Editoria: “Operaprima” di Simone Salomoni, un romanzo ad alta tensione narrativa

Alter Ego Edizioni

Operaprima
di Simone Salomoni

in uscita il 26 settembre 2023

L’esordio letterario di Salomoni è un romanzo inesorabile, in grado di fuggire il genere (linguistico, letterario, sessuale…) e fonde irrimediabilmente i confini tra l’amore e la disumanità.

Arriva in libreria il prossimo 26 settembre, per i tipi di Alter Ego Edizioni, il primo romanzo di Simone Salomoni, Operaprima. Docente della scuola Bottega di Narrazioni, Salomoni ci consegna un romanzo ad alta tensione narrativa dove i confini tra l’amore e la disumanità si fondono irrimediabilmente.

Prima ancora della storia, per descrivere il romanzo di Salomoni, si deve parlare delle scelte dello scrittore. Salomoni fugge ogni genere (linguistico, letterario, sessuale…): gioca con le parole astraendo la loro natura tanto da lasciare al lettore l’interpretazione. L’autore crea un vuoto attorno alle chiare descrizioni di genere a cui siamo sempre stati abituati, usando la lingua italiana in modo cesellato tanto da riuscire ad allontanare la natura di queste senza ricorrere ad asterischi o schwa.

Monghidoro, Appennino bolognese. Un pittore quarantenne con problemi di erezione è intento a preparare la mostra che dovrebbe cambiargli la carriera quando Marie Bertrand – avvocato quarantenne e madre di Simone Salomoni, frutto adolescente di una relazione passata – affitta per l’estate la porzione di casa adiacente alla sua. Marie resta affascinata dal pittore: acquista alcune opere, commissiona il ritratto di Simone, tenta di sedurlo. Anche Simone subisce il fascino dell’uomo: poco per volta si apre con lui, gli confessa gli abusi patiti nel passato, gli mostra un presente di autolesionismo e sessualità promiscua, lo lascia entrare nella propria caverna profonda permettendogli di leggere i suoi racconti. Il pittore si trova così costretto a scegliere fra la voglia di farsi cura per Simone – diventandone mentore e guida – e il bisogno di ritrovare la potenza sessuale e l’ispirazione artistica perdute.

Operaprima è un romanzo inesorabile, Salomoni racconta una storia che, come dice lo scrittore Fabio Bacà: “è un tratteggio limpido e inebriante della follia, dell’azzardo, della provocazione, della colpa, dell’ossessione, della brutalità e del coraggio che sovrintendono alla poiesi di qualunque opera d’arte degna di essere definita tale“.

Con uno stile meticoloso l’autore sorprende il lettore con una struttura originale. Al centro di tutte le vicende vi è l’arte, che, per dirlo con le parole dell’autore, “Quando scegli (l’arte), non puoi amare le persone come le persone vorrebbero essere amate, non puoi avere la grazia dell’amore e la gloria dell’arte, non puoi perché non appartieni completamente a te stesso e quindi non puoi appartenere del tutto a nessuno.”

Una narrazione che lascia senza respiro: Operaprima racconta una storia che rimane impressa nella mente, non tanto per gli interrogativi che ci pone, ma per la sua composizione in grado di andare al di là di ogni categorizzazione.

L’AUTORE

Simone Salomoni è nato a Bologna nel 1979. Laureato in Letteratura italiana contemporanea, sceneggia spot pubblicitari, video ed esperienze di realtà virtuale immersiva. Una sua installazione è stata proiettata nel cortile di Palazzo Foscari in occasione della Venice Art Night 2021. Insegna tecniche di narrazione e storytelling nel corso per Expert Mixed Reality di FITSTIC (Fondazione ITS Tecnologie Industrie Creative) ed è docente della Bottega di narrazione diretta da Giulio Mozzi. Operaprima è il suo primo romanzo.

DATI

Pagine: 172 | Formato: 14×21.5 | Prezzo: 16.00 € | ISBN: 9788893332460


Ufficio Stampa
Claudia Cervellini
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9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Il Ramazan

9- La vita a Costantinopoli – Il Ramazan

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

17


Trovandomi a Costantinopoli nel mese di Ramazan, che è il nono mese dell’anno turco, nel quale cade la quaresima musulmana, vidi ogni sera una scena comica che merita d’essere descritta. Durante tutta la quaresima è proibito ai turchi di mangiare, di bere e di fumare dal levar del sole al tramonto. Quasi tutti gozzovigliano poi tutta la notte; ma fin che c’è il sole, rispettano quasi tutti il precetto religioso, e nessuno ardisce di trasgredirlo pubblicamente. Una mattina il mio amico ed io andammo a visitare un nostro conoscente, aiutante di campo del Sultano, un giovane ufficiale spregiudicato, e lo trovammo in una stanza a terreno del palazzo imperiale, con una tazza di caffè fra le mani. Come mai – gli domandò Yunk – osate prendere il caffè dopo il levar del sole? – L’ufficiale scrollò le spalle e rispose che se ne rideva del Ramazan e del digiuno; ma proprio in quel punto s’aperse improvvisamente una porta, ed egli fece un movimento così rapido per nasconder la tazza, che se la versò mezza sui piedi. Si capisce da questo che rigorosa astinenza debbano serbare tutti coloro che stanno tutto il giorno sotto gli occhi della gente: i barcaioli per esempio. Per godersela, bisogna andarli a vedere dal ponte della Sultana Validè, qualche minuto prima che si nasconda il sole. Tra quei che stan fermi e quei che vogano, tra vicini e lontani, se ne vede intorno a un migliaio. Sono tutti digiuni dall’alba, arrabbiano dalla fame, han già la loro cenetta pronta nel caicco, girano continuamente gli occhi dal sole alla cena e dalla cena al sole, s’agitano e sbuffano come le fiere d’un serraglio nel momento della distribuzione delle carni. Il nascondersi del sole è annunziato da un colpo di cannone. Non c’è caso che prima di quel momento sospirato nessuno si metta in bocca nè un briciolo di pane nè una goccia d’acqua. Qualche volta, in un angolo del Corno d’oro, abbiamo stimolato a mangiare i barcaioli che ci conducevano; ma ci hanno sempre risposto: – Jok! Jok! Jok! – No, no, no –, accennando il sole con un atto timoroso. Quando il sole è nascosto per più della metà dietro i monti, cominciano a prendere in mano i loro pani, e a palparli e a fiutarli voluttuosamente. Quando non si vede più che un sottile arco luminoso, allora tutti quei che son fermi e tutti quei che remano, quelli che attraversano il Corno d’oro, quelli che guizzano sul Bosforo, quelli che vogano nel Mar di Marmara, quelli che riposano nei seni più solitari della riva asiatica, tutti si voltano verso occidente, e stanno immobili collo sguardo nel sole, colla bocca aperta, col pane in aria, colla gioia negli occhi. Quando non si vede più che un punto di foco, già̀ i mille pani toccano le mille bocche. Finalmente il punto di foco si spegne, il cannone tuona, e nello stesso momento trentaduemila denti staccano dai mille pani mille enormi bocconi; ma che dico mille! in tutte le case, in tutti i caffè, in tutte le taverne, accade nel medesimo punto la medesima cosa; e per qualche minuto, la città turca non è più che un mostro di centomila bocche che tracanna e divora.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
Leggi su Wikipedia

Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Maometto

9- La vita a Costantinopoli Maometto

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

16


A proposito di religione, io non potevo, passeggiando per Costantinopoli, levarmi dalla testa questo pensiero: se non si sentisse la voce dei muezzin, come s’accorgerebbe un cristiano che la religione di questo popolo non è la sua? L’architettura bizantina delle moschee può farle parere chiese cristiane; del rito islamitico non si vede alcun segno esteriore; i soldati turchi scortano il viatico; un cristiano ignorante potrebbe vivere un anno a Costantinopoli senz’accorgersi che sulla maggior parte della popolazione regna Maometto invece di Cristo. E questo pensiero mi riconduceva sempre a quello delle piccole differenze sostanziali, del filo d’erba, come dicevano gli abissini cristiani ai primi seguaci di Maometto, che divide le due religioni; e alla piccola causa per la quale avvenne che l’Arabia si convertisse all’islamismo, invece che al cristianesimo, o se non al cristianesimo a una religione così strettamente affine ad esso, che, o confondendosi con esso posteriormente od anche rimanendo tal quale, avrebbe mutate affatto le sorti del mondo orientale. E quella piccola causa fu la natura voluttuosa d’un bel giovane arabo, alto, bianco, dagli occhi neri, dalla voce grave, dall’anima ardente, il quale, non avendo la forza di dominare i propri sensi, invece di recidere alle radici il vizio dominante del suo popolo, si contentò di potarlo; invece di proclamare l’unità coniugale come proclamò l’unità di Dio, non fece che stringere in un cerchio più angusto, consacrato dalla religione, la dissolutezza e l’egoismo dell’uomo. Certo ch’egli avrebbe avuto a vincere una resistenza più forte; ma non può parere impossibile che la vincesse, chi atterrò, per fondare il culto d’un Dio unico fra un popolo idolatra, un edifizio enorme di tradizioni, di superstizioni, di privilegi, d’interessi d’ogni natura, strettissimamente intrecciati da secoli, e chi fece accettare fra i dogmi della sua religione, per cui morirono poi milioni di credenti, un paradiso, il cui primo annunzio destò in tutto il suo popolo un sentimento d’indignazione e di scherno. Ma il bel giovane arabo patteggiò coi suoi sensi e mezza la terra mutò faccia, poiché̀ fu veramente la poligamia il vizio capitale della sua legislazione, e la cagione prima della decadenza di tutti i popoli che abbracciarono la sua fede. Senza questa degradazione dell’un sesso a favore dell’altro, senza la sanzione di questa enorme ingiustizia, che turba tutto quanto l’ordine dei doveri umani, che corrompe la ricchezza, che opprime la povertà, che fomenta l’ignavia, che snerva la famiglia, che generando la confusione dei diritti di nascita nelle dinastie regnanti, sconvolge le regge e gli Stati, che s’oppone, infine, come una barriera insuperabile all’unione della società musulmana colle società d’altra fede che popolano l’oriente; se, per tornare alla prima cagione, il bel giovane arabo avesse avuto la disgrazia di nascere un po’ meno robusto o la forza di vivere un po’ più casto, chi sa! forse ci sarebbe ora un Oriente ordinato e civile, e sarebbe più innanzi d’un secolo la civiltà universale.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – La cucina

9- La vita a Costantinopoli – La cucina

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Volendo fare un po’ di studio anche della cucina turca, mi feci condurre dai miei buoni amici di Pera in una trattoria ad hoc, dove si trova qualunque piatto orientale, dalle più squisite ghiottornie del Serraglio fino alla carne di cammello acconciata all’araba e alla carne di cavallo condita alla turcomanna. L’amico Santoro ordinò un desinare rigorosamente turco dall’antipasto alle frutta, ed io, incoraggiandomi col pensiero dei molti uomini egregi morti per la scienza, mandai giù un po’ di tutto senza emettere un grido. Ci furono serviti più d’una ventina di piatti. I Turchi, come gli altri popoli orientali, sono un po’ in questo come i ragazzi: al satollarsi di poche cose, preferiscono il beccare un tantino di moltissime; pastori d’ieri l’altro, poiché son diventati cittadini, pare che disdegnino la semplicità del mangiare come una pitoccheria da villani. Non potrei rendere un conto esatto di tutte le pietanze poiché di molte non m’è rimasta che una vaga reminiscenza sinistra. Ricordo il Rebab, che è composto di piccolissimi pezzetti di montone arrostiti a fuoco vivo, conditi con molto pepe e molto garofano, e serviti su due biscotti molli e grassi: piatto indicabile per i reati leggieri. Risento ancora qualche volta il sapore del pilav, composto di riso e di montone, ch’è il sine qua non di tutti i desinari, e per così dire il piatto sacramentale dei turchi, come i maccheroni per i napoletani, il cuscussù per gli arabi e il puchero per gli Spagnoli. Ricordo, ed è la sola cosa che ricordi con desiderio, il Rosh’ab, che si beve col cucchiaio in fin di tavola: fatto d’uva secca, di pomi, di prune, di ciliegie e d’altre frutta, cotte nell’acqua con molto zucchero, e aggraziate con essenza di muschio o con acqua di rosa e di cedro. C’erano poi molti altri piattini di carne d’agnello e di montone, ridotta in bricioli e bollita tanto che non aveva quasi più sapore; dei pesci natanti nell’olio, delle pallottoline di riso ravvolte in foglie di vite, della zucca giulebbata, delle insalatine impastate, delle composte, delle conserve, degl’intingoli conditi con ogni sorta di erbe aromatiche, da poterne notar uno in coda ad ogni articolo del Codice penale, per i delinquenti recidivi. Infine, un gran piatto di dolci, capolavoro di qualche pasticciere arabo, fra cui v’era un piccolo piroscafo, un leoncino chimerico e una casettina di zucchero colle sue finestrine ingraticolate. Tutto sommato, mi parve d’essermi vuotata in corpo una farmacia portatile, e d’aver veduto uno di quei desinaretti che preparano per spasso i ragazzi, coprendo una tavola di piattini pieni di mattone trito, d’erba pesta e di frutti spiaccicati, che facciano un bel vedere di lontano. Tutti quei piatti vengono serviti rapidamente a quattro o cinque alla volta, e i turchi vi pescano colle dita, non essendo in uso fra loro altro che il coltello e il cucchiaio; e serve per tutti una sola coppa, nella quale un servitore versa continuamente acqua concia. Così non facevano però i turchi che desinavano vicino a noi nella trattoria. Eran turchi amanti dei propri comodi, tanto è vero che tenevano le babbucce sulla tavola; avevano ciascuno il loro piatto, si servivano bravamente della forchetta, e trincavano liquore a tutto spiano, in barba a Maometto. Osservai di più che non baciarono il pane, da buoni musulmani, prima di cominciare a mangiare, e che non si peritavano a slanciare tratto tratto un’occhiata concupiscente alle nostre bottiglie, quantunque, giusta le sentenze dei muftì, sia peccato anche il fissar gli occhi sopra una bottiglia di vino. Del resto questo «padre delle abbominazioni», del quale basta una goccia a far cadere sul capo del musulmano «gli anatemi di tutti gli angeli del cielo e della terra» va di giorno in giorno guadagnando devoti fra i turchi, e ormai si può dire che è un resto di rispetto umano quello che li trattiene dal rendergli un pubblico omaggio; e io credo che se un giorno scendesse tutt’a un tratto sopra Costantinopoli una tenebra fitta, e dopo un’ora tornasse a splendere il sole improvvisamente, si sorprenderebbero cinquantamila turchi colla bottiglia alla bocca. E anche in questo, come in molti altri traviamenti degli Osmanli, furono la pietra dello scandalo i Sultani; ed è curioso che sia appunto la dinastia regnante sopra un popolo per il quale è un’offesa a Dio il bever vino, quella che forse, fra tutte le dinastie d’Europa, ha dato da registrare alla storia un maggior numero d’ubbriaconi: tanto è parso dolce il frutto proibito anche alle ombre di Dio sulla terra. Fu, si dice, Baiazet I quello che iniziò la serie interminabile delle cotte imperiali, e come nel peccato originale, fu anche in questo prima colpevole la donna: la moglie dello stesso Baiazet, figlia del re dei Serbi, che offerse al marito il primo bicchiere di Tokai. Poi Baiazet II s’ubbriacò di vin di Cipro e di vin di Schiraz. Poi quel medesimo Solimano I, che fece bruciare nel porto di Costantinopoli tutti i bastimenti carichi di vino e versar piombo liquefatto in bocca ai bevitori, morì brillo per mano d’un arciere. Poi venne Selim II, soprannominato il messth, l’ubbriaco, il quale pigliava delle bertucce che duravano tre giorni, e durante il suo regno trincarono pubblicamente uomini di legge e uomini di religione. Invano Maometto III tuona contro «l’abbominazione suggerita dal demonio»; invano Ahmed I fa distruggere tutte le taverne e sfondare tutti i tini di Stambul; invano Murad IV gira per la città accompagnato dal carnefice, e fa cader la testa di chi ha il fiato vinoso. Egli stesso, l’ipocrita feroce, barcolla per le sale del serraglio come un bettolante plebeo; e dopo di lui la bottiglia, piccolo e festoso folletto nero, irrompe nei serragli, si caccia nelle botteghe dei bazar, si nasconde sotto il capezzale dei soldati, ficca la sua testa inargentata o purpurea sotto il divano delle belle, e violata la soglia delle moschee, spruzza le sue spume sacrileghe sulle pagine ingiallite del Corano.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – I teatri

9- La vita a Costantinopoli – I teatri

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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A Costantinopoli, chi è molto forte di stomaco, può passar la sera al teatro, e può scegliere tra una canaglia di teatruccoli d’ogni specie, molti dei quali sono insieme giardini e birrerie, e in qualcuno si ritrova sempre la commedia italiana, o piuttosto una muta di attori italiani, i quali fanno spesso desiderare di veder convertita la platea in un vasto mercato di frutta verde. I turchi, però, frequentano di preferenza i teatri in cui certe francesi imbellettate, scollacciate e sfrontate, cantano delle canzonette coll’accompagnamento d’un’orchestra da galera. Uno di questi teatri era allora l’Alhambra, posto nella gran via di Pera: un lungo stanzone, sempre affollato, e tutto rosso di fez dal palco scenico alla porta. Che cosa fossero quelle canzonette e con che razza di gesti quelle intrepide signore s’ingegnassero di farne capire ai turchi i significati riposti, non si può né immaginare né credere. Solo chi è stato al teatro los Capellanes di Madrid, può dire d’aver sentito e visto qualchecosa di simile. Agli scherzi più procaci, ai gesti più impudenti, tutti quei turconi, seduti in lunghe file, prorompevano in grasse risa; e cadendo allora dalle loro facce la maschera della dignità abituale, vi appariva tutto il fondo della loro natura e tutti i segreti della loro vita grossolanamente sensuale. Eppure, non v’è nulla che il turco nasconda abitualmente così bene come la sensualità della sua natura e della sua vita. Per le strade, l’uomo non s’accompagna mai alla donna; raramente la guarda; più raramente ne parla; ritiene quasi come un’offesa che gli si domandi notizia delle sue mogli; a giudicar dalle apparenze, si direbbe che quel popolo sia il più casto e il più austero della terra. Ma sono mere apparenze. Quello stesso turco che arrossisce fino alle orecchie se gli si domanda come sta la sua sposa, manda i suoi bimbi e le sue bimbe a sentire le turpissime oscenità di Caragheus, che corrompe la loro fantasia prima che si siano svegliati i loro sensi; ed egli stesso dimentica sovente le dolcezze dell’arem per le voluttà nefande di cui diede il primo esempio famoso Baiazet la folgore, e non l’ultimo, probabilmente, Mahmut il riformatore. E quando non ci fosse altro, basterebbe quel Caragheus a dare nello stesso tempo un’immagine e una prova della profonda corruzione che si nasconde sotto il velo dell’austerità musulmana. È una figurina grottesca che rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d’ombra cinese, che muove le braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi sempre da protagonista in certe commediole strampalatamente buffonesche, di cui il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egli è un quissimile, ma depravato, di Pulcinella: sciocco, furbo e cinico, lussurioso come un satiro, sboccato come una baldracca, e fa ridere, anzi urlare d’entusiasmo l’uditorio con ogni sorta di lazzi, di bisticci e di gesticolamenti stravaganti, che sono o nascondono ordinariamente un’oscenità. E di che natura siano queste oscenità, è facile immaginarlo quando si sappia che se Caragheus nello spirito somiglia a Pulcinella, nel corpo somiglia a Priapo; della quale somiglianza, prima che la censura restringesse d’alquanto la sua libertà sconfinata, egli dava tratto tratto la prova visibile alla platea, e spesso tutta la commedia girava sopra questo nobilissimo perno.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Gli Italiani

9- La vita a Costantinopoli – Gli Italiani

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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La colonia italiana è una delle più numerose di Costantinopoli; ma non delle più prospere. Ha pochi ricchi, molti miserabili, specialmente operai dell’Italia meridionale che non trovano lavoro, ed è la colonia più meschinamente rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata, perché i suoi giornali non fanno che nascere e morire. Quando c’ero io, s’aspettava l’apparizione del Levantino, ed era uscito intanto un numero di saggio, che annunziava i titoli accademici e i meriti speciali del direttore: settantasette in tutto, senza contare la modestia. Bisogna passeggiare la mattina della domenica in via di Pera, quando le famiglie italiane vanno alla messa. Si sentono parlare tutti i dialetti d’Italia. Io mi ci godevo; ma non sempre. Qualche volta sentivo quasi pietà al vedere tanti miei concittadini senza patria, molti dei quali dovevano esser stati sbalestrati là chi sa da che avvenimenti dolorosi o strani; al veder quei vecchi, che forse non avrebbero mai più riveduta l’Italia; quei bambini, a cui quel nome non doveva risvegliare che un’immagine confusa d’un paese caro e lontano; quelle ragazze di cui molte dovevano forse sposare uomini d’un’altra nazione, e fondar famiglie in cui non sarebbe rimasto altro d’italiano che il nome e le memorie della madre. Vedevo delle belle genovesine che parevano discese allora dai giardini dell’Acquasola, dei bei visetti napoletani, delle testine capricciose che mi pareva d’aver incontrate cento volte sotto i portici di Po o sotto la Galleria di Milano. Avrei voluto legarle tutte a due a due con un nastrino color di rosa, metterle in un bastimento e ricondurle in Italia filando quindici nodi all’ora. Come curiosità, avrei anche voluto portare in Italia un saggio della lingua italiana che si parla a Pera dagl’italiani nati nella colonia; e specialmente da quelli della terza o della quarta generazione. Un accademico della Crusca che li sentisse, si metterebbe a letto colla terzana. La lingua che formerebbero mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e un facchino romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla in riva al Corno d’oro. È un italiano già bastardo, screziato d’altre quattro o cinque lingue alla loro volta imbastardite. E il curioso è che, in mezzo agl’infiniti barbarismi, si sentono dire di tratto in tratto, da coloro che hanno qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole illustri, come dei puote, degli imperocchè, degli a ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di letture d’Antologia, colle quali molti di quei nostri buoni compatrioti cercano, nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste. Ma appetto agli altri, costoro posson pretendere, come diceva il Cesari, alla fama di buoni dicitori. Ce n’è di quelli che non si capiscono quasi più. Un giorno fui accompagnato non so dove da un giovanetto italiano di sedici o diciassette anni, amico d’un mio amico, nato a Pera. Per strada, attaccai discorso. Mi parve che non volesse parlare. Rispondeva a mezza voce, a parole tronche, abbassando la testa, e facendo il viso rosso: si vedeva che pativa. – Via che cos’ha? – gli domandai. – Ho – rispose sospirando – che parlo tanto male! – Continuando a discorrere, in fatti, m’accorsi che balbettava un italiano bizzarro, pieno di parole contraffatte e incomprensibili, molto somigliante a quella così detta lingua franca, la quale, come disse un bell’umore francese, consiste in un certo numero di vocaboli e di modi italiani, spagnoli, francesi, greci, che si buttano fuori l’un dopo l’altro rapidissimamente, finché se ne imbrocca uno che sia capito dalla persona che ascolta. Questo lavoro, però, occorre raramente di farlo a Pera e a Galata, dove un po’ d’italiano lo capiscono e lo parlano quasi tutti, compresi i turchi. Ma è lingua, se si può chiamar lingua, quasi esclusivamente parlata, se si può dir parlata. La lingua più comunemente usata scrivendo è la francese. Letteratura italiana non ce n’è. Mi ricordo soltanto d’aver trovato un giorno, in un caffè di Galata affollato di negozianti, in fondo a un giornaletto commerciale scritto metà in francese e metà in italiano, sotto le notizie della Borsa, otto versetti malinconici, che parlavano di zeffiri, di stelle e di sospiri. Oh, povero poeta! Mi parve di veder lui, in persona, sepolto sotto un mucchio di mercanzie, che esalasse con quei versi il suo ultimo fiato.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli

9- La vita a Costantinopoli

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

12


In casa del mio buon amico Santoro si radunavano ogni sera molti italiani: avvocati, artisti, medici, negozianti, coi quali passai delle ore carissime. Quella era una conversazione! Se fossi stato stenografo, avrei potuto cavarne ogni sera un libro amenissimo. Il medico che aveva visitato un arem, il pittore ch’era stato sul Bosforo a fare il ritratto a un pascià, l’avvocato che aveva difeso una causa dinanzi a un tribunale, il caposcarico che aveva stretto il nodo d’un amoretto internazionale, raccontavano le loro avventure, ed ogni racconto era un bozzetto graziosissimo di costumi orientali. Ogni momento se ne sentiva una nuova. Arrivava uno: – Sapete quello che è seguito stamani? Il Sultano ha tirato un calamaio sulla testa al ministro delle finanze. – Arrivava un altro: – Avete inteso la notizia? Il governo, dopo tre mesi, ha finalmente pagato gli stipendi agli impiegati, e Galata è inondata da un torrente di monete di rame. – Arrivava un terzo, e raccontava che un turco presidente di tribunale, irritato delle cattive ragioni colle quali un cattivo avvocato francese difendeva una causa sballata, gli aveva fatto questo bel complimento in presenza di tutto l’uditorio: – Caro avvocato, è inutile che tu ti affanni tanto per far parer buona la tua causa; la… – e aveva pronunziato in tutte lettere la parola di Cambronne – per quanto la si volti e la si rivolti, è sempre… – e aveva pronunziato un’altra volta quella parola. La conversazione, naturalmente, spaziava in un campo geografico affatto nuovo per me. Colla stessa frequenza con cui si parla fra noi di persone e di cose di Parigi, di Vienna, di Ginevra, là si parlava di persone e di cose di Tiflis, di Trebisonda, di Teheran, di Damasco, dove uno aveva un amico, un altro c’era stato, un terzo ci voleva andare; io mi sentivo nel centro d’un altro mondo, e tutt’intorno mi si aprivano nuovi orizzonti. E qualche volta pensavo con rammarico al giorno in cui avrei dovuto rientrare nel cerchio angusto della mia vita ordinaria. Come potrò più adattarmi – dicevo tra me – a quei soliti discorsi e a quei soliti casi? E questo è un sentimento che provano tutti gli Europei di Costantinopoli. A chi ha vissuto quella vita, ogni altra pare che debba riuscire scolorita e uniforme. È una vita più leggiera, più facile, più giovanile di quella d’ogni altra città d’Europa. Quel viver là come accampati in un paese straniero, in mezzo a un succedersi continuo d’avvenimenti strani e imprevedibili, finisce coll’infondere un certo sentimento della instabilità e della futilità delle cose mondane, che somiglia molto alla fede fatalistica dei musulmani, e dà una certa serenità spensierata d’avventurieri. L’indole di quel popolo che vive, come disse un poeta, in una specie di famigliarità intima colla morte, considerando la vita come un pellegrinaggio, durante il quale né c’è tempo né mette conto di prefiggersi dei grandi scopi da conseguire con lunghe fatiche, si attacca a poco a poco anche all’europeo, e lo riduce a vivere un po’ alla giornata, senza frugar troppo dentro sé stesso, e facendo nel mondo, per quanto gli è possibile, la parte semplice e riposata di spettatore. L’aver che fare con popoli tanto diversi, e il dover pensare e parlare un po’ a modo di tutti, dà allo spirito una certa leggerezza che lo fa come sorvolare a molti sentimenti ed idee, a cui noi, nei nostri paesi, vorremmo che si conformasse il mondo, e per ottenerlo, e del non poterlo ottenere, ci affanniamo. Oltreché la presenza del popolo musulmano, oggetto continuo di curiosità e di osservazione, è uno spettacolo di tutti i giorni, che rallegra e svia la mente da molti pensieri e da molte cure. E a questo giova anche la forma della città assai più che non potrebbero fare le città nostre, nelle quali lo sguardo e il pensiero è quasi sempre come imprigionato in una strada o in un circuito angusto; mentre là, ad ogni tratto, occhio e mente trovano una scappatoia per la quale si slanciano a immense lontananze ridenti. E c’è infine una illimitata libertà di vita, concessa dalla grandissima varietà dei costumi: là tutto si può fare, nulla stupisce; la notizia della cosa più strana muore appena uscita in quell’immensa anarchia morale; gli europei vivono là come in una confederazione di repubbliche; vi si gode la libertà che si godrebbe in qualunque città europea nel momento d’un grande trambusto; è come un veglione interminabile o un perpetuo Martedì Grasso. Per questo, più che per la bellezza, Costantinopoli è una città, che non si può abitare un certo tempo, senza ricordarla poi con un sentimento quasi di nostalgia; per questo gli europei l’amano ardentemente e vi mettono radici profonde; ed è giusto in questo senso il chiamarla come i turchi «la fata dai mille amanti» o dire col loro proverbio che chi ha bevuto dell’acqua di Top-hané, – non c’è più rimedio, – è innamorato per la vita.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – La notte

9- La vita a Costantinopoli – La notte

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

11


Costantinopoli è di giorno la città più splendida e di notte la città più tenebrosa d’Europa. Pochi fanali, a gran distanza l’un dall’altro, rompono appena l’oscurità nelle vie principali; le altre son buie come spelonche, e non vi è chi ci s’arrischi senza un lume alla mano. Perciò, col cader della notte, la città si fa deserta; non si vedono più che guardie notturne, frotte di cani, peccatrici furtive, qualche brigata di giovanotti che sbuca dalle birrerie sotterranee, e lanterne misteriose che appariscono e spariscono, come fuochi fatui, qua e là per i vicoli e pei cimiteri. Allora bisogna contemplare Stambul dai luoghi alti di Pera e di Galata. Le innumerevoli finestrine illuminate, i fanali dei bastimenti, i riflessi del Corno d’oro e le stelle, formano sopra un orizzonte di quattro miglia un immenso tremolio di punti di foco, in cui si confondono il porto, la città ed il cielo, e par tutto firmamento. E quando il cielo è nuvoloso e in un piccolo spazio sereno splende la luna, si vedono sopra Stambul tutta scura, sopra le macchie nerissime dei boschi e dei giardini, biancheggiare le moschee imperiali, come una fila di enormi tombe di marmo, e la città presenta l’immagine della necropoli d’un popolo di giganti. Ma è anche più bella e più solenne nelle notti senza stelle e senza luna, nell’ora in cui tutti i lumi son spenti. Allora non si vede che un’immensa macchia nera dal Capo del Serraglio al sobborgo d’Eyub, un profilo smisurato in cui le colline sembran montagne, e le punte infinite che le coronano, pigliano apparenze fantastiche di foreste, di eserciti, di rovine, di castelli, di rocce, che fanno vagare la mente nelle regioni dei sogni. In queste notti oscure, è bello il contemplare Stambul da un’alta terrazza e abbandonarsi alla propria fantasia: penetrar col pensiero in quella grande città tenebrosa, scoperchiare quella miriade di arem rischiarati da una luce languente, veder le belle favorite che tripudiano, le abbandonate che piangono, gli eunuchi frementi che tendono l’orecchio alle porticine; seguire gli amanti notturni per i labirinti dei vicoli montuosi; girare per le gallerie silenziose del gran bazar, passeggiare per i vasti cimiteri deserti, smarrirsi in mezzo alle innumerevoli colonne delle grandi cisterne sotterranee; raffigurarsi d’esser rimasti chiusi nella gigantesca moschea di Solimano e di far risonare le navate oscure di grida di spavento e d’orrore strappandosi i capelli e invocando la misericordia di Dio; e poi tutt’a un tratto esclamare: – Che baie! Sono sulla terrazza del mio amico Santoro, e nella sala di sotto m’aspetta una cena da sibarita in compagnia dei più amabili capi ameni di Pera.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

Editoria: “Il magico mondo di Sandy” di Daniela Viviano

Breve estratto

“Sagana: -Tieni questo bracciale! Non toglierlo mai, intesi? Il bracciale nasconderà la voglia a forma di fiore che hai al polso. Sai bene che quella voglia ti contraddistingue come una strega delle paludi a tutti gli effetti. –

 Sandy: -Non lo toglierò mai, te lo prometto! -.”

Un viaggio fantastico che l’autrice dedica a tutti gli adolescenti di oggi

Il magico mondo di Sandy è un romanzo fantasy.
È la storia di una fatina di nome Sandy che dopo essere venuta a conoscenza della sua vera identità, quella di fata e non di strega, un’identità che le è sempre stata negata per turpi fini, intraprende un viaggio avventuroso alla ricerca delle sue vere radici.
Nel suo intrepido viaggio non sarà da sola, ma per sua fortuna potrà godere della compagnia e della forza di quattro simpatiche maghette e di un bizzarro e affascinante elfo che scoprirà ben presto essere la sua anima gemella.
Il magico modo di Sandy non è solo un viaggio iniziatico di un essere sovrannaturale, ma anche la metafora di un viaggio di crescita di una preadolescente che scoprirà grazie al suo coraggio e all’aiuto di amici veri, quella che è la sua vera essenza, un’essenza magica con la quale sarà in grado di sconfiggere il male in nome del Bene.

Daniela Viviano – Biografia

Regista, autrice, attrice e lettrice professionista, leader yoga della risata, clown-dottore, improvvisatrice teatrale con teatro–ragazzi, marionette, letture animate e fiabe per pubblico di infanzia, regista di cene col delitto, monologhi comici e riflessivi al femminile e docente per un pubblico adulto.
Ha pubblicato una sua fiaba con la casa editrice Pagine di Roma, che è stata inserita nella collana “l’Antologia delle fiabe dei nonni e delle nonne”.
Sul sito www.fiabeadomicilio.com realizza fiabe personalizzate cartacee per adulti e bambini.
Ha realizzato un fumetto con la disegnatrice Chiara Romagnoli per bambini dal titolo “In volo con Nenè”.
Ha scritto il romanzo fantasy per teenagers dal titolo “Il magico mondo di Sandy”.

Il romanzo Il mondo magico di Sandy dell’autrice Daniela Viviano è disponibile in versione cartacea su Amazon:


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

Travel Blogger: https://www.iriseperiplotravel.com
Staff Radio Nord Borealis: https://www.radionordborealis.it/ 

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – L’ozio

9- La vita a Costantinopoli – L’ozio

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

10


Benché in qualche ora del giorno Costantinopoli paia molto operosa, in realtà è forse la città più pigra dell’Europa. Per questo, turchi e franchi si possono dare la mano. Si levano tutti il più tardi possibile. Anche d’estate, all’ora in cui le nostre città son già in movimento da un capo all’altro, Costantinopoli dorme ancora. Prima che il sole sia alto, è difficile trovare una bottega aperta e poter bere una tazza di caffè. Alberghi, uffici, bazar, banche, tutto russa allegramente, e non si scuoterebbe nemmeno col cannone. S’aggiungano le feste: il venerdì dei turchi, il sabato degli ebrei, la domenica dei cristiani, i santi innumerevoli dei calendari greci ed armeni, osservati scrupolosamente; tutte feste che, sebbene siano parziali, costringono all’ozio anche una parte della popolazione che v’è straniera; e s’avrà un’idea del lavoro che può fare Costantinopoli nel giro di sette giorni. Vi sono degli uffici che non stanno aperti più di ventiquattr’ore per settimana. Ogni giorno v’è uno dei cinque popoli della grande città che va a zonzo per le strade, in abito festivo, senz’altro pensiero che d’ammazzare il tempo. In quest’arte i turchi sono maestri. Son capaci di far durare per una mezza giornata una tazza di caffè da due soldi e di star cinque ore immobili ai piedi d’un cipresso d’un cimitero. Il loro ozio è veramente l’ozio assoluto, fratello della morte come il sonno, un riposo profondo di tutte le facoltà, una sospensione di tutte le cure, un modo di esistenza affatto sconosciuto agli europei. Non vogliono nemmeno aver il pensiero di passeggiare. A Stambul non ci sono passeggi fatti espressamente, e se ci fossero, il turco non ci andrebbe, perché l’andare apposta in un luogo determinato per far del movimento, gli parrebbe una specie di lavoro. Egli entra nel primo cimitero o infila la prima strada che gli si presenta, e va senza proposito dove lo portano le gambe, dove lo conducono i serpeggiamenti del sentiero, dove lo trascina la folla. Raramente egli va in un luogo per vedere il luogo. Vi sono dei turchi di Stambul che non sono mai andati più in là di Kassim-pascià, dei signori musulmani che non si sono mai spinti oltre le isole dei Principi dove hanno un amico, e oltre il Bosforo dove hanno una villa. Per loro il colmo della beatitudine consiste nell’inerzia della mente e del corpo. Perciò lasciano ai cristiani irrequieti le grandi industrie che richiedono cure, passi e viaggi; e si ristringono al commercio minuto, che si può esercitar da seduti, e quasi più cogli occhi che col pensiero. Il lavoro che fra noi è quello che signoreggia e regola tutte le altre occupazioni della vita, là è subordinato, come un’occupazione secondaria, a tutti i comodi e a tutti i piaceri. Qui, il riposo non è che un’interruzione del lavoro; là il lavoro non è che una sospensione del riposo. Prima bisogna a qualunque costo dormicchiare, sognare, fumare, quelle tante ore; e poi, nei ritagli di tempo, far qualche cosa per procacciarsi la vita. Il tempo, per i turchi, significa tutt’altra cosa da quel che significa per noi. La moneta giorno, mese, anno, per loro non ha che la centesima parte del valore che ha in Europa. Il minor tempo che domandi un impiegato d’un ministero turco per dare una qualunque risposta intorno al più semplice affare, è un paio di settimane. La premura di finire una cosa per il piacere di finirla, non sanno che cosa sia. Dai facchini all’infuori, non si vede mai per le vie di Stambul un turco affaccendato che affretti il passo. Tutti camminano colla stessa cadenza, come se misurassero tutti l’andatura al suono d’uno stesso tamburo. Per noi la vita è un torrente che precipita; per loro è un’acqua che dorme.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.