’europeo non c’entra proprio altro che l’aria, eccetto il caso che la signora abbia avuto la disgrazia d’imparare un po’ di francese da bambina, ché allora la suocera è capace di metterle in mano un qualche romanzaccio della peggio specie, per poterle dir poi: – Lo vedete che bella società è quella che voi volete scimmiottare? che fior di roba produce? che belli esempi vi porge?

Eppure, la vita delle donne turche è piena d’accidenti, di brighe, di pettegolezzi, che a primo aspetto non si credono possibili in una società dove i due sessi non hanno comunicazione diretta fra loro. In un arem, per esempio, c’è la vecchia madre che vuol levar dal cuore di suo figlio una delle mogli per farci entrare la prediletta da lei, e cerca ogni modo di nascondergli i figliuoli di quella, e di farne trasandare l’educazione perché egli non ci ponga affetto, e non li preferisca a quei dell’altra. In un altro c’è una moglie, che non potendo staccare il marito dalla sua rivale per riaverne l’amore essa sola, cerca almeno di sfogare il proprio dispetto staccandolo da quella per un’altra, e a questo scopo cerca per mare e per terra una bella schiava da metter sotto gli occhi all’Effendi, perché se ne incapricci e tradisca con essa la sua favorita. Un’altra moglie, che fa per inclinazione naturale la sensale di matrimoni, s’ingegna di fare in maniera che un tale suo parente veda spesso una tale ragazza, e se ne innamori, e la sposi, e la rubi così al proprio mmarito,il quale cova da un pezzo il proposito di farla sua. Qui è un gruppo di signore che si quotano a un tanto ciascuna per regalare, con qualche secondo fine, una bella schiava al gran Visir o al Sultano; là sono altre signore, alto locate, che movendo mille fili segreti di parentele potenti, vengono a capo di quello che vogliono, e fanno cader nemici da alte cariche, e salirvi amici, e divorziar l’uno, e partire un altro per una provincia lontana. E benché ci sia meno commercio sociale che nelle nostre città, non si sanno meno che fra noi i fatti degli altri. La fama d’una donna spiritosa, o d’una gran maldicente, o d’una gelosa feroce, o d’una grulla, si spande molto al di là del cerchio dei conoscenti. Anche là i motti arguti e i bei giochi di parole, a cui la lingua turca si presta mirabilmente, corrono di bocca in bocca e fanno dei giri infiniti. Le nascite, le circoncisioni, i matrimoni, le feste, tutti i più piccoli avvenimenti che seguono nelle colonie europee e nel Serraglio, sono argomento di chiacchiere interminabili. Avete visto il nuovo cappellino dell’Ambasciatrice di Francia? Si sa nulla della bella schiava venuta dalla Georgia, che la Sultana Validè regalerà al Sultano il giorno del gran Beiram? È vero che la moglie di Ahmed-Pascià è uscita ieri l’altro cogli stivaletti all’europea guerniti di nappine di seta? Sono finalmente arrivati i vestiari da Parigi per la rappresentazione del Bourgeois gentilhomme al teatro del Serraglio? È una settimana che la moglie di Mahmud-effendi va a pregare ogni mattina nella moschea di Baiazet per ottenere la grazia di due gemelli. È seguito uno scandalo in casa del tal fotografo di via di Pera, perché Ahmed-effendi ci ha trovato il ritratto di sua moglie. La signora Aiscè beve vino. La signora Fatima s’è fatta fare dei biglietti di visita. La signora Hafiten è stata vista entrare alle tre e uscire alle quattro dalla bottega d’un franco. La piccola cronaca maligna circola con una rapidità incredibile fra quelle innumerevoli casette gialle e vermiglie, s’allaccia con quella della corte, si spande per Scutari, s’allunga sulle due rive del Bosforo fino al mar Nero, e arriva non di rado fino alle grandi città di provincia, di dove ritorna ricamata e frangiata a provocar nuove risate e nuovi pettegolezzi nei mille arem della metropoli.

Sarebbe un divertimento curioso, se ci fossero fra i turchi, come ce n’è fra noi, di quei gazzettini viventi del bel mondo, che conoscono tutti e sanno e propalano tutto; sarebbe un divertimento insieme e uno studio amenissimo dei costumi di Costantinopoli, l’andarsi a piantare con uno di costoro all’entrata delle Acque dolci d’Europa, un giorno di festa, e farsi dire una paroletta a proposito di tutte le persone notevoli per un verso o per l’altro che ci passerebbero davanti. Ma che importa che non si sia fatto? Le cose si sanno, le persone si possono immaginare. Per me è come se vedessi e sentissi in questo momento. La gente passa, e il turco accenna e ciancia. Quella signora lì s’è rotta che è poco con suo marito ed è andata a stare a Scutari; Scutari è il rifugio delle malcontente e delle imbronciate; è andata a stare con una sua amica, e ci starà fin che suo marito, il quale in fondo le vuol bene, le andrà ad annunziare che s’è sbarazzato della concubina, cagione della rottura, e la ricondurrà a casa pacificata. Questo effendi che passa è un impiegato del Ministero degli esteri, il quale per non aver che fare con parenti e parenti di parenti, che spesso mettono la discordia in casa, ha fatto come fanno tanti altri: ha sposato una schiava araba, che prende appunto in questi giorni le prime lezioni di lingua turca dalla sorella del marito. Quest’altra bella donnina è una divorziata, la quale aspetta che l’effendi tale abbia ripudiata una delle sue quattro mogli per andare a prendere il posto che le è stato promesso da un pezzo. Quell’altra laggiù è una signora che dopo aver fatto divorzio due volte dallo stesso marito, lo vuol sposare daccapo, e lui è d’accordo; e per far questo essa sposa fra qualche giorno, come vuole la legge, un altr’uomo, il quale sarà suo marito per una notte sola, e farà divorzio subito, dopo di che la bella capricciosa potrà celebrare il suo terzo matrimonio col primo sposo. Questa brunetta cogli occhi spiritati è una schiava abissina, stata regalata da una gran signora del Cairo a una gran signora di Stambul, la quale è morta, e le ha lasciato il posto di padrona di casa. Questo effendi di cinquant’anni è già stato marito di dieci donne. Questa vecchietta vestita di verde può vantarsi d’essere stata moglie legittima di dodici uomini. Quest’altra è una signora che si fa d’oro comprando ragazze di quattordici anni, a cui fa insegnare la musica, il ballo, il canto, le belle maniere della società signorile, e poi le rivende col guadagno del cinquecento per cento. Ecco là un’altra bella signora di cui posso dirvi il costo esatto: è una circassa che fu comprata a Tophané per cento e venti lire turche e rivenduta tre anni dopo per la bagattella di quattrocento. Questa qui che s’aggiusta il velo è passata per una trafila singolare: è stata prima schiava, poi odalisca, poi moglie, poi divorziata, poi moglie daccapo, e adesso è vedova e sta brigando per un nuovo matrimonio. Guardate questo effendi: è in una condizione curiosa; ve la do in mille a indovinare; sua moglie è innamorata d’un eunuco, e si dice che è capace di dare a suo marito una cattiva tazza di caffè, per andare a stare in pace coll’amante, e non sarebbe il primo esempio d’un amore così mostruosamente spirituale. Quello là è un negoziante che per ragioni di commercio ha sposate quattro donne, e ne tiene una a Costantinopoli, una a Trebisonda, una a Salonico e la quarta in Alessandria d’Egitto, ed ha così quattro porti amorosi in cui riparare al termine dei suoi viaggi. Questo bel pascià di ventiquattr’anni non era un mese fa che un povero ufficiale subalterno della guardia imperiale, e l’ha fatto pascià di sbalzo il Sultano per dargli in moglie una sua sorella; ma sconta i peccati degli altri mariti turchi, perché con una Sultana non si celia, e si sa che quella è «gelosa come un usignolo», e forse, se cercassimo bene tra la folla, troveremmo una schiava che lo pedina alla lontana per scoprir chi guarda e chi non guarda. Guardate questo bel fusto di donna: non c’è bisogno d’un occhio fine per accorgersi che è un fiore uscito dal Serraglio; è stata una bella del Sultano, e l’ha sposata mesi sono un impiegato del Ministero della guerra, che per mezzo suo ha ora un piede nella Corte e farà in poco tempo molta strada. Ecco là una bambina di cinque anni che fu fidanzata oggi a un ragazzo di otto; lo sposino è stato condotto dai parenti a farle visita, l’ha trovata di suo genio e ha fatto subito le furie perché un cuginetto alto un metro l’ha baciata in presenza sua. Ecco una vecchia strega che ieri l’altro ha fatto scannar due montoni in ringraziamento ad Allah perché la sbarazzò d’una nuora che detestava. Ecco là una medichessa briccona, a cui una signora ha messo nelle mani una delle sue schiave, incaricandola di farle andare a male il frutto d’un suo intrighetto coll’Effendi, poiché se la schiava mette al mondo una creatura, la padrona non la può più vendere e il padrone bisogna che se la tenga. Quest’altra è una donna dello stesso conio, a cui certi effendi danno di tratto in tratto l’incarico di verificare de visu se una schiava che vogliono pigliarsi in casa è proprio schietta farina. Quella là col viso tutto coperto e col feregé lilla, è la moglie d’un turco amico mio; ma non è turca, è cristiana, è va tutte le domeniche in chiesa; ma non ne dite nulla a nessuno, per riguardo a lei, non già per il marito, ché il Corano non proibisce di sposar le cristiane, e per purificarsi dall’abbraccio d’un infedele basta lavarsi il viso e le mani. Ah! che cos’abbiamo perduto! È passata una carrozza del Serraglio; c’era dentro la terza cadina del Sultano: ho riconosciuto il nastro color di rosa al collo dell’intendente: la terza cadina, regalo del pascià di Smirne, che ha i più grandi occhi e la più piccola bocca dell’impero; una figura sul gusto di questa piccola hanum col nasino arcato, che ieri offese Gesù e Maometto con un pittore inglese di mia conoscenza. La sciagurata! E pensare che quando i due angeli Nekir e Munkir giudicheranno l’anima sua, essa crederà di scusarsi colla solita bugia, dicendo che in quel momento aveva gli occhi chiusi e non riconobbe l’infedele!

Ma dunque ci sono delle turche infedeli? Se ce ne sono! Nonostante la gelosia degli effendi e la vigilanza degli eunuchi, nonostante i cento colpi di frusta che il Corano minaccia ai colpevoli, nonostante che i mariti turchi formino tra loro una specie di società di mutua assicurazione, e che segua là tutto l’opposto di quello che segue in altri paesi, dove par che tutti cospirino tacitamente a danno della felicità coniugale; si può quasi affermare che le «velate» di Costantinopoli non commettono meno peccati che le «non velate» di molte città cristiane. Se ciò non fosse, Caragheuz non avrebbe così spesso sulla bocca la parola kerata, la quale, tradotta in un nome storico, significa Menelao. O com’è possibile? È possibile in mille maniere. Già bisogna dire che donne nel Bosforo non se ne gettano più, né dentro un sacco, né senza sacco, e che i castighi del digiuno, del silenzio, del cilicio, delle bastonate sulle piante dei piedi, non son più che minacce di qualche kerata bestiale. La gelosia cerca d’impedire il tradimento; ma quando s’accorge di non esservi riuscita, non fa più né le furie né le vendette d’una volta, poiché ora è assai più difficile di tener nascoste le tragedie domestiche fra le mura della casa, e nella società musulmana è entrata, con molte altre forze europee, la forza del ridicolo, di cui la gelosia ha paura. E oltre a ciò la gelosia turca, che nella maggior parte dei casi è una gelosia fredda, corporale, d’amor proprio più che d’amore, è bensì severa, pesante, ed anche vendicativa; ma non può avere i mille occhi e l’attività investigatrice e infaticabile di quella che vien proprio dal vivo dell’anima innamorata. E poi chi vigila sulle donne separate dal marito, od anche non separate, ma che stanno in una casa a parte, dove egli non va tutti i giorni? Chi le segue per i vicoli intricati di Pera e di Galata e per i quartieri lontani di Stambul? Chi impedisce a un bell’aiutante di campo del Sultano di fare quel che gli vidi far io, di passar di galoppo accanto a una carrozza, alla svoltata d’uno stradone, nel punto in cui l’eunuco che è dinanzi gli volge le spalle e quello di dietro non può vederlo perché c’è la carrozza frammezzo, e di gettare passando un bigliettino nello sportello? E le sere del Ramazan che le donne stan fuori fino a mezzanotte? E le cocone compiacenti, specie quelle che stanno sul confine d’un sobborgo cristiano e d’un sobborgo musulmano, che ricevono in casa un’amica velata, senza chiuder la porta ad un amico europeo? Le avventure però non son più né strane né terribili come altre volte. Non ci son più le gran dame che di notte, dopo soddisfatto un capriccio, precipitano nel Bosforo per un trabocchetto il giovane di bottega che ha portata all’arem la stoffa comprata da loro la mattina; come faceva una Sultana del secolo scorso. Ora tutto procede prosaicamente. I primi convegni si danno per lo più nelle retrobotteghe. Si sa; ci sono da per tutto dei bottegai che fanno bottega d’ogni cosa. E non c’è da domandare se le autorità turche cerchino di impedire questi abusi. Basti il dire che delle prescrizioni per il buon ordine che dà la Polizia di Costantinopoli in occasione delle grandi feste, la maggior parte si riferiscono alle donne, e sono direttamente rivolte a loro in forma di consigli o di minacce. È proibito alle donne, per esempio, d’entrare nelle stanze interne delle botteghe: debbono stare in modo da esser viste dalla strada. È proibito alle donne di andare in tramway per divertimento: ossia debbono scendere al termine della corsa e non tornare subito indietro per la stessa via. È proibito alle donne di far segni alla gente che passa, di fermarsi qui, di passar per di là, di trattenersi più di quel certo tempo in quei dati luoghi: tutte prescrizioni che ognuno può immaginare come vengano poi rispettate e se sia possibile farle rispettare. E poi c’è quel benedetto velo, che fu istituito come una salvaguardia dell’uomo, e che ora è diventato una salvaguardia della donna, perché se lo mettono trasparente per far saltare i capricci, e fitto per poterli appagare; dal che si dice che nascano molti accidenti bizzarri: di amanti fortunati che dopo molto tempo non sanno ancora chi siano le loro belle; di donne che si nascondono sotto il nome d’un’altra per fare una vendetta; di corbellature, di riconoscimenti, d’imbrogli, che danno luogo a chiacchiere e a battibecchi infiniti.

Le chiacchiere vanno poi tutte a confondersi e a ribollire nelle case di bagni, che sono i luoghi usuali di convegno per le donne turche. Il bagno è in certo modo il loro teatro. Ci vanno a coppie e a brigate colle schiave, portando con sé cuscini, tappeti, oggetti di toeletta, ghiottonerie, e qualche volta il desinare, per starvi dalla mattina alla sera. Là, in quelle sale semioscure, fra i marmi e le fontane, si trovano qualche volta insieme più di duecento donne, nude come ninfe o mal velate, che a detta delle signore europee che ci furono, presentano uno spettacolo da far cadere il pennello di mano a cento pittori. Vi si vedono le hanum bianchissime accanto alle schiave nere come l’ebano; le belle matrone dalle forme poderose che rappresentano l’ideale della bellezza per i turchi di gusto antico; delle sposine smilze e giovanissime, coi capelli corti e ricciuti, che sembrano giovinetti; circasse coi capelli d’oro che cascano fino alle ginocchia; turche che hanno fino a cento trecce nerissime sparse per il seno e per le spalle; altre coi capelli divisi in un’infinità di piccole ciocche disordinate che fanno la figura d’una parrucca enorme; una con un amuleto al collo, un’altra con uno spicchio d’aglio legato al capo per scongiurare il mal d’occhio; delle mezze selvagge con rabeschi sopra le braccia; le donnine alla moda che hanno intorno alla vita le tracce del busto e intorno al collo del piede i segni dello stivaletto; e qualche volta anche delle povere schiave che mostrano sulle spalle le impronte del frustino degli eunuchi. Si vedono mille gruppi e mille atteggiamenti graziosi e bizzarri; alcune fumano sdraiate sui tappeti, altre si fanno pettinar dalle schiave, altre ricamano, altre canterellano, ridono, si spruzzano e si rincorrono, o strillano sotto le doccie, o gozzovigliano sedute in cerchio, o tagliano i panni al prossimo aggruppate in disparte. E scoprendo il loro corpo, scoprono anche, là più che altrove, la loro indole fanciullesca. Si misurano i piedini, si giudicano, si confrontano. Una dice francamente: – Son bella; – un’altra: – Son passabile: – un’altra: – Mi rincresce d’aver questo difetto – oppure: – Ma sai che sei più bella di me, tu? – E qualcuna dice in tuono di rimprovero all’amica: – Ma guarda dunque la signora Ferideh com’è diventata grassa a mangiar gamberi schiacciati, tu che dicevi che fanno meglio le pallottole di riso? – E quando c’è una cocona garbata la circondano e le fanno mille domande: – Ma è vero che andate ai balli scoperte fin qui? Il vostro effendi che cosa ne pensa? E gli altri uomini che cosa ne dicono? E come vi pigliate per ballare? In codesto modo? Ma davvero? Ma son proprio cose che bisognerebbe vederle per poterci credere!

E non solo nei bagni, ma per tutto e in tutte le occasioni cercano di conoscere signore europee, e son felici quando possono attaccar discorso con esse, e specialmente quando possono riceverle in casa. Allora radunano le amiche, mettono in vista tutte le donne di servizio, fanno un po’ di festa, rimpinzano la visitatrice di dolci e di frutti, e di rado la lasciano andar via senza un regalo. Il sentimento che le muove a queste dimostrazioni è più la curiosità, si capisce, che la benevolenza; e infatti, appena hanno preso un po’ di famigliarità colla nuova amica, si fanno dire mille particolari della vita europea, esaminano il suo vestiario parte per parte dal cappellino agli stivaletti, e non sono soddisfatte se non quando l’hanno condotta al bagno e hanno visto bene com’è fatta una nazarena, una di queste donne straordinarie, che studiano tante cose, che dipingono, che scrivono per le stampe, che lavorano negli uffici pubblici, che montano a cavallo, che salgono sulla cima delle montagne. Da molto tempo, però, non hanno più di loro le strane idee che avevano prima della riforma; non credono più, per esempio, che il busto sia una specie di corazza messa dai mariti alle mogli per assicurarsi della loro fedeltà, e di cui essi soli abbiano la chiave; né che le donne europee siano di tutti coloro con cui vanno una volta a braccetto; per il che le guardavano con diffidenza e ne parlavano con disprezzo, non invidiando nemmeno la loro coltura, di cui non avevano idea o che non erano in grado d’apprezzare. Ora nutrono invece per esse un tutt’altro sentimento, e son diventate diffidenti nel senso opposto; si vergognano, cioè, in faccia a loro, della propria ignoranza; temono di parer rozze o sciocche o puerili; e molte non s’abbandonano più coll’ingenuità confidente delle prime volte. Ma le imitano sempre più nel vestire e nei modi. Quelle che studiano una lingua europea, la studiano più per imitazione che per desiderio di sapere, o la studiano per parlare con le cristiane. Discorrendo, s’ingegnano d’incastrare nel turco qualche parola francese; quelle che non sanno quella lingua, fingono di saperla o almeno d’intenderla; sono beate di sentirsi chiamar madame; vanno apposta in certe botteghe di franchi per essere salutate con quel titolo; e Pera, la gran Pera le attira, come il lume le farfalle; attira i loro passi, le loro fantasie e i loro quattrini, e qualche volta anche i loro peccati. Per questo son smaniose di conoscer signore franche, che sono per esse come le rivelatrici d’un nuovo mondo. Da loro si fanno descrivere i grandi spettacoli dei teatri d’occidente, i balli splendidi, i bei conviti, i ricevimenti sontuosi delle gran dame, le avventure carnevalesche e i grandi viaggi, e tutte queste immagini luminose turbinano poi tutte insieme nella loro testina affaticata, fra le pareti uggiose dell’arem, all’ombra dei giardini malinconici; e come le donne europee sognano gli orizzonti sereni dell’Oriente, esse sospirano in quei momenti, la vita varia e febbrile dei nostri paesi, e darebbero tutte le meraviglie del Bosforo per un quartiere nebbioso di Parigi. Ma non è soltanto la vita varia e febbrile ch’esse sospirano; è anche, e più sovente e più intimamente desiderata, la vita domestica, il piccolo mondo della casa europea, il cerchio degli amici devoti, le mense coronate di figli, le belle vecchiezze onorate; quel santuario pieno di memorie, di confidenze e di tenerezze, che può render bella l’unione di due anime anche senza l’amore; al quale si ritorna anche dopo una lunga vita d’aberrazioni e di colpe; nel quale, anche fra i dolori del presente e le tempeste della giovinezza, il pensiero si rifugia e il cuore si conforta, come in una promessa di pace per gli anni più tardi, come nella bellezza d’un tramonto sereno contemplato dall’oscurità della valle.

Ma c’è una gran cosa da dire a conforto di tutti coloro che lamentano la sorte della donna turca, ed è che la poligamia decade di giorno in giorno. Già è stata considerata sempre dai turchi medesimi piuttosto come un abuso tollerabile che come diritto naturale dell’uomo. Maometto disse: – È sempre lodevole chi sposa una donna sola, – benché egli ne abbia sposato parecchie; e sposano infatti una donna sola tutti coloro che vogliono dar l’esempio di costumi onesti ed austeri. Chi n’ha più d’una, non è apertamente disapprovato, ma non è nemmeno lodato. Sono pochi i turchi che sostengono la poligamia apertamente, più rari quelli che l’approvino nella loro coscienza. Quasi tutti ne comprendono l’ingiustizia e le male conseguenze; molti la combattono a viso aperto e con ardore. Tutti coloro che sono in una condizione sociale che impone una certa rispettabilità di carattere e una qualche dignità di vita, non hanno che una donna. Ne hanno una sola gli alti impiegati dei ministeri, gli ufficiali dell’esercito, i magistrati, gli uomini di religione. Una sola, per necessità, tutti i poveri e quasi tutti gli uomini del mezzo ceto. Quattro quinti dei turchi di Costantinopoli non sono più poligami. Molti, è vero, non sposano che una donna per la mania d’imitar gli europei; e molti altri, che hanno una moglie sola, si rifanno colle odalische. Ma quella mania d’imitazione ha le sue prime radici in un sentimento confuso della necessità d’un cangiamento nella società musulmana; e l’uso delle odalische, apertamente biasimato come vizio, non può che scemare col ristringersi del commercio, ancora tollerato, delle schiave, fin che si confonderà colla corruzione ordinaria di tutti i paesi europei. Ne nascerà una corruzione maggiore? Ad altri la sentenza. Questo è il fatto: che la trasformazione europea della società turca non è possibile senza la redenzione della donna, che la redenzione della donna non si può compiere senza la caduta della poligamia, e che la poligamia cade. Nessuno forse leverebbe la voce, se la sopprimesse improvvisamente domani un decreto del Gran Signore. L’edifizio è crollato e non c’è più che da sgombrar le rovine. La nuova aurora tinge già di rosa le terrazze degli arem. Sperate, o belle hanum! Le porte del selamlik saranno spezzate, le grate cadranno, il feregé andrà a decorare i musei del gran bazar, l’eunuco non sarà più che una reminiscenza nera dell’infanzia, e voi mostrerete liberamente al mondo le grazie del vostro viso e i tesori della vostra anima; e allora, ogni volta che si nomineranno in Europa le «perle dell’Oriente», s’intenderà di nominar voi, o bianche hanum; voi, belle musulmane, colte, argute e gentili; non le inutili perle che brillano intorno alla vostra fronte in mezzo alle pompe fredde dell’arem. Coraggio, dunque! Il Sole si leva. Per me – e questo lo dico ai miei amici increduli – vecchio come sono, non ho ancora rinunziato alla speranza di dare il braccio alla moglie d’un pascià di passaggio per Torino, e di condurla a passeggiare sulle rive del Po, recitandole un capitolo dei Promessi Sposi.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

11- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Dolma Bagcè

11- Dolma Bagcè

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ogni venerdì il Sultano va a far le sue preghiere in una moschea di Costantinopoli.
Noi lo vedemmo un giorno che andò alla moschea d’Abdul-Megid, posta sulla riva europea del Bosforo, vicino al palazzo imperiale di Dolma Bagcé.
Per andare a Dolma Bagcé, da Galata, si passa per il quartiere popoloso di Top- hané, fra una grande fonderia di cannoni e un vasto arsenale; si percorre tutto il sobborgo musulmano di Funduclù, che occupa il luogo dell’antico Aïanteion, e si riesce in una piazza spaziosa, aperta verso il mare, di là dalla quale, lungo la riva del Bosforo, s’innalza il palazzo famoso dove risiedono i Sultani.

È la più grande mole di marmo che riflettano le acque dello stretto dalla collina del Serraglio alle bocche del Mar Nero, e non si abbraccia tutta con uno sguardo che passandovi davanti in caicco. La facciata, che si stende per la lunghezza di circa un mezzo miglio italiano, è rivolta verso l’Asia, e si vede biancheggiare a una grande distanza fra l’azzurro del mare e il verde cupo delle colline della riva. Non è propriamente un palazzo perché non c’è un unico concetto architettonico; le varie parti sono slegate e vi si mescolano in una confusione non mai veduta lo stile arabo, il greco, il gotico, il turco, il romano, quello del nascimento; e colla maestà dei palazzi reali d’Europa, la grazia quasi femminea delle moresche di Siviglia e di Granata. Piuttosto che il «palazzo» si potrebbe chiamare «la città imperiale» come quella dell’Imperatore della China; e più che per la vastità, per la forma, pare che debba essere abitato, non da un solo monarca, ma da dieci re fratelli od amici, che vi passino il tempo fra gli ozi e i piaceri. Dalla parte del Bosforo presenta una serie di facciate di teatri o di templi, sulle quali v’è una profusione indescrivibile d’ornamenti, buttati via, come dice un poeta turco, dalle mani d’un pazzo; che rammentano quelle favolose pagode indiane, su cui l’occhio si stanca al primo sguardo, e sembrano l’immagine degli infiniti capricci amorosi e fastosi dei principi sfrenati che vivono tra quelle mura. Sono file di colonne doriche e ioniche, leggiere come aste di lancia; finestre inquadrate in cornici a festoni e in colonnine accannellate; archi pieni di fogliami e di fiori che s’incurvano su porte coperte di ricami; terrazze gentili coi parapetti scolpiti a giorno; trofei, rosoni, viticci; ghirlande che s’annodano e s’intrecciano, vezzi di marmo che s’affollano sui cornicioni, lungo le finestre, intorno a tutti i rilievi; una rete d’arabeschi che si stende dalle porte ai frontoni, una fioritura, uno sfarzo e una finezza di fregi e di gale architettoniche, che danno ad ognuno dei piccoli palazzi di cui è composto il grande edifizio multiforme, l’apparenza d’un prodigioso lavoro di cesellatura. Pare che non debba essere un tranquillo architetto armeno quello che n’ebbe il primo concetto; ma un sultano innamorato il quale l’abbia visto in sogno, dormendo tra le braccia della più ambiziosa delle sue amanti. Dinanzi si stende una fila di pilastri monumentali di marmo bianco, uniti da cancellate dorate, che rappresentano un intreccio delicatissimo di rami e di fiori, e che viste di lontano sembrano cortine di trina, che il vento debba portar via. Lunghe gradinate marmoree discendono dalle porte alla sponda e si nascondono nel mare. Tutto è bianco, fresco, nitido come se il palazzo fosse fatto d’ieri. L’occhio d’un artista ci potrà vedere mille errori d’armonia e di gusto; ma l’insieme di quella mole smisurata e ricchissima, il primo aspetto di quella schiera di regge bianche come la neve, niellate come gioielli, coronate da quel verde, riflesse da quelle acque, lascia un’impressione di potenza, di mistero e d’amore, che fa quasi dimenticare la collina dell’antico Serraglio. Quelli che ebbero la fortuna di penetrare fra quelle mura, dicono che il di dentro corrisponde alla facciata: che son lunghe sfilate di sale dipinte a fresco di soggetti fantastici e di colori ridenti, con porte di cedro e d’acagiù scolpite e ornate d’oro, che s’aprono su interminabili corridoi rischiarati da una luce dolcissima, dai quali si va in altre sale colorate di foco da cupolette di cristallo porporino, e in stanze da bagno che sembrano scavate in un solo blocco di marmo di Paros; e di qui su terrazze aeree, che pendono sopra giardini misteriosi e sopra boschetti di cipressi e di rose, dai quali, per lunghe fughe di portici moreschi, si vede l’azzurro del mare; e finestre, terrazze, logge, chioschetti, tutto ribocca di fiori, per tutto c’è acqua che schizza e ricasca in piogge vaporose sulla verzura e sui marmi, e da ogni parte s’aprono vedute divine sul Bosforo, di cui l’aria viva spande in tutti i recessi della reggia enorme un delizioso fresco marino.

Dalla parte di Funduclù v’è una porta monumentale, sopraccarica d’ornamenti; il Sultano doveva uscire da quella porta e attraversare la piazza.

Non c’è altro re sulla terra che abbia una così bella piazza per fare una uscita solenne dalla sua reggia. Stando ai piedi della collina, si vede da un lato la porta del palazzo, che sembra un arco di trionfo d’una regina; dall’altro la moschea graziosa di Abdul-Megid, fiancheggiata da due minareti gentili, in faccia, il Bosforo; di là, le colline dell’Asia, verdissime, picchiettate d’infiniti colori dai chioschi, dai palazzi, dalle moschee, dalle ville, che presentano l’aspetto d’una grande città parata a festa; più lontano, la maestà ridente di Scutari, colla sua corona funebre di cipressi; e fra le due rive, un incrociarsi continuo di legni a vela, di navi da guerra imbandierate, di vaporini affollati che paiono colmi di fiori, di bastimenti asiatici di forme antiche e bizzarre, di lance del Serraglio, di barchette signorili, di stormi d’uccelli che radono le acque: una bellezza piena d’allegria e di vita, dinanzi alla quale lo straniero che aspetta l’uscita del corteo imperiale, non può che immaginare un Sultano bello come un angelo e sereno come un fanciullo.

Mezz’ora prima, v’erano già nella piazza due schiere di soldati vestiti alla zuava, che dovevano far ala al passaggio del Sultano, e un migliaio di curiosi. Non c’è nulla di più strano della raccolta di gente che si vede per il solito in quell’occasione. C’erano ferme qua e là parecchie splendide carrozze chiuse, con dentro delle turche «dell’alta signoria» guardate da giganteschi eunuchi a cavallo, immobili accanto gli sportelli; alcune signore inglesi in carrozze da nolo scoperte; varii crocchi di viaggiatori col cannocchiale a tracolla, fra i quali vidi il contino conquistatore dell’albergo di Bisanzio, venuto forse, il crudele! per fulminare d’uno sguardo di trionfo il suo rivale potente e infelice. Tra la folla giravano parecchie figure cappellute, con un album sotto il braccio, che mi parvero disegnatori venuti per schizzare furtivamente le sembianze imperiali. Vicino alla banda musicale c’era una bellissima signora francese, vestita un po’ stranamente, d’aspetto e di atteggiamenti arditi, che stava dinanzi a tutti, che doveva essere un’avventuriera cosmopolitica venuta là per dar nell’occhio al Gran Signore, poiché le si leggeva sul viso «la trepida gioia d’un gran disegno». C’erano di quei vecchi turchi, sudditi fanatici e sospettosi, che non mancano mai al passaggio del loro Sultano, perché vogliono proprio assicurarsi coi loro occhi che è vivo e sano per la gloria e la prosperità dell’universo; e il Sultano esce appunto ogni venerdì per dare al suo buon popolo una prova della propria esistenza, potendo accadere, come accadde più volte, che la sua morte naturale o violenta sia tenuta segreta da una congiura di corte. C’erano dei mendicanti, dei bellimbusti musulmani, degli eunuchi sfaccendati, dei dervis. Fra questi notai un vecchio alto e sparuto, dagli occhi terribili, immobile, che guardava verso la porta del palazzo con un’espressione sinistra; e pensai che aspettasse il Sultano per piantarglisi davanti e gridargli in faccia come il dervis delle Orientali al Pascià Alì di Tepeleni: – Tu non sei che un cane e un maledetto! – Ma di questi ardimenti sublimi non si dà più esempio dopo la sciabolata famosa di Mahmud.

C’erano poi vari gruppi di donnine turche, in disparte, che parevano gruppi di maschere, e quella solita accozzaglia di comparse da palco scenico che è la folla di Costantinopoli. Tutte le teste si profilavano sull’azzurro del Bosforo, e probabilmente tutte le bocche dicevano le stesse parole.

Si cominciava a parlare appunto in quei giorni delle stravaganze d’Abdul Aziz. Già da un pezzo si parlava della sua insaziabile avidità di denaro. Il popolo diceva: – Mamhud avido di sangue, Abdul-Megid di donne, Abdul-Aziz d’oro. – Tutte le speranze che s’erano fondate su di lui, principe imperiale, quando, ammazzando un bue con un pugno, diceva: – Così ammazzerò la barbarie, – erano già svanite d’un pezzo. Le tendenze a una vita semplice e severa, di cui aveva dato prova nei primi anni del suo regno, amando, come si diceva, una donna sola, e ristringendo inesorabilmente le spese enormi del Serraglio, non erano più che una memoria. Forse erano anche anni ed anni che aveva smesso affatto quegli studi di legislazione, d’arte militare e di letteratura europea, di cui s’era fatto tanto scalpore, come se in essi riposassero tutte le speranze della rigenerazione dell’Impero. Da molto tempo non pensava più che a sé stesso. Ogni momento correva la voce di qualche sua escandescenza contro il ministro delle finanze che non voleva o non poteva dargli tutto il denaro ch’egli avrebbe voluto. Alla prima obbiezione scaraventava addosso alla malcapitata Eccellenza il primo oggetto che gli cadeva nelle mani, recitando per filo e per segno, con quanta voce aveva in gola, la formola antica del giuramento imperiale: per il Dio creatore del cielo e della terra, per il profeta Maometto, per le sette varianti del Corano, per i centoventiquattromila profeti di Dio, per l’anima di mio nonno e per l’anima di mio padre, per i miei figli e per la mia spada, portami del danaro o faccio piantare la tua testa sulla punta del più alto minareto di Stambul. E per un verso o per un altro veniva a capo di quel che voleva, e il danaro estorto in quella maniera, ora lo ammucchiava e se lo covava gelosamente come un avaro volgare, ora lo profondeva a piene mani in capricci puerili. Oggi era il capriccio dei leoni, domani delle tigri, e mandava incettatori nelle Indie e nell’Affrica; poi per un mese filato cinquecento pappagalli facevano risonare i giardini imperiali della stessa parola; poi gli pigliava il furore delle carrozze e dei pianoforti che voleva far sonare sorretti dalla schiena di quattro schiavi; poi la mania dei combattimenti dei galli, a cui assisteva con entusiasmo, e appendeva di sua mano una medaglia al collo dei vincitori, e cacciava in esilio, di là dal Bosforo, i vinti; poi la passione del gioco, dei chioschi, dei quadri; la corte pareva tornata ai tempi del primo Ibraim; ma il povero principe non trovava pace, non faceva che passare da una noia mortale a un’inquietudine tormentosa; era torbido e triste; pareva che presentisse la fine infelice che lo aspettava. A volte si ficcava nel capo di dover morire avvelenato, e per un pezzo, diffidando di tutti, non mangiava più che uova sode; altre volte, preso dal terrore degl’incendi, faceva togliere dalle sue stanze tutti gli oggetti di legno, persino le cornici degli specchi. In quel tempo appunto si diceva che, per paura del fuoco, leggesse di notte al lume d’una candela piantata in un secchio d’acqua. E malgrado queste follie, di cui si diceva che fosse la prima cagione una cagione che non c’è bisogno di dire, egli conservava tutta la forza imperiosa della volontà antica, e sapeva farsi obbedire e faceva tremare i più arditi. La sola persona che potesse sull’animo suo era sua madre, donna d’indole altera e vana, che nei primi anni del suo regno faceva coprire di tappeti di broccato le strade dove passava suo figlio per andare alla moschea, e il giorno dopo regalava tutti quei tappeti agli schiavi che li andavano a levare. Però, anche nel disordine della sua vita affannosa, fra l’uno e l’altro dei suoi grandi capricci, Abdul Aziz aveva pure dei capricci piccolissimi, come quello di volere sopra una data porta un dipinto a fresco di natura morta, con quei certi frutti e quei certi fiori, combinati in quella data maniera, e prescriveva accuratamente ogni cosa al pittore, e stava là lungo tempo a contare le pennellate, come se non avesse altro pensiero al mondo. Di tutte queste bizzarrie, frangiate chi sa come dalle mille bocche del Serraglio, tutta la città parlava, e forse fin d’allora s’andavano raccogliendo le prime fila della congiura che lo rovesciò dal trono due anni dopo. La sua caduta, come dicono i Musulmani, era già scritta, e con essa la sentenza che fu poi pronunziata sopra di lui e sopra il suo regno. La quale non è molto diversa da quella che si potrebbe dare su quasi tutti i Sultani degli ultimi tempi. Principi imperiali, spinti verso la civiltà europea da un’educazione superficiale, ma varia e libera, e dal fervore della giovinezza desiderosa di novità e di gloria, vagheggiano, prima di salire sul trono, grandi disegni di riforme e di rinnovamenti, e fanno il proposito fermo e sincero di dedicare a quel fine tutta la loro vita, che dovrà essere una vita austera di lavoro e di lotta. Ma dopo qualche anno di regno e di lotte inutili, circondati da mille oracoli, inceppati da tradizioni e da consuetudini avversati dagli uomini e dalle cose, spaventati dalla grandezza non prima misurata dell’impresa, se ne sdanno sfiduciati, per domandare ai piaceri quello che non possono avere dalla gloria, e perdono a poco a poco, in una vita tutta sensuale, perfino la memoria dei primi propositi e la coscienza del loro avvilimento. Così accade che al sorgere d’ogni nuovo Sultano si faccia sempre, e non senza fondamento, un pronostico felice a cui segue sempre un disinganno.

Abdul-Aziz non si fece aspettare. All’ora fissata, s’udì uno squillo di tromba, la banda intonò una marcia di guerra, i soldati presentarono le armi, un drappello di lancieri uscì improvvisamente dalla porta del palazzo, e si vide apparire il Sultano a cavallo, che venne innanzi lentamente, seguito dal suo corteo.

Mi passò dinanzi a pochi passi, ed ebbi tutto il tempo di considerarlo attentamente.

La mia immaginazione fu stranamente delusa.

Il re dei re, il sultano scialacquatore, violento, capriccioso, imperioso, – che era allora

sui quarantaquattr’anni, – aveva l’aspetto di una buonissima pasta di turco, che si trovasse a fare il sultano senza saperlo. Era un uomo tarchiato e grasso, un bel faccione con due grandi occhi sereni e una barba intera e corta, già un po’ brizzolata di bianco; aveva una fisonomia aperta e mansueta, un atteggiamento naturalissimo, quasi trascurato; e uno sguardo quieto e lento in cui non appariva la minima preoccupazione dei mille sguardi che gli erano addosso. Montava un cavallo grigio bardato d’oro, di bellissime forme, tenuto per le briglie da due palafrenieri sfolgoranti. Il corteo lo seguiva a grande distanza, e da questo solo si poteva capire che era il Sultano. Il suo vestimento era modestissimo. Aveva un semplice fez, un lungo soprabito di color scuro abbottonato fin sotto il mento, un paio di calzoni chiari e gli stivali di marocchino. Veniva innanzi lentissimamente, guardando intorno con un’espressione tra benevola e stanca, come se volesse dire agli spettatori: – Ah! se sapeste come mi secco! – I musulmani s’inchinavano profondamente; molti europei si levavano il cappello: egli non restituì il saluto a nessuno. Passando dinanzi a noi, diede uno sguardo a un ufficiale d’alta statura che lo salutava colla sciabola, un altro sguardo al Bosforo, e poi uno sguardo più lungo a due giovani signore inglesi che lo guardavano da una carrozza, e che si fecero rosse come due fragole. Osservai che aveva la mano bianca e ben fatta, ed era appunto la mano destra, colla quale, due anni dopo, si aperse le vene nel bagno. Dietro di lui passò uno stuolo di pascià, di cortigiani, di pezzi grossi, a cavallo; quasi tutti omaccioni con gran barbe nere, vestiti senza pompa, silenziosi, gravi, cupi, come se accompagnassero un convoglio funebre; dopo, un drappello di palafrenieri che conducevano a mano dei cavalli superbi; poi uno stuolo d’ufficiali a piedi col petto coperto di cordoni d’oro; passati i quali, i soldati abbassarono le armi, la folla si sparpagliò per la piazza, ed io rimasi là immobile, cogli occhi fissi sulla cima del monte Bulgurlù, pensando alla singolarissima condizione in cui si trova un sultano di Stambul.

È un monarca maomettano, pensavo, e ha la reggia ai piedi di una città cristiana, Pera, che gli torreggia sul capo. È sovrano assoluto d’uno dei più vasti imperi del mondo, e ci sono nella sua metropoli, poco lontano da lui, dentro ai grandi palazzi che sovrastano al suo Serraglio, quattro o cinque stranieri cerimoniosi che la fanno da padroni in casa sua, e che trattando con lui, nascondono sotto un linguaggio reverente una minaccia perpetua che lo fa tremare. Ha nelle mani un potere smisurato, gli averi e la vita di milioni di sudditi, il mezzo di soddisfare i suoi più pazzi desideri, e non può cambiare la forma della sua copertura di capo. È circondato da un esercito di cortigiani e di guardie, che bacerebbero l’orma dei suoi piedi, e trema continuamente per la propria vita e per quella dei suoi figliuoli. Possiede mille donne fra le più belle donne della terra, ed egli solo, tra tutti i musulmani del suo impero, non può dare la mano di sposo a una donna libera, non può aver che figli di schiave, ed è chiamato egli stesso: – Figlio di schiava, – da quello stesso popolo che lo chiama «ombra di Dio». Il suo nome suona riverito e terribile dagli ultimi confini della Tartaria agli ultimi confini del Maghreb, e nella sua stessa metropoli v’è un popolo innumerevole, e sempre crescente, su cui non ha ombra di potere e che si ride di lui, della sua forza e della sua fede. Su tutta la faccia del suo immenso impero, fra le tribù più miserabili delle provincie più lontane, nelle moschee e nei conventi più solitarii delle terre più selvaggie, si prega ardentemente per la sua vita e per la sua gloria; ed egli non può fare un passo nei suoi stati, senza trovarsi in mezzo a nemici che lo esecrano e che invocano sul suo capo la vendetta di Dio. Per tutta la parte del mondo che si stende dinanzi alla sua reggia, egli è uno dei più augusti e più formidabili monarchi dell’universo; per quella che gli si stende alle spalle, è il più debole, il più pusillo, il più miserevole uomo che porti una corona sul capo. Una corrente enorme d’idee, di volontà, di forze contrarie alla natura e alle tradizioni della sua potenza, lo avvolge, lo soverchia, trasforma sotto di lui, intorno a lui, suo malgrado, senza che se n’avveda, consuetudini, leggi, usi, credenze, uomini, ogni cosa. Ed egli è là, tra l’Europa e l’Asia, nel suo smisurato palazzo bagnato dal mare, come in una nave pronta a far vela, in mezzo a una confusione infinita d’idee e di cose, circondato d’un fasto favoloso e d’una miseria immensa, già non più né due né uno, non più vero musulmano, non ancora vero europeo, regnante sopra un popolo già in parte mutato, barbaro di sangue, civile d’aspetto, bifronte come Giano, servito come un nume, sorvegliato come uno schiavo, adorato, insidiato, accecato, e intanto ogni giorno che passa spegne un raggio della sua aureola e stacca una pietra dal suo piedestallo. A me pare che se fossi in lui, stanco di quella condizione così singolare nel mondo, sazio di piaceri, stomacato d’adulazioni, affranco dai sospetti, indignato di quella sovranità malsicura ed oziosa sopra quel disordine senza nome, qualche volta, nell’ora in cui l’enorme Serraglio è immerso nel sonno, mi butterei a nuoto nel Bosforo come un galeotto fuggitivo, e andrei a passar la notte in una taverna di Galata in mezzo a una brigata di marinai, con un bicchiere di birra in mano e una pipa di gesso fra i denti, urlando la marsigliese.

Dopo una mezz’ora, il Sultano ripassò rapidamente in carrozza chiusa, seguito da un drappello d’ufficiali a piedi, e lo spettacolo fu finito. Di tutto, quello che mi fece un senso più vivo, furono quegli ufficiali in grande uniforme, che correvano saltellando, come una frotta di lacchè, dietro la carrozza imperiale. Non vidi mai una prostituzione simile della divisa militare.

Questo spettacolo del passaggio del Sultano è ora, come si vede, una cosa assai meschina. I sultani d’altri tempi uscivano in gran pompa, preceduti e seguiti da un nuvolo di cavalieri, di schiavi, di guardie dei giardini, d’eunuchi, di ciambellani, che visti di lontano, presentavano l’aspetto, come dicevano i cronisti entusiastici, «d’una vasta aiuola di tulipani.» I sultani d’oggi invece par che rifuggano dalle pompe come da un’ostentazione teatrale della grandezza perduta. Io mi domando sovente che cosa direbbe uno di quei primi monarchi se, risorgendo per un momento dal suo sepolcro di Brussa o dal suo turbè di Stambul, vedesse passare uno di questi suoi nipoti del secolo diciannovesimo, insaccato in un soprabito nero, senza turbante, senza spada, senza gemme, in mezzo a una folla di stranieri insolenti. Io credo che arrossirebbe di rabbia e di vergogna, e che in segno di supremo disprezzo gli farebbe, come Solimano I ad Hassan, tagliare la barba a colpi di scimitarra, che è la più crudele ingiuria che si passa fare a un osmano. E veramente, fra i sultani d’ora e quei primi, i cui nomi risonarono in Europa tra il secolo XII e il XVI come scoppi di folgore, corre la stessa differenza che tra l’impero ottomano dei nostri giorni e quello dei primi secoli. Quelli raccoglievano davvero in sé la gioventù, la bellezza e il vigore della loro razza; e non erano soltanto un’immagine vivente del proprio popolo, una bella insegna, una perla preziosa della spada dell’islamismo; ma ne costituivano per sé soli una vera forza, e tale, che non c’è chi possa disconoscere nelle loro qualità personali una delle cagioni più efficaci del meraviglioso incremento della potenza ottomana. Il più bel periodo è quello della prima giovinezza della dinastia che abbraccia centonovantatrè anni da Osmano a Maometto II. Quella fu davvero una catena di principi fortissimi, e fatta una sola eccezione, e tenuto conto dei tempi e delle condizioni della razza, austeri e saggi e amati dai propri sudditi; spesso feroci, ma di rado ingiusti, e sovente anche generosi e benefici verso i nemici; e tutti poi quali si capisce che dovessero essere dei principi di quella gente, belli e tremendi d’aspetto, leoni veri, come le loro madri li chiamavano «di cui il ruggito faceva tremare la terra.» Gli Abdul-Megid, gli Abdul-Aziz, i Murad, gli Hamid non sono che larve di padiscià in confronto di quei giovani formidabili, figli di madri di quindici e di padri di diciott’anni, nati dal fiore del sangue tartaro e dal fiore della bellezza greca, persiana, caucasea. A quattordici anni comandavano eserciti e governavano provincie, e ricevevano in premio dalle proprie madri delle schiave belle ed ardenti come loro. A sedici anni erano già padri, a settanta lo diventavano ancora. Ma l’amore non infiacchiva in loro la tempra gagliardissima dell’animo e delle membra. L’animo era di ferro, dicevano i poeti, e il corpo era d’acciaio. Avevano tutti certi tratti comuni, che si perdettero poi nei loro nipoti degeneri: la fronte alta, le sopracciglia arcate e riunite come quelle dei persiani, gli occhi azzurrini dei figli delle steppe, il naso che si curvava sulla bocca purpurea «come il becco d’un pappagallo sopra una ciliegia» e foltissime barbe nere, per le quali i poeti del serraglio si stillavano a cercar paragoni gentili o terribili. Avevano «lo sguardo dell’aquila di monte Tauro e la forza del re del deserto; colli di toro, larghissime spalle, petti sporgenti che poteva contenere tutta l’ira guerriera dei loro popoli», braccia lunghissime, articolazioni colossali, gambe corte ed arcate, che facevano nitrir di dolore i più vigorosi cavalli turcomanni, e grandi mani irsute che palleggiavano come canne le mazze e gli archi enormi dei loro soldati di bronzo. E portavano dei soprannomi degni di loro: il lottatore, il campione, la folgore, lo stritolatore d’ossa, lo spargitore di sangue. La guerra era dopo Allà il primo dei loro pensieri, e la morte era l’ultimo. Non avevano il genio dei grandi capitani, ma erano dotati tutti di quella prontezza di risoluzione che quasi sempre vi supplisce, e di quella feroce ostinatezza che consegue non di rado i medesimi effetti. Trasvolavano, come furie alate, pei campi di battaglia, mostrando di lontano le lunghe penne d’airone confitte nei turbanti candidi, e gli ampi caffettani tessuti d’oro e di porpora, e i loro urli selvaggi ricacciavano innanzi le schiere macellate dalla mitraglia serba e tedesca, quando non bastavano più i nerbi di bue di mille sciaù furibondi. Lanciavano i loro cavalli a nuoto nei fiumi mulinando al disopra delle acque le scimitarre stillanti di sangue; afferravano per la strozza e stramazzavano di sella, passando, i pascià infingardi o vigliacchi; balzavano giù da cavallo, nelle rotte, e piantavano i loro pugnali scintillanti di rubini nel dorso dei soldati fuggiaschi; e feriti a morte, salivano, comprimendo la ferita, sopra un rialto del campo, per mostrare ai loro giannizzeri il volto smorto ma ancora minacciane e imperioso, finché cadevano ruggendo di rabbia ma non di dolore. Quale doveva essere il sentimento di quelle loro giovanette circasse o persiane appena uscite dalla puerizia, quando per la prima volta, la sera d’un giorno di battaglia, sotto una tenda purpurea, al lume velato d’una lampada, si vedevano comparire davanti uno di quei sultani spaventosi e superbi, inebbriati dalla vittoria e dal sangue? Ma allora essi diventavano dolci e amorosi, e stringendo quelle mani infantili nelle loro gigantesche mani ancora convulse dalla stretta della spada, cercavano mille immagini dai fiori dei loro giardini, dalle perle dei loro pugnali, dai più belli uccelli dei loro boschi, dai più bei colori delle aurore dell’Anatolia e della Mesopotamia per lodare la bellezza delle loro schiave tremanti, fin che esse prendevano animo, e rispondevano nel loro linguaggio appassionato e fantastico: – Corona del mio capo! Gloria della mia vita! Mio dolce e tremendo Signore! Che il tuo volto sia sempre bianco e splendido nei due mondi dell’Asia e dell’Europa! Che la vittoria ti segua da per tutto dove ti porterà il tuo cavallo! Che la tua ombra si stenda sopra tutta la terra! Io vorrei essere una rosa per olezzare sulla cima del tuo turbante, o una farfalla per battere le ali sulla tua fronte! – E poi, colla voce velata, raccontavano a quei grandi amanti appagati, che s’assopivano sul loro seno, le loro storie fanciullesche di palazzi di smeraldo e di montagne d’oro, mentre intorno alla tenda, per la campagna insanguinata ed oscura, l’esercito feroce dormiva. Ma essi lasciavano ogni mollezza sulla soglia dell’arem, e uscivano da quegli amori più fieri e più ardenti. Erano dolci nell’arem, feroci sul campo, umili nella moschea, superbi sul trono. Di qui parlavano un linguaggio pieno d’iperboli sfolgoranti e di minacce fulminee, ed ogni loro sentenza era una sentenza irrevocabile che bandiva una guerra, o innalzava un uomo all’apice della fortuna, o faceva rotolare una testa ai piedi del trono, o scatenava un uragano di ferro o di foco sopra una provincia ribelle. Così turbinando dalla Persia al Danubio e dall’Arabia alla Macedonia, fra le battaglie, i trionfi, le cacce, gli amori, passavano dal fiore degli anni a una virilità più bollente e più audace della giovinezza, e poi a una vecchiaia della quale non s’accorgeva né il seno delle loro belle né il dorso dei loro cavalli né l’elsa della loro spada. E non solo nella vecchiaia, anche nell’età verde avveniva qualche volta che, oppressi dal sentimento della loro mostruosa potenza, sgomentati tutt’a un tratto, nel furore delle vittorie e dei trionfi, dalla coscienza d’una responsabilità più che umana, e presi da una specie di terrore nella solitudine della propria altezza, si volgevano con tutta l’anima a Dio, e passavano i giorni e le notti nei recessi oscuri dei loro giardini a comporre poesie religiose, o andavano a meditare il Corano sulle rive del mare o a ballare le ridde frenetiche dei dervis o a macerarsi coi digiuni e coi cilici nella caverna d’un vecchio eremita. E come nella vita, così nella morte si presentarono quasi tutti ai loro popoli in una figura o venerabile o tremenda, sia che morissero colla serenità dei santi come il capo della dinastia, o carichi d’anni di gloria e di tristezza come Orkano, o del pugnale d’un traditore come Murad I, o nella disperazione dell’esilio come Baiazet, o conversando placidamente fra una corona di dotti e di poeti come il primo Maometto, o del dolore d’una sconfitta come il secondo Murad; e si può dir con sicurezza che i loro fantasmi minacciosi sono quanto rimarrà di più grande e di più poetico sugli orizzonti color di sangue della storia ottomana.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

10- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Santa Sofia

10- Santa Sofia

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ed ora, se anche un povero scrittore di viaggi può invocare una musa, io la invoco a mani giunte perché la mia mente si smarrisce «in faccia al nobile subbietto» e le grandi linee della basilica bizantina mi tremano dinanzi come un’immagine riflessa da un’acqua agitata. La musa m’ispiri, Santa Sofia m’illumini e l’imperatore Giustiniano mi perdoni.

Una bella mattina d’ottobre, accompagnati da un cavas turco del Consolato d’Italia e da un dracomanno greco, andammo finalmente a visitare il «paradiso terrestre, il secondo firmamento, il carro dei cherubini, il trono della gloria di Dio, la meraviglia della terra, il maggior tempio del mondo dopo San Pietro». La quale ultima sentenza, – lo sappiano i miei amici di Burgos, di Colonia, di Milano, di Firenze, – non è mia, e non oserei farla mia; ma l’ho citata, colle altre, perché è una delle molte espressioni consacrate dall’entusiasmo dei Greci, che il nostro dracomanno ci andava ripetendo per via. E avevamo scelto pensatamente, insieme a un vecchio cavas turco, un vecchio dracomanno greco, colla speranza, che non fu delusa, di sentire nelle loro spiegazioni e nelle loro leggende cozzare le due religioni, le due storie, i due popoli; e che l’uno ci avrebbe esaltato la chiesa l’altro magnificato la moschea, in modo da farci vedere Santa Sofia come dev’esser veduta: con un occhio di cristiano e un occhio di turco.

La mia aspettazione era grande e la curiosità vivissima; eppure, strada facendo, pensavo come penso ancora, che non c’è monumento famoso, e sia pure degno della sua fama, dal quale venga all’anima una commozione così vivamente e schiettamente piacevole com’è quella che si prova nell’andarlo a vedere. Se dovessi rivivere un’ora di tutti i giorni in cui vidi qualche grande cosa, sceglierei quella che passò fra il momento in cui dissi: – Andiamo –; e il momento in cui intesi dire: – Siamo giunti. Le più belle ore dei viaggi son quelle. Andando, par di sentirsi ingrandir l’anima come per contenere il sentimento di ammirazione che vi sorgerà tra poco; si rammentano i desideri della prima giovinezza, che parevano sogni; si rivede un vecchio professore di geografia che, dopo aver segnato Costantinopoli sulla carta d’Europa, traccia per aria, con una presa di tabacco tra le dita, le linee della grande basilica; si vede quella stanza, quel caminetto, dinanzi al quale, nel prossimo inverno, si descriverà il monumento in mezzo a un cerchio di visi meravigliati ed immobili; si sente sonar quel nome di Santa Sofia nella testa, nel cuore, nelle orecchie, come il nome d’un essere vivo che ci aspetti e ci chiami per rivelarci qualche grande segreto; si vedono apparire sul nostro capo archi e pilastri prodigiosi d’edifizi che si perdono nel cielo; e quando si è a pochi passi dalla meta, si prova ancora un piacere inesprimibile a soffermarsi per guardare un ciottolo, per veder fuggire una lucertola, per raccontare una barzelletta, per perdere un po’ di tempo, per ritardare di qualche minuto quel momento che s’è desiderato per vent’anni e che si ricorderà per tutta la vita. Per modo che rimane assai poca cosa di questi celebrati piaceri dell’ammirazione, se si toglie il sentimento che li precede e quello che li segue. È quasi sempre un’illusione, seguita da un leggiero disinganno, dal quale noi, ostinati, facciamo pullulare altre illusioni.

La moschea di Santa Sofia è posta in faccia all’entrata principale dell’antico Serraglio.

Arrivando, però, nella piazza che si stende dinanzi al Serraglio, la prima cosa che attira gli occhi, non è la moschea, ma la fontana famosa del Sultano Ahmed III.

È uno dei più originali e più ricchi monumenti dell’arte turca. Ma più che un monumento, è un vezzo di marmo, che un galante sultano mise in fronte alla sua Stambul in un momento d’amore. Io credo che non lo possa descriver bene che una donna. La mia penna non è abbastanza fina per ritrarne l’immagine. A prima vista, non si direbbe una fontana. Ha la forma d’un tempietto quadrato, ed è coperto da un tetto alla cinese, che spinge le sue falde ondulate molto al di fuori dei muri, e gli dà una vaga apparenza di pagoda. Ai quattro angoli vi sono quattro torricciole rotonde, munite di finestrine ingraticolate, o piuttosto quattro chioschetti di forma gentilissima, ai quali corrispondono, sopra il tetto, altrettante cupolette svelte, sormontate ciascuna da una guglia graziosa; le quali fanno corona a una cupoletta più grande, posta nel mezzo. In ciascuno dei quattro muri ci sono due nicchie eleganti; fra le nicchie un arco a sesto acuto; sotto l’arco, una cannella che versa l’acqua in una piccola vasca. Intorno all’edifizio gira una iscrizione che dice: – Questa fontana ti parla della sua età nei seguenti versi del sultano Ahmed: volgi la chiave di questa sorgente pura e tranquilla e invoca il nome di Dio; bevi di quest’acqua inesauribile e limpida e prega per il Sultano. – Il piccolo edifizio è tutto di marmo bianco, che appena apparisce sotto gl’infiniti ornamenti che coprono i muri; sono archetti, nicchiette, colonnine, rosoni, poligoni, nastri, ricami di marmo, dorature su fondo azzurro, frange intorno alle cupole, intarsiature sotto il tetto, musaici di cento colori, arabeschi di mille forme, che par che s’intrichino a fissarvi lo sguardo, ed irritano quasi il senso dell’ammirazione. Non c’è lo spazio d’una mano che non sia scolpito, miniato, tormentato. È un prodigio di grazia, di ricchezza e di pazienza, da tenersi sotto una campana di cristallo; una cosa che pare non sia fatta soltanto per gli occhi, ma che debba avere un sapore, e se ne vorrebbe succhiare una scheggia; uno scrigno, che si vorrebbe aprire, per vedere che cosa c’è dentro: se una dea bambina o una perla enorme o un anello fatato. Il tempo n’ha in parte sbiadito le dorature, confusi i colori e anneriti i marmi. Che cosa doveva essere questo gioiello colossale quando fu scoperto la prima volta, tutto nuovo e sfolgorante, agli occhi del Salomone del Bosforo, cento e sessant’anni or sono? Ma così vecchio e nero come si ritrova, tiene ancora il primato su tutte le piccole meraviglie di Costantinopoli; ed oltre a ciò, è un monumento così schiettamente turco, che visto una volta, si fissa per sempre nella memoria in mezzo a quel certo numero d’immagini, che balenano poi tutte insieme alla mente ogni volta che ci suoni all’orecchio il nome di Stambul, e formano come il fondo del quadro orientale, su cui si moverà perpetuamente il nostro pensiero.

Dalla fontana si vede la moschea di Santa Sofia, che chiude un lato della piazza.

L’aspetto esterno non ha nulla di notevole. La sola cosa che arresti lo sguardo sono i quattro altissimi minareti bianchi, che sorgono ai quattro angoli dell’edifizio su piedestalli grandi come case. La cupola famosa sembra piccina. Non pare che possa essere quella medesima cupola che si vede rotondeggiare nell’azzurro, come la testa d’un titano, da Pera, dal Bosforo, dal mar di Marmara e dalle colline dell’Asia. È una cupola schiacciata, fiancheggiata da due mezze cupole, rivestita di piombo, coronata di finestre, che s’appoggia su quattro muri dipinti a larghe strisce bianche e rosate, sostenuti alla loro volta da enormi contrafforti, intorno ai quali sorgono confusamente molti piccoli edifizi d’aspetto meschino, – bagni, scuole, mausolei, ospizi, cucine per i poveri. – che nascondono l’antica forma architettonica della basilica. Non si vede che una mole pesante, irregolare, di color scialbo, nuda come una fortezza, e non tanto grande all’apparenza, da far supporre a chi non lo sappia che vi sia dentro il vano immenso della navata di Santa Sofia. Della basilica antica non apparisce propriamente che la cupola, la quale pure ha perduto lo splendore argentino che si vedeva, a detta dei Greci, dalla sommità dell’Olimpo. Tutto il rimanente è musulmano. Un minareto fu innalzato da Maometto il Conquistatore, un altro da Selim II, gli altri due dal terzo Amurat. Dello stesso Amurat sono i contrafforti innalzati sulla fine del sedicesimo secolo per sostenere i muri stati scossi da un terremoto, e la smisurata mezzaluna di bronzo, piantata sulla sommità della cupola, di cui la sola doratura costò cinquantamila ducati. L’antico atrio è sparito; il battistero convertito in mausoleo di Mustafà e d’Ibraim I quasi tutti gli altri piccoli edifizi annessi alla chiesa greca, o distrutti, o nascosti da nuovi muri, o trasformati in maniera che non si riconoscono. Da tutte le parti la moschea stringe, opprime e maschera la chiesa, che non ha più libero che il capo, sul quale però vigilano, come quattro sentinelle gigantesche i quattro minareti imperiali. Dalla parte d’Oriente v’è una porta ornata di sei colonne di porfido e di marmo; a mezzogiorno un’altra porta per cui s’entra in un cortile, circondato d’edifici bassi e disuguali, in mezzo al quale zampilla una fontana per le abluzioni, coperta da un tempietto arcato, sostenuto da otto colonnine. A guardarla di fuori, non si distinguerebbe Santa Sofia dalle altre grandi moschee di Stambul, se non perché è meno bianca e meno leggiera; e molto meno passerebbe per il capo che sia quello «il maggior tempio del mondo dopo San Pietro».

Le nostre guide ci condussero, per una stradicciola che fiancheggia il lato settentrionale dell’edifizio, a una porta di bronzo che girò lentamente sui cardini, ed entrammo nel vestibolo.

Questo vestibolo, che è una lunghissima ed altissima sala, rivestita di marmo e ancora luccicante qua e là degli antichi mosaici, dà accesso alla navata dal lato orientale per nove porte, e dal lato opposto metteva anticamente, per altre cinque porte, in un altro vestibolo, che per altre tredici porte comunicava coll’atrio.

Appena oltrepassata la soglia, mostrammo il nostro firmano d’entrata a un sacrestano in turbante, infilammo le pantofole, e a un cenno delle guide, ci avvicinammo, trepidando, alla porta di mezzo del lato orientale, che ci aspettava spalancata.

Messo appena il piede nella navata, rimanemmo tutti e due come inchiodati.

Il primo effetto, veramente, è grande e nuovo.

Si abbraccia con uno sguardo un vuoto enorme, un’architettura ardita di mezze cupole

che paiono sospese nell’aria, di pilastri smisurati, di archi giganteschi, di colonne colossali, di gallerie, di tribune, di portici, su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce; un non so che di teatrale e di principesco, più che di sacro; una ostentazione di grandezza e di forza, un’aria d’eleganza mondana, una confusione di classico, di barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; una grande armonia, in cui, alle note tonanti e formidabili dei pilastri e degli archi ciclopici, che rammentano le cattedrali nordiche, si mescono gentili e sommesse cantilene orientali, musiche clamorose dei conviti di Giustiniano e d’Eraclio, echi di canti pagani, voci fioche d’un popolo effeminato e stanco, e grida lontane di Vandali, d’Avari e di Goti; una grande maestà sfregiata, una nudità sinistra, una pace profonda; un’idea della basilica di San Pietro raccorciata e intonacata, e della basilica di San Marco ingigantita e deserta; un misto non mai veduto di tempio, di chiesa e di moschea, d’aspetti severi e d’ornamenti puerili, di cose antiche e di cose nove, e di colori disparati, e d’accessori sconosciuti e bizzarri; uno spettacolo, insomma, che desta un sentimento di stupore insieme e di rammarico, e fa stare per qualche tempo coll’animo incerto, come cercando una parola che esprima ed affermi il proprio pensiero.

L’edifizio è fabbricato sopra un rettangolo quasi equilatero, nel mezzo del quale s’innalza la cupola maggiore, sorretta da quattro grandi archi, i quali posano su quattro pilastri altissimi, che sono come l’ossatura di tutta la basilica. Ai due archi che si presentano in faccia a chi entra, si appoggiano due grandi semi cupole, le quali coprono tutta la navata, e ciascuna d’esse s’apre in altre due semi cupole minori, che formano come quattro tempietti rotondi nel grande tempio. Fra i due tempietti della parte opposta all’entrata, s’apre l’abside, pure coperta da una volta a quarto di sfera. Sono dunque sette mezze cupole che fanno corona alla cupola maggiore, due sotto questa, e cinque sotto quelle due, senza punto d’appoggio apparente, in modo che presentano tutte insieme un aspetto di leggerezza meravigliosa, e sembrano davvero, come disse un poeta greco, appese per sette fili alla volta del cielo. Tutte queste cupole sono rischiarate da grandi finestre arcate e simmetriche. Fra i quattro pilastri enormi che formano un quadrato nel mezzo della basilica, s’alzano, a destra e a sinistra di chi entra, otto meravigliose colonne di breccia verde, su cui s’incurvano degli archi graziosi scolpiti a fogliami, che formano un porticato elegantissimo ai due lati della navata, e sorreggono a una grande altezza due vaste gallerie, le quali presentano due altri ordini di colonne e d’archi scolpiti. Una terza galleria, che comunica colle due prime, corre lungo tutto il lato dell’entrata, e s’apre sulla navata con tre grandi archi, sostenuti da colonne gemelle. Altre gallerie minori, sostenute da colonne di porfido, tramezzano i quattro tempietti posti alle estremità della navata, e sorreggono altre colonne, sulle quali s’appoggiano delle tribune. Questa è la basilica. La moschea è come sparpagliata nel suo seno e appiccicata alle sue mura. Il Mirab, – la nicchia che indica la direzione della Mecca, – è scavato in un pilastro dell’abside. Alla sua destra, in alto, è appeso uno dei quattro tappeti, su cui Maometto faceva le sue preghiere. Sull’angolo dell’abside più vicino al Mirab, in cima a una scaletta ripidissima, fiancheggiata da due balaustrate di marmo scolpite con una delicatezza magistrale, sotto un bizzarro tetto conico, in mezzo a due bandiere trionfali di Maometto II, sporge il pulpito dove sale il Ratib a leggere il Corano, con una scimitarra sguainata nel pugno, per significare che Santa Sofia è moschea conquistata. In faccia al pulpito v’è la tribuna del Sultano, coperta da una graticola dorata. Altri pulpiti, o specie di terrazze, munite di balaustrate scolpite a giorno, e sorrette da colonnine di marmo e da archi arabescati, si stendono qua e là lungo i muri o s’avanzano verso il mezzo della navata. A destra e a sinistra dell’entrata, ci sono due enormi urne d’alabastro, rinvenute fra le rovine di Pergamo, e fatte trasportare a Costantinopoli da Amurat III. Dai pilastri, a una grande altezza, pendono dei dischi verdi smisurati, con iscrizioni del Corano a caratteri d’oro. Di sotto sono attaccate ai muri delle grandi cartelle di porfido, che portano scritti i nomi d’Allà, di Maometto e dei quattro primi Califfi. Negli angoli formati dai quattro archi che sostengono la cupola si vedono ancora le ali gigantesche di quattro cherubini di musaico, ai quali è stato coperto il viso con un rosone dorato. Dalle volte delle cupole pendono innumerevoli cordoni di seta, che misurano quasi tutta l’altezza della basilica, e sostengono uova di struzzo, lampade di bronzo cesellato e globi di cristallo. Qua e là si vedono dei leggii di legno a ìccase, intarsiati di madreperla e di rame, con su dei Corani manoscritti. Il pavimento è coperto di tappeti e di stuoie. I muri son nudi, biancastri, giallognoli, grigi oscuri, ornati ancora in qualche punto di musaici scoloriti. L’aspetto generale, triste.

La prima meraviglia della moschea è la grande cupola. Guardandola dal mezzo della navata, par davvero di vedere, come dice la Stael della cupola di San Pietro, un abisso sospeso sul nostro capo. È altissima, ha una circonferenza enorme e la sua profondità non è che un sesto del suo diametro; il che la fa apparire anche più grande. Alla sua base gira un terrazzino; sopra il terrazzino una corona di quaranta finestre ad arco. Sulla sommità c’è scritta la sentenza che pronunciò Maometto II arrestando il suo cavallo dinanzi all’altar maggiore della basilica, il giorno della presa di Costantinopoli: – Allà è la luce del cielo e della terra –; e alcune delle lettere, bianche su fondo oscuro, hanno la lunghezza di nove metri. Come tutti sanno, questo prodigio aereo non si sarebbe potuto compiere coi materiali ordinari; le volte furono costruite con pietra pomice che galleggia sull’acqua e con mattoni dell’isola di Rodi, cinque dei quali pesano appena quanto un mattone comune. In ogni mattone era iscritta la sentenza di Davide: – Deus in medio eius non commovebitur. Adiuvabit eam Deus vultu suo. – Ogni dodici giri di mattoni, si muravano nella volta delle reliquie di santi. Mentre gli operai lavoravano, i sacerdoti cantavano; Giustiniano, vestito d’una tunica di lino, assisteva; una folla immensa ammirava. E non c’è da stupire quando si pensi che la costruzione di questo «secondo firmamento» ancora meraviglioso ai giorni nostri, era un ardimento senza esempio nel sesto secolo. Il volgo credeva che stesse su per incanto, e i turchi, per molto tempo dopo la conquista, dovettero, pregando nella moschea di Santa Sofia, far forza a sè stessi per volgere lo sguardo ad Oriente invece d’innalzarlo a quel «cielo di pietra». La cupola, infatti, copre circa la metà della navata in modo che signoreggia e rischiara tutto l’edifizio e da tutte le parti se ne vede un segmento; e vai vai si finisce sempre per trovarvisi sotto, e tornare per la centesima volta a farci rotear dentro il proprio sguardo e i propri pensieri, con un brivido di piacere acuto, che somiglia alla sensazione del volo.

Vista la navata e la cupola, non s’è che cominciato a veder Santa Sofia. Chi appena ha un’ombra di curiosità storica, per esempio, può dedicare un’ora all’esame delle colonne. Qui ci sono le spoglie di tutti i templi del mondo. Le colonne di breccia verde che sostengono le due grandi gallerie, furono regalate a Giustiniano dai magistrati d’Efeso, e appartenevano al tempio di Diana, messo in fiamme da Erostrato. Le otto colonne di porfido che s’alzano a due a due fra i pilastri, appartenevano al tempio del Sole innalzato da Aureliano a Balbek. Altre colonne sono del tempio di Giove di Cizico, del tempio d’Helios di Palmira, dei templi di Tebe, d’Atene, di Roma, della Troade, delle Cicladi, d’Alessandria; e presentano una varietà infinita di grandezze e di colori. Tra le colonne, le balaustrate, i piedestalli, e le lastre che rimangono dell’antico rivestimento dei muri, si vedono marmi di tutte le cave dell’Arcipelago, dell’Asia Minore, dell’Affrica e della Gallia. Il marmo del Bosforo, bianco, picchiettato di nero, fa contrapposto al celtico nero venato di bianco; il marmo verde di Laconia si riflette nel marmo azzurro di Libia; il porfido punteggiato d’Egitto, il granito stellato di Tessaglia, il cario del monte Iassi strisciato di bianco e di rosso, il caristio pallido screziato di ferro, mescolano i loro colori alla porpora del marmo frigio, alla rosa del marmo di Synada, all’oro del marmo di Mauritania, alla neve del marmo di Paros. A questa varietà di colori, s’aggiunge la varietà indescrivibile delle forme dei fregi, dei cornicioni, dei rosoni, dei balaustri, dei capitelli d’un bizzarro stile corinzio, in cui s’intrecciano animali, fogliami, croci, chimere, e di altri che non appartengono a nessun ordine, fantastici di disegno e disuguali di grandezza, accoppiati a casaccio; e dei fusti di colonne e dei piedestalli ornati di sculture capricciose, logorati dai secoli e scheggiati dalle scimitarre; che presentano tutt’insieme un aspetto bizzarro di magnificenza disordinata e barbaresca, e sono il vilipendio del buon gusto, e non se ne può staccare lo sguardo.

Stando nella navata, però, non si può comprendere tutta la vastità della moschea. La navata, infatti, non ne è che una piccola parte. I due porticati che sorreggono le gallerie laterali sono per sé soli due grandi edifizi, di cui si potrebbero fare due templi. Ciascuno d’essi è diviso in tre parti, separate da archi altissimi. Qui pure colonne, architravi, pilastri, volte, tutto è enorme. Passeggiando sotto quelle arcate, s’intravvede appena, per gl’interstizi delle colonne del tempio d’Efeso, la grande navata, e par quasi di essere in un’altra basilica. Lo stesso effetto si prova dalle gallerie a cui si va per una scala a spirale d’inclinazione leggerissima, o piuttosto per una strada in salita, poiché non ci sono gradini, e potrebbe salirvi comodamente un uomo a cavallo. Le gallerie erano il «gineceo» ossia la parte della chiesa riserbata alle donne; i penitenti stavano nel vestibolo, il comune dei fedeli nella navata. Ciascuna galleria potrebbe contenere la popolazione d’un sobborgo di Costantinopoli. Non par più di essere in una chiesa; par di passeggiare per la loggia d’un teatro titanico, dove debba scoppiare da un momento all’altro un canto di centomila voci. Per veder la moschea bisogna affacciarsi alla balaustrata e allora tutta la grandezza appare. Gli archi, le volte, i pilastri, tutto è ingigantito. I dischi verdi, che parevano da misurarsi colle braccia, coprirebbero una casa. Le finestre sono portoni di palazzi; le ali dei cherubini sono vele di bastimento; le tribune son piazze; la cupola dà il capogiro. Abbassando lo sguardo si prova un’altra meraviglia. Non si credeva d’essere saliti tant’alto. Il piano della navata è giù in fondo a un abisso, e i pulpiti, le urne di Pergamo, le stuoie, le lampade, sembrano straordinariamente rimpicciolite. Di là si vede meglio che di sotto una particolarità curiosa della moschea di Santa Sofia, ed è che la navata non avendo la direzione precisa della Mecca, a cui i musulmani debbono rivolgersi pregando, tutte le stuoie e tutti i tappeti sono disposti obliquamente alle linee dell’edifizio, e offendono gli occhi come un madornale errore di prospettiva. Di lassù si abbraccia bene collo sguardo e col pensiero tutta la vita della moschea. Si vedono dei turchi inginocchiati sulle stuoie colla fronte a terra; altri ritti come statue colle mani dinanzi al viso, come se interrogassero le rughe delle palme; alcuni seduti a gambe incrociate ai piedi d’un pilastro, come se riposassero all’ombra d’un albero; qualche donna velata, in ginocchio in un angolo solitario; dei vecchi seduti dinanzi ai leggii, che leggono il Corano; un iman che fa recitare dei versetti sacri a un gruppo di ragazzi; e qua e là, sotto le arcate lontane e per le gallerie, iman, ratib, muezzin, servitori della moschea, in abiti strani, che vanno e vengono tacitamente come se non toccassero il pavimento. La melodia vaga formata dalle voci sommesse e monotone di chi legge e di chi prega, quelle mille lampade bizzarre, quella luce chiara ed eguale, quell’abside deserta, quelle vaste gallerie silenziose, quella immensità, quelle memorie, quella pace lasciano nell’animo un’impressione di grandezza e di mistero, che né la parola può esprimere né il tempo può cancellare.

Ma in fondo, come già dissi, è un’impressione triste, e non diede nel falso il grande poeta che paragonò la moschea di Santa Sofia a un «colossale sepolcro», perché da tutte le parti vi si vedono le tracce d’una devastazione orrenda, e si prova maggior rammarico pensando a ciò che fu, di quello che si goda nell’ammirazione di ciò che è ancora. Quietato il sentimento della prima meraviglia, il pensiero si slancia irresistibilmente nel passato. E oggi ancora, dopo tre anni, non mi si affaccia mai alla mente la grande moschea, ch’io non mi sforzi di rappresentarmi invece la chiesa. Atterro i pulpiti musulmani, levo le lampade e le urne, stacco i dischi, e le cartelle di porfido, riapro le porte e le finestre murate, raschio l’intonaco che copre le pareti e le volte, ed ecco la basilica intera e novissima, come tredici secoli or sono, quando Giustiniano esclamò: – Gloria a Dio che m’ha giudicato degno di compiere quest’opera! Salomone, io t’ho vinto! – Da qualunque parte si giri lo sguardo, tutto luccica, scintilla e lampeggia come nelle regge fatate delle leggende. Le grandi pareti, rivestite di marmi preziosi, mandano dei riflessi d’oro, di avorio, d’acciaio, di corallo, di madreperla; le innumerevoli macchiette dei marmi, offrono l’aspetto di corone e di ghirlande di fiori; gli infiniti mosaici di cristallo danno ai muri, su cui batte un raggio di sole, l’apparenza di muri d’argento tempestati di diamanti. I capitelli, i cornicioni, le porte, i fregi degli archi sono di bronzo dorato. Le volte dei porticati e delle gallerie, dipinte a fuoco, offrono immagini colossali d’angeli e di santi in campo d’oro. Dinanzi ai pilastri, nelle cappelle, accanto alle porte, in mezzo alle colonne, si drizzano statue di marmo e di bronzo, candelabri enormi d’oro massiccio, vangeli giganteschi appoggiati sopra leggii risplendenti come sedie reali, alte croci d’avorio, vasi scintillanti di perle. In fondo alla navata non si vede che un bagliore confuso come di molte cose che ardano. È la balaustrata del coro, di bronzo dorato; è il pulpito, incrostato di quarantamila libbre d’argento, che costò il tributo d’un anno dell’Egitto; sono le sedie dei sette preti, il trono del patriarca, il trono dell’imperatore, dorati, scolpiti, intarsiati, imperlati, su cui, quando scende diritta la luce, non si può fissare lo sguardo. Al di là di questi splendori, nell’abside, si vede uno sfolgorio più vivo. È l’altare, di cui la mensa, sostenuta da quattro colonne d’oro, è fatta d’una fusione d’argento, d’oro, di stagno e di perle, e il ciborio formato da quattro colonne d’argento puro, sulle quali s’innalza una cupola d’oro massiccio, sormontata da un globo e da una croce d’oro del peso di duecento sessanta libbre. Di là dall’altare, s’alza una figura gigantesca della divina Sapienza che tocca il pavimento coi piedi e la volta dell’abside col capo. Su tutti questi tesori splendono in alto le sette mezze cupole coperte di mosaici di cristallo e d’oro, e la grande cupola, su cui s’allungano le immagini smisurate degli apostoli, degli evangelisti, della Vergine e della Croce, tutta dorata, colorita e scintillante, come una volta di gioielli e di fiori. E cupole e colonne e statue e candelabri si specchiano sull’immenso pavimento di marmo proconnesio ondulato, che visto dalle quattro porte principali, presenta l’immagine di quattro fiumi maestosi, increspati dal vento. Così era l’interno della basilica. Ma bisogna rappresentarsi ancora il grande atrio, circondato di colonne e di muri rivestiti di mosaico, e ornato di fontane di marmo e di statuette equestri; la torre da cui trentadue campane facevano sentire i loro rintocchi formidabili alle sette colline; le cento porte di bronzo decorate di bassorilievi e d’iscrizioni d’argento; le sale dei sinodi, le stanze dell’Imperatore, le prigioni dei sacerdoti, il battistero, le vaste sacristie riboccanti di tesori, e un labirinto di vestiboli, di triclini, di corridoi, di scale nascoste che giravano nei fianchi dell’edifizio e conducevano alle tribune o gli oratorii segreti. Ora si può immaginare che spettacolo offrisse una tale basilica nelle grandi solennità di nozze imperiali, di concili, d’incoronazioni; quando dal palazzo enorme dei Cesari, per una strada fiancheggiata da mille colonne, sparsa di mirto e di fiori, profumata d’incenso e di mirra, fra le case ornate di vasi preziosi e di parati di seta, fra due schiere d’azzurri e di verdi, fra i canti dei poeti e i clamori degli araldi che gridavano evviva in tutte le lingue dell’impero, veniva innanzi l’Imperatore, colla tiara sormontata da una croce, imperlato come un idolo, seduto sopra un carro d’oro dalle tende di porpora, tirato da due mule bianche, e circondato da un corteo di monarca persiano; e gli andava incontro il clero pomposo nell’atrio della basilica; e tutta quella turba di cortigiani, di scudieri, di logoteti, di protospatari, di drongarii, di conestabili, di generali eunuchi, di governatori ladri, di magistrati venduti, di patrizie spudorate, di senatori codardi, di schiavi, di buffoni, di casisti, di mercenari d’ogni paese, tutta quella canaglia fastosa, tutto quel putridume dorato irrompeva per ventisette porte nella navata illuminata da sei mila candelabri; e si vedeva lungo la balaustrata del coro, sotto i portici e nelle tribune un via vai, un rimescolio concitato di teste chiomate e di cappe purpuree, uno sfolgorio di berretti gemmati, di collane d’oro, di corazze d’argento, un ricambiarsi di atti cerimoniosi, un incrociarsi d’inchini e di sorrisi, uno strascicare affettato di zimarre di seta e di spade di gala; e un molle profumo riempiva l’aria; e una immensa folla vigliacca faceva risonare le volte di grida di gioia e d’applausi profani.

Dopo aver fatto in silenzio parecchi giri per la moschea, lasciammo parlare le nostre guide, che cominciarono col farci vedere le cappelle poste sotto le gallerie e spogliate d’ogni cosa, come ogni altra parte della basilica. Alcune servono di tesorerie, come l’opistodomo del Partenone, nelle quali i turchi che partono per un lungo viaggio o che temono i ladri, depositano i loro denari e i loro oggetti preziosi, e ce li lasciano anche per anni sotto la guardia di Dio; altre, chiuse da un muro, son convertite in infermerie, in cui aspetta la guarigione o la morte qualche malato incurabile o qualche idiota, che fanno tratto tratto risonare la moschea di grida lamentevoli o di risate infantili. Di qui ci ricondussero in mezzo alla navata, e cominciò il dracomanno greco a raccontar le meraviglie della basilica. Il disegno fu tracciato, è vero, dagli architetti Antemio di Tralles e da Isidoro di Mileto; ma è un angelo che ne ha ispirato loro il primo concetto. È un angelo pure che ha suggerito a Giustiniano di far aprire tre finestre nell’abside, che rappresentassero le tre persone della Trinità. Così le cento e sette colonne della chiesa rappresentano le cento e sette colonne che sostengono la casa della Sapienza. Per radunare i materiali necessari alla costruzione dell’edifizio, furono impiegati sette anni. Cento capi mastri sopraintendevano al lavoro, e diecimila operai lavoravano nello stesso tempo, cinque mila da una parte e cinque mila dall’altra. I muri non erano ancora alti da terra che pochi palmi, e già s’era speso per più di quattro cento cinquanta quintali d’oro. La spesa totale per il solo edifizio ammontò a venticinque milioni di lire. La chiesa fu consacrata dal Patriarca cinque anni, undici mesi e dieci giorni dopo che n’era stata messa la prima pietra, e Giustiniano ordinò in quell’occasione dei sacrifici, delle feste, delle distribuzioni di danaro e di viveri, che durarono due settimane. Qui prese la parola il cavas turco, e fu per accennarci il pilastro su cui il sultano Maometto II, entrando vincitore in Santa Sofia, lasciò l’impronta sanguinosa della mano destra come per suggellare la sua conquista. Poi ci mostrò, vicino al Mirab, la così detta finestra fredda, dalla quale spira continuamente un’aria freschissima, che ispirò le più belle prediche ai più grandi dottori dell’Islamismo. Ci fece vedere, a un’altra finestra, la famosa pietra risplendente, che è una lastra di marmo diafano, la quale risplende come un pezzo di cristallo quando vi batte il raggio del sole. A sinistra di chi entra per la porta dal lato settentrionale, ci fece toccare la colonna che suda: una colonna rivestita di bronzo, della quale si vede il marmo sempre umido per una piccola screpolatura del rivestimento. E infine ci indicò un blocco di marmo cavo, portato da Betlemme, nel quale si dice che fu messo, appena nato, Sidi Yssa «il figlio di Maria, l’apostolo di Dio, lo spirito che da lui procede, e che merita onore in questo mondo e nell’altro». Ma mi parve che né il turco né il greco ci credessero molto. Prese ancora una volta la parola il dracomanno, passando dinanzi a una porta murata delle gallerie, per raccontare la leggenda celebre del vescovo, e questa volta parlò con un accento di persuasione, che se non era schietto, era ben simulato. Nel momento che i turchi irruppero nella chiesa di Santa Sofia, un vescovo greco stava dicendo la messa all’altar maggiore. Alla vista degl’invasori abbandonò l’altare, salì sulla galleria e, inseguito dai soldati, scomparve per quella piccola porta, che rimase istantaneamente chiusa da un muro di pietra. I soldati si misero a percuotere il muro furiosamente; ma non riuscirono che a lasciarvi le tracce delle loro armi; furono chiamati dei muratori; ma dopo aver lavorato un giorno intero coi picconi e le stanghe, dovettero rinunziare all’impresa; ci si provarono in seguito tutti i muratori di Costantinopoli, e tutti caddero inutilmente spossati dinanzi al muro miracoloso. Ma quel muro si aprirà; s’aprirà il giorno in cui la basilica profanata sarà restituita al culto di Cristo, e allora ne uscirà il vescovo greco, vestito dei suoi abiti pontificali, col calice in mano, col volto radiante, e risaliti i gradini dell’altare, ripiglierà la messa nel punto a cui l’aveva lasciata; e quel giorno splenderà l’aurora di nuovi secoli per la città di Costantino. Al momento d’uscire, il sacrestano turco, che ci aveva seguiti sino allora ciondolando e sbadigliando, ci diede una manata di pezzetti di mosaico che aveva staccati poco prima da un muro, e il dracomanno, fermandoci sulla porta, incominciò il racconto, che gli tagliammo in bocca, della profanazione di Santa Sofia.

Ma non vorrei che altri lo tagliasse in bocca a me ora che la descrizione della basilica mi ha ravvivato nella mente i particolari di quella scena.

Appena sparsa la notizia, verso le sette della mattina, che i turchi avevano superate le mura, una folla immensa s’era rifugiata in Santa Sofia. Erano intorno a centomila persone: soldati fuggiaschi, monaci, sacerdoti, senatori, migliaia di vergini fuggite dai monasteri, famiglie patrizie coi loro tesori, grandi dignitari dello Stato e principi del sangue imperiale, che correvano per le gallerie e per la navata, e si pigiavano per tutti i recessi dell’edifizio, alla rinfusa con la feccia del volgo, cogli schiavi, coi malfattori vomitati dalle carceri e dalle galere, e tutta la basilica risonava di grida di terrore come un teatro affollato al divampare d’un incendio. Quando la navata, tutte le gallerie e tutti i vestiboli furono pieni stipati, si sbarrarono e si asserragliarono le porte, e al frastuono dei primi momenti succedette una quiete spaventosa. Molti credevano ancora che i vincitori non avrebbero osato profanare la chiesa di Santa Sofia; altri aspettavano con una stupida sicurezza l’apparizione dell’Angelo, annunziato dai profeti, il quale avrebbe sterminato l’esercito musulmano prima che le avanguardie arrivassero alla colonna di Costantino; altri, saliti sul terrazzo interno della grande cupola, spiavano dalle finestre l’avanzarsi del pericolo, e ne davano notizia coi cenni ai centomila volti smorti che guardavano in su dalle gallerie e dalla navata. Di lassù si vedeva un’immensa nuvola bianca che copriva le mura dalle Blacherne fino alla Porta dorata; e di qua dalle mura, quattro strisce lampeggianti, che s’avanzavano fra le case come quattro torrenti di lava, allargandosi e rumoreggiando, in mezzo al fumo e alle fiamme. Erano le quattro colonne assalitrici dell’esercito turco, che cacciavano dinanzi a sé gli avanzi disordinati dell’esercito greco, e convergevano, saccheggiando e incendiando, verso Santa Sofia, l’Ippodromo e il palazzo imperiale. Quando le avanguardie delle colonne arrivarono sulla seconda collina, gli squilli delle trombe risonarono improvvisamente nella chiesa, e la moltitudine atterrita cadde in ginocchio. Ma anche in quei momenti, molti confidavano ancora nell’apparizione dell’Angelo ed altri speravano che un sentimento di rispetto e di terrore avrebbe arrestato gl’invasori dinanzi alla maestà di quell’enorme edificio consacrato a Dio. Ma anche quest’ultima illusione non tardò a dileguarsi. Gli squilli delle trombe s’avvicinarono, un rumore confuso di armi e di grida, irrompendo dalle mille finestre, riempì la basilica, e un minuto dopo rimbombarono i primi colpi delle asce ottomane sulle porte di bronzo dei vestiboli. Allora quella immensa folla sentì il freddo della morte, e tutti si raccomandarono a Dio. Le porte sfracellate o sgangherate rovinarono, e un’orda selvaggia di giannizzeri, di spahì, di timmarioti, di dervis, di sciaù, lordi di polvere e di sangue, trasfigurati dal furore della battaglia, della rapina e dello stupro, apparve sulle soglie. Al primo aspetto della grande navata sfolgorante di tesori, gettarono un grido altissimo di meraviglia e di gioia; poi irruppero dentro come un torrente furioso. Una parte si precipitò sulle vergini, sulle dame, sui patrizi, schiavi preziosi, che, istupiditi dal terrore, porsero spontaneamente le braccia alle corde e alle catene; gli altri piombarono sulle ricchezze della chiesa. I tabernacoli furono predati, le statue stramazzate, i crocifissi d’avorio frantumati; i musaici, creduti gemme, disfatti a colpi di scimitarra, caddero in piogge scintillanti nei caffettani e nelle cappe aperte; le perle dei vasi, scastonate dalle punte dei pugnali, saltellarono sul pavimento inseguite come cose vive, e disputate a morsi e a sciabolate; l’altar maggiore andò disperso in mille rottami d’oro e d’argento; le seggiole, i troni, il pulpito, la balaustrata del coro scomparvero come stritolati da una valanga di pietra. E intanto continuavano a irrompere nella chiesa, a ondate sanguinose, le orde asiatiche; e in breve non si vide più che un turbinìo vertiginoso di predoni ubriachi, camuffati di tiare e di abiti sacerdotali, che agitavano nell’aria calici e ostensori, trascinando file di schiavi legati colle cinture dorate dei pontefici, in mezzo ai cammelli e ai cavalli carichi di bottino, scalpitanti sul pavimento ingombro di schegge di statue, di vangeli lacerati e di reliquie di santi; un’orgia forsennata e sacrilega, accompagnata da un frastuono orrendo di urli di trionfo, di minacce, di nitriti, di risa, di grida di fanciulle e di squilli di trombe; fin che tutto tacque improvvisamente, e sulla soglia della porta maggiore apparve a cavallo Maometto II, circondato da una folla di principi, di visir e di generali, superbo e impassibile come l’immagine vivente della vendetta di Dio, e rizzandosi sulle staffe, lanciò con voce tonante nella basilica devastata la prima formula della nuova religione: – Allah è la luce del cielo e della terra!


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Costantinopoli

9- La vita a Costantinopoli – Costantinopoli

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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E sulla torre del Seraschiere, come su quella di Galata, come sul vecchio ponte, come a Scutari, io mi domandai cento volte: – Ma in che maniera hai potuto innamorarti dell’Olanda? – E non solo quel paese, ma Parigi, ma Madrid, ma Siviglia, mi parevano città oscure e malinconiche, in cui non avrei più potuto vivere un mese. Poi ripensavo alle mie povere descrizioni e mi dicevo con rammarico: – Ah! disgraziato! Quante volte hai sciupato le parole bello, splendido, immenso! Ed ora che cosa dirai di questo spettacolo? – Ma già mi pareva che da Costantinopoli non avrei cavato una pagina. E il mio amico Rossasco mi diceva: – Ma perché non ti ci provi? – Ed io gli rispondevo: – Ma se non ho nulla da dire! – E alle volte, chi lo crederebbe? quello spettacolo, per qualche minuto secondo, a certe ore, a una certa luce, mi pareva meschino, ed esclamavo quasi con sgomento: – O dov’è la mia Costantinopoli? – Altre volte mi pigliava un sentimento di tristezza pensando che mentre io ero là dinanzi a quella immensità e a quella bellezza, mia madre era in una piccola stanza, da cui non si vedeva che un cortile uggioso e una piccola striscia di cielo; e mi pareva una colpa mia, e avrei dato un occhio per aver la mia buona vecchia a braccetto e condurla a Santa Sofia. La giornata però correva quasi sempre allegra e leggera come un’ora d’ebbrezza. E le rare volte che faceva capolino l’umor nero, il mio amico ed io avevamo un mezzo sicuro di liberarcene. Scendevamo a Galata in due caicchi a due remi, i più variopinti e i più dorati dello scalo, e gridavamo: – Eyub! – ed eravamo già in mezzo al Corno d’oro. I nostri rematori si chiamavano Mahmut, Baiazet, Ibraim, Murat, avevano vent’anni per uno e due braccia di ferro, e vogavano a gara incitandosi con grida e ridendo come bambini; il cielo era sereno e il mare trasparente; noi rovesciavamo il capo indietro per bere a sorsate più lunghe l’aria piena di profumi, e lasciavamo spenzolare una mano nell’acqua; i due caicchi volavano, di qua e di là ci fuggivano allo sguardo i chioschi, i palazzi, i giardini, le moschee; ci pareva d’esser portati dal vento a traverso un mondo fatato, sentivamo un piacere inesprimibile d’esser giovani e d’essere a Stambul, Yunk cantava, io recitavo delle ballate orientali di Vittor Hugo, e vedevo ora a destra, ora a sinistra, ora vicino, ora lontano, balenare per aria un viso amoroso, coronato di capelli bianchi e illuminato da un sorriso dolcissimo, che diceva: – Sii felice, figliuolo! Io ti benedico e ti seguo.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – La Torre del Seraschiere

9- La vita a Costantinopoli – La Torre del Seraschiere

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

23


Sentendosi così puri e disposti a riveder le stelle non c’è di meglio che arrampicarsi sopra la testa di quel titano di pietra che si chiama la torre del Seraschiere. Io credo che Satana, se volesse tentare un’altra volta qualcuno coll’offerta del regno della terra, sarebbe sicuro del fatto suo, trasportando la sua vittima su quella cima. La torre, fabbricata sotto il regno di Mahmud II, è piantata sulla collina più alta di Stambul, nel mezzo del cortile vastissimo del ministero della guerra, nel punto che i turchi chiamano l’ombelico della città. È costrutta in gran parte con marmo bianco di Marmara, sul piano d’un poligono regolare di sedici lati, e si slancia in alto, ardita e svelta come una colonna, sorpassando d’un buon tratto i minareti giganteschi della vicina moschea di Solimano. Si va su per una scala a chiocciola, rischiarata da poche finestre quadrate, per le quali s’intravvede, passando, ora Galata, ora Stambul, ora i sobborghi del Corno d’oro; e non s’è ancora a mezza altezza, che già, lanciando uno sguardo fuori, pare di essere nella regione delle nuvole. Qualche volta salendo, si sente un leggero rumore sul proprio capo, e quasi nello stesso punto si vede passare e sparire una larva, che sembra una cosa che precipita piuttosto che un uomo che discende; ed è uno dei guardiani che stanno giorno e notte alla vedetta sulla sommità della torre, il quale ha visto probabilmente in qualche punto lontano dell’orizzonte un nuvolo di fumo sospetto, e ne porta avviso al Seraschierato. La scala ha circa duecento scalini, e conduce a una specie di terrazza rotonda, coperta di sopra e vetrata tutt’intorno, nella quale gira perpetuamente un guardiano, che serve il caffè ai visitatori. Al primo entrare in quella gabbia trasparente, che par sospesa tra il cielo e la terra, al vedere tutt’intorno quell’immenso vuoto azzurro, al sentire il vento che strepita e fa sonare i vetri e scricchiolare gli assiti, s’è quasi presi dalle vertigini e tentati di rinunziare al panorama. Ma alla vista della scaletta appoggiata al finestrino del tetto, il coraggio ritorna, si sale col cuore palpitante, e si getta un grido di meraviglia. È un momento sublime. Si rimane come sfolgorati. Tutta Costantinopoli è là e s’abbraccia tutta con un giro dello sguardo; tutte le colline e tutte le valli di Stambul, dal castello delle Sette Torri ai cimiteri d’Eyub; tutta Galata e tutta Pera, come se lo sguardo vi cadesse a fil di piombo; tutta Scutari, come se fosse lì sotto; tre file di città, di boschi, di flotte, che fuggono a perdita d’occhi lungo tre rive incantevoli, e altre strisce interminabili di villaggi e di giardini che si perdono serpeggiando nell’interno delle terre; tutto il Corno d’oro, immobile, cristallino e picchiettato d’innumerevoli caicchi, che sembrano moscerini natanti; tutto il Bosforo, che par chiuso qua e là dalle colline più avanzate delle due rive, e presenta l’immagine d’una successione di laghi, e ogni lago par circondato da una città, e ogni città è inghirlandata di giardini; di là dal Bosforo, il mar Nero azzurrino che si confonde col cielo; dalla parte opposta, il mar di Marmara, il golfo di Nicomedia, le isole dei Principi, la riva europea e la riva asiatica biancheggianti di villaggi; di là dal mar di Marmara, lo stretto dei Dardanelli, che luccica come un sottile nastro d’argento; oltre i Dardanelli un vago bagliore bianco, ch’è il mare Egeo e una curva oscura che è la riva della Troade; di là da Scutari, la Bitinia e l’Olimpo; di là da Stambul, le solitudini ondulate e giallognole della Tracia; due golfi, due stretti, due continenti, tre mari, venti città, una miriade di cupole inargentate e di guglie d’oro, una gloria di colori e di luce, da far dubitare se quella sia una veduta del nostro pianeta o di un altro astro più favorito da Dio.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

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Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Il bagno

9- La vita a Costantinopoli Il bagno

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

22


Dopo aver fatto un giro per Balata, non è delle peggio, come si dice a Firenze, l’andare a fare un bagno turco. Le case dei bagni si riconoscono di fuori: sono edifizi senza finestre, della forma di piccole moschee, sormontati da una cupola e da alti camini conici, che fumano perpetuamente. Ma prima d’entrare, bisogna pensarci due volte, e domandarsi quid valeant humeri, perché non tutti possono resistere all’aspro governo che si fa d’un uomo fra quelle mura salutari. Io confesso che dopo quello che ne avevo inteso dire, c’entrai con un po’ di trepidazione; e i lettori vedranno che ero da compatire. Ripensandoci, mi sento uscire dalle tempie due goccioline di sudore che aspettano ch’io sia nel vivo della descrizione per filarmi giù̀ per le guance. Ecco dunque quello che fu fatto della mia povera persona. Entro timidamente e mi trovo in una gran sala che mi lascia un momento incerto, se sia un teatro o un ospedale. Nel mezzo zampilla una fontana, coronata di fiori; e lungo le pareti gira una galleria di legno, dove dormono profondamente o fumano sonnecchiando alcuni turchi sdraiati su materasse e ravvolti dalla testa ai piedi in pannolini bianchissimi. Mentre guardo intorno in cerca del bagnaiolo, due tarchiati mulatti seminudi, sbucati non so di dove, mi si rizzano dinanzi come due spettri, e mi domandano tutti e due insieme con voce cavernosa: Hammamun? (bagno?) – Evvet (sì) rispondo con un filo di voce. Mi accennano di seguirli e mi rimorchiano su per una scaletta di legno in una stanza piena di stuoie e di cuscini, dove mi fanno capire che mi debbo spogliare. Mi stringono una stoffa azzurra e bianca intorno alle reni, mi raspano la testa con un pezzo di mussolina, mi fanno infilare due zoccoli colossali, mi pigliano sotto le braccia come un ubbriaco e mi conducono, o piuttosto mi traducono in un’altra sala calda e semi-oscura, dove mi distendono sopra un tappeto e stanno ad aspettare colle mani sui fianchi che mi si ammorbidisca la pelle. Tutti questi apparecchi, che somigliano molto a quelli d’un supplizio, mi mettono addosso una inquietudine, la quale si cangia in un sentimento anche meno onorevole, quando i due aguzzini mi toccano la fronte, si scambiano uno sguardo che significa: – può resistere – e par che vogliano dire: – alla ruota – e ripigliandomi per le braccia mi accompagnano in una terza sala. Qui provo una sensazione stranissima. Mi par d’essere in un tempio sottomarino. Vedo vagamente, a traverso un velo bianco di vapori, delle alte pareti marmoree, delle colonne, degli archi, la volta d’una cupola finestrata, da cui scendono dei raggi di luce rossa, azzurra e verde, dei fantasmi bianchi che vanno e vengono rasente le pareti, e nel mezzo della sala, uomini seminudi distesi sul pavimento come cadaveri, sui quali altri uomini seminudi stanno chinati nell’atteggiamento di medici che facciano un’autopsia. La temperatura della sala è tale che, appena entrato, mi sento tutto in sudore, e mi pare che non potrò più uscir di là che sotto le forme d’un fiumicello, come l’amante d’Aretusa. I due mulatti trasportano il mio corpo in mezzo alla sala e lo adagiano sopra una specie di tavola anatomica, che è una grande lastra di marmo bianco, rilevata dal pavimento, sotto la quale ardono le stufe. La lastra scotta ed io vedo le stelle; ma oramai ci sono e bisogna striderci. I due mulatti cominciano la vivisezione, canterellando una canzonetta funebre. Mi pizzicano le braccia e le gambe, mi premono i muscoli, mi fanno scricchiolare le articolazioni, mi fregano, mi strizzano, mi stropicciano; mi fanno voltar bocconi, e ricominciano; mi rimettono supino, e tornano da capo; mi stirano e mi schiacciano come un fantoccio di pasta, a cui vogliano dare una forma che hanno in mente, e non ci riescano, e ci s’arrabbino; poi pigliano un po’ di respiro; poi di nuovo pizzicotti e strizzatine e schiacciature da farmi temere che sia quello il mio ultimo quarto d’ora. Finalmente, quando tutto il mio corpo schizza acqua come una spugna spremuta, quando mi vedono circolare il sangue sotto la pelle, quando s’accorgono che proprio non ci posso più reggere, tirano sui miei resti da quel letto di tortura, e li portano in un angolo, dinanzi a una piccola nicchia, dove sono due cannelle di rame, che gettano acqua calda e acqua fresca in una vaschetta di marmo. Ma, ahimè! qui comincia un altro martirio. E veramente la cosa piglia un certo andare, che, senza celia, io mi domando se non è il caso di appoggiare un cappiotto a destra e uno scopaccione a sinistra, e di battermela come mi trovo. Uno dei due tormentatori si mette un guanto di pelo di cammello e comincia a fregarmi la schiena, il petto, le braccia e le gambe, colla grazia con cui striglierebbe un cavallo, e la strigliatura si prolunga per la bellezza di cinque minuti. Finita la strigliatura, mi rovesciano addosso un torrente d’acqua tepida, e ripigliano fiato. E lo ripiglio anch’io, ringraziando il cielo che sia finita. Ma non è finita! Il mulatto feroce si leva il guanto e ricomincia l’operazione colla mano nuda, ed io m’indispettisco e gli fo cenno di smettere, e lui, mostrandomi la mano, mi prova, con mia grande meraviglia, che deve fregare ancora. Finito di fregare, un altro rovescio d’acqua, e poi un’altra operazione. Prendono tutti e due uno strofinaccio di stoppa imbevuto di sapone di Candia, e m’insaponano dalla testa ai piedi. Finita l’insaponata, un altro diluvio d’acqua profumata, e poi da capo lo strofinamento colla stoppa. Ma questa volta, come dio vuole, la stoppa è asciutta e strofinano per asciugare. Asciugato che sono, mi rifasciano la testa, mi rimettono il grembiale, mi ravvolgono in un lenzuolo, mi riconducono nella seconda sala, e dopo una sosta di qualche minuto, mi fanno rientrar nella prima. Qui trovo una materassa tepida sulla quale mi distendo mollemente e i due esecutori di giustizia mi danno gli ultimi pizzicotti per rendere uguale in tutte le membra la circolazione del sangue. Ciò fatto, mi mettono un cuscino ricamato sotto la testa, una coperta bianca addosso, una pipa in bocca, una limonata accanto, e mi lasciano lì fresco, leggiero, odoroso, colla mente serena, col cuore contento, con un senso così puro e così giovanile della vita, che mi par d’esser nato allora, come Venere, dalla spuma del mare, e di sentirmi frullare sopra la testa le ali degli amorini.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Ebrei

9- La vita a Costantinopoli – Gli Ebrei

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

21


Riguardo alle ebree, posso affermare, dopo esser stato nel Marocco, che quelle di Costantinopoli non hanno che fare con quelle della costa settentrionale dell’Africa, nelle quali i dotti osservatori credono di vedere ancora in tutta la sua purezza il primo tipo orientale della bellezza ebraica. Colla speranza di trovare questa bellezza, mi armai di coraggio, e feci molti giri per il vasto ghetto di Balata, che s’allunga, come un serpente immondo, sulla riva del Corno d’oro. Mi spinsi fin nei vicoli più miserabili, in mezzo a casupole «grommate di muffa» come le ripe della bolgia dantesca, per crocicchi dove non ripasserei più che sui trampoli e colle narici turate; guardando per le finestre tappezzate di cenci nauseabondi, nelle stanze nere e viscose; soffermandomi dinanzi alle porte dei cortili umidi da cui usciva un tanfo da mozzare il fiato, facendomi largo in mezzo a gruppi di ragazzi scrofolosi e tignosi, toccando col gomito dei vecchi orrendi, che parevano morti di peste risuscitati; scansando a ogni passo cani coperti di piaghe e laghi di mota nera e panni schifosi appesi a corde bisunte, e mucchi di putridumi da far cadere in deliquio; ma il mio coraggio non fu ricompensato. Fra le molte donne che incontrai imbacuccate nel loro calpak nazionale, che sembra un turbante allungato e copre i capelli e le orecchie, vidi bensì qualche viso in cui riconobbi quella regolarità delicata di lineamenti e quell’aria soave di rassegnazione, che si considera come il tratto distintivo delle ebree di Costantinopoli; vidi qualche vago profilo di Rebecca e di Rachele, dagli occhi a mandorla, pieni di dolcezza e di grazia; e qualche figura elegante, ritta in un atteggiamento raffaellesco sulla soglia d’una porta, con una mano sottile appoggiata sul capo ricciuto d’un bimbo. Ma nella maggior parte non vidi che i segni della degradazione della razza. Che differenza tra quelle figure stentite, e gli occhi di fuoco, i colori pomposi e le forme opulente che ammirai un anno dopo nei mellà di Tangeri e di Fez! Ed è lo stesso degli uomini, spersoniti, giallognoli, molli, di cui tutta la vitalità pare che si sia raccolta negli occhi scintillanti d’astuzia e di cupidigia, che essi girano continuamente intorno a sè stessi, come se da tutte le parti sentissero saltellare delle monete. Ed ora m’aspetto che i miei buoni critici israeliti, che già mi diedero sulle dita a proposito dei loro correligionari del Marocco, ricantino la stessa canzone, scrivendo a colpa dei turchi oppressori la decadenza e l’avvilimento degli ebrei di Costantinopoli. Ma badino che nelle medesime condizioni politiche e civili degli ebrei si trovarono tutti gli altri sudditi non musulmani della Porta; e che se anche questo non fosse, sarebbe assai difficile il provare che la vergognosa immondizia, la precocità dei matrimoni e l’astensione da tutti i mestieri faticosi, considerate come cause efficacissime di quella decadenza, siano una conseguenza logica della mancanza di libertà e d’indipendenza. E se mi vorranno dire invece, che non l’oppressione politica dei turchi, ma le piccole persecuzioni e il disprezzo di tutti, sono stati la cagione di quell’avvilimento, domandino prima a sè stessi se per caso non fosse vero il contrario; se la prima cagione non sia piuttosto da ricercarsi nei loro costumi e nella loro vita; e se invece di nasconder la piaga, non sarebbe utile che essi medesimi la toccassero col ferro rovente.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – I Greci

9- La vita a Costantinopoli – I Greci

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

20


Quanto è difficile riconoscere a occhio l’armeno, altrettanto è facile riconoscere il greco, anche non badando al vestire; tanto egli è diverso di natura e d’aspetto dagli altri sudditi dell’Impero, e principalmente dal turco. Per rendersi ragione di questa diversità, o piuttosto di questo contrasto, basta osservare un turco ed un greco, che si trovino seduti l’uno accanto all’altro in un caffè o in un piroscafo. Hanno un bell’essere pressappoco della stessa età e dello stesso ceto, e vestiti tutt’e due all’europea, ed anche somiglianti di viso; non è possibile sbagliare. Il turco è immobile, e tutti i suoi lineamenti riposano in una specie di quiete senza pensiero, che somiglia a quella d’un animale satollo; o se il suo viso rivela un pensiero, pare che debba essere un pensiero immobile come il suo corpo. Non guarda nessuno, non dà segno d’accorgersi d’esser guardato; il suo atteggiamento mostra una profonda noncuranza di tutti coloro e di tutto quello che ha intorno; il suo viso esprime qualcosa della tristezza rassegnata d’uno schiavo e dell’orgoglio freddo d’un despota; un che di duro, di chiuso, di cocciuto, da far disperare alla prima chi si proponesse di persuaderlo di qualche cosa o di rimuoverlo di una risoluzione. Ha, insomma, l’aspetto d’uno di quegli uomini tutti d’un pezzo, coi quali pare che non si possa vivere altrimenti che obbedendoli o comandandoli; e che per quanto tempo ci si viva insieme, non si debba mai poterci prendere una famigliarità intera. Il greco invece è mobilissimo, e rivela con mille sfuggevoli guizzi dello sguardo e delle labbra tutto quello che gli passa nell’anima; scuote la testa con movimenti di cavallo indomito; il suo volto esprime un’alterezza giovanile, e qualche volta quasi fanciullesca; se si vede guardato, s’atteggia; se non è guardato, si mette in mostra; par sempre che desideri o che fantastichi qualche cosa; spira da tutta la persona l’accorgimento e l’ambizione; e inspira simpatia, anche se ha la faccia d’un cattivo soggetto, e gli si darebbe la mano anche quando non si vorrebbe affidargli la borsa. Basta veder vicini questi due uomini, per capire che l’uno deve parere all’altro un barbaro, un orgoglioso, un prepotente, un brutale; che questi deve giudicar quello un uomo leggiero, falso, maligno, turbolento; e che debbono disprezzarsi e detestarsi reciprocamente con tutte le forze dell’anima; e non trovar la via di vivere d’accordo. La stessa differenza si osserva tra le donne greche e le altre donne levantine. In mezzo alle turche e alle armene belle e floride, ma che toccano quasi più i sensi di quello che parlino all’anima, si riconoscono alla prima, con un sentimento di grata meraviglia, i visi eleganti e puri delle greche, illuminati da due occhi pieni di pensiero, dei quali ogni sguardo fa venir sulle labbra il verso d’un ode; e i bei corpi maestosi insieme e leggeri, che ispirano il desiderio di stringerli fra le braccia, piuttosto per metterli sopra un piedestallo, che per portarli nell’arem. Se ne vedono di quelle che portano ancora i capelli cadenti, all’antica, in lunghe ciocche ondulate, e una grossa treccia ravvolta intorno alla testa in forma di diadema; così belle, così nobili, così classiche, che si piglierebbero per statue di Prassitele e di Lisippo, o per giovanette immortali ritrovate dopo venti secoli in qualche valle ignorata della Laconia o in qualche isoletta dimenticata dell’Egeo. Sono però rarissime queste bellezze sovrane anche tra le greche, e oramai non se ne trova più esempio che fra la vecchia aristocrazia dell’impero, nel quartiere silenzioso e triste del Fanar, dove s’è rifugiata l’anima dell’antica Bisanzio. Là si vede ancora qualche volta una di quelle donne superbe affacciata a un balcone a balaustri, o all’inferriata d’una finestra altissima, cogli occhi fissi nella strada solitaria, nell’atteggiamento d’una regina prigioniera; e quando il servidorame dei discendenti dei Paleologhi e dei Comneni, non sta oziando dinanzi alle porte, si può, contemplandola di nascosto, credere per un momento di veder per lo squarcio d’una nuvola il viso d’una dea dell’Olimpo.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Armeni

9- La vita a Costantinopoli – Gli Armeni

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

19


Occupato quasi sempre dei turchi, non ebbi il tempo, come ognuno può capire, di studiare molto le tre nazioni, armena, greca ed ebrea, che formano la popolazione dei rajà; studio, d’altra parte, assai lungo, poiché se ognuno di quei popoli ha conservato dal più al meno la natura propria, la vita esteriore di tutti e tre ha preso come una velatura di colore musulmano, la quale va ora perdendosi alla sua volta sotto la tinta della civiltà europea: onde presentano tutti e tre la difficoltà d’osservazione che presenterebbe un quadro mobile e cangiante. Gli armeni, in special modo, «cristiani di spirito e di fede, e musulmani asiatici di nascita e di carne», non sono soltanto difficili a studiare intimamente, ma anche a distinguere a occhio dai turchi, poiché quella parte di loro che non ha ancora preso il vestiario europeo, è vestita alla turca, salvo piccolissime differenze; e non usa quasi più affatto l’antico berrettone di feltro, che era, con certi colori speciali, il segno distintivo della nazione. E non differiscono molto dai turchi anche nell’aspetto. Sono per lo più alti di statura, robusti, corpulenti, di carnagione chiara, d’andatura e di modi gravi, e mostrano nel viso le due qualità proprie della loro natura: lo spirito aperto, alacre, industrioso, pertinace, per cui sono meravigliosamente atti al commercio, e quella placidità, che altri vuol chiamare pieghevolezza servile, con cui riuscirono a farsi un covo per tutto, dall’Ungheria alla China, e a rendersi accetti particolarmente ai turchi, dei quali si cattivarono la fiducia, sudditi docili e amici ossequenti. Non hanno nè fuori nè dentro nulla di bellicoso e d’eroico. Tali, forse, non erano anticamente nella regione asiatica da cui vennero, e si dice infatti che siano tuttora assai diversi i loro fratelli che l’abitano; ma quei che furono trapiantati di qua dal Bosforo, sono veramente un popolo mansueto e prudente, modesto nella vita, non inteso ad altro che ai suoi traffici, e più sinceramente religioso, si dice, d’ogni altro popolo di Costantinopoli. I turchi li chiamano i cammelli dell’impero e i franchi dicono che ogni armeno nasce calcolatore; questi due motti sono in gran parte giustificati dal fatto, poiché in grazia appunto della loro forza fisica e della loro intelligenza agile ed acuta, oltre a un buon numero d’architetti, d’ingegneri, di medici, d’artefici ingegnosi e pazienti, essi forniscono a Costantinopoli la maggior parte dei facchini e dei banchieri: facchini che portano pesi e banchieri che ammassano tesori favolosi. A primo aspetto, però, nessuno s’accorgerebbe che v’è un popolo armeno a Costantinopoli, tanto la pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio. Le donne stesse, per cagione delle quali la casa armena è chiusa allo straniero quasi altrettanto severamente che la musulmana, vestono alla turca, e non c’è che un occhio molto esperto che le possa riconoscere in mezzo alle loro concittadine maomettane. Sono anch’esse per lo più bianche e grassotte, ed hanno la linea aquilina del profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d’alta statura e di forme matronali, che coronate d’un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi; e quasi tutte d’aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è la luce dell’anima che brilla sul volto della donna greca.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Costantinopoli antica

9- La vita a Costantinopoli – Costantinopoli antica

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

18


Ma che cosa doveva essere quella città nei bei tempi della gloria ottomana! Io non potevo levarmi dalla testa questo pensiero. Allora, dal Bosforo tutto bianco di vele, non s’alzava un nuvolo di fumo nero a macchiar l’azzurro del cielo e delle acque. Nel porto e nei seni del Mar di Marmara, fra le vecchie navi da guerra, dalle alte poppe scolpite, dalle mezzelune d’argento, dagli stendardi di porpora, dai fanali d’oro, galleggiavano carcasse fracassate e insanguinate di galere genovesi, veneziane e spagnole. Sul Corno d’oro non v’erano ponti: da una sponda all’altra guizzava perpetuamente una miriade di barchette pompose, in mezzo alle quali spiccavano di lontano le lance bianchissime del serraglio, coperte di baldacchini scarlatti dalle frange dorate, e condotte da rematori vestiti di seta. Scutari era ancora un villaggio; di là da Galata non si vedevano che case sparpagliate per la campagna; nessun grande palazzo alzava ancora la testa sopra la collina di Pera; l’aspetto della città era meno grandioso che non è ora; ma era più schiettamente orientale. La legge che prescriveva i colori essendo ancora in vigore, dai colori delle case si riconosceva la religione degli abitanti: Stambul era tutta gialla e rossa, fuorché gli edifizi pubblici e sacri ch’erano bianchi come la neve; i quartieri armeni erano cinerini chiari, i quartieri greci cinerini carichi, i quartieri ebrei pavonazzi. Era universale, come in Olanda, la passione dei fiori, e i giardini parevano grandi mazzi di giacinti, di tulipani e di rose. La vegetazione rigogliosa delle colline non essendo ancora atterrata dai nuovi sobborghi, Costantinopoli presentava l’immagine d’una città nascosta in una foresta. Dentro non c’eran che viuzze; ma le abbelliva una folla meravigliosamente pittoresca. Non si vedevano che turbanti enormi, che davano alla popolazione mascolina un’apparenza colossale e magnifica. Tutte le donne, fuor che la madre del sultano, essendo rigorosamente velate, e in modo da non lasciar vedere che gli occhi, formavano una popolazione a parte, anonima ed enigmatica, che spandeva per tutta la città un’aura di mistero gentile. Una legge severa determinando il vestiario di tutti, si distinguevano dalle forme dei turbanti e dai colori dei caffettani i ceti, i gradi, gli uffici, le età, come se Costantinopoli fosse un’immensa corte. Il cavallo essendo ancora quasi «il solo cocchio dell’uomo», giravano per le vie migliaia di cavalieri, e le lunghe file dei cammelli e dei dromedari dell’esercito che attraversavano la città in tutte le direzioni le davano l’aspetto selvaggio e grandioso d’un’antica metropoli asiatica. Le arabà dorate, tratte dai buoi, s’incrociavano colle carrozze rivestite di panno verde degli ulemi, con quelle rivestite di panno rosso dei Kadì-aschieri, colle talike leggerissime dalle tendine di raso, colle bussole ornate di pitture fantastiche. Schiavi di tutti i paesi, dalla Polonia all’Etiopia, passavano a frotte, facendo risuonare le loro catene ribadite sui campi di battaglia. Sui crocicchi, nelle piazze, nei cortili delle moschee, si vedevano gruppi di soldati vestiti di cenci gloriosi, che mostravano le braccia monche e le cicatrici ancor fresche delle ferite toccate a Vienna, a Belgrado, a Rodi, a Damasco. Centinaia di rapsodi dalla voce tonante e dal gesto ispirato raccontavano, in mezzo a crocchi di musulmani superbi, le gesta degli eserciti che combattevano a tre mesi di marcia da Stambul. I pascià, i bey, gli agà, i musselim, un’infinità di dignitari e di gran signori, vestiti con uno sfarzo teatrale, accompagnati da frotte di servi, fendevano la folla che si curvava al loro passaggio come una messe sotto il soffio del vento; passavano, con un corteo da principi, ambasciatori di tutti gli Stati d’Europa, venuti a chieder pace o alleanza; sfilavano carovane cariche di doni di re africani ed asiatici; sciami di silidar e di spahì fastosi e insolenti, trascinavano per le vie i sciaboloni macchiati del sangue di venti popoli, e i bei paggi greci ed ungheresi del serraglio, vestiti come piccoli re, passeggiavano alteramente fra la moltitudine ossequiosa, che rispettava in loro i capricci snaturati del suo Signore. Qua e là, dinanzi alle porte, si vedeva un trofeo di bastoni nodosi: era un corpo di guardia di Giannizzeri, che allora esercitavano la polizia nell’interno della città. S’incontravano degli ebrei che portavano nel Bosforo il corpo dei giustiziati; si trovava ogni mattina nel Balik-bazar qualche cadavere disteso in terra, con la testa sotto l’ascella destra, la sentenza sul petto e una pietra sulla sentenza; si vedevano per le vie nobili impiccati al primo gancio o alla prima trave che avevano trovata i carnefici frettolosi; s’inciampava di notte in qualche disgraziato buttato in mezzo alla strada da una stanza di tortura dove gli avevano spezzato i piedi e le mani con una mazza; si vedevano sotto il sole di mezzogiorno dei mercanti colti in frode inchiodati per un orecchio all’uscio della loro bottega. E non c’essendo ancora la legge che restrinse poi la libertà sconfinata delle sepolture, si vedevano scavar fosse e sotterrar morti, ad ogni ora del giorno, nei giardini, nei vicoli, nelle piazze, dinanzi alle porte delle case. Si sentivano nei cortili gli urli dei montoni e degli agnelli scannati in olocausto ad Allà per le nascite e per le circoncisioni. A quando a quando passava di galoppo un drappello d’eunuchi gridando e minacciando, le vie si facevano deserte, le porte si chiudevano, le finestre si coprivano, un intiero quartiere pareva morto: e allora passavano in una fila di carrozze luccicanti le belle del Gran Signore, che empievano l’aria di profumi e di risa. Qualche volta un personaggio della corte, attraversando una strada affollata, impallidiva improvvisamente alla vista di sei popolani di meschina apparenza che entravano in una bottega: quei sei popolani erano il sultano, quattro ufficiali e un carnefice, che giravano di bottega in bottega per verificare i pesi e le misure. In tutto quanto il corpo enorme di Costantinopoli ribolliva una vita pletorica e febbrile. Il tesoro riboccava di gemme, gli arsenali, d’armi, le caserme, di soldati, i caravanserai, di viaggiatori; il mercato di schiavi era un formicaio di belle, di mercantesse e di gran signori; i dotti s’affollavano nei grandi archivi delle moschee; i visir dalla lunga lena preparavano alle generazioni future gli annali sterminati dell’impero; i poeti, pensionati dal serraglio, si raccoglievano nei bagni a cantare le guerre e gli amori imperiali; turbe d’operai bulgari ed armeni lavoravano ad innalzar moschee con blocchi di granito d’Egitto e di marmo di Paros, mentre per mare arrivavano le colonne dei tempi dell’Arcipelago e per terra le spoglie delle chiese di Pest e di Ofen; nel porto si allestivano le flotte di trecento vele che dovevano portare il terrore su tutte le rive del Mediterraneo; fra Stambul e Adrianopoli si spandevano cavalcate di settemila falconieri e di settemila guardacaccia, e negl’intervalli delle rivolte soldatesche, delle guerre lontane, degli incendi che riducevano in cenere ventimila case in una notte, si celebravano feste di trenta giorni dinanzi ai plenipotenziari di tutti gli stati dell’Affrica, dell’Asia e dell’Europa. Allora l’entusiasmo musulmano diventava follia. Al cospetto del Sultano e della corte, in mezzo a quelle smisurate palme di nozze, cariche d’uccelli, di frutti e di specchi, per dar passo alle quali si atterravano le case e le mura; in mezzo a file di leoni e di sirene di zucchero, portati da cavalli ingualdrappati di damasco argentato; in mezzo a monti di doni reali recati da tutte le parti dell’Impero e da tutte le corti del mondo, si alternavano le finte battaglie dei giannizzeri, i balli furiosi dei dervis, le mischie sanguinose dei prigionieri cristiani, i banchetti popolari di diecimila piatti di cuscussù; nell’Ippodromo danzavano gli elefanti e le giraffe; si sguinzagliavano tra la folla gli orsi e le volpi coi razzi alla coda; alle pantomime allegoriche succedevano le danze lascive, le mascherate grottesche, le processioni fantastiche, le corse, i carri simbolici, i giochi, le commedie, le ridde; la festa degenerava a poco a poco, col calar della notte, in un tumulto forsennato, e cinquecento moschee scintillanti di lumi formavano sopra la città un’immensa aureola di foco che annunziava ai pastori delle montagne dell’Asia e ai naviganti della Propontide, le orge della nuova Babilonia. Così era Stambul, la sultana formidabile, voluttuosa e sfrenata; appetto alla quale la città d’oggi non è più che una vecchia regina malata d’ipocondria.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.