9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – La luce

9- La vita a CostantinopoliLa luce

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

1


E prima d’ogni cosa, la luce! Uno dei miei piaceri più vivi, a Costantinopoli, era di veder levare e tramontare il sole, stando sul ponte della Sultana Validè. All’alba, in autunno, il Corno d’oro è quasi sempre coperto da una nebbia leggiera, dietro alla quale si vede la città confusamente, come a traverso quei’ veli bianchi che si calano sul palco scenico per nascondere gli apparecchi d’una scena spettacolosa. Scutari è tutta coperta: non si vedono che i contorni scuri ed incerti delle sue colline. Il ponte e le rive sono deserti, Costantinopoli dorme: la solitudine e il silenzio rendono lo spettacolo più solenne. Il cielo comincia a dorarsi dietro le colline di Scutari. Su quella striscia luminosa si disegnano ad una ad una, precise e nerissime, le punte dei cipressi del vastissimo cimitero, come un esercito di giganti schierati sopra le alture; e da un capo all’altro del Corno d’oro corre un luccichio leggerissimo che è come il primo fremito della grande città che risente la vita. Poi dietro ai cipressi della riva asiatica, spunta un occhio di foco, e subito le sommità bianche dei quattro minareti di Santa Sofia si colorano di rosa. In pochi momenti, di collina in collina, di moschea in moschea, fino in fondo al Corno d’oro, tutti i minareti, l’un dopo l’altro, arrossiscono, tutte le cupole, una dopo l’altra, s’inargentano, il rossore discende di terrazzo in terrazzo, il luccichio s’allarga, il gran velo cade, e tutta Stambul appare, rosata e risplendente sulle alture, azzurrina e violacea lungo le rive, tersa e fresca, che pare uscita dalle acque. A misura che il sole s’alza, la delicatezza delle prime tinte svanisce in un immenso chiarore, e tutto rimane come velato dalla bianchezza della luce fin verso sera. Allora lo spettacolo divino ricomincia. L’aria è limpida tanto che da Galata si vedono nettamente uno per uno gli alberi lontanissimi dell’ultima punta di Kadi-Kioi. Tutto l’immenso profilo di Stambul si stacca dal cielo con una nitidezza di linee e un vigore di colori, che si potrebbero contare, punta per punta, tutti i minareti, tutte le guglie, tutti i cipressi che coronano le alture dal capo del Serraglio al cimitero d’Eyub. Il Corno d’oro e il Bosforo pigliano un meraviglioso colore oltremarino: il cielo, color d’amatista a oriente, s’infuoca dietro Stambul, tingendo l’orizzonte d’infiniti lumeggiamenti di rosa e di carbonchio che fanno pensare al primo giorno della creazione; Stambul s’oscura, Galata s’indora, e Scutari, percossa dal sole cadente, tutta scintillante di vetri, pare una città in preda alle fiamme. È questo il più bel momento per contemplare Costantinopoli. È una rapida successione di tinte soavissime, d’oro pallido, di rosa e di lilla, che tremolano e fuggono su per i fianchi dei colli e sulle acque, dando e togliendo ora all’una ora all’altra parte della città il primato della bellezza e rivelando mille piccole grazie pudiche di paesaggio che non osavano mostrarsi alla gran luce. Si vedono dei grandi sobborghi malinconici, perduti nell’ombra delle valli; delle piccole città purpuree, che ridono sulle alture; villaggi e città che languono, come se mancasse loro la vita; altre che muoiono tutt’a un tratto come incendi soffocati; altre che, credute già morte, risuscitano improvvisamente, tutte in foco, e tripudiano ancora per qualche momento sotto l’ultimo raggio del sole. Poi non rimangono più che due cime risplendenti sulla riva dell’Asia: la sommità del monte Bulgurlù e la punta del capo che guarda l’entrata della Propontide; son prima due corone d’oro, poi due berrettine di porpora, poi due rubini; poi tutta Costantinopoli è nell’ombra, e dieci mila voci annunziano il tramonto dall’alto di dieci mila minareti.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

8- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Il Gran Bazar

8- Il Gran Bazar

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L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del Corno d’oro, è tempo di entrare nel cuore di Stambul, d’andar a vedere quella fiera universale e perpetua, quella città nascosta, oscura, piena di meraviglie, tesori e di memorie, che si distende fra la collina di Nuri-Osmanié e quella del Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar.

Partiamo dalla piazza della moschea Sultana-Validè.

Qui forse si vorrebbe fermare più d’un lettore goloso per dare un’occhiata al Balik- Bazar, mercato dei pesci, famoso fin dai tempi di quel vecchio Andronico Paleologo, il quale, com’è noto, dal solo prodotto della pesca lungo le mura della città ricavava di che far fronte alle spese culinarie di tutta la sua corte. La pesca, infatti, è ancora abbondantissima a Costantinopoli, e il Balik-Bazar, nei suoi bei giorni, potrebbe offrire all’autore del Ventre de Paris il soggetto d’una descrizione pomposa e appetitosa come le grandi mense dei vecchi quadri olandesi. I venditori son quasi tutti turchi, e stanno schierati intorno alla piazza, coi pesci ammucchiati sopra stuoie distese in terra, o sopra lunghe tavole, intorno a cui si disputano lo spazio una folla di compratori e un esercito di cani. Là si ritrovano le triglie squisite del Bosforo, quattro volte più grosse di quelle dei nostri mari; le ostriche dell’isola di Marmara, che i Greci e gli Armeni soli sanno cuocere a punto sulla brace; le palamite e i tonni che son salati quasi esclusivamente dagli Ebrei; le alici che i Turchi impararono a salare dai Marsigliesi; le sardelle di cui Costantinopoli provvede l’Arcipelago; gli ulufer, i pesci più saporiti del Bosforo, che si pigliano al lume della luna; gli scombri del Mar Nero, che fanno sette invasioni successive nelle acque della città, levando uno strepito che si sente dalle ville delle due rive; isdaurid colossali, pesci spada enormi, rombi, o come li chiamano i Turchi, Kalkan-baluk, pesci scudo, e altri mille pesci minori, che guizzano fra i due mari, inseguiti dai delfini e dai falianos, e cacciati da innumerevoli alcioni, a cui strappano la preda dal becco i piombini. Cuochi di pascià, vecchi buongustai musulmani, schiave e giovani di taverna, s’avvicinano alle tavole, guardano i pesci in atto meditabondo, contrattano a monosillabi, e se ne vanno colla loro compra appesa a uno spago, tutti gravi e taciturni, come se portassero la testa d’un nemico; a mezzogiorno la piazza è sgombra, e i rivenditori son già sparsi per i caffè vicini, dove stanno fino al cader del sole, sognando ad occhi aperti, colle spalle al muro, e il bocchino del narghilè tra le labbra.

Per andare al Gran Bazar, s’infila una strada che sbocca nel mercato dei pesci, tanto stretta che le sporgenze delle case opposte quasi si toccano, e si va innanzi per un buon tratto in mezzo a due file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco «la quarta colonna della tenda della voluttà» dopo il caffè, l’oppio ed il vino, o «il quarto sofà dei godimenti», anch’esso, come il caffè, fulminato un tempo da editti di sultani e da sentenze di muftì, e cagione di torbidi e di supplizi, che lo resero più saporito. Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il tabacco è messo in mostra sopra assicciuole, a piramidi e a mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone. Sono piramidi di latakié d’Antiochia, di tabacco del Serraglio biondo e sottilissimo che par seta della più fina, di tabacco da sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da quel che fuma il facchino gigantesco di Galata a quello che concilia il sonno alle odalische annoiate nei chioschi dei giardini imperiali. Il tombeki, tabacco fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio fumatore, se il fumo non giungesse alla bocca purificato dall’acqua del narghilè, è chiuso in bocce di vetro come un medicinale. I tabaccai son quasi tutti greci od armeni cerimoniosi, che affettano un certo fare signorile; gli avventori tengono crocchio; vi si fermano degli impiegati del ministero degli esteri e del Seraschierato; alle volte vi dà una capatina qualche pezzo grosso; vi si spolitica, si va a raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello; è un piccolo bazar appartato e aristocratico, che invita al riposo, e fa sentire, anche a passarvi soltanto, la voluttà della chiacchera e del fumo.

Andando innanzi, si passa sotto una vecchia porta ad arco, inghirlandata di pampini, e si riesce in faccia ad un vasto edifizio di pietra, attraversato da una lunga strada diritta e coperta, fiancheggiata da botteghe oscure, e ingombra di gente, di casse, di sacchi, di mucchi di mercanzie. Entrando, si sente un odore d’aromi acutissimo, che quasi ributta indietro. È il bazar egiziano dove sono raccolte tutte le derrate dell’India, della Siria, dell’Egitto e dell’Arabia, che ridotte poi in essenze, in pastiglie, in polveri, in unguenti, vanno a colorar visetti e manine d’odalische, a profumar stanze e bagni e bocche e barbe e pietanze, a rinvigorire Pascià sfibrati, ad assopire spose infelici, a istupidire fumatori, a spander sogni, ebbrezza ed obblio nella città sterminata. Fatti pochi passi in questo bazar, si comincia a sentir la testa pesante, e si fugge; ma la sensazione di quell’aria calda e grave, e di quei profumi inebrianti, ci accompagna ancora per un buon tratto all’aria libera, e rimane poi viva nella memoria come una delle più intime e più significanti impressioni dell’Oriente.

Uscendo dal bazar egiziano, si passa in mezzo a officine rumorose di calderai, a taverne turche, che riempiono la strada di puzzi nauseabondi, a mille bottegucce e nicchiette e buchi oscuri, dove si fabbrica e si vende una minutaglia infinita d’oggetti senza nome, e si arriva finalmente al Grande Bazar.

Ma assai prima d’arrivarci, s’è assaliti e bisogna difendersi.

A cento passi dalla gran porta d’entrata, sono appostati, come bravi, i sensali dei mercanti, e i sensali dei sensali, che alla prima occhiata v’hanno riconosciuto per forestiero, hanno capito che andate al bazar per la prima volta, e indovinato presso a poco di che paese siete, tanto che assai di rado sbagliano lingua nel dirigervi la parola.

S’avvicinano col fez in mano e col sorriso sulle labbra e v’offrono i loro servizi. Allora segue quasi sempre un dialogo come questo.
– Non compro nulla – rispondete.
– Che importa, signore? Io non voglio che farle vedere il bazar.
– Non voglio vedere il bazar.
– Ma io l’accompagno gratis.
– Non voglio essere accompagnato gratis.
– Ebbene, non l’accompagnerò che fino in fondo alla strada, per darle qualche informazione che le sarà utile un altro giorno, quando verrà per comprare.
– Ma se non voglio neppur sentir discorrere di comprare!
– Parleremo d’altro, signore. È a Costantinopoli da molto tempo? È soddisfatto del suo albergo? Ha ottenuto il permesso di visitare le moschee?
– Ma se vi dico che non voglio parlare, che voglio esser solo!
– Ebbene, la lascerò solo; la seguiterò alla distanza di dieci passi. – Ma perché mi volete seguitare?
– Per impedire che la truffino nelle botteghe.
– Ma se non entro nelle botteghe!
– Allora… per impedire che le diano noia per la strada.
Insomma, o bisogna rimetterci il fiato, o lasciarsi accompagnare.

Il grande bazar non ha nulla all’esterno che attiri l’occhio e faccia indovinare il di dentro. È un immenso edifizio di pietra, di stile bizantino, di forma irregolare, circondato d’alte mura grigie, e sormontato da centinaia di cupolette rivestite di piombo e traforate, che danno luce all’interno: l’entrata principale è una porta arcata, senza carattere architettonico; dai vicoli intorno non si sente nessun rumore; a quattro passi dalla porta si può credere ancora che dietro quei muri di fortezza non ci sia altro che solitudine e silenzio. Ma appena entrati, si rimane sbalorditi. Non si è dentro a un edifizio, ma in un labirinto di strade coperte da volte arcate e fiancheggiate da pilastri scolpiti e da colonne; in una vera città, colle sue moschee, colle sue fontane, coi suoi crocicchi, colle sue piazzette, rischiarata da una luce vaga come quella d’una foresta fitta in cui non penetri un raggio di sole; e percorsa da una folla immensa. Ogni strada è un bazar, e quasi tutte mettono capo in una strada principale, coperta da una volta ad archi di pietre bianche e nere, e decorata d’arabeschi, come una navata di moschea. In queste strade semioscure, in mezzo alla folla ondeggiante, passano carrozze, cammelli e cavalieri, che fanno uno strepito assordante. In ogni parte si è apostrofati a parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta voce e gesticola in atto quasi imperioso; l’armeno, altrettanto furbo, ma d’apparenza più modesta sollecita con maniere ossequiose; l’ebreo susurra le sue offerte nell’orecchio; il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega, non invita che cogli occhi e si rimette al destino. Dieci voci insieme vi chiamano: Monsieur! Captan! Caballero! Signore! Eccellenza! Kyrie! Milord! – Ad ogni svolta, per le porte laterali, si vedono fughe d’arcate e di pilastri, lunghi corridoi, scorci di stradette, prospetti lontani e confusi di bazar, e per tutto botteghe, merci appese ai muri e alle volte, mercanti affaccendati, facchini carichi, gruppi di donne velate, un fermarsi e un disfarsi continuo di crocchi rumorosi, un rimescolio di gente e di cose, da dare il capogiro.

La confusione, però, non è che apparente. Questo immenso bazar è ordinato come una caserma, e bastano poche ore per mettersi in grado di trovarci qualunque cosa vi si cerchi, senza bisogno di guida. Ogni genere di mercanzia ha il suo piccolo quartiere, la sua stradetta, il suo corridoio, la sua piazzuola. Sono cento piccoli bazar che mettono l’uno nell’altro, come le sale di un vastissimo appartamento; ed ogni bazar è nello stesso tempo un museo, un passeggio, un mercato e un teatro, nel quale si può veder tutto senza comprar nulla, prendere il caffè, godere il fresco, chiacchierare in dieci lingue e fare agli occhi colle più belle donnine dell’Oriente.

Si può prendere un bazar a caso e passarci una mezza giornata senz’accorgersene: per esempio il bazar delle stoffe e dei vestiti. È un emporio di bellezze e di ricchezze da perderci gli occhi, il cervello e la borsa; e bisogna star in guardia, perché il menomo capriccio può aver per conseguenza di farci chiedere soccorso a casa per telegrafo. Si passeggia in mezzo a mucchi e a torri di broccati di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele dell’Indostan, di mussoline del Bengala, di scialli di Madras, di casimir dell’India e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo, di cuscini rabescati d’oro, di veli di seta rigati d’argento, di sciarpe di tocca a righe azzurre e incarnate, leggiere e trasparenti che paiono vaporose, di stoffe d’ogni forma e d’ogni disegno, in cui il chermisino, il blu, il verde, il giallo, i colori più ribelli alle combinazioni simpatiche, si avvicinano e s’intrecciano con un ardimento e un’armonia da far rimanere a bocca aperta; di tappeti da tavola d’ogni grandezza, a fondo rosso o bianco, ricamati d’arabeschi, di fiori, di versetti del Corano, di cifre imperiali, che si starebbe un giorno a contemplarli come le pareti dell’Alhambra. Qui si possono ammirare ad una ad una tutte le parti del vestiario turco signorile, come nelle alcove d’un arem, dalle cappe verdi, ranciate e color di giacinto, che coprono ogni cosa, fino alle camicie di seta, ai fazzoletti ricamati d’oro e alle cinture di raso a cui non può giungere altro sguardo d’uomo che quel del signore e dell’eunuco. Qui i caffettani di velluto rosso, contornati d’ermellino e coperti di stelle; i bustini di raso giallo, i calzoncini di seta color di rosa, le sottovesti di damasco bianco tempestate di fiori d’oro, i veli di sposa scintillanti di pagliole d’argento, i casacchini di terzopelo verde, orlati di piumino di cigno; le vesti greche, armene e circasse, di mille tagli capricciosi, sovraccariche d’ornamenti, dure e splendenti come corazze; e in mezzo a tutti questi tesori, le stoffe prosaiche di Francia e d’Inghilterra, dai colori sinistri, che ci fanno la figura della nota d’un sarto in mezzo alle pagine d’un poema. Nessuno che ami una donna, può passare in quel bazar senza considerare come una grande sventura di non essere milionario, e senza sentirsi per un momento divampare nell’anima il furore del saccheggio.

Per liberarsi da queste idee, non c’è che a svoltare nel bazar delle pipe. Qui l’immaginazione è ricondotta a desideri più tranquilli. Sono fasci di cibuk di gelsomino, di ciliegio, d’acero e di rosaio; bocchini d’ambra gialla del mar Baltico, levigati e luccicanti come il cristallo, d’innumerevoli gradazioni di colore e di trasparenza, ornati di rubini e di diamanti; pipe di Cesarea, colla cannetta fasciata di fili d’oro e di seta; borse da tabacco del Libano, a losanghe di vari colori, rabescati di ricami splendenti; narghilè di cristallo di Boemia, d’acciaio e d’argento, di belle forme antiche, damaschinati, niellati, tempestati di pietre preziose, con tubi di marocchino scintillanti di dorature e d’anelli, fasciati nella bambagia, e perpetuamente custoditi da due occhi fissi, che all’avvicinarsi d’ogni curioso si dilatano come occhi di civetta, e fanno morir sulle labbra la richiesta del prezzo a chiunque non sia almeno visir o pascià e non abbia dissanguato per qualche anno una provincia dell’Asia Minore. Qui non viene a comprare che il messo della Sultana che vuol dare un pegno di gratitudine al gran visir arrendevole, o l’alto dignitario di Corte che, prendendo possesso della nuova carica, è costretto, per suo decoro, a spendere cinquanta mila lire in una rastrelliera di pipe; o l’ambasciatore del Sultano che vuol portare al Monarca europeo un ricordo splendido di Stambul. Il turco modesto dà uno sguardo malinconico e passa oltre, parafrasando, per consolarsi, la sentenza del Profeta: – il fuoco dell’inferno tuonerà come il muggito del cammello nel ventre di colui che fuma in una pipa d’oro o d’argento.

Di qui si ricasca fra le tentazioni entrando nel bazar dei profumieri, che è uno dei più schiettamente orientali e dei più cari al Profeta, il quale diceva: – Donne, bambini e profumi –, per dire i suoi tre più dolci piaceri. Qui si trovano le famose pastiglie del Serraglio che profumano i baci, le cassule di gomma odorosa che staccano dal mastico le forti fanciulle di Chio, per mandarla a rafforzar le gengive delle molli musulmane; le essenze squisite di bergamotto e di gelsomino, e quelle potentissime di rosa, chiuse in astucci di velluto ricamato d’oro, d’un prezzo da far rizzare i capelli; qui il collirio per le sopracciglia, l’antimonio per gli occhi, l’henné per le unghie, i saponi che ammorbidiscono la cute delle belle siriane, le pillole che fanno cadere i peli dal volto delle maschie circasse, le acque di cedro e d’arancio, i sacchetti di muschio, l’olio di sandalo, l’ambra grigia, l’aloè per profumare le chicchere e le pipe, una miriade di polveri, d’acque e di pomate, distinte con nomi fantastici e destinate ad usi indicibili, che rappresentano ciascuna un capriccio amoroso, un proposito di seduzione, un raffinamento di voluttà, e spandono tutte insieme una fragranza acuta e sensuale, che fa veder come in sogno dei grandi occhi languidi e delle manine carezzevoli, e sentire un suono sommesso di respiri e di baci.

Tutte queste fantasie svaniscono entrando nel bazar dei gioiellieri, che è una stradetta oscura e deserta, fiancheggiata da bottegucce d’aspetto meschino, in cui nessuno direbbe mai che sian nascosti, come ci sono, dei tesori favolosi. Le gioie sono chiuse in cofani di legno di quercia, cerchiati e corazzati di ferro, e posti sul davanti delle botteghe, sotto gli occhi dei mercanti: vecchi turchi o vecchi ebrei, dalle lunghe barbe e dallo sguardo acuto, che par che penetri nelle tasche e trapassi i portamonete. Qualcuno sta ritto dinanzi alla sua tana, e quando gli passate accanto, prima vi ficca gli occhi negli occhi, poi con un rapido movimento vi mette sotto il viso un diamante di Golconda o uno zaffiro d’Ormus o un rubino di Giamscid, che al menomo vostro cenno negativo, ritira colla medesima rapidità con cui l’ha porto. Altri girano a passi lenti, vi fermano in mezzo alla strada e, dopo aver rivolto intorno uno sguardo sospettoso, tirano fuor del seno un cencio sucido, e lo spiegano, e vi fanno vedere un bel topazio del Brasile o una bella turchina di Macedonia, guardandovi coll’occhio di demoni tentatori. Altri non fanno che darvi un’occhiata scrutatrice, e non giudicandovi una faccia da pietre preziose, non si degnano di offrirvi nulla. Nessuno poi fa l’atto d’aprire il cofanetto, se anche aveste la faccia d’un santo o l’aria d’un Creso. Le collane d’opale, i fiori e le stelle di smeraldo, le mezzelune e i diademi contornati di perle d’Ofir, i mucchietti abbarbaglianti di acque-di-mare, di crisoberilli, d’avventurine, di agate, di granate, di lapislazzuli, rimangono inesorabilmente nascosti agli occhi dei curiosi senza quattrini, e specialmente a quelli d’uno scrittore italiano. Tutt’al più egli può arrischiarsi a domandare il prezzo di qualche tespí, o coroncina d’ambra, di sandalo o di corallo, da far scorrere tra le dita, come i turchi, per ingannare il tempo negli intervalli dei suoi lavori forzati.

Per divertirsi bisogna entrare nelle botteghe dei franchi, mercanti di stoffe, dove c’è merce per tutte le borse. Appena entrati, si ha intorno un cerchio di gente che non si capisce di dove sia sbucata. Non è mai possibile l’aver che fare con un solo. Tra il mercante, i soci del mercante, i sensali, i manutengoli e i tirapiedi, son sempre una mezza dozzina. Se non v’accoppa uno, v’impicca l’altro: non c’è modo di scansare una brutta fine. E non si può dire con che arte, con che pazienza, con che ostinazione, con che diabolici raggiri fanno comprare quello che vogliono. Domandano d’ogni cosa un subisso: offrite il terzo: lasciano cader le braccia in segno di profondo scoraggiamento, o si battono la fronte in atto disperato, e non rispondono; oppure si espandono in un torrente di parole appassionate per toccarvi il cuore. Siete un uomo crudele, volete costringerli a chiuder bottega, volete ridurli alla miseria, non avete compassione dei loro figliuoli, non capiscono che cosa possano avervi fatto di male per trattarli in quella maniera. Mentre vi dicono il prezzo d’un oggetto, un sensale d’una bottega vicina vi susurra nell’orecchio: – Non comprate, vi truffano. – Voi credete che sia sincero, e invece è d’accordo col mercante; vi dice che vi truffano collo scialle, per guadagnare la vostra fiducia, e farvi rompere il collo un minuto dopo, consigliandovi di comprare il tappeto. Mentre esaminate la stoffa, essi si parlano a gesti, a occhiate, a colpi di gomito, a mezze parole. Se sapete il greco, parlano turco; se sapete il turco, parlano armeno; se sapete l’armeno, parlano spagnolo; ma in qualche modo s’intendono e ve l’accoccano. Se poi tenete duro, v’insaponano; vi dicono che parlate bene la loro lingua, che avete un fare da gentiluomo e che non dimenticheranno mai più la vostra bella figura; vi discorrono del vostro paese, nel quale sono stati molto tempo, perché sono stati da per tutto; vi fanno il caffè, vi offrono d’accompagnarvi alla dogana quando partirete, per impedire che vi facciano dei soprusi, ossia per truffar voi, la dogana e i vostri compagni di viaggio, se ne avete; mettono sottosopra tutta la bottega, e non vi fanno punto il viso arcigno se ve n’andate senza comprare: se non è quel giorno, sarà un altro; al bazar ci dovete tornare, i loro cani da caccia vi riconosceranno; se non cadrete nelle loro mani, cadrete in quelle d’un loro socio; se non vi peleranno come mercanti, vi scorticheranno come sensali; se non vi aggiusteranno in bottega, vi serviranno la messa alla dogana; il colpo non può fallire. A che popolo appartengono costoro? Non si capisce. A furia di parlar lingue diverse, han perduto il loro accento primitivo; a forza di far la commedia, hanno alterati i tratti fisionomici della loro razza; son di che paese si vuole, fanno il mestiere che si desidera, sono interpreti, guide, mercanti, usurai; e sopra ogni cosa, artisti insuperabili nell’arte di scroccare l’universo.

I mercanti musulmani offrono un campo d’osservazioni affatto diverso. Fra loro si ritrovano ancora quei vecchi turchi, ormai rari per le vie di Costantinopoli, che sono come la personificazione del tempo dei Maometti e dei Bajazet, i resti viventi del vecchio edifizio ottomano, ch’ebbe il primo crollo dalle riforme di Mahmut, e che di giorno in giorno, pietra per pietra, rovina e si trasforma. Bisogna venire nel gran bazar e ficcare lo sguardo in fondo alle bottegucce più oscure delle stradette più appartate, per ritrovare i vecchi turbanti enormi dei tempi di Solimano, dalla forma di cupole di moschee; le facce impassibili, gli occhi di vetro, i nasi adunchi, le lunghe barbe bianche, gli antichi caffettani aranciati e purpurei, i grandi calzoni a mille pieghe stretti intorno alla vita dalle sciarpe smisurate, gli atteggiamenti alteri e tristi dell’antico popolo dominatore, i visi istupiditi dall’oppio o illuminati dal sentimento d’una fede ardente. Essi son là in fondo alle loro nicchie, colle braccia e colle gambe incrociate, immobili e gravi come idoli, e aspettano, senz’aprir bocca, i compratori predestinati. Se le cose vanno bene, mormorano: – Mach Allà! – Sia lodato Iddio! –; se vanno male: – Olsun! – Così sia –, e chinano la testa rassegnati. Alcuni leggono il Corano, altri fanno scorrere fra le dita le pallettine del tespì, mormorando sbadatamente i cento epiteti d’Allà; altri che han fatto buoni affari, bevono il loro narghilè, per dirla coll’espressione turca, girando intorno lentamente uno sguardo voluttuoso e pieno di sonno; altri stanno curvi, cogli occhi socchiusi e colla fronte corrugata come occupati da un profondo pensiero. A che cosa pensano? Forse ai loro figliuoli morti sotto le mura di Sebastopoli o alle loro carovane disperse o alle loro voluttà perdute o ai giardini eterni, promessi dal Profeta, dove all’ombra delle palme e dei granati, sposeranno le vergini dagli occhi neri, che né uomo né genio non ha mai profanate. Tutti hanno qualchecosa di bizzarro, tutti sono pittoreschi; ogni bottega è la cornice d’un quadro pieno di colori e di pensiero, che fa balenare alla mente la storia intera d’una vita avventurosa e fantastica. Quest’uomo secco e abbronzato, dai lineamenti arditi, è un arabo che ha guidato egli stesso dal fondo della sua patria lontana i suoi cammelli carichi di gemme e d’alabastro, e s’è sentito più volte fischiare agli orecchi le palle dei ladroni del deserto. Quest’altro dal turbante giallo e dall’aspetto signorile, ha attraversato a cavallo le solitudini della Siria, portando le sete di Tiro e di Sidone. Questo nero col capo ravvolto in un vecchio scialle di Persia, colla fronte rigata di cicatrici che gli fecero i negromanti per salvarlo dalla morte, che tiene il viso alto, come se guardasse ancora le teste dei colossi di Tebe e le cime delle Piramidi, è venuto dalla Nubia. Questo bel moro dalla faccia pallida e dagli occhi neri, ravvolto in una cappa bianchissima, ha portato i suoi caic e i suoi tappeti dalle ultime falde occidentali della catena dell’Atlante. Questo turco dal turbante verde e dal volto estenuato ha fatto quest’anno stesso il grande pellegrinaggio, ha visto parenti ed amici morir di sete in mezzo alle pianure interminabili dell’Asia Minore, è arrivato alla Mecca in fin di vita, ha fatto sette volte strascinandosi il giro della Kaaba, ed è caduto in deliquio coprendo di baci furiosi la Pietra nera. Questo colosso dal viso bianco, dalle sopracciglia arcate, dagli occhi fulminei, che par più un guerriero che un mercante, e spira da tutta la persona l’ambizione e l’orgoglio, ha portato le sue pellicce dalle regioni settentrionali del Caucaso, dove, nei suoi begli anni, fece cader la testa dalle spalle a più d’un Cosacco. E questo povero mercante di lane, dal viso schiacciato e dagli occhi piccoli e obliqui, tarchiato e rude come un atleta, non è gran tempo che disse le sue preghiere all’ombra dell’immensa cupola che protegge il sepolcro di Timur: egli è partito da Samarkanda, ha valicato i deserti della grande Bukaria, è passato in mezzo alle orde dei turcomanni, ha attraversato il Mar Morto, è sfuggito alle palle dei Circassi, ha ringraziato Allà nelle moschee di Trebisonda, ed è venuto a cercar fortuna a Stambul, di dove ritornerà, vecchio, in fondo alla sua Tartaria, che gli sta sempre nel cuore.

Uno dei bazar più splendidi è il bazar delle calzature, ed è forse anche quello che mette più grilli nel capo. Sono due file di botteghe smaglianti che danno alla strada l’aspetto d’una sala di reggia, o d’uno di quei giardini delle leggende arabe in cui gli alberi hanno le foglie d’oro e fiori di perle. C’è da calzare tutti i piedini di tutte le corti dell’Asia e dell’Europa. Le pareti son coperte di pantofole di velluto, di pelle, di broccato, di raso, dei colori più petulanti e delle forme più capricciose, ornate di filigrana, contornate di lustrini, abbellite di nappine di seta e di piuma di cigno, stelleggiate e infiorate d’argento e d’oro, coperte d’arabeschi intricati che non lasciano più vedere il tessuto, e lampeggianti di zaffiri e di smeraldi. Ce n’è per le spose dei barcaioli e per le belle del Sultano, da cinque e da mille lire il paio; ci sono le scarpette di marocchino che premeranno i ciottoli di Pera, le babbucce che strisceranno sui tappeti degli arem, gli zoccoletti che faranno risonare i marmi dei bagni imperiali, le pianelline di raso bianco su cui s’inchioderanno le labbra ardenti dei Pascià, e forse qualche paio di pantofole imperlate che aspetteranno ogni mattina lo svegliarsi d’una bella Georgiana accanto al letto del Gran Signore. Ma che piedi possono entrare in quelle babbucce? Ve ne sono che paiono tagliate ai piedi delle urì e delle fate; lunghe come una foglia di giglio, larghe come una foglia di rosa, d’una piccolezza da far disperare tutta l’Andalusia, d’una grazia da farsi sognare; non babbucce, ma gioielli da tenersi sul tavolino; scatolini da metterci dei dolci o dei bigliettini amorosi; da non poter immaginare che ci sia un piedino che v’entri, senza desiderare di rivoltarselo un mese fra le mani affollandolo di domande e di vezzi. Questo bazar è uno dei più frequentati dagli stranieri. Vi si vedono spesso dei giovani europei, che hanno in un pezzetto di carta la misura d’un piedino italiano o francese, di cui forse sono alteri, e che fanno un atto di stupore o di dispetto, riconoscendo che passa di molto la lunghezza d’una certa babbuccina su cui han posto gli occhi; ed altri che, domandato il prezzo, e sentita una schiopettata, scappano senza ribatter parola. Qui pure spesseggiano le signore mussulmane, le hanum dai grandi veli bianchi, e occorre sovente di cogliere passando qualche frammento dei loro lunghi dialoghi coi venditori, qualche parola armoniosa della loro bella lingua, pronunziata da una voce chiara e dolce che accarezza l’orecchio come il suono d’una mandòla. – Buni catscia verersin? – Quanto vale questo? – Pahalli dir. – È troppo caro. – Ziadè veremèm. – Non pagherò di più. E poi una risata fanciullesca e sonora, che mette voglia di pigliarle un pizzico di guancia e darle una presa di monella.

Il bazar più ricco e più pittoresco è quello delle armi. Non è un bazar, è un museo, riboccante di tesori, pieno di memorie e d’immagini che trasportano il pensiero nelle regioni della storia e della leggenda, e destano un sentimento indescrivibile di meraviglia e di sgomento. Tutte le armi più strane, più spaventose e più feroci, che sono state brandite dalla Mecca al Danubio in difesa dell’Islam, sono là schierate e forbite, come se ce l’avessero appese poco prima le mani dei soldati fanatici di Maometto e di Selim; e par di veder scintillare fra le loro lame gli occhi iniettati di sangue di quei sultani formidabili, di quei giannizzeri forsennati, di quegli spahì, di quegli azab, di quei silidar senza pietà e senza paura che seminarono l’Asia Minore e l’Europa di teste recise e di corpi dilaniati. Là si ritrovano le scimitarre famose che tagliavano le penne in aria e spiccavano le orecchie agli ambasciatori insolenti; i cangiari pesanti che d’un colpo fendevano il cranio e scoprivano il cuore; le mazze d’armi che stritolavano i caschi serbi e ungheresi; gli yatagan dal manico intarsiato d’avorio e tempestato d’amatiste e di rubini, che serbano ancora segnato a intagli nella lama il numero delle teste troncate; i pugnali dai foderi d’argento, di velluto e di raso, coi manichi di agata e d’avorio, ornati di granate, di corallo e di turchine, istoriati di versetti del Corano in lettere d’oro, colle lame incurvate e ritorte che par che cerchino un cuore. Chi sa che in questa armeria confusa e terribile non ci sia la scimitarra d’Orcano, o la sciabola di legno con cui il braccio poderoso d’Abd-el-Murad, il dervis guerriero, spiccava d’un colpo le teste; o il famoso jatagan col quale il Sultano Musa spaccò Hassan dalla spalla al cuore; o la sciabola enorme del gigantesco bulgaro che appoggiò la prima scala alle mura di Costantinopoli; o la mazza con cui Maometto II freddò il soldato rapace sotto le volte di Santa Sofia; o la gran sciabola damascata di Scanderberg che fendette in due Firuz-Pascià sotto le mura di Stetigrad? I più formidabili fendenti e le più orrende morti della storia ottomana s’affacciano alla mente, e par che proprio su quelle lame debba esser rappreso quel sangue, e che i vecchi turchi rintanati in quelle botteghe, abbiano raccolto armi e cadaveri sul terreno della strage, e custodiscano ancora gli scheletri sfracellati in qualche angolo oscuro. In mezzo alle armi si vedono pure le grandi selle di velluto scarlatto e celeste, ricamate a stelle e a mezzelune d’oro e di perle, i frontali impennacchiati, i morsi d’argento niellato e le gualdrappe splendide come manti reali: bardature da cavalli delle Mille e una notte, fatte per l’entrata trionfale d’un re dei geni in una città dorata del mondo dei sogni. Al di sopra di questi tesori, sono sospesi alle pareti vecchi moschetti a ruota e a miccia, grosse pistole albanesi, lunghissimi fucili arabi lavorati come gioielli, scudi antichi di scorza di tartaruga e di pelle d’ippopotamo, maglie circasse, scudi cosacchi, celate mongoliche, archi turcassi, coltellacci da carnefici, lamacce di forme sinistre, ognuna delle quali pare la rivelazione d’un delitto, e fa pensare agli spasimi di un’agonia. In mezzo a quest’apparato minaccioso e magnifico, siedono a gambe incrociate i mercanti più schiettamente turchi del Grande Bazar, la più parte vecchi, d’aspetto tetro, smunti come anacoreti e superbi come Sultani, figure d’altri secoli, vestiti alla foggia delle prime egire, che sembrano risuscitati dal sepolcro per richiamare i nipoti imbastarditi alla austerità dell’antica razza.

Un altro bazar da vedersi è quello degli abiti vecchi. Qui il Rembrandt ci avrebbe preso domicilio e il Goya speso la sua ultima pecetta. Chi non ha mai visto una bottega di rigattiere orientale non può immaginare che stravaganza di stracci, che pompa di colori, che ironia di contrasti, che spettacolo ad un tempo carnevalesco, lugubre e schifoso, presenti questo bazar, questa cloaca di cenci, in cui tutti i rifiuti degli arem, delle caserme, della corte, dei teatri, vengono ad aspettare che il capriccio d’un pittore o il bisogno d’un pezzente li riporti alla luce del sole. Da lunghe pertiche confitte nei muri, pendono vecchie uniformi turche, giubbe a coda di rondine, dolman di gran signori, tuniche di dervis, cappe di beduini, tutte untume, brindelli e buchi, che paiono state crivellate a colpi di pugnale e rammentano le spoglie sinistre degli assassinati che si vedono sulle tavole delle Corte d’Assisie. In mezzo a questi cenci luccica ancora qua e là qualche rabesco d’oro; spenzolano vecchie cinture di seta, turbanti sciolti, ricchi scialli lacerati, bustini di velluto a cui pare che la mano furiosa d’un ladro abbia strappato insieme il pelo e le perle, calzoncini e veli che sono forse appartenuti a qualche bella infedele, la quale dorme cucita in un sacco in fondo alle acque del Bosforo, ed altre vesti ed ornamenti di donna, di mille colori gentili, imprigionati fra i grossi caffettani circassi, dai cartucceri irrugginiti, fra le lunghe toghe nere degli ebrei, fra le rozze casacche e i pesanti mantelli, che hanno nascosto chi sa quante volte il fucile del bandito o lo stile del sicario. Verso sera, alla luce misteriosa che scende dai fori della volta, tutti quei vestiti appesi prendono una vaga apparenza di corpi d’impiccati; e quando in fondo a una bottega si vedono scintillare gli occhi astuti d’un vecchio ebreo, che si gratta la fronte con una mano adunca, si direbbe che è quella la mano che ha stretto i lacci, e si dà uno sguardo alla porta del bazar, per paura che sia chiusa.

Non basterebbe una giornata di giri e di rigiri se si volessero veder tutte le stradette di questa strana città. V’è il bazar dei fez, dove si trovano fez di tutti i paesi, da quelli del Marocco a quelli di Vienna, ornati d’iscrizioni del Corano che preservano dagli spiriti maligni; i fez che le belle greche di Smirne portano sulla sommità della testa, sopra il nodo delle trecce nere scintillanti di monete; le berrettine rosse delle turche; fez da soldati, da generali, di sultani, da zerbinotti, di tutte le sfumature di rosso e di tutte le forme, da quelli primitivi dei tempi d’Orcano fino al gran fez elegante del Sultano Mahmut, emblema delle riforme e abbominazione dei vecchi mussulmani. V’è il bazar delle pellicce dove si trova la sacra pelle di volpe nera, che una volta poteva portare il solo Sultano o il gran visir; la martora con cui si foderavano i caffettani di gala; l’orso bianco, l’orso nero, la volpe azzurra, l’astrakan, l’ermellino, lo zibellino, in cui altre volte i sultani profusero tesori favolosi. È pure da vedersi il bazar dei coltellinai, non fosse che per pigliare in mano una di quelle enormi forbici turche, colle lame bronzate e dorate, adorne di disegni fantastici d’uccelli e di fiori, che s’incrociano ferocemente lasciando in mezzo un vano in cui potrebbe entrare la testa d’un critico maligno. V’è ancora il bazar dei filatori d’oro, quello dei ricamatori, quello dei chincaglieri, quello dei sarti, quello dei vasellami, tutti diversi l’un dall’altro di forma e di gradazione di luce; ma tutti eguali in questo: che non vi si vede né vendere, né lavorare una donna. Tutt’al più può accadere che qualche greca seduta per un momento davanti a una sartoria vi offra timidamente un fazzoletto finito allora di ricamare. La gelosia orientale interdice la bottega al bel sesso come una scuola di civetteria e un nascondiglio d’intrighi.

Ma ci sono ancora altre parti del gran bazar in cui uno straniero non può avventurarsi se non lo accompagna un mercante o un sensale; e sono le parti interne dei piccoli quartieri in cui è divisa questa città singolare, il di dentro dei piccoli isolati intorno a cui girano le stradette percorse dalla folla. Se nelle stradette c’è pericolo di smarrirsi, là dentro è impossibile non perdersi. Da corridoi poco più larghi d’un uomo, in cui bisogna chinarsi per non urtar nella volta, si riesce in cortiletti grandi come celle, ingombri di casse e di balle, e appena rischiarati da un barlume; si scende a tentoni per scalette di legno, si ripassa per altri cortili rischiarati da lanterne, si ridiscende sotto terra, si risale alla luce del giorno, si cammina a capo basso per lunghi anditi serpeggianti, sotto volte umide, in mezzo a muri neri e ad assiti muscosi, che conducono a porticine segrete, dalle quali si ritorna inaspettatamente nel luogo di dove s’è partiti; e da per tutto ombre che vanno e che vengono, spettri immobili negli angoli, gente che rimesta mercanzie o che conta denari; lumicini che appaiono e dispaiono, voci e passi frettolosi che risuonano non si sa dove; e incontri inaspettati di ostacoli neri che non si capisce che cosa siano, e giuochi di luce non mai veduti, e contatti sospetti, e odori strani, che par di girare per i meandri d’una caverna di fattucchieri, e non si vede l’ora d’esserne fuori.

Per solito i sensali fanno passare in questi luoghi gli stranieri per condurli a quelle botteghe, per lo più appartate, nelle quali si vende un po’ di tutto: specie di Gran-bazar in miniatura, botteghe da rigattieri signorili, curiosissime a vedersi, ma molto pericolose, perché contengono tante e così strane e così rare cose da far vuotare la borsa anche all’avarizia incarnata. Questi mercanti d’un po’ d’ogni cosa, furbacchioni matricolati, si sottintende, e poliglotti come i loro fratelli di banda, usano nel tentare la gente un certo procedimento drammatico che diverte assai, e che di rado fallisce allo scopo dell’attore. Le loro botteghe son quasi tutte stanzucce oscure piene di casse e d’armadi, dove bisogna accendere il lume e c’è appena posto da rigirarsi. Dopo avervi fatto vedere qualche vecchio stipetto intarsiato d’avorio e di madreperla, qualche porcellana cinese, qualche vaso del Giappone, il mercante vi dice che ha qualche cosa di speciale per voi, tira fuori un cassetto e vi rovescia sulla tavola un mucchio di ninnoli: un ventaglio di penne di pavone, per esempio, un braccialetto di vecchie monete turche, un cuscinetto di pelo di cammello colla cifra del Sultano ricamata in oro, uno specchietto persiano dipinto d’una scena del libro di paradiso, una spatola di tartaruga con cui i turchi mangiano la composta di ciliegie, un vecchio gran cordone dell’ordine dell’Osmaniè. Non c’è nulla che vi piaccia? Rovescia un altro cassetto e questo è proprio un cassetto che aspettava voi solo. È una zanna rotta d’elefante, un braccialetto di Trebisonda che pare una treccia di capelli d’argento, un idoletto giapponese, un pettine di sandalo della Mecca, un gran cucchiaio turco lavorato a rabeschi e a trafori, un antico narghilè d’argento dorato e istoriato, delle pietruzze dei musaici di Santa Sofia, una penna d’airone che ha ornato il turbante di Selim III, il mercante ve lo assicura da uomo d’onore. Non trovate nulla di vostro genio? E lui rovescia un altro cassetto, da cui casca un ovo di struzzo del Sennahar, un calamaio persiano, un anello damaschinato, un arco di Mingrelia col suo turcasso di pelle d’alce, un caschetto circasso a due punte, un tespì di diaspro, una profumiera d’oro smaltato, un talismano turco, un coltello da cammelliere, una boccettina d’atar-gull. Non c’è nulla che vi tenti, per Dio? Non avete regali da fare? Non pensate ai vostri parenti? Non avete cuore per i vostri amici? Ma forse voi avete la passione delle stoffe e dei tappeti, e anche in questo egli può servirvi da amico. – Ecco un mantello rigato del Kurdistan, milord; ecco una pelle di leone, ecco un tappeto d’Aleppo coi chiodini d’acciaio, ecco un tappeto di Casa-blanca spesso tre dita che dura per quattro generazioni, guarantito; ecco, eccellenza, i vecchi cuscini, le vecchie cinture di broccato e i vecchi copripiedi di seta, un po’ sbiaditi e un po’ tarlati, ma ricamati come ora non si ricamano più, nemmeno a pagarli un tesoro. A lei, caballero, ch’è venuto qui condotto da un amico, a lei do questa vecchia cintura per cinque napoleoni, e mi rassegno a mangiar pane e aglio per una settimana. – Se nemmeno da questo vi lasciate tentare, vi dirà nell’orecchio che può vendervi la corda con cui i terribili muti del Serraglio hanno strangolato Nassuh Pascià, il gran visir di Maometto III; e se voi gli ridete sul viso dicendogli che non la bevete, la lascia cascare da uomo di spirito, e fa l’ultimo tentativo buttandovi davanti una coda da cavallo di quelle che si portavano davanti e dietro ai pascià; una marmitta di Giannizzero portata via da suo padre, ancora spruzzata di sangue, il giorno stesso della strage famosa; un pezzo di bandiera di Crimea, colla mezzaluna e le stelline d’argento; un vaso da lavarsi le mani, tempestato di agate; un bracierino di rame cesellato; un collare di dromedario colle conchiglie e le campanelle, un frustino da eunuco di cuoio d’ippopotamo, un corano legato in oro, una sciarpa del Korassan, un paio di babbucce da Cadina, un candeliere fatto con un artiglio d’aquila, tanto che infine la fantasia s’accende, i capricci saltellano, e vi assale una matta voglia di buttar là portamonete, orologio, pastrano, e gridare: – Caricatemi! –; e bisogna proprio esser figliuoli assestati o padri di giudizio per resistere alla tentazione. Quanti artisti sono usciti di là scannati come Giobbe e quanti ricconi ci hanno bucato il patrimonio!

Ma prima che il gran bazar si chiuda bisogna ancora fare un giro per vedere il suo aspetto dell’ultima ora. Il movimento della folla si fa più affrettato, i mercanti chiamano con gesti più imperiosi, greci ed armeni corrono gridando per le strade con uno scialle o un tappeto sul braccio, si formano dei gruppi, si contratta alla spiccia, i gruppi si sciolgono e si rifanno più lontano; i cavalli, le carrozze, le bestie da soma passano in lunghe file diretti verso l’uscita. In quell’ora tutti i bottegai con cui avete litigato senza cadere d’accordo, vi vaneggiano intorno, in quella mezza oscurità, come pipistrelli; li vedete far capolino dietro le colonne, li incontrate alle svolte, vi attraversano la strada e vi passano sui piedi guardando in aria, per rammentarvi colla loro presenza quel tal tessuto, quel certo gingillo, e farvene rinascere il desiderio. Alle volte ne avete un drappello alle spalle: se vi fermate, si fermano, se scantonate, scantonano, se vi voltate indietro incontrate dieci occhioni dilatati e fissi che vi mangiano vivo. Ma già la luce manca, la folla si dirada. Sotto le lunghe volte arcate risuona la voce di qualche mezzuin invisibile che annunzia il tramonto da un minareto di legno; qualche turco stende il tappeto dinanzi alla bottega e mormora la preghiera della sera; altri fanno le abluzioni alle fontane. Già i vecchi centenari del bazar delle armi hanno chiuso le grandi porte di ferro; i piccoli bazar sono deserti, i corridoi si perdono nelle tenebre, le imboccature delle strade paiono aperture di caverne, i cammelli vi giungono addosso all’impensata, la voce dei venditori d’acqua muore sotto le arcate lontane, le turche affrettano il passo, gli eunuchi aguzzano gli occhi, gli stranieri scappano, le imposte si chiudono, la giornata è finita.

***

Ed ora io mi sento domandare da ogni parte: – E Santa Sofia? E l’antico Serraglio? E i palazzi del Sultano? E il castello delle Sette torri? E Abdul-Aziz? E il Bosforo? Descriverò tutto e con tutta l’anima; ma prima ho ancora bisogno di spaziare un po’ liberamente per Costantinopoli, cambiando d’argomento a ogni pagina, come là cangiavo di pensieri a ogni passo.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

7- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Galata

7- Galata

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Il mio amico ed io non mettemmo testa a partito che il quarto giorno dopo l’arrivo. Eravamo sul ponte, di buon mattino, ancora incerti di quello che avremmo fatto nella giornata, quando Yunk mi propose di fare una prima grande passeggiata, con una meta determinata, coll’animo tranquillo, per osservare e studiare. – Percorriamo, – mi disse, – tutta la riva settentrionale del Corno d’Oro, anche a costo di camminare fino a notte. Faremo colazione in una taverna turca, faremo la siesta all’ombra d’un platano e ritorneremo in caicco. – Accettai la proposta; ci provvedemmo di sigari e di spiccioli, e data un’occhiata alla carta della città, ci avviammo verso Galata.

Il lettore che vuol conoscer bene Costantinopoli faccia il sacrificio d’accompagnarci. Arriviamo a Galata. Di qui deve cominciare la nostra escursione. Galata è posta sopra una collina che forma promontorio tra il Corno d’Oro ed il Bosforo, dov’era il grande cimitero dei Bizantini antichi. È la city di Costantinopoli. Son quasi tutte vie strette e tortuose, fiancheggiate da taverne, da botteghe di pasticcieri, di barbieri e di macellai, da caffè greci ed armeni, da uffici di negozianti, da officine, da baracche; tutto fosco, umido, fangoso, viscoso, come nei bassi quartieri di Londra. Una folla fitta e affaccendata va e viene per le vie, aprendosi continuamente per dar passo ai facchini, alle carrozze, agli asini, agli omnibus. Quasi tutto il commercio di Costantinopoli passa per questo borgo. Qui la Borsa, la Dogana, gli uffici del Lloyd austriaco, quelli delle Messaggerie francesi; chiese, conventi, ospedali, magazzeni. Una strada ferrata sotterranea unisce Galata a Pera. Se non si vedessero per le strade dei turbanti e dei fez, non parrebbe d’essere in Oriente. Da tutte le parti si sente parlar francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria, e si danno ancora un po’ d’aria di padroni, come quando chiudevano il porto a loro piacimento, e rispondevano col cannone alle minacce degl’Imperatori. Ma della loro potenza non rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute da grossi pilastri e da arcate pesanti, e l’antico edifizio dove risiedeva il Podestà. La Galata antica è quasi interamente sparita. Migliaia di casupole sono state rase al suolo per far luogo a due lunghe strade: una delle quali rimonta la collina verso Pera, e l’altra corre parallela alla riva del mare da un’estremità all’altra di Galata. Per questa ci inoltrammo il mio amico ed io, rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per lasciar passare dei grandi omnibus, preceduti da turchi scamiciati che sgombravano la strada a colpi di verga. A ogni passo ci suonava nell’orecchio un grido. Il facchino turco urlava: – Sacun ha! – (Largo!); il saccà armeno, portatore d’acqua: – Varme su! – l’acquaiolo greco: – Crio nero! – l’asinaio turco: – Burada! – il venditore di dolci: – Scerbet! – il venditore di giornali: – Neologos! – il carrozziere franco: Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino, eravamo assordati. A un certo punto, con nostra meraviglia, ci accorgemmo che la strada non era più lastricata, e pareva che il lastrico fosse stato levato di fresco. Ci fermammo a guardare, cercando d’indovinar la cagione. Un bottegaio italiano ci levò la curiosità. Quella strada conduce ai palazzi del Sultano.

[Torre di Galata]

Pochi mesi prima passando di là il corteo imperiale, il cavallo di sua maestà Abdul-Aziz era scivolato e caduto, e il buon Sultano, irritato, aveva ordinato che fosse tolto immediatamente il lastrico dal luogo della caduta fino al suo palazzo. In questo punto memorabile fissammo il termine orientale del nostro pellegrinaggio, e voltate le spalle al Bosforo, ci dirigemmo, per una serie di vicoli tetri e sudici, verso la torre di Galata. La città di Galata ha la forma d’un ventaglio spiegato, e la torre, posta sul culmine della collina, rappresenta il suo perno. È una torre rotonda, altissima, di color fosco, che termina in una punta conica, formata da un tetto di rame, sotto il quale ricorre un giro di larghe finestre vetrate, una specie di terrazza coperta e trasparente, dove giorno e notte vigila una guardia per segnalare il primo indizio d’incendio che apparisca nell’immensa città. Fino a questa torre giungeva la Galata dei Genovesi, e la torre s’innalza appunto sulla linea delle mura che separavano Galata da Pera; mura di cui non rimane più traccia. E neanche la torre non è più l’antica torre di Cristo, eretta in onore dei Genovesi caduti combattendo; poiché̀ la rifabbricò il sultano Mahmut II, ed era già stata prima restaurata da Selim III; ma è pur sempre un monumento incoronato della gloria di Genova, e un Italiano non può contemplarlo, senza pensare con un sentimento d’alterezza a quel pugno di mercanti, di marinai e di soldati, orgogliosamente audaci ed eroicamente cocciuti, che vi tennero su inalberata per secoli la bandiera della madre repubblica, trattando da pari a pari cogl’Imperatori d’Oriente. Appena oltrepassata la torre, ci trovammo in un cimitero musulmano.

[Cimitero di Galata]

Era quello che si chiama il cimitero di Galata: un grande bosco di cipressi, che dalla sommità della collina di Pera scende ripidamente fino al Corno d’Oro, ombreggiando una miriade di colonnette di pietra o di marmo, inclinate in tutte le direzioni, e sparse in disordine giù per la china. Alcune di queste colonnette son terminate in forma di turbante rotondo, e serbano tracce di colori e d’iscrizioni; altre son terminate in punta; molte rovesciate; alcune monche, col turbante portato via di netto, e si crede che siano quelle dei giannizzeri, che il Sultano Mahmut volle sfregiare anche dopo la morte. La maggior parte delle fosse sono indicate da un rialzamento di terra in forma di prisma, e da due sassi confitti alle due estremità, sui quali, giusta la superstizione musulmana, devono sedere i due angeli Nekir e Munkir per giudicare l’anima del defunto. Qua e là si vedono dei piccoli terrapieni circondati da un muricciolo o da una ringhiera, in mezzo ai quali s’alza una colonnetta sormontata da un grosso turbante, e intorno altre colonnette minori: è un pascià o un gran signore, sepolto in mezzo alle sue donne e ai suoi figliuoli. Dei piccoli sentieri serpeggiano e s’incrociano in mille punti da un’estremità all’altra del bosco; qualche turco fuma la pipa seduto all’ombra; alcuni ragazzi corrono e saltellano in mezzo ai sepolcri; qualche vacca pascola; centinaia di tortore grugano fra i rami dei cipressi; passano gruppi di donne velate; e fra cipresso e cipresso, luccica giù in fondo l’azzurro del Corno d’Oro rigato di bianco dai minareti di Stambul.

[Pera]

Usciamo dal cimitero, ripassiamo ai piedi della torre di Galata e infiliamo la strada principale di Pera. Pera è alta cento metri sopra il mare, è ariosa ed allegra, e guarda il Corno d’Oro ed il Bosforo. È la Westend della colonia europea; la città dell’eleganza e dei piaceri. La strada che percorriamo è fiancheggiata da alberghi inglesi e francesi, da caffè signorili, da botteghe luccicanti, da teatri, da Consolati, da club, da palazzi d’ambasciatori; tra i quali giganteggia il palazzo di pietra dell’ambasciata russa, che domina come una fortezza Pera Galata e il sobborgo di Funduclù, posto sulla riva del Bosforo. Qui brulica una folla affatto diversa da quella di Galata. Sono quasi tutti cappelli a staio e cappelletti piumati o infiorati di signore. Sono zerbinotti greci, italiani e francesi, negozianti d’alto bordo, impiegati delle legazioni, ufficiali di navi straniere, carrozze d’ambasciatori, e figurine equivoche d’ogni nazione. I turchi si fermano ad ammirare le teste di cera delle botteghe dei barbieri, le turche si piantano colla bocca aperta davanti alle vetrine delle modiste; l’europeo parla ad alta voce, sghignazza e scherza in mezzo alla strada; il musulmano, si sente in casa d’altri, e passa colla testa meno alta che a Stambul. Tutt’a un tratto il mio amico mi fece voltare indietro perché guardassi Stambul: da quel punto, infatti, si vedeva lontano, dietro un velo azzurrino, la collina del Serraglio, Santa Sofia e i minareti del Sultano Ahmed; un altro mondo da quello in cui eravamo; e poi mi disse: – Guarda qui, adesso. – Abbassai gli occhi e lessi in una vetrina: – La dame aux camelias, Madame Bovary, Mademoiselle Giraud ma femme. E anche a me quel rapido passaggio fece un senso vivissimo, e dovetti star là un momento a pensarci sopra. Un’altra volta fermai io il mio compagno e fu per mostrargli un caffè meraviglioso: un lungo e largo corridoio oscuro, in fondo al quale, per una grande finestra spalancata, si vedeva a una lontananza che pareva immensa, Scutari illuminata dal sole.

Andiamo innanzi per la gran strada di Pera, e siamo quasi arrivati in fondo, quando sentiamo gridare da una voce tonante: – T’amo, Adele! t’amo più della vita! T’amo quanto si può amare sulla terra! – Ci guardiamo in faccia trasecolati. Di dove viene quella voce? Voltandoci, vediamo per le fessure d’un assito un giardino pieno di sedili, un palco scenico e dei commedianti che fanno le prove. Una signora turca, poco lontano da noi, guarda anch’essa per le fessure, e ride dai precordi. Un vecchio turco che passa scrolla la testa in segno di compassione. All’improvviso la turca getta un grido e fugge; altre donne là intorno mettono uno strillo e voltano le spalle. Che è accaduto? È un turco, un uomo sulla cinquantina, conosciuto da tutta Costantinopoli, il quale passeggia per le vie nello stato in cui voleva ridurre tutti i musulmani il famoso monaco Turk sotto il regno di Maometto IV: ignudo dalla testa ai piedi. Il disgraziato saltella sui ciottoli urlando e sghignazzando, e un branco di monelli lo insegue facendo un baccano d’inferno. – È da sperarsi che lo arresteranno, – dico al portinaio del teatro. – Nemmeno per sogno, – mi risponde; – son mesi che gira per la città liberamente. – Intanto vedo giù per la via di Pera gente che vien fuori dalle botteghe, donne che scappano, ragazze che si coprono il viso, porte che si chiudono, teste che si ritirano dalle finestre. E questo segue tutti i giorni e nessuno se ne dà pensiero!

Uscendo dalla via di Pera, ci troviamo dinanzi a un altro cimitero musulmano, ombreggiato da un boschetto di cipressi e chiuso tutt’intorno da un alto muro. Se non ce l’avessero detto poi, non avremmo mai indovinato il perché di quel muro, che fu innalzato di fresco: ed è che il bosco sacro al riposo dei morti era diventato un nido d’amori soldateschi! Andando oltre, infatti, trovammo l’immensa caserma d’artiglieria innalzata da Scialil-Pascià: un solido edificio di forma rettangolare, dello stile moresco del rinascimento turco, con una porta fiancheggiata da colonne leggere e sormontata dalla mezzaluna e dalla stella d’oro di Mahmut, con gallerie sporgenti e finestrine ornate di stemmi e di arabeschi. Dinanzi alla caserma passa la strada di Dgiedessy che è un prolungamento di quella di Pera, di là dalla strada si stende una vasta piazza d’armi, e di là dalla piazza d’armi altri borghi. Qui, dove nei giorni feriali regna ordinariamente un profondo silenzio, la sera della domenica passa un torrente di gente e una processione di carrozze, tutta la società elegante di Pera, che va a spandersi nei giardini nelle birrerie e nei caffè di là dalla Caserma. In uno di questi caffè si fece la nostra prima sosta; nel caffè della Bella vista, luogo di ritrovo del fiore della società perota, e degno veramente del suo nome; perché dal suo vasto giardino, che sporge come una terrazza sulla sommità dell’altura, si vede sotto il grande sobborgo musulmano di Funduclù, il Bosforo coperto di bastimenti, la riva asiatica sparsa di giardini e di villaggi, Scutari colle sue bianche moschee, una bellezza di verde, d’azzurro, e di luce, che sembra un sogno. Ci levammo di là con rammarico, e ci parve a tutt’e due d’esser pitocchi a buttar sul vassoio otto miserabili soldi per due tazze di caffè, dopo aver goduto quella visione di paradiso terrestre.

[Gran Campo dei Morti]

Uscendo dalla Bella vista ci trovammo in mezzo al Gran Campo dei morti dove è sepolta in cimiteri distinti gente di tutti i culti, eccettuato l’ebraico. È un bosco fitto di cipressi, d’acacie e di sicomori, nel quale biancheggiano migliaia di pietre sepolcrali, che da lontano paiono le rovine d’un immenso edificio. Tra albero e albero si vede il Bosforo e la riva asiatica. Fra le tombe serpeggiano dei larghi viali in cui passeggiano dei greci e degli armeni. Su alcune pietre stanno seduti dei turchi colle gambe incrociate, guardando il Bosforo. V’è un’ombra, un fresco e una pace che, al primo entrarvi, si prova una sensazione deliziosa, come entrando d’estate in una grande cattedrale semioscura. Ci arrestammo nel cimitero armeno. Le pietre sepolcrali son tutte grandi e piane, coperte d’iscrizioni nel carattere regolare ed elegante della lingua armena, e su quasi tutte è scolpita un’immagine che rappresenta il mestiere o la professione del morto. Sono martelli, seghe, penne, scrigni, collane; il banchiere è rappresentato da una bilancia, il prete da una mitra, il barbiere da una catinella, il chirurgo da una lancetta. Sopra una pietra vedemmo una testa spiccata dal busto, e il busto grondante di sangue: era il sepolcro d’un assassinato o d’un giustiziato. Un armeno vi dormiva accanto, sdraiato sull’erba, colla faccia in aria. Entrammo nel cimitero musulmano. Anche qui una infinità di colonnette a file e a gruppi disordinati; alcune colla testa dipinta e dorata; quelle delle donne terminate da un gruppo d’ornamenti in rilievo che rappresentano dei fiori; molte circondate d’arbusti e di pianticelle fiorite. Mentre stavamo osservando una di queste colonne, due turchi che tenevano per mano un bambino, ci passarono accanto, andarono innanzi altri cinquanta passi, si fermarono dinanzi a un tumulo, vi sedettero sopra, e aperto un involto che portavano sotto il braccio, si misero a mangiare. Io stetti ad osservarli. Quand’ebbero finito, il più avanzato in età raccolse qualche cosa in un foglio di carta, – mi parve un pesce e del pane, – e con un atto rispettoso, mise il piccolo pacco in un buco accanto al sepolcro. Dopo questo accesero tutti e due la pipa e fumarono tranquillamente: il bambino s’alzò e si mise a scorrazzare per il cimitero. Quel pesce e quel pane, ci fu spiegato poi, erano la parte di cibo che i turchi lasciavano in segno d’affetto al loro parente, sepolto probabilmente da poco; e quel buco era l’apertura che si lascia nella terra vicino al capo di tutti i sepolti musulmani, perché possano udire i lamenti e i pianti dei loro cari e ricevere qualche goccia d’acqua di rosa o sentir il profumo di qualche fiore. Finita la loro fumatina funebre, i due turchi pietosi si alzarono, e ripreso per mano il bambino, disparvero in mezzo ai cipressi.

[Pancaldi]

Usciamo dal cimitero, ci troviamo in un altro quartiere cristiano, Pancaldi, attraversato da strade spaziose, fiancheggiate da edifici nuovi; circondato di villette, di giardini, di ospedali e di grandi caserme; il sobborgo di Costantinopoli più lontano dal mare; visitato il quale, torniamo indietro per ridiscendere verso il Corno d’Oro. Ma nell’ultima strada del sobborgo, assistiamo a uno spettacolo nuovo e solenne: il passaggio d’un convoglio funebre greco. Una folla silenziosa si schiera dalle due parti della strada: viene innanzi un gruppo di preti greci, colle toghe ricamate; l’archimandrita con una corona sul capo e un lungo abito luccicante d’oro; dei giovani ecclesiastici vestiti di colori vivi; uno stuolo di parenti e d’amici coi loro vestimenti più ricchi, e in mezzo a loro una bara inghirlandata di fiori, sulla quale è distesa una giovanetta di quindici anni, vestita di raso e tutta splendente di gioielli, col viso scoperto, – un piccolo viso bianco come la neve, colla bocca leggermente contratta in una espressione di spasimo, – e due bellissime trecce nere distese sulle spalle e sul seno. La bara passa, la folla si chiude, il convoglio s’allontana, e noi rimaniamo soli e pensierosi in una strada deserta.

[San Dimitri]

Scendiamo dalla collina di Pancaldi, attraversiamo il letto asciutto d’un torrentello, saliamo su per un altro colle, ci troviamo in un altro sobborgo: San Dimitri. Qui la popolazione è quasi tutta greca. Si vedono da ogni parte occhi neri e nasi aquilini e affilati; vecchi d’aspetto patriarcale; giovani svelti e arditi; donnine colle trecce sulle spalle; ragazzi dai visetti astuti che sgallettano in mezzo alla via fra le galline e i maiali, riempiendo l’aria di grida argentine e di parole armoniose. Ci avvicinammo a un gruppo di quei ragazzi che si baloccavano coi sassi, chiacchierando tutti ad una voce. Uno di essi, sugli otto anni, il più indiavolato di tutti, che ogni momento buttava in aria il suo piccolo fez gridando: – Zito! Zito! – (Viva! Viva!) – si voltò improvvisamente verso un altro monello seduto dinanzi a una porta e gridò: – Checchino! Buttami la palla! – Io lo afferrai per il braccio con un movimento da zingaro rapitore di fanciulli e gli dissi: – Tu sei italiano! – No signore, – rispose, – sono di Costantinopoli. – E chi t’ha insegnato a parlare italiano? – domandai. – Oh bella! – rispose, – la mamma. – E dov’è la mamma? In quel punto mi s’avvicinò una donna con un bimbo in collo, tutta sorridente, e mi disse ch’era pisana, moglie d’uno scalpellino livornese, che si trovava a Costantinopoli da ott’anni, e che quel ragazzo era suo figlio. Se quella buona donna avesse avuto un bel viso di matrona, una corona turrita sulla testa e un manto sulle spalle, non avrebbe rappresentato più vivamente l’Italia ai miei occhi e al mio cuore. – Come vi ritrovate qui? – le domandai; – che ne dite di Costantinopoli? – Che n’ho da dire? – rispose sorridendo ingenuamente. – L’è una città che… a dirle il vero, mi ci par sempre l’ultimo giorno di carnevale. – E qui, dando la stura alla sua parlantina toscana, ci fece sapere che pe’ musulmani il loro Gesù è Maometto, che un turco può sposare quattro donne, che la lingua turca è bravo chi ne intende una parola, e altre novità dello stesso conio; ma che dette in quella lingua, in mezzo a quel quartiere greco, ci riuscirono più care di qualunque notizia più peregrina, tanto che prima di andarcene lasciammo un piccolo ricordo d’argento nella manina del monello, e andandocene esclamammo tutti e due insieme: – Ah! una boccata d’Italia, di tanto in tanto, come fa bene!

[Tataola]

Attraversammo una seconda volta la piccola valle, e ci trovammo in un altro quartiere greco, Tataola, dove lo stomaco suonando a soccorso, cogliemmo l’occasione per visitare l’interno d’una di quelle taverne innumerevoli di Costantinopoli, che hanno un aspetto singolarissimo, e son tutte fatte ad un modo. È uno stanzone grandissimo, di cui si potrebbe fare un teatro, non rischiarato per lo più che dalla porta di strada, e ricorso tutt’intorno da un’alta galleria di legno a balaustri. Da una parte v’è un enorme fornello dove un brigante in maniche di camicia frigge dei pesci, fa girare degli arrosti, rimesta degl’intingoli, e s’adopera in altri modi ad accorciare la vita umana; dall’altra un banco dove un’altra faccia minacciosa distribuisce vino bianco e vino nero in bicchieri a manico; in mezzo e sul davanti, seggiole nane senza spalliera e tavolette poco più̀ alte delle seggiole che rammentano i bischetti dei calzolai. Entrammo un po’ vergognosi perché v’era un gruppo di greci e d’armeni di bassa lega, e temevamo che ci guardassero con curiosità canzonatoria; ma nessuno invece ci degnò d’un’occhiata. Gli abitanti di Costantinopoli sono, io credo, la gente meno curiosa di questo mondo; bisogna almeno essere Sultani o passeggiar nudi per le strade come il pazzo di Pera, perché qualcuno s’accorga che siete al mondo. Ci sedemmo in un angolo e stemmo ad aspettare. Ma nessuno veniva. Allora capimmo che nelle taverne costantinopolitane c’è l’uso di servirsi da sè. Andammo prima al fornello a farci dare un arrosto, Dio sa di che quadrupede, poi al banco a prendere un bicchier di vino resinoso di Tenedo, e portato ogni cosa sopra la tavola che ci arrivava al ginocchio, mostrandoci l’un l’altro il bianco degli occhi, si consumò il sacrificio. Pagammo con rassegnazione, e usciti in silenzio per paura che ci uscisse dalla bocca un raglio o un latrato, ripigliammo il nostro viaggio verso il Corno d’Oro.

[Kassim-pascià]

Dopo dieci minuti di cammino, ci trovammo daccapo in piena Turchia, nel grande sobborgo musulmano di Kassim-pascià, in una vera città popolata di moschee e di conventi di dervis, piena d’orti e di giardini, che occupa una collina e una valle, e si distende fino al Corno d’Oro, abbracciando tutta l’antica baia di Mandracchio, dal cimitero di Galata fino al promontorio che prospetta il sobborgo di Balata sull’altra riva. Dall’alto di Kassim-pascià si gode uno spettacolo incantevole. Si vede sotto, sulla riva, l’immenso arsenale Ters-Kané: un labirinto di bacini, d’opifici, di piazze, di magazzini e di caserme, che si stende per la lunghezza d’un miglio lungo tutta la parte del Corno d’Oro che serve di Porto di guerra; il palazzo del Ministro della Marina, elegante e leggero, che par che galleggi sull’acqua, e disegna le sue forme bianche sul verde cupo del cimitero di Galata; il porto percorso da vaporini e caicchi pieni di gente, che guizzano in mezzo alle corazzate immobili e alle vecchie fregate della Guerra di Crimea; e sulla sponda opposta, Stambul, l’acquedotto di Valente che slancia i suoi archi altissimi nell’azzurro del cielo, le grandi moschee di Maometto e di Solimano, e una miriade di case e di minareti. Per godere meglio questo spettacolo ci sedemmo dinanzi a un caffè turco, e sorbimmo la quarta o la quinta delle dodici tazze che, volere o non volere, stando a Costantinopoli, bisogna tracannare ogni giorno. Era un caffè meschino, ma come tutti i caffè turchi, originalissimo: non molto diverso, forse, dai primissimi caffè dei tempi di Solimano il Grande, o da quelli in cui irrompeva colla scimitarra nel pugno il quarto Amurat, quando faceva la ronda notturna per castigar di sua mano gli spacciatori del liquore proibito. Di quanti editti imperiali, di quante dispute di teologi e lotte sanguinose è stato cagione questo «nemico del sonno e della fecondità,» come lo chiamavano gli ulema austeri; questo «genio dei sogni e sorgente dell’immaginazione», come lo chiamavano gli ulema di manica larga, ch’è ora, dopo l’amore e il tabacco, il conforto più dolce d’ogni più povero Osmano! Ora si beve il caffè sulla cima della torre di Galata e della torre del Seraschiere, il caffè in tutti i vaporini, il caffè nei cimiteri, nelle botteghe dei barbieri, nei bagni, nei bazar. In qualunque parte di Costantinopoli uno si trovi non ha che a gridare, senza voltarsi: – Caffè-gì! (Caffettiere!) e dopo tre minuti gli fuma dinanzi una tazza.

[Il Caffè]

Il nostro caffè era una stanza tutta bianca, rivestita di legno fino all’altezza d’un uomo, con un divano bassissimo lungo le quattro pareti. In un angolo c’era un fornello su cui un turco dal naso forcuto stava facendo il caffè in piccole caffettiere di rame, che vuotava man mano in piccolissime tazze, mettendovi egli stesso lo zucchero; poiché da per tutto, a Costantinopoli, si fa il caffè apposta per ogni avventore, e gli si porta bell’inzuccherato, con un bicchiere d’acqua che i Turchi bevono sempre prima di avvicinare la tazza alle labbra. Ad una parete era appeso un piccolo specchio, e accanto allo specchio una specie di rastrelliera piena di rasoi a manico fisso; poiché la maggior parte dei caffè turchi sono ad un tempo botteghe di barbieri, e non di rado il caffettiere è anche cavadenti e salassatore, e macella le sue vittime nella stanza medesima dove gli altri avventori pigliano il caffè. Alla parete opposta era appesa un’altra rastrelliera piena di narghilè di cristallo coi lunghi tubi flessibili, attorcigliati come serpenti, e di cibuk di terracotta colle cannette di legno di ciliegio. Cinque turchi pensierosi stavano seduti sul divano, fumando il narghilè; altri tre erano dinanzi alla porta, accoccolati sopra bassissime seggiole di paglia senza spalliera, l’uno accanto all’altro, colle spalle appoggiate al muro e colla pipa alle labbra; un giovane della bottega radeva il capo, davanti allo specchio, a un grosso dervis insaccato in una tonaca di pelo di cammello. Nessuno ci guardò quando sedemmo, nessuno parlava, e fuorché il caffettiere e il suo giovane, nessuno faceva il menomo movimento. Non si sentiva altro rumore che il gorgoglio dell’acqua dei narghilè, che somiglia alla voce dei gatti quando fanno le fusa. Tutti guardavano diritto dinanzi a sé, cogli occhi fissi, e con un viso che non esprimeva assolutamente nulla. Pareva un piccolo museo di statue di cera. Quante di queste scene mi son rimaste impresse nella memoria! Una casa di legno, un turco seduto, una bellissima veduta lontana, una gran luce e un gran silenzio: ecco la Turchia. Ogni volta che questo nome mi passa per la mente, ci passano nello stesso punto quelle immagini, come un mulino a vento e un canale all’udir nominare Olanda.

[Pialì-Pascià]

Di là, fiancheggiando un grande cimitero mussulmano, che dall’alto della collina di Kassim-pascià scende fino a Ters-Kanè, rimontammo verso settentrione, scendemmo nella valletta di Pialì-Pascià, piccolo sobborgo mezzo nascosto in mezzo alla verzura dei giardini e degli orti; e ci fermammo dinanzi alla moschea che gli dà il nome. È una moschea bianca, sormontata da sei cupole graziose, con un cortile circondato d’archi e di colonnine gentili, un minareto leggerissimo e una corona di cipressi giganteschi. In quel momento tutte le casette circostanti erano chiuse, le strade deserte, il cortile stesso della moschea, solitario; la luce e l’uggia del mezzogiorno avvolgevano ogni cosa; e non si sentiva che il ronzio dei tafani. Guardammo l’orologio: mancavano tre minuti alle dodici: una delle cinque ore canoniche dei musulmani, in cui i muezzin s’affacciano al terrazzo dei minareti per gridare ai quattro punti dell’orizzonte le formule sacramentali dell’Islam. Sapevamo bene che non c’è minareto in tutta Costantinopoli sul quale, a quell’ora fissa, non compaia, puntuale come l’automa d’un orologio, l’annunciatore del profeta. Eppure, ci pareva strano che anche in quella estremità della città immensa, su quella moschea solitaria, a quell’ora, in quel silenzio profondo, dovesse comparire quella figura e suonare quella voce. Tenni l’orologio in mano, e guardando attentamente la lancetta dei minuti e la porticina del terrazzo del minareto, alta quasi come un terzo piano d’una casa ordinaria, stetti aspettando con viva curiosità. La lancetta toccò il sessantesimo trattino nero, e nessuno comparve. – Non viene! – dissi. –

[Pialì-Pascià]

Eccolo! – rispose Yunk. Era comparso. Il parapetto del terrazzo lo nascondeva tutto, fuorché il viso, di cui, per la lontananza, non si distingueva la fisionomia. Stette per qualche secondo immobile; poi si tappò le orecchie colle dita, e alzando il volto al cielo, gridò con una voce lenta, tremula e acutissima, con un accento solenne e lamentevole, le sacre parole, che risuonano, nello stesso punto su tutti i minareti dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa: – Dio è grande! Non v’è che un Dio! Maometto è il profeta di Dio! Venite alla preghiera! Venite alla salute! Dio è grande! Dio è un solo! Venite alla preghiera! – Poi fece un mezzo giro sul terrazzo e ripetè le stesse parole rivolto a settentrione; poi a levante, poi a occidente, e poi disparve. In quel punto ci arrivarono all’orecchio fioche fioche le ultime note d’un’altra voce lontana, che pareva il grido d’uno che chiedesse soccorso, e poi tutto tacque, e rimanemmo anche noi per qualche minuto silenziosi, con un sentimento vago di tristezza come se quelle due voci avessero consigliato la preghiera soltanto a noi, e sparendo quel fantasma, fossimo rimasti soli nella valle come due abbandonati da Dio. Nessun suono di campana mi ha mai toccato il cuore così intimamente; e soltanto quel giorno compresi il perché Maometto, per chiamare i fedeli alla preghiera, abbia preferito all’antica tromba israelitica e all’antica tabella cristiana, il grido dell’uomo. E su quella scelta fu lungo tempo incerto; onde poco mancò che tutto l’Oriente non pigliasse un aspetto assai diverso da quello che ha ora; poiché s’era scelta la tabella, che poi si cangiò in campana, si sarebbe certo trasformato il minareto, e uno dei tratti più originali e più graziosi della città e del paesaggio orientale sarebbe andato perduto.

[Ok-Meidan]

Risalendo da Pialì-Pascià sulla collina, verso occidente, ci trovammo in un vastissimo spazio di terreno brullo, da cui si vedeva tutto il Corno d’Oro e tutta Stambul, dal borgo d’Eyub alla collina del serraglio; quattro miglia di giardini e di moschee, una grandezza e una leggiadria, da contemplarsi in ginocchio come una apparizione celeste. Era l’Ok-meïdan, la piazza delle frecce, dove andavano i Sultani a tirar dell’arco secondo l’uso dei re Persiani. Vi sono ancora sparse, a distanze ineguali, alcune colonnine di marmo, segnate d’iscrizioni, che indicano i punti dove caddero le frecce imperiali. V’è ancora il chiosco elegante, con una tribuna, da cui i sultani tendevano l’arco. A destra, nei campi, si stendeva una lunga fila di pascià e di bey, punti viventi d’ammirazione, coi quali il padiscià rendeva omaggio alla propria destrezza; a sinistra, dodici paggi della famiglia imperiale, che correvano a raccogliere gli strali e a segnare il punto della caduta; intorno, dietro gli alberi e i cespugli, qualche turco temerario venuto per contemplare di nascosto le sembianze sublimi del Gran Signore; e sulla tribuna campeggiava nell’atteggiamento d’un atleta superbo, Mahmut, il più vigoroso arciere dell’impero, di cui l’occhio scintillante faceva curvar la fronte agli spettatori, e la barba famosa, nera come il corvo del Monte Tauro, spiccava di lontano sul grande mantello candido, spruzzato del sangue dei Giannizzeri. Ora tutto è cangiato e diventato prosaico: il Sultano tira colla rivoltella nei cortili del suo palazzo e sull’Ok-meïdan s’esercita al bersaglio la fanteria. Da una parte v’è un convento di dervis, dall’altra un caffè solitario; e tutta la campagna è desolata e malinconica come una steppa.

[Piri-Pascià]

Scendendo dall’Ok-meïdan verso il Corno d’Oro, ci trovammo in un altro piccolo sobborgo musulmano, chiamato Piri-Pascià, forse da quel famoso gran visir del primo Selim, che educò Solimano il Grande. Piri-Pascià prospetta il sobborgo israelitico di Balata, posto sull’altra riva del Corno. Non v’incontrammo che qualche cane e qualche vecchia turca mendicante. Ma questa solitudine ci permise di considerare a nostro bell’agio la struttura del borgo. È una cosa singolare. In quel borgo, come in qualunque altra parte di Costantinopoli uno s’addentri, dopo averla vista o dal mare o dalle alture vicine, si prova la medesima impressione che a guardare un bello spettacolo coreografico dal palco scenico dopo averlo visto dalla platea; ci si meraviglia che quell’insieme di cose brutte e meschine possa produrre una così bella illusione. Non v’è nessuna città al mondo, io credo, nella quale la bellezza sia così pura apparenza come a Costantinopoli. Veduta da Balata, Piri-Pascià̀ è una cittadina gentile, tutta colori ridenti, inghirlandata di verzura, che si specchia nelle acque del Corno d’Oro come una ninfa, e desta mille immagini d’amore e di delizia. Entrateci, tutto svanisce. Non sono che casupole rozze, tinte di coloracci da baracche di fiera; cortiletti angusti e sudici, che paiono ricettacoli di streghe; gruppi di fichi e di cipressi polverosi, giardini ingombri di calcinacci, vicoli deserti, miseria, immondizie, tristezza. Ma scendete una china, saltate in un caicco, e dopo cinque remate, rivedete la cittadina fantastica, in tutta la pompa della sua bellezza e della sua grazia.

[Hasskioi]

Andando innanzi, sempre lungo la riva del Corno d’Oro, scendiamo in un altro sobborgo, vasto, popoloso, d’aspetto strano, dove, fin dai primi passi, ci accorgiamo di non essere più in mezzo ai musulmani. Da ogni parte si vedono bambini coperti di gore e di scaglie che si ravvoltolano per terra; vecchie sformate e cenciose che lavorano colle mani scheletrite sugli usci delle case ingombre di ciarpame e ferravecchi; uomini ravvolti in lunghi vestiti sudici, con un fazzoletto in brandelli attorcigliato intorno alla testa, che passano lungo i muri in aspetto furtivo; visi macilenti alle finestre; cenci appesi fra casa e casa; strame e belletta in ogni parte. È Hasskioi, il sobborgo israelitico, il ghetto della riva settentrionale del Corno d’Oro, che fa fronte a quello dell’altra riva, al quale lo congiungeva durante la guerra di Crimea un ponte di legno di cui non rimane più traccia. Di qui comincia un’altra lunga catena di arsenali, di scuole militari, di caserme e di piazze d’armi, che si stende fin quasi in fondo al Corno d’oro. Ma di questo non vedemmo nulla perché ormai non ce lo consentivano nè le gambe, nè la testa. Già tutte le cose vedute ci si confondevano nella mente; ci pareva di essere in viaggio da una settimana; pensavamo a Pera lontanissima con un leggero sentimento di nostalgia, e saremmo tornati indietro, se non ci avesse trattenuto il proposito fatto solennemente sul vecchio ponte, e se Yunk non m’avesse rianimato, secondo il suo solito, intonando la gran marcia dell’Aida.

[Halidgi-Oghli]

Avanti dunque. Attraversiamo un altro cimitero musulmano, saliamo sopra un’altra collina, entriamo in un altro sobborgo, nel sobborgo di Halidgi-Oghli, abitato da una popolazione mista; una piccola città dove ad ogni svolto di vicolo, si trova una nuova razza e una nuova religione. Si sale, si scende, si rampica, si passa in mezzo alle tombe, alle moschee, alle chiese, alle sinagoghe; si gira intorno a cimiteri e a giardini; s’incontrano delle belle armene di forme matronali e delle turche leggere che sbirciano a traverso il velo; si sente parlar greco, armeno e spagnolo, – lo spagnolo degli ebrei –; e si cammina, si cammina. Si dovrà pure arrivare in fondo a questa Costantinopoli! – diciamo fra noi. – Tutto ha un confine su questa terra! Già le case di Halidgi-Oghli diradano, cominciano a verdeggiare li orti, non c’è più che un gruppo di abituri, vi passiamo in mezzo, siamo finalmente arrivati…

[Sudludgé]

Ahimè! non siamo arrivati che a un altro sobborgo. È il sobborgo cristiano di Sudludgé, che s’innalza sopra una collina, circondato di orti e di cimiteri; sulla collina ai piedi della quale metteva capo il solo ponte che unisse anticamente le due rive del Corno d’oro. Ma questo sobborgo, come Dio vuole, è l’ultimo, e la nostra escursione è finita. Usciamo di fra le case per cercare un luogo di riposo; saliamo su per una altura ripida e nuda che s’alza alle spalle di Sudludgé, e ci troviamo dinanzi al più grande cimitero israelitico di Costantinopoli: un vasto piano coperto d’una miriade di pietre abbattute, le quali presentano l’aspetto sinistro d’una città rovinata dal terremoto, senza un albero, senza un fiore, senza un filo d’erba, senza una traccia di sentiero: una solitudine desolata che stringe il cuore, come lo spettacolo d’una grande sventura. Sediamo sopra una tomba, rivolti verso il Corno d’oro, ed ammiriamo, riposando, il panorama immenso e gentile che ci si stende dintorno. Si vede, sotto, Sudludgé, Halidgi-Oghli, Hasskioj, Piri-Pascià, una fuga di sobborghi chiusi fra l’azzurro del mare e il verde dei cimiteri e dei giardini; a sinistra l’Okmeïdan solitario, e i cento minareti di Kassim-Pascià; più lontano, Stambul, sterminata e confusa; di là da Stambul, le somme linee delle montagne dell’Asia, quasi svanite nel cielo; dinanzi, proprio in faccia a Sudludgé, dall’altra parte del Corno d’oro, il borgo misterioso d’Eyub, di cui si distinguono uno per uno i ricchi mausolei, le moschee di marmo, le chine ombrose sparse di tombe, i viali solitari, e i recessi pieni di tristezza di grazia; e a destra d’Eyub altri villaggi che si guardano nell’acqua, e poi l’ultima svolta del Corno d’oro, che si perde fra due alte rive rivestite d’alberi e di fiori. Spaziando collo sguardo su quel panorama, stanchi, quasi in uno stato di dormiveglia, senz’accorgercene, mettiamo in musica quella bellezza, canterellando non so che cosa; ci domandiamo chi sarà il morto su cui siamo seduti; frughiamo con un fuscello dentro un formicaio; parliamo di mille sciocchezze; ci diciamo di tratto in tratto: – Ma siamo proprio a Costantinopoli? –; poi pensiamo che la vita è breve e che tutto è vanità; e poi ci pigliano dei fremiti d’allegrezza; ma in fondo sentiamo che nessuna bellezza della terra dà una gioia veramente intera, se contemplandola, non si sente nella propria mano la manina della donna che si ama.

[In caicco]

Verso il tramonto scendiamo al Corno d’oro, entriamo in un caicco a quattro remi, e non abbiamo ancora pronunziato la parola: – Galata! – che la barchetta gentile è già lontana dalla riva. E il caicco è veramente la barchetta più gentile che abbia mai solcato le acque. È più lungo della gondola, ma più stretto e più sottile; è scolpito, dipinto e dorato; non ha nè timone, nè sedili; vi si siede sopra in cuscino o un tappeto, in modo che non rimane fuori che la testa e le spalle; è terminato alle due estremità in maniera da poter andare nelle due direzioni; si squilibra al menomo movimento, si spicca dalla riva come una freccia dall’arco, par che voli a fior d’acqua come una rondine, passa da per tutto, scivola e fugge specchiando nell’onde i suoi mille colori come un delfino inseguito. I nostri rematori erano due bei giovani turchi col fez rosso, con una camicia cilestrina, con un paio di grandi calzoni bianchissimi, colle braccia e colle gambe nude; due atleti ventenni, color di bronzo, puliti, allegri e baldanzosi, che ad ogni remata mandavano innanzi la barca di tutta la sua lunghezza; altri caicchi ci passavano accanto di volo, che appena si vedevano; ci passavano vicino degli stormi d’anitre, ci roteavano sul capo degli uccelli, ci rasentavano delle grandi barche coperte, piene di turche velate, e le alghe di tratto in tratto ci nascondevano ogni cosa. Vista d’in fondo al Corno d’Oro, a quell’ora, la città presentava un aspetto nuovissimo. Non si vedeva la riva asiatica, a cagione della curvatura della rada; la collina del Serraglio chiudeva il Corno d’oro come un lunghissimo lago; le colline delle due rive sembravano ingigantite; e, Stambul, lontana lontana, sfumata con una gradazione dolcissima di tinte cineree e azzurrine, enorme e leggera come una città fatata, pareva che galleggiasse sul mare e si perdesse nel cielo. Il caicco volava, le due rive fuggivano, i seni succedevano ai seni, i boschetti ai boschetti, i sobborghi ai sobborghi; e via via che s’andava innanzi, tutto ci s’allargava e ci s’innalzava dintorno, i colori della città illanguidivano, l’orizzonte s’infocava, le acque mandavano dei riflessi d’oro e di porpora, e un profondo stupore ci entrava a poco a poco nell’anima, misto a una dolcezza indefinibile, che ci faceva sorridere e non ci lasciava parlare. Quando il caicco si fermò allo scalo di Galata, uno dei barcaioli ci dovette gridare negli orecchi: Monsù! Arrivar! – e ci destammo come da un sogno.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

6- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Costantinopoli

6- Costantinopoli

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ma torniamo a Costantinopoli, e spaziamovi come gli uccelli nel cielo. Qui ci si può levare tutti i capricci. Si può accendere il sigaro in Europa e andare a buttar la cenere in Asia. La mattina, levandoci, possiamo domandarci: – Che parte del mondo vedrò quest’oggi? – Si può scegliere fra due continenti e due mari. S’ha a nostra disposizione dei cavalli sellati in ogni piazzetta, delle barchette a vela in ogni seno, dei piroscafi a cento scali; il caicco che guizza, la talika che vola, e un esercito di ciceroni che parlano tutte le lingue d’Europa. Volete sentir la commedia italiana? veder ballare i dervis? sentir le buffonate di Caragheuz, il pulcinella turco? udire le canzonette licenziose dei teatrini di Parigi? assistere alle rappresentazioni ginnastiche degli zingari? farvi raccontare una leggenda araba da un rapsodo? andare al teatro greco? sentir predicare un iman? veder passare il Sultano? Chiedete e domandate. Tutte le nazioni sono al vostro servizio: l’armeno per farvi la barba, l’ebreo per lustrarvi le scarpe, il turco per condurvi in barca, il nero per strofinarvi nel bagno, il greco per porgervi il caffè, e tutti quanti per truffarvi. Per dissetarvi, passeggiando, trovate dei gelati fatti con la neve dell’Olimpo; se siete golosi, potete bere dell’acqua del Nilo, come il Sultano; se siete deboli di stomaco, acqua dell’Eufrate; se siete nervosi, acqua del Danubio. Potete desinare come l’arabo nel deserto o come l’epulone alla Maison dorée. Per far la siesta, avete i cimiteri; per stordirvi, il ponte della Sultana Validè; per sognare, il Bosforo; per passar la domenica, l’Arcipelago dei Principi; per veder l’Asia Minore, il monte di Bulgurlù; per vedere il Corno d’Oro, la torre di Galata; per veder ogni cosa, la torre del Seraschiere. Ma è una città ancora più strana che bella. Le cose che non si presentarono mai insieme alla nostra mente, là si presentano insieme al nostro sguardo. Da Scutari parte la carovana per la Mecca e parte il treno diretto per Brussa, l’antica metropoli; fra le mura misteriose del vecchio serraglio, passa la strada ferrata che va a Sofia; i soldati turchi scortano il prete cattolico che porta il Santo Sacramento; il popolo fa festa nei cimiteri; la vita, la morte, i piaceri, tutto s’allaccia e si confonde. V’è il movimento di Londra e la letargia dell’ozio orientale, un’immensa vita pubblica e un impenetrabile mistero nella vita privata; un governo assoluto e una libertà senza confini. Per i primi giorni non si raccapezza nulla; pare che d’ora in ora o debba cessare quel disordine o seguire una rivoluzione; ogni sera, tornando a casa, ci sembra di tornare da un viaggio; ogni mattina uno si domanda: – Ma è proprio qui vicina Stambul? – Non si sa dove andare a battere il capo, un’impressione cancella l’altra, i desideri s’affollano, il tempo fugge; si vorrebbe restar là tutta la vita, si vorrebbe partire il giorno dopo. E quando poi s’ha da descriverlo questo caos? A momenti vi vien la tentazione di fare un fascio di tutti i libri e di tutti i fogli che ho sul tavolino, e di buttare ogni cosa dalla finestra.


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

5- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: All’albergo

5- All’albergo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ed ora i lettori vengano con me all’albergo a prendere un po’ di respiro.
Una gran parte di quello che ho descritto fin qui, il mio amico ed io lo vedemmo il giorno stesso dell’arrivo: immagini chi legge come dovessimo aver la testa ritornando all’albergo sul far della notte. Per strada non si disse una parola, e appena entrati nella camera, ci lasciammo cadere sul sofà guardandoci in viso e domandandoci tutt’e due insieme:
– Che te ne pare?
– Che cosa ne dici?
– E pensare ch’io son venuto qui per dipingere!
– Ed io per scrivere!
E ci ridemmo sul viso in atto di fraterno compatimento.

Quella sera, infatti, ed anche per vari giorni dopo, sua maestà Abdul-Aziz m’avrebbe potuto offrire in premio una provincia dell’Asia Minore, che non sarei riuscito a metter insieme dieci righe intorno alla capitale dei suoi Stati, tanto è vero che per descrivere le grandi cose bisogna farsi di lontano, e per ricordarsene bene, averle un po’ dimenticate. E poi come avrei potuto scrivere in una camera da cui si vedeva il Bosforo, Scutari e la cima dell’Olimpo? L’albergo stesso era uno spettacolo. A tutte le ore del giorno, per le scale e pei corridoi, andava e veniva gente d’ogni paese. Alla tavola rotonda sedevano ogni giorno venti nazioni. Desinando, non mi potevo levar dalla testa d’essere un delegato del governo italiano, e di dover prendere la parola alle frutta su qualche grande questione internazionale. C’erano visi rosei di lady, teste scapigliate d’artisti, grinte d’avventurieri da batterci moneta sopra, testine di vergini bizantine a cui non mancava che il nimbo d’oro, facce bizzarre e sinistre; e ogni giorno cangiavano. Alle frutta, quando tutti parlavano, pareva d’essere nella torre di Babele. Vi conobbi fin dal primo giorno parecchi russi infatuati di Costantinopoli. Ogni sera ci ritrovavamo là, di ritorno dai punti estremi della città, e ognuno aveva un viaggio da raccontare. Chi era salito in cima alla torre del Seraschiere, chi aveva visitato i cimiteri di Eyub, chi veniva da Scutari, chi aveva fatto una corsa sul Bosforo; la conversazione era tutta ordita di descrizioni piene di colori e di luce; e quando mancava la parola, i vini dolci e profumati dell’Arcipelago facevano da suggeritori. C’erano pure alcuni miei concittadini, bellimbusti danarosi, che mi fecero divorar molta stizza, perché dalla minestra alle frutta non facevano che dire ira d’Iddio di Costantinopoli: e che non c’eran marciapiedi, e che i teatri erano oscuri, e che non si sapeva come passar la sera. Erano venuti a Costantinopoli per passar la sera. Uno di costoro aveva fatto il viaggio sul Danubio. Gli domandai se gli era piaciuto il gran fiume. Mi rispose che in nessuna parte del mondo si cucinava lo storione come sui piroscafi della reale e imperiale Compagnia austriaca. Un altro era un tipo amenissimo di viaggiatore amoroso; uno di coloro che viaggiano per sedurre, col taccuino delle conquiste. Era un contino lungo e biondo, largamente dotato dell’ottavo dono dello Spirito Santo, che quando il discorso cadeva sulle donne turche, chinava la testa con un sorriso misterioso, e non pigliava parte alla conversazione se non con mezze parole troncate sempre artificialmente da una sorsata di vino. Arrivava tutti i giorni a desinare un po’ più tardi degli altri, tutto ansante, coll’aria d’averla fatta al Sultano un quarto d’ora prima, e tra un piatto e l’altro faceva passare di tasca in tasca, con molta cautela, dei bigliettini piegati, che dovevano parere lettere d’odalische, ed erano sicurissimamente note d’albergo. Ma i soggetti che s’inciampano in questi alberghi di città cosmopolite! Bisogna esserci stati per crederci. V’era un giovane ungherese, sulla trentina, alto, nervoso, con due occhi diabolici e una parlantina febbrile, il quale, dopo aver fatto il segretario d’un ricco signore a Parigi, era andato ad arruolarsi fra gli zuavi francesi in Algeria, era stato ferito e preso prigioniero dagli Arabi, poi scappato nel Marocco, poi ritornato in Europa e corso all’Aja a chiedere il grado d’ufficiale per andare a combattere contro gli Accinesi; respinto all’Aja, aveva deciso di arruolarsi nell’esercito turco; ma passando a Vienna per venire a Costantinopoli, s’era preso una palla di pistola nel collo, in un duello per una donna, e faceva vedere la cicatrice; respinto anche a Costantinopoli, – cos’ho da fare? – diceva – je suis enfant de l’aventure; bisogna bene ch’io mi batta; ho già trovato chi mi conduce alle Indie, – e mostrava il biglietto d’imbarco –; mi farò soldato inglese; nell’interno c’è sempre qualcosa da fare; io non cerco che di battermi; che cosa m’importa di morire? Tanto ho un polmone rovinato. – Un altro bell’originale era un francese, la cui vita pareva non fosse altro che una perpetua guerra colla posta: aveva una questione pendente con la posta austriaca, colla francese, coll’inglese; mandava articoli di protesta alla Neue Freie Presse; lanciava impertinenze telegrafiche a tutte le stazioni postali del continente, aveva ogni giorno un diverbio a qualche finestrino di posta, non riceveva una lettera a tempo, non ne scriveva una che arrivasse dov’era mandata, e raccontava a tavola tutte le sue disgrazie e tutte le sue baruffe, concludendo sempre coll’assicurarci che la Posta gli avrebbe accorciata la vita. Mi ricordo pure d’una signora greca, un viso di spiritata, vestita bizzarramente, e sempre sola, che ogni sera si alzava da tavola a metà del desinare, e se n’andava dopo aver fatto sul piatto un segno cabalistico di cui nessuno riuscì mai a capire il significato. Non ho più dimenticata nemmeno una coppia valacca, un bel giovane sui venticinque anni e una giovanetta sul primo sboccio, comparsi una sera sola, che erano indubitatamente due fuggiaschi; lui rapitore, lei complice; perché bastava fissarli un momento per farli arrossire, e ogni volta che s’apriva la porta, scattavano come due molle. Di chi altri mi ricordo? di cento altri, se ci pensassi. Era una lanterna magica. Ci divertivamo, il mio amico ed io, i giorni dell’arrivo d’un piroscafo, a veder entrare la gente per la porta di strada: tutti stanchi, sbalorditi, qualcuno ancora commosso dallo spettacolo della prima entrata; facce che dicevano: – Che mondo è questo? Dove siamo venuti a cascare? – Un giorno entrò un giovinetto, arrivato allora, che pareva matto dalla contentezza di essere finalmente a Costantinopoli, sogno della sua infanzia, e stringeva con tutt’e due le mani la mano di suo padre; e suo padre gli diceva con voce commossa: – Je suis heureux de te voir heureux, mon cher enfant. – Poi passavamo le ore calde alla finestra a guardare la Torre della fanciulla, che s’alza, bianca come la neve, sopra uno scoglio solitario del Bosforo, in faccia a Scutari; e mentre fantasticavamo sulla leggenda del principe di Persia che va a succhiare il veleno dal braccio della bella sultana, morsicata dall’aspide, da una finestra della casa in faccia, ogni giorno alla stessa ora, un ragazzo di cinque anni ci faceva le corna. Tutto era curioso in quell’albergo. Fra le altre cose, dinanzi alla porta, trovavamo ogni sera uno o due soggetti di faccia equivoca, che dovevano essere provveditori di modelle per i pittori, e che pigliando tutti per pittori, a tutti domandavano a bassa voce: – Una turca? una greca? un’armena? un’ebrea? una nera?


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

4- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Stambul

4- Stambul

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Per riaversi da questo sbalordimento, non c’è che infilare una delle mille stradicciole che serpeggiano su per i fianchi delle colline di Stambul. Qui regna una pace profonda, e si può contemplare tranquillamente in tutti i suoi aspetti quell’Oriente misterioso e geloso, che sull’altra riva del Corno d’oro non si vede che a tratti fuggitivi in mezzo alla confusione rumorosa della vita europea. Qui tutto è schiettamente orientale. Dopo un quarto d’ora di cammino non si vede più nessuno e non si sente più alcun rumore. Di qua e di là son tutte casette di legno, dipinte di mille colori, nelle quali il primo piano sporge sopra il piano terreno, e il secondo sul primo; e le finestre hanno dinanzi una specie di tribune, invetriate da ogni parte, e chiuse da grate di legno a piccolissimi fori, che paiono altrettante casette appese alle case principali, e danno alle strade un aspetto singolarissimo di tristezza e di mistero. In alcuni luoghi le strade sono così strette, che le parti sporgenti delle case opposte quasi si toccano, e così si cammina per lunghi tratti all’ombra di quelle gabbie umane, proprio sotto i piedi delle donne turche che vi passano una gran parte della giornata, non vedendo che una striscia sottilissima di cielo. Le porte son tutte chiuse; le finestre del pian terreno, ingraticolate; tutto spira diffidenza e gelosia; par di attraversare una città di monasteri. Tratto tratto sentite uno scoppio di risa, e alzando il capo, vedete per qualche spiraglio un nodo di trecce o un occhietto scintillante che subito sparisce. In alcuni punti sorprendete una conversazione vivace e sommessa da una parte all’altra della strada; ma cessa improvvisamente al rumore del vostro passo. Passando, scompigliate per un momento chi sa che rete di pettegolezzi e d’intrighi. Non vedete nessuno e mille occhi vi vedono; siete soli, e vi sentite come in mezzo a una folla; vorreste passare inosservati, alleggerite il passo, camminate composti, misurate lo sguardo. Una porta che s’apra o una finestra che si chiuda, vi riscuote bruscamente come un grande rumore. Pare che queste strade debbano riuscire uggiose. Ma è tutt’altro. Una macchia verde in fondo da cui esce un minareto bianco; un turco vestito di rosso che scende verso di voi; una serva nera ferma dinanzi a una porta, un tappeto persiano appeso a una finestra, bastano a formare un quadretto così pieno di vita e d’armonia, che stareste un’ora a contemplarlo. Della poca gente che vi passa accanto, nessuno vi guarda. Soltanto qualche volta sentite gridare alle vostre spalle: – Giaur! (Infedele); – e voltandovi, vedete sparire dietro un’imposta la testa d’un ragazzo. Altre volte s’apre la porticina d’una di quelle casette: vi soffermate aspettando l’apparizione della bella d’un arem, e n’esce invece una signora europea, con cappellotto e strascico, che mormora un adieu o un au revoir, e s’allontana rapidamente, lasciandovi colla bocca aperta. In un’altra strada, tutta turca e tutta silenziosa, sentite a un tratto uno squillo di corno e uno scalpitio di cavalli: vi voltate, che cos’è? Appena credete ai vostri occhi. È un grande omnibus, che viene innanzi su due rotaie che non avevate vedute, pieno di turchi e di franchi, col suo usciere in uniforme e coi suoi cartelli delle tariffe, come un tramway di Vienna o di Parigi. La stonatura che fa quest’apparizione in una di queste strade, non si può esprimere con parole: vi pare una burla o uno sbaglio, e vi vien da ridere, e guardate quel veicolo stupiti come se non ne aveste mai visti. Passato l’omnibus, par che sia passata l’immagine viva dell’Europa, e vi ritrovate in Asia come al cangiar di scena in un teatro. Da queste strade solitarie riuscite in piazzette aperte, quasi interamente ombreggiate da un platano gigantesco. Da una parte c’è una fontana, dove bevono dei cammelli; dall’altra un caffè, con una fila di materasse distese dinanzi alla porta, e qualche turco sdraiato, che fuma; e accanto alla porta un gran fico, abbracciato da una vite, i cui pampini spenzolano fino a terra, lasciando vedere tra foglia e foglia l’azzurro lontano del mar di Marmara, e qualche veletta bianca. Una luce bianchissima e un silenzio mortale danno a tutti questi luoghi un carattere così tra solenne e melanconico, che li rende indimenticabili, anche a vederli una volta sola. Si va innanzi, innanzi, quasi attirati da quella quiete arcana, che entra a poco a poco nell’anima come una leggera sonnolenza, e dopo breve tempo si perde ogni sentimento della distanza e dell’ora. Si trovano dei vasti spazi colle tracce d’un grande incendio recente; chine dove non sono che poche case sparpagliate, fra le quali cresce l’erba, e serpeggiano dei sentieri da capre; punti elevati, da cui si abbracciano collo sguardo strade, vicoletti, giardini, centinaia di case, e non si vede da nessuna parte né una creatura umana, né un nuvolo di fumo, né una porta aperta, né il menomo indizio d’abitazione e di vita; tanto che si potrebbe credere d’essere soli in quell’immensa città, e a pensarci un momento, s’è quasi presi dalla paura. Ma scendete la china, arrivate in fondo a una di quelle stradette: tutto è cangiato. Siete in una delle grandi vie di Stambul, fiancheggiata da monumenti, dove non bastano più gli occhi all’ammirazione. Camminate in mezzo alle moschee, ai chioschi, ai minareti, alle gallerie arcate, alle fontane di marmo e di lapislazzuli, ai mausolei dei sultani splendenti di rabeschi e d’iscrizioni d’oro, ai muri coperti di musaici, sotto le tettoie di cedro intarsiato, all’ombra d’una vegetazione pomposa che supera i muri di cinta e i cancelli dorati dei giardini, e riempie la via di profumi. Per queste vie s’incontrano a ogni passo carrozze di pascià, ufficiali, impiegati, aiutanti di campo, eunuchi di grandi case, una processione di servitori e di parassiti, che vanno e vengono fra i ministeri. Qui si riconosce la metropoli del grande impero, e s’ammira in tutta la sua magnificenza. È per tutto una bianchezza, una grazia d’architetture, un gorgoglio d’acque, una freschezza d’ombre, che accarezza i sensi come una musica sommessa, e riempie la mente d’immagini ridenti. Per queste vie s’arriva alle grandi piazze dove s’innalzano le moschee imperiali, e dinanzi a queste moli si rimane sgomenti. Ognuna di esse forma come il nodo d’una piccola città di collegi, di spedali, di scuole, di biblioteche, di magazzini, di bagni, che quasi non si avvertono, schiacciati come sono dalla cupola enorme a cui fanno corona. L’architettura, che s’immaginava semplicissima, presenta invece una varietà di particolari, che tira gli sguardi da mille parti. Sono cupolette rivestite di piombo, tetti di forme bizzarre che s’alzano l’uno sull’altro, gallerie aeree, grandi portici, finestre a colonnine, archi a festoni, minareti accannellati, cinti di terrazzini lavorati a giorno, con capitelli a stalattiti; porte e fontane monumentali, che sembrano rivestite di trina; muri picchiettati d’oro e di mille colori; tutto ricamato, cesellato, leggero, ardito, ombreggiato da querce, da cipressi e da salici, da cui escono nuvoli d’uccelli che vagano a lenti giri intorno alle cupole e riempiono d’armonia tutti i recessi dell’immenso edificio. Qui si comincia a provar qualche cosa che è più profondo e più forte del sentimento della bellezza. Quei monumenti che sono come una colossale affermazione marmorea d’un ordine d’idee e di sentimenti diverso da quello in cui siamo nati e cresciuti, che sono quasi l’ossatura d’una razza e d’una fede ostile, che ci raccontano con un linguaggio muto di linee superbe e di altezze temerarie le glorie d’un Dio che non è nostro e d’un popolo che ha fatto tremare i nostri padri, incutono un rispetto misto di diffidenza e di timore, che sulle prime vince la curiosità, e ce ne trattiene lontani. Si vedono, dentro ai cortili ombrosi, turchi che fanno le abluzioni alle fontane, pezzenti accovacciati ai piedi dei pilastri, donne velate che passeggiano lentamente sotto le arcate; tutto quieto, e come adombrato d’una tinta di mestizia e di voluttà, che non si capisce bene d’onde derivi, e su cui la mente si ferma e lavora come sopra un enigma. Galata, Pera, quanto sono lontane! Voi vi sentite soli in un altro mondo e in un altro tempo, nella Stambul di Solimano il Grande e di Baiazet secondo, e provate un vivo sentimento di stupore quando, usciti da quella piazza, e perduto d’occhio quel monumento smisurato della potenza degli Osmanli, vi ritrovate in mezzo alla Costantinopoli di legno, meschina, cadente, piena di sudiciume e di miseria. Via via che andate innanzi le case si scoloriscono, i pergolati si sfasciano, le vasche delle fontane si coprono di muschio; trovate delle moschee nane, coi muri screpolati e i minareti di legno, circondate di rovi e d’ortiche; dei mausolei in rovina, delle scale infrante, dei passaggi coperti ingombri di macerie, dei quartieri decrepiti d’una tristezza infinita, dove non si sente altro rumore che il frullo dell’ali degli sparvieri e delle cicogne, o la voce gutturale d’un muezzin solitario, che grida la parola di Dio dall’alto d’un minareto nascosto. Nessuna città rappresenta meglio di Stambul la natura e la filosofia del suo popolo. Tutto ciò che v’è di grande e di bello è di Dio o del sultano, immagine di Dio sulla terra; tutto il rimanente è passeggero e porta l’impronta d’una profonda trascuranza delle cose mondane. La tribù dei pastori è diventata nazione; ma il suo amore istintivo della natura campestre, della contemplazione e dell’ozio, ha conservato alla metropoli l’aspetto dell’accampamento. Stambul non è una città, non lavora, non pensa, non crea; la civiltà sfonda le sue porte e assalta le sue vie; essa sonnecchia e fantastica all’ombra delle moschee, e lascia fare. È una città slegata, dispersa, deforme, che rappresenta piuttosto, la sosta d’una razza pellegrinante, che la potenza d’uno Stato immobile; un immenso abbozzo di metropoli; un grande spettacolo piuttosto che una grande città. E non se ne può avere una giusta immagine, se non si percorre intera. Bisogna partire dalla prima collina, quella che forma la punta del triangolo, ed è bagnata dal mar di Marmora. Qui è per così dire la testa di Stambul; un quartiere monumentale, pieno di memorie, di maestà e di luce. Qui l’antico serraglio, dove sorgeva prima Bisanzio con la sua acropoli e il tempio di Giove, e poi il palazzo dell’imperatrice Placidia e le terme d’Arcadio; qui la moschea di Santa Sofia e la moschea d’Ahmed, e l’At-meidan che occupa lo spazio dell’Ippodromo antico, dove in mezzo a un Olimpo di bronzo e di marmo, tra le grida d’una folla vestita di seta e di porpora, volavano le quadrighe d’oro al cospetto degl’imperatori sfolgoranti di perle. Da questa collina si scende in una valle poco profonda, dove si stendono le mura occidentali del serraglio, che segnano il confine della Bisanzio antica, e s’alza la Sublime Porta, per la quale s’entra nel palazzo del gran vizir e nel Ministero degli esteri: quartiere austero e silenzioso, in cui sembra raccolta tutta la tristezza delle sorti dell’impero. Da questa valle si sale sulla seconda collina, dove sorge la moschea marmorea di Nuri-Osmanié, luce d’Osmano, e la colonna bruciata di Costantino, che sosteneva un Apollo di bronzo con la testa del grande Imperatore, ed era nel bel mezzo dell’antico foro, circondato di portici, d’archi di trionfo e di statue. Al di là di questa collina si apre la valle dei bazar, che dalla moschea di Bajazet va fino a quella della sultana Validè, ed abbraccia un labirinto immenso di strade coperte, piene di gente e di rumore, da cui s’esce colla vista annebbiata e con le orecchie stordite. Sulla terza collina, che domina ad un tempo il mar di Marmara e il Corno d’oro, giganteggia la moschea di Solimano, rivale di Santa Sofia, gioia e splendore di Stambul, come dicono i poeti turchi, e la torre meravigliosa del Ministero della guerra, il quale s’alza sulle rovine degli antichi palazzi dei Costantini, abitati un tempo da Maometto il conquistatore, poi convertiti in serraglio delle vecchie sultane. Fra la terza e la quarta altura si stende come un ponte aereo l’enorme acquedotto dell’imperatore Valente, formato da due ordini d’archi leggerissimi, vestiti di verzura, che spenzola a ghirlande sopra la valle popolata di case. Si passa sotto l’acquedotto, si sale sulla quarta collina. Qui, sulle rovine della chiesa famosa dei Santi Apostoli, fondata dall’imperatrice Elena e rifabbricata da Teodora, s’eleva la moschea di Maometto II, circondata di scuole, d’ospedali e d’alberghi da carovane; accanto alla moschea, il bazar degli schiavi, i bagni di Maometto e la colonna granitica di Marciano, che porta ancora il suo cippo di marmo ornato delle aquile imperiali; e vicino alla colonna il luogo dove era la piazza dell’Et-Meidan, in cui fu consumata la strage famosa dei Giannizzeri. S’attraversa un’altra valle, coperta da un’altra città, e si sale alla quinta collina, sulla quale è posta la moschea di Selim, presso all’antica cisterna di San Pietro, convertita in giardino. Sotto, lungo il Corno d’oro, si stende il Fanar, quartiere greco, sede del patriarca, in cui s’è rifugiata l’antica Bisanzio, coi discendenti dei Paleologhi e dei Comneni, e dove seguirono le orrende carneficine del 1821. Si scende in una quinta valle, si sale sopra la sesta collina. Qui s’è già sul terreno che occupavano le otto coorti dei quarantamila Goti di Costantino, fuori della cerchia delle prime mura, le quali non abbracciavano che la quarta collina; e appunto nello spazio occupato dalla coorte settima, che ha lasciato al luogo il nome di Hebdomon. Sulla sesta collina, rimangono le mura del palazzo di Costantino Porfirogenete, dove si coronavano gl’imperatori, chiamato ora dai turchi Tekir-Serai, palazzo dei principi. Ai piedi della collina, Balata, il ghetto di Costantinopoli, quartiere immondo, che s’allunga sulla riva del Corno fino alle mura della città, e al di qua di Balata, il sobborgo antico delle Blacherne, una volta ornato di palazzi dai tetti dorati, soggiorno prediletto degl’imperatori, famoso per la gran chiesa dell’imperatrice Pulcheria e per il santuario delle reliquie; ora pieno di rovine e tristezza. Alle Blacherne cominciano le mura merlate che dal Corno d’oro corrono fino al mar di Marmara, abbracciando la settima collina, dov’era il foro boario, e c’è ancora il piedestallo della colonna d’Arcadio: la collina più orientale e più grande di Stambul, fra la quale e le altre sei scorre il piccolo fiume Lykus, che entra nella città presso la porta di Carisio e si va a gettar nel mare vicino all’antico porto di Teodosio. Dalle mura delle Blacherne, si vede ancora il sobborgo d’Ortaksiler, che scende dolcemente verso la rada, incoronato di giardini; al di là d’Ortaksiler il sobborgo d’Eyub, terra santa degli Osmanli, colla sua moschea gentile, e il suo vasto cimitero ombreggiato da un bosco di cipressi e biancheggiante di mausolei e di tombe; dietro Eyub, l’altopiano dell’antico campo militare, dove le legioni levavan sugli scudi i nuovi imperatori; e di là dall’altopiano, altri villaggi i cui vivi colori ridono vagamente in mezzo al verde dei boschetti bagnati dalle ultime acque del Corno d’oro. Ecco Stambul. È divina. Ma il cuore si sgomenta a pensare che questo sterminato villaggio asiatico si stende sulle rovine di quella seconda Roma, di quell’immenso museo di tesori rapiti all’Italia, alla Grecia, all’Egitto, all’Asia minore, di cui il solo ricordo abbaglia la mente come un sogno divino. Dove sono i grandi portici che attraversavano la città dal mare alle mura, le cupole dorate, i colossi equestri che s’innalzavano sui pilastri titanici dinanzi agli anfiteatri e alle terme, le sfingi di bronzo sedute sui piedestalli di porfido, i templi e i palazzi che innalzavano i frontoni di granito in mezzo a un popolo aereo di numi di marmo e d’imperatori d’argento? Tutto è sparito o trasformato. Le statue equestri di bronzo son state fuse in cannoni; le rivestiture di rame degli obelischi, ridotte in monete; i sarcofagi delle imperatrici, cangiati in fontane; la chiesa di Santa Irene è un arsenale, la cisterna di Costantino un’officina, il piedistallo della colonna d’Arcadio una bottega di maniscalco, l’Ippodromo un mercato di cavalli; l’edera e le macerie coprono le fondamenta delle regge, sul suolo degli anfiteatri cresce l’erba dei cimiteri, e poche iscrizioni calcinate dagli incendi o mutilate dalle scimitarre degl’invasori rammentano che su quei colli vi fu la metropoli meravigliosa dell’impero d’Oriente. Su questa immane rovina siede Stambul, come un’odalisca sopra un sepolcro, aspettando la sua ora.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

3- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Il ponte

3- Il ponte

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Per vedere la popolazione di Costantinopoli bisogna andare sul ponte galleggiante, lungo circa un quarto di miglio, che si stende dalla punta più avanzata di Galata fino alla riva opposta del Corno d’oro, in faccia alla grande moschea della sultana Validè. L’una e l’altra riva sono terra europea; ma si può dire che il ponte unisce l’Europa all’Asia, perché in Stambul non v’è d’europeo che la terra, ed hanno colore e carattere asiatico anche i pochi sobborghi cristiani che le fanno corona. Il Corno d’Oro, che ha l’aspetto d’un fiume, separa, come un oceano, due mondi. Le notizie degli avvenimenti d’Europa, che circolano per Galata e per Pera, vive, chiare, minute, commentate, non giungono all’altra riva che monche e confuse come un eco lontano; la fama degli uomini e delle cose più grandi dell’Occidente, s’arresta dinanzi a quella poc’acqua, come dinanzi a un baluardo insuperabile; e su quel ponte dove passano centomila persone al giorno, non passa ogni dieci anni un’idea.

Stando là, si vede sfilare in un’ora tutta Costantinopoli. Sono due correnti umane inesauribili, che s’incontrano e si confondono senza posa dal levar del sole al tramonto, presentando uno spettacolo del quale non sono certamente che una pallida immagine i mercati delle Indie, le fiere di Niinj-Norgorod e le feste di Pekino.

Per veder qualche cosa bisogna fissarsi un piccolo tratto del ponte e non guardare che lì; se si vaga cogli occhi, la vista s’abbarbaglia e la testa si confonde. La folla passa a grandi ondate, ognuna delle quali offre mille colori, ed ogni gruppo di persone rappresenta un gruppo di popoli. S’immagini pure qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi e di classi sociali; non si giungerà mai ad avere un’idea della favolosa confusione che si vede là nello spazio di venti passi e nel giro di dieci minuti. Dietro una frotta di facchini turchi, che passano correndo, curvi sotto pesi enormi, s’avanza una portantina intarsiata di madreperla e d’avorio, a cui fa capolino una signora armena; e ai due lati un beduino ravvolto in un mantello bianco e un vecchio turco col turbante di mussolina e il caffettano color celeste, accanto al quale cavalca un giovane greco seguito dal suo dracomanno colla zuavina ricamata, e un dervis col gran cappello conico e la tonaca di pelo di cammello, che si scansa per lasciar passare la carrozza d’un ambasciatore europeo, preceduta da un battistrada gallonato. Tutto questo non si vede, s’intravvede. Prima che vi siate voltati indietro, vi trovate in mezzo a una brigata di Persiani col berrettone piramidale d’astrakan, passati i quali vi vedete dinanzi un ebreo insaccato in un lungo vestito giallo aperto sui fianchi; una zingara scapigliata, che porta un bambino in un sacco appeso alla schiena; un prete cattolico, con bastone e breviario; mentre in mezzo a una folla confusa di greci, di turchi e d’armeni, s’avanza gridando: – Largo! – un grosso eunuco a cavallo che precede una carrozza turca, dipinta a fiori e ad uccelli, con dentro le donne d’un arem, vestite di violetto e di verde, e ravvolte in grandi veli bianchi; e dietro, una suora di carità d’uno spedale di Pera, seguita da uno schiavo africano che porta una scimmia, e da un raccontatore di storie in abito di negromante. E, cosa naturale, ma che par strana al nuovo venuto, tutta questa gente così diversa s’incontra e passa oltre senza guardarsi, come la folla di Londra; nessuno si ferma; tutti vanno a passo affrettato, e su cento visi, non se ne vede uno che sorrida. L’albanese colle sottanine bianche e i pistoloni alla cintura, passa accanto al tartaro vestito di pelle di montone; il turco a cavallo a un asino bardato con gran pompa, guizza fra due file di cammelli; dietro all’aiutante di campo dodicenne d’un principino imperiale, piantato sopra un corsiero arabo, barcolla un carro carico delle masserizie bizzarre d’una casa turca; la mussulmana a piedi, la schiava velata, la greca colla berrettina rossa e le trecce giù per le spalle, la maltese incappucciata nella faldetta nera, l’ebrea vestita dell’antichissimo costume della Giudea, la negra ravvolta in uno scialle variopinto del Cairo, l’armena di Trebisonda tutta nera e velata come un’apparizione funebre, si trovano qualche volta in una sola fila, come se vi si fossero messe apposta, per prender risalto l’una dall’altra. È un mosaico cangiante di razze e di religioni che si compone e si scompone continuamente con una rapidità che si può appena seguire collo sguardo. È bello tener gli occhi fissi sul tavolato del ponte, non guardando altro che i piedi: passano tutte le calzature della terra, da quella d’Adamo agli stivaletti all’ultima moda di Parigi: babbucce gialle di turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d’israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori dei cavallari dell’Asia minore, pantofole ricamate d’oro, alpargatas alla spagnola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in maniera che mentre se ne guarda una, se ne intravvedono cento. A non badarci bene, c’è da essere rovesciati a ogni passo. Ora è un portatore d’acqua con un otre colossale sul dorso, ora una signora russa a cavallo, ora un drappello di soldati imperiali, vestiti alla zuava, che par che vadano all’assalto, ora una squadra di facchini armeni che passano reggendo sulle spalle, a due a due, delle lunghissime sbarre, a cui sono sospese delle balle smisurate di mercanzia; ora delle frotte di turchi che si lanciano a destra e a sinistra del ponte per imbarcarsi sui piroscafi. È uno scalpiccio, un fruscio, un sonare di voci esotiche, di note gutturali, d’aspirazioni, d’interiezioni incomprensibili, in mezzo a cui le poche parole francesi o italiane che arrivano agli orecchi di tratto in tratto, fanno l’effetto di punti luminosi in una tenebra fitta. Le figure che dan più nell’occhio in quella folla, sono i Circassi, che vanno per lo più a tre, a cinque insieme, a passo lento; pezzi d’uomini barbuti, dalla faccia terribile, che portano un grosso berrettone di pelo alla foggia dell’antica guardia napoleonica, un lungo caffettano nero, un pugnale alla cintura e un cartucciere d’argento sul petto; vere figure di briganti, ognuno dei quali pare che sia venuto a Costantinopoli per vendere una figliola o una sorella, e debba avere le mani intrise di sangue russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di dalmatica bizantina e il capo ravvolto in un fazzoletto rigato d’oro; i bulgari, vestiti d’un saio grossolano, con un berretto incoronato di pelliccia; i giorgiani con un caschetto di cuoio verniciato e la tunica stretta alla vita da un cerchio metallico; i greci dell’arcipelago coperti da capo a piedi di ricami, di nappine e di bottoncini luccicanti. La folla di tanto in tanto radeggia un poco; ma subito s’avanzano altre frotte serrate, ondate di papaline rosse e di turbanti bianchi, in mezzo ai quali spuntano cappelli cilindrici, ombrelle e pettinature piramidali di signore europee, che par che galleggino portate via da quel torrente musulmano. C’è da stupire soltanto a notare la varietà della gente di religione. Qui luccica il cocuzzolo d’un padre cappuccino, là torreggia il turbante alla giannizzera d’un ulema, più in là ondeggia il velo nero d’un prete armeno. Passano degli iman con la tunica bianca, delle monache stimmatine, dei cappellani dell’esercito turco, vestiti di verde, con la sciabola al fianco, dei frati domenicani, dei pellegrini reduci dalla Mecca con un talismano appeso al collo, dei gesuiti, dei dervis, – e questo è strano davvero – dei dervis che nelle moschee si straziano le carni in espiazione dei peccati, e passando il ponte si riparano dal sole coll’ombrellino. A starci bene attenti, seguono in quella confusione mille piccoli accidenti amenissimi. È un eunuco che mostra il bianco dell’occhio a un zerbinotto cristiano, il quale ha guardato troppo curiosamente dentro alla carrozza della sua padrona; è una cocotte francese, vestita coll’ultimo figurino, che pedina il figliuolo d’un pascià ingioiellato e inguantato; è una signora di Stambul che finge di aggiustarsi il velo per sbirciar lo strascico d’una signora di Pera; è un sergente di cavalleria in uniforme di gala, che si ferma nel bel mezzo del ponte, si stringe il naso con due dita e slancia nello spazio un guai a chi tocca, da mettere i brividi; è un ciurmadore che, preso un soldo da un povero diavolo, gli fa sul viso un gesto cabalistico, che lo deve guarire del mal d’occhi; è una famiglia di viaggiatori grandi e piccini, arrivata quel giorno stesso, che s’è smarrita in mezzo a una turba di canaglia asiatica, e la madre cerca i bimbi che strillano, e gli uomini si fanno largo a spintoni. I cammelli, i cavalli, le portantine, le carrozze, i buoi, le carrette, le botti rotolate, gli asini sanguinolenti, i cani spelacchiati, formano delle lunghe file, che dividono per mezzo la folla. Qualche volta passa un grosso pascià di tre code, sdraiato in una carrozza splendida, seguito a piedi dal suo portapipa, dalla sua guardia e da un nero, e allora tutti i turchi salutano toccandosi la fronte e il petto, e le mendicanti musulmane, orribili megere, col volto imbacuccato e il seno nudo, si slanciano agli sportelli chiedendo l’elemosina. Gli eunuchi fuor di servizio, passano a due, a tre, a cinque insieme, con la sigaretta in bocca; e si riconoscono alla molle corpulenza, alle lunghe braccia, ai grandi abiti neri. Le belle bambine turche, vestite da maschietti, con calzoncini verdi e panciottini rosati o gialli, corrono e saltellano con un’agilità felina, facendosi largo con le piccole mani tinte di color di porpora. I lustrascarpe con la cassetta dorata, i barbieri ambulanti con la seggiola e la catinella in mano, i venditori d’acqua e di dolci, fendono la calca in tutte le direzioni, urlando in greco ed in turco. A ogni passo si vede luccicare una divisa militare: ufficiali in fez e calzoni scarlatti, col petto costellato di decorazioni; palafrenieri del serraglio, che paiono generali d’armata; gendarmi con un arsenale alla cintura; zeibek, o soldati liberi, con quegli enormi calzoni a borsa deretana, che danno loro il profilo della venere ottentotta; guardie imperiali, con un lungo pennacchio bianco sul casco e il petto coperto di galloni; guardie di città che girano colle manette fra le mani; guardie di città a Costantinopoli! È come chi dicesse: gente incaricata di tener a segno l’oceano Atlantico. È bizzarro il contrasto di tutto quell’oro e di tutti quei cenci, della gente sovraccarica di roba, che paion bazar ambulanti, e della gente quasi nuda. Il solo spettacolo della nudità è una meraviglia. Si vedono tutte le sfumature della pelle umana, dal bianco latteo dell’Albania al nero corvino dell’Africa centrale e al nero azzurrognolo del Darfur; dei petti che, a picchiarli, par che debbano risonare come vasi di bronzo, o sgretolarsi come forme di terra secca; schiene oleose, pietrose, lignee, irsute come dorsi di cinghiale; braccia rabescate di rosso e di blu, con disegni di rami e di fiori, e iscrizioni del Corano e immagini grossolane di battelli, e di cuori attraversati da frecce. Ma in una prima passeggiata, per il ponte, non c’è né tempo né modo d’osservare tutti questi particolari. Mentre guardate i rabeschi d’un braccio, il vostro cicerone vi avverte che è passato un serbo, un montenegrino, un valacco, un cosacco dell’Ukrania, un cosacco del Don, un egiziano, un tunisino, un principe d’Imerezia. C’è appena tempo a tener d’occhio le nazioni. Pare che Costantinopoli sia sempre quella che fu: la capitale di tre continenti e la regina di venti vicereami. Ma nemmeno quest’idea risponde alla grandezza di quello spettacolo, e si fantastica un incrociamento d’emigrazioni, prodotto da qualche enorme cataclisma che abbia sconvolto l’antico continente. Un occhio esperto discerne ancora in quel mare magno i volti e i costumi della Caramania e dell’Anatolia, quei di Cipro e di Candia, quei di Damasco e di Gerusalemme, il druso, il curdo, il maronita, il talemano, il pumacco, il croato, ed altre innumerevoli varietà dell’innumerevole confederazione d’anarchie che si stende dal Nilo al Danubio e dall’Eufrate all’Adriatico. Chi cerca il bello e chi cerca l’orrido, trovano qui egualmente superati i loro più audaci desideri: Raffaello rimarrebbe estatico e il Rembrandt si caccerebbe le mani nei capelli. La più pura bellezza della Grecia e delle razze caucasee, è mescolata coi nasi camusi e colle teste schiacciate; vi passano accanto figure di regine e facce di furie; visi imbellettati e visi sformati dai morbi e dalle ferite, piedoni colossali e piedini circassi lunghi come la mano, facchini giganteschi, enormi pinguedini di turchi, e neri stecchiti come scheletri, larve d’uomini che mettono pietà e raccapriccio; tutti gli aspetti più strani in cui si possano presentare al mondo la vita ascetica, l’abuso della voluttà, le fatiche estreme, l’opulenza che impera e la miseria che muore. E nondimeno la varietà di vestimenti è senza confronto più meravigliosa della varietà delle persone. Chi sente i colori, ci ha da ammattire. Non ci son due persone vestite eguali. Sono scialli attorcigliati intorno al capo, bendature di selvaggi, corone di cenci, camicie e sottovesti rigate e quadrettate come il vestito d’arlecchino, cinture irte di coltellacci che salgono dai fianchi alle ascelle, calzoni alla mammalucca, mezze mutande, gonnellini, toghe, lenzuoli che strascicano, abiti ornati d’ermellino, panciotti che sembrano corazze d’oro, maniche a gozzo e a sgonfietti, vestiti monacali e spudorati, uomini abbigliati da donna, donne che sembran uomini, pezzenti che sembran principi, un’eleganza di stracci, una follia di colori, una profusione di frange, di gale, di frappe, di svolazzi, d’ornamenti teatrali e bambineschi, che dà l’immagine d’un veglione dentro a un immenso manicomio, in cui abbiano vuotate le loro casse tutti i rigattieri dell’universo. Sopra il mormorio sordo, che esce da questa moltitudine, si sentono gli strilli acuti dei ragazzi greci, carichi di giornali d’ogni lingua; le grida stentoree dei facchini, le risa sgangherate delle donne turche, le voci infantili degli eunuchi, i trilli in falsetto dei ciechi che cantano versetti del Corano, il rumor cupo del ponte che ondeggia, i fischi e le campanelle di cento piroscafi, di cui il vento abbatte tratto tratto il fumo denso sopra la folla, in modo che per qualche minuto non si vede più nulla. Questa mascherata di popoli scende nei vaporini che partono ogni momento per Scutari, per il villaggio del Bosforo e per i sobborghi del Corno d’oro; si spande per Stambul, nei bazar, nelle moschee, nei borghi di Fanar e di Balata, fino ai quartieri più lontani del mar di Marmara; irrompe sulla riva franca, a destra verso i palazzi del Sultano, a sinistra verso gli alti quartieri di Pera, di dove poi ricasca sul ponte per le innumerevoli stradicciole che serpeggiano lungo i fianchi delle colline; e allaccia così l’Asia e l’Europa, dieci città e cento sobborghi, in una rete di faccende, d’intrighi e di misteri, dinanzi a cui l’immaginazione si sgomenta. Pare che questo spettacolo debba mettere allegrezza. E non è vero. Passata la prima meraviglia, i colori festosi si sbiadiscono: non è più una grande processione carnevalesca che ci passa dinanzi; è l’umanità intera che sfila con tutte le sue miserie, con tutte le sue follie, coll’infinita discordia delle sue credenze e delle sue leggi; è un pellegrinaggio di popoli decaduti e di razze avvilite; una immensità di sventure da soccorrere, di vergogne da lavare, di catene da rompere; un cumulo di tremendi problemi scritti a caratteri di sangue, e che non si scioglieranno che con torrenti di sangue; e questo immenso disordine rattrista. E poi il senso della curiosità è prima rintuzzato che soddisfatto da questa sterminata varietà di cose strane. Che misteriosi rivolgimenti accadono nell’anima umana! Non era passato un quarto d’ora dal mio arrivo sul ponte, che stavo appoggiato alle spallette, rabescando sbadatamente un pezzo di trave con la matita, e dicendo a me stesso, tra uno sbadiglio e l’altro, che c’è qualchecosa di vero in quella famosa sentenza della Stael, che il viaggiare è il più triste dei piaceri.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

2- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Cinque ore dopo

2- Cinque ore dopo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

La visione di stamattina è svanita. Quella Costantinopoli tutta luce e tutta bellezza è una città mostruosa, sparpagliata per un saliscendi infinito di colline e di valli; è un labirinto di formicai umani, di cimiteri, di rovine, di solitudini; una confusione non mai veduta di civiltà e di barbarie, che presenta un’immagine di tutte le città della terra e raccoglie in sé tutti gli aspetti della vita umana. Non ha veramente di una grande città che lo scheletro, che è la piccola parte in muratura; il resto è un enorme agglomeramento di baracche, uno sterminato accampamento asiatico, in cui brulica una popolazione che non fu mai numerata, di gente d’ogni razza e d’ogni religione. È una grande città in trasformazione, composta di città vecchie che si sfasciano, di città nuove sorte ieri, d’altre città che stanno sorgendo. Tutto v’è sossopra; da ogni parte si vedono le tracce d’un gigantesco lavoro: monti traforati, colli sfiancati, borghi rasi al suolo, grandi strade disegnate; un immenso sparpagliamento di macerie e d’avanzi d’incendi sopra un terreno perpetuamente tormentato dalla mano dell’uomo. È un disordine, una confusione d’aspetti disparati, un succedersi continuo di vedute imprevedibili e strane, che dà il capogiro. Andate in fondo a una strada signorile, è chiusa da un burrone; uscite dal teatro, vi trovate in mezzo alle tombe; giungete sulla sommità d’una collina, vi vedete un bosco sotto i piedi, e un’altra città sulla collina in faccia; il borgo che avete attraversato poc’anzi, lo vedete, voltandovi improvvisamente, in fondo a una valle profonda, mezzo nascosto dagli alberi; svoltate intorno a una casa, ecco un porto; scendete per una strada, addio città! siete in una gola deserta, da cui non si vede altro che cielo; le città spuntano, si nascondono, balzan fuori continuamente sul vostro capo, ai vostri piedi, alle vostre spalle, vicine e lontane, al sole, nell’ombra, fra i boschi, sul mare; fate un passo avanti, vedete un panorama immenso; fate un passo indietro, non vedete più nulla; alzate il capo, mille punte di minareti; scendete d’un palmo, spariscon tutti e mille. Le strade, infinitamente reticolate, serpeggiano fra i poggi, corrono su terrapieni, rasentano precipizi, passano sotto gli acquedotti, si rompono in vicoli, discendono in gradinate, in mezzo ai cespugli, alle rocce, alle rovine, alle sabbie. Di tratto in tratto, la gran città piglia come un respiro nella solitudine della campagna, e poi ricomincia più fitta, più colorita, più allegra; qui pianeggia, là s’arrampica, più in là precipita, si disperde e poi si riaffolla; in un luogo fuma e strepita, in un altro dorme; in una parte rosseggia tutta, in un’altra parte è tutta bianca, in una terza vi domina il color d’oro, una quarta presenta l’aspetto d’un monte di fiori. La città elegante, il villaggio, la campagna, il giardino, il porto, il deserto, il mercato, la necropoli, si alternano senza fine innalzandosi l’uno sull’altro, a scaglioni, in modo che da certe alture si abbracciano con uno sguardo solo, sopra una sola china, tutte le varietà d’una provincia. Un’infinità di contorni bizzarri si disegna da ogni parte sul cielo e sulle acque, così fitti, così pazzamente spezzettati e dentellati dalla meravigliosa varietà delle architetture, che si confondono agli occhi come se tremolassero e s’intricassero gli uni con gli altri. In mezzo alle casette turche si alza il palazzo europeo; dietro il minareto, il campanile; sopra la terrazza, la cupola; dietro la cupola, il muro merlato; i tetti alla cinese dei chioschi sopra i frontoni dei teatri, i balconi ingraticolati degli arem di rimpetto ai finestroni a vetrate, le finestrine moresche in faccia ai terrazzi a balaustri, le nicchie delle madonne sotto gli archetti arabi, i sepolcri nei cortili, le torri fra i tuguri; le moschee, le sinagoghe, le chiese greche, le cattoliche, le armene, le une sulle altre, come se facessero a soverchiarsi, e in tutti i vani, cipressi, pini a ombrello, fichi e platani che stendono i rami sopra i tetti. Una indescrivibile architettura di ripiego asseconda gli infiniti capricci del terreno con un tritume di case tagliate a spicchi, in forma di torri triangolari, di piramidi diritte e rovesciate, circondate di ponti, di puntelli e di fossi, ammucchiate alla rinfusa, come massi franati da una montagna. A ogni cento passi tutto muta. Qui siete in una strada d’un sobborgo di Marsiglia; svoltate: è un villaggio asiatico; tornate a svoltare: è un quartiere greco; svoltate ancora: è un sobborgo di Trebisonda. Alla lingua, ai visi, all’aspetto delle case riconoscete di aver cangiato di stato; sono spicchi di Francia, strisce d’Italia, screziature d’Inghilterra, innesti di Russia. Sulla immensa faccia della città si vede rappresentata ad architetture e a colori la grande lotta che si combatte fra la famiglia cristiana che riconquista e la famiglia islamitica che difende con le ultime sue forze la terra sacra. Stambul, una volta tutta turca, è assalita da ogni parte da quartieri cristiani, che la rodono lentamente lungo la sponda del Corno d’oro e del Mar di Marmara; dall’altra parte la conquista procede in furia: le chiese, i palazzi, gli ospedali, i giardini pubblici, gli opifici, le scuole squarciano i quartieri musulmani, soverchiano i cimiteri, si avanzano di collina in collina, e già disegnano vagamente sul terreno sconvolto la forma d’una grande città che un giorno coprirà la riva europea del Bosforo come quella d’ora copre le rive del Corno d’oro. Ma da queste osservazioni generali distraggono ad ogni passo mille cose nuove: in una via il convento dei dervis, in un’altra la caserma di stile moresco, il caffè turco, il bazar, la fontana, l’acquedotto. In un quarto d’ora bisogna cangiar dieci volte d’andatura: scendere, arrampicarsi, saltellar giù per una china, salire per una scalinata di macigni, affondar nella mota e scansar mille ostacoli, aprendosi la via ora tra la folla, ora tra gli arbusti, ora tra i cenci appesi, ora turandosi il naso, ora aspirando ondate d’aria odorosa. Dalla gran luce d’un sito aperto, donde si vede il Bosforo, l’Asia e un cielo infinito, si cala con pochi passi nell’oscurità triste d’una rete di vicoli fiancheggiati da case cadenti ed irti di sassi come letti di ruscelli; da un verde fresco e ombroso, in un polverio soffocante, saettato dal sole; da crocicchi pieni di rumore e di colori, in recessi sepolcrali, dove non è mai sonata una voce umana; dal divino Oriente dei nostri sogni, in un altro Oriente lugubre, immondo, decrepito che supera ogni più nera immaginazione. Dopo un giro di poche ore non si sa più dove s’abbia la testa. A chi ci domandasse improvvisamente che cos’è Costantinopoli, non si saprebbe rispondere che mettendosi una mano sulla fronte per quietare la tempesta dei pensieri. Costantinopoli è una Babilonia, un mondo, un caos. È bella? Prodigiosa. È brutta? Orrenda. Vi piace? Ubriaca. Ci stareste? Chi lo sa! Chi può dire che starebbe in un altro astro? Si ritorna a casa pieni d’entusiasmo e di disinganni, rapiti, stomacati, abbarbagliati, storditi, con un disordine nella mente che somiglia al principio d’una congestione cerebrale, e che si quieta poi a poco a poco in una prostrazione profonda e in un tedio mortale. Si son vissuti parecchi anni in fretta, e ci si sente invecchiati.
E la popolazione di questa città mostruosa?


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

1- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: L’arrivo

Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.


1- L’arrivo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

L’emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all’imboccatura del Bosforo. Il mar Jonio azzurro e immobile come un lago, i monti lontani della Morea tinti di rosa dai primi raggi del sole, l’Arcipelago dorato dal tramonto, le rovine d’Atene, il golfo di Salonico, Lemno, Tenedo, i Dardanelli, e molti personaggi e casi che mi divertirono durante il viaggio, si sbiadirono per modo nella mente, dopo visto il Corno d’oro, che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più d’immaginazione che di memoria. Perché la prima pagina del mio libro m’esca viva e calda dall’anima, debbo cominciare dall’ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto che il capitano del bastimento s’avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle spalle, disse col suo schietto accento palermitano: – Signori! Domattina all’alba vedremo i primi minareti di Stambul.
Ah! ella sorride, mio buon lettore, pieno di quattrini e di noia; ella che, anni sono, quando le saltò il ticchio d’andare a Costantinopoli, in ventiquattr’ore rifornì la borsa e fece le valigie, e partì tranquillamente come per una gita in campagna, incerto fino all’ultimo momento se non fosse meglio prendere invece la via di Baden-Baden! Se il capitano del bastimento ha detto anche a lei: – Domani mattina vedremo Stambul – lei avrà risposto flemmaticamente: – Ne ho piacere. – Ma bisogna aver covato quel desiderio per dieci anni, aver passato molte sere d’inverno guardando melanconicamente la carta d’Oriente, essersi rinfocolata l’immaginazione colla lettura di cento volumi, aver girato mezza l’Europa soltanto per consolarsi di non poter vedere quell’altra mezza, essere stati inchiodati un anno a tavolino con quell’unico scopo, aver fatto mille piccoli sacrifici, e conti su conti, e castelli su castelli, e battagliole in casa; bisogna infine aver passato nove notti insonni sul mare, con quell’immagine immensa e luminosa davanti agli occhi, felici tanto da provar quasi un sentimento di rimorso pensando alle persone care che si sono lasciate a casa; e allora si capisce che cosa voglion dire quelle parole: – Domani all’alba vedremo i primi minareti di Stambul; – e invece di rispondere flemmaticamente: – ne ho piacere – si picchia un pugno formidabile sul parapetto del bastimento.
Un gran piacere per me e per il mio amico era la profonda certezza che la nostra immensa aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli, infatti, non ci son dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di meraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggi, arrivati là, perdono il capo. Il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua umana è impotente, il Pouqueville crede d’esser rapito in un altro mondo, il La Croix è innebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il Lamartine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che vede; e tutti accumulano immagini sopra immagini, fanno scintillare lo stile e si tormentano invano per trovare un’espressione che non riesca miseramente al disotto del proprio pensiero. Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopoli con un’apparenza di tranquillità d’animo che reca stupore; ma non tralascia di dire che è il più bello spettacolo dell’universo; e se la celebre Lady Montague, pronunziando la stessa sentenza, ci premette un forse, è da credersi che l’abbia fatto per lasciare tacitamente il primo posto alla propria bellezza, della quale si dava molto pensiero. C’è persino un freddo tedesco, il quale dice che le più belle illusioni della gioventù e i sogni stessi del primo amore sono pallide immagini in confronto del senso di dolcezza che invade l’anima alla vista di quei luoghi fatati; e un dotto francese afferma che la prima impressione che fa Costantinopoli è lo spavento. Immagini chi legge il ribollimento che dovevano produrre tutte queste parole di foco, cento volte ripetute, nel cervello d’un bravo pittore di ventiquattr’anni, e in quello d’un cattivo poeta di vent’otto! Ma nemmeno queste lodi illustri di Costantinopoli ci bastavano, e cercavamo le testimonianze dei marinai. E anch’essi, povera gente rozza, per dare un’idea di quella bellezza, sentivano il bisogno d’esprimersi con qualche similitudine o parola straordinaria, e la cercavano volgendo gli occhi qua e là e stropicciando le dita, e facevano dei tentativi di descrizione con quel suono di voce che par che venga di lontano e quei gesti larghi e lenti con cui la gente del popolo esprime la meraviglia quando non le bastano le parole. – Entrare con una bella mattinata in Costantinopoli –, ci disse il capo dei timonieri –, credete a me, signori: è un bel momento nella vita d’un uomo.
Anche il tempo ci sorrideva; era una notte serena e tepida; il mare accarezzava con un mormorìo leggerissimo i fianchi del bastimento; gli alberi e i più minuti cordami si disegnavano netti ed immobili sul cielo coperto di stelle; non pareva nemmeno che si navigasse. A prora v’era una folla di turchi sdraiati che fumavano beatamente il loro narghilè col viso rivolto alla luna, la quale faceva un contorno d’argento ai loro turbanti bianchi; a poppa un visibilio di gente d’ogni paese, fra cui una compagnia famelica di commedianti greci che s’erano imbarcati al Pireo. Vedo ancora, in mezzo a una nidiata di bambine russe che vanno a Odessa con la madre, il visetto della piccola Olga, tutta meravigliata ch’io non capisca la sua lingua e indispettita d’avermi fatto tre volte la medesima domanda senza ottenere una risposta intelligibile. Ho da una parte un grosso e sucido prete greco, col cappello a staio rovesciato, che cerca col cannocchiale l’arcipelago di Marmara; dall’altra un ministro evangelico inglese, rigido e freddo come una statua, che in tre giorni non ha ancora detto una parola né guardato in faccia anima viva; davanti, due belle signorine ateniesi colla berrettina rossa e le trecce giù per le spalle, che appena uno le guarda, si voltano tutte due insieme verso il mare per farsi vedere di profilo; un po’ più in là un negoziante armeno che fa scorrere tra le dita le pallottoline del rosario orientale, un gruppo d’ebrei vestiti del costume antico, degli albanesi colle sottanine bianche, un’istitutrice francese che fa la malinconica, qualcuno di quei soliti viaggiatori di nessuna tinta, che non si capisce di che paese siano nè che mestiere facciano; e in mezzo a questa gente, una piccola famiglia turca composta d’un babbo in fez, d’una mamma velata e di due bambine coi calzoncini, tutti e quattro accovacciati sotto una tenda, a traverso un mucchio di materasse e di cuscinetti variopinti, in mezzo a una corona di carabattole d’ogni forma e d’ogni colore.
Come si sentiva la vicinanza di Costantinopoli! C’era una vivacità insolita. Quasi tutti i visi, che s’intravvedevano al lume delle lanterne, erano visi allegri. Le bambine russe saltellavano intorno alla madre gridando l’antico nome russo di Stambul: – Zavegorod! Zavegorod! – Passando accanto ai crocchi, si udivano qua e là i nomi di Galata, di Pera, di Scutari, di Bujukderé, di Terapia, che luccicavano alla mia fantasia come le prime scintille d’un grande foco d’artifizio sul punto d’accendersi. Anche i marinai erano contenti d’avvicinarsi a quel luogo dove, com’essi dicevano, si dimenticano almeno per un’ora tutte le noie della vita. Persino a prora, in mezzo a quel biancume di turbanti, c’era un movimento straordinario: anche quei mussulmani pigri e impassibili vedevano già cogli occhi della immaginazione ondulare all’orizzonte i fantastici contorni di Ummelunià, la madre del mondo, «la città», come dice il Corano, «di cui un lato guarda la terra e due guardano il mare.» Pareva che il bastimento, anche senza la forza motrice del vapore, avrebbe dovuto andare innanzi da sé, spinto dall’impeto dei desideri e delle impazienze che fremevano sulle sue tavole. Di tratto in tratto mi appoggiavo al parapetto per guardare in mare, e mi pareva che cento voci confuse mi parlassero col mormorio delle acque. Erano tutte le persone che mi amano, che dicevano: Va, va, figliuolo, fratello, amico, va; va a goderti la tua Costantinopoli; te la sei guadagnata, sii felice, e Dio t’accompagni.
Soltanto verso la mezzanotte i viaggiatori cominciarono a scendere sottocoperta. Il mio amico ed io scendemmo gli ultimi e a passo di formica, perché ci ripugnava d’andare a chiudere fra quattro pareti un’allegrezza a cui pareva angusto il circuito della Propontide. Quando fummo a metà della scaletta sentimmo la voce del capitano che ci invitava a salire la mattina seguente sul ponte riserbato al comando. – Siano su prima del levar del sole, – gridò affacciandosi alla botola –; faccio buttare in mare chi ritarda.
Una minaccia più superflua non è mai stata fatta dopo che mondo è mondo. Io non chiusi occhio. Credo che il giovane Maometto II, in quella famosa notte di Adrianopoli, in cui disfece il letto a furia di voltarsi e di rivoltarsi, agitato dalla visione della città di Costantino, non abbia fatto tanti rivoltoloni quanti ne feci io nella mia cuccetta in quelle quattr’ore d’aspettazione. Per dominare i miei nervi, provai a contare fino a mille, a tener l’occhio fisso sulle ghirlande bianche che l’acqua rotta dal bastimento sollevava intorno all’occhio del mio camerino, a canterellare delle ariette cadenzate sul rumore monotono della macchina a vapore; ma era inutile. Avevo la febbre, mi sentivo mancare il respiro e la notte mi pareva eterna. Appena vidi un barlume di giorno, saltai giù; Yunk era già in piedi; ci vestimmo in furia, e salimmo in tre salti sopra coperta.
Maledizione!
C’era la nebbia.
Una nebbia fitta copriva l’orizzonte da tutte le parti; pareva imminente la pioggia; il
grande spettacolo dell’entrata in Costantinopoli era perduto; il nostro più ardente desiderio, deluso; il viaggio in una parola, sciupato!
Io rimasi annichilito.
In quel punto comparve il capitano col suo solito sorrisetto sulle labbra.
Non ci fu bisogno di parlare; appena ci vide, capì, e battendoci una mano sulla spalla,
disse in tuono di consolazione:
– Niente, niente. Non si sgomentino, signori. Benedicano anzi questa nebbia. In grazia
della nebbia loro faranno la più bella entrata in Costantinopoli che abbiano mai potuto desiderare. Fra due ore avremo un sereno meraviglioso. Riposino sulla mia parola.
Mi sentii tornare la vita.
Salimmo sul ponte del Comando.
A prora tutti i turchi erano già seduti a gambe incrociate sui loro tappeti, col viso
rivolto verso Costantinopoli. In pochi minuti tutti gli altri viaggiatori usciron fuori, armati di cannocchiali d’ogni forma, e si appoggiarono, stesi in una lunga fila, al parapetto di sinistra, come alla balaustrata d’una galleria di teatro. Tirava un’arietta fresca; nessuno parlava. Tutti gli occhi e tutti i cannocchiali si rivolsero a poco a poco verso la riva settentrionale del mare di Marmara. Ma non si vedeva ancor nulla.
La nebbia però non formava che una fascia biancastra all’orizzonte, sopra la quale splendeva il cielo sereno e dorato.
Diritto dinanzi a noi, nella direzione della prora, appariva confusamente il piccolo arcipelago delle nove Isole dei Principi, le Demonesi degli antichi, luogo di piaceri della Corte al tempo del Basso Impero, ed ora luogo di ritrovo e di festa degli abitanti di Costantinopoli.
Le due rive del mar di Marmara erano ancora completamente nascoste.
Soltanto dopo un’ora che s’era sul ponte si vide…
Ma è impossibile intender bene la descrizione dell’entrata in Costantinopoli, se non si
ha chiara nella mente la configurazione della città. Supponga il lettore d’aver davanti a sè l’imboccatura del Bosforo, il braccio di mare che separa l’Asia dall’Europa e congiunge il mar di Marmara col mar Nero. Stando così s’ha la riva asiatica a destra e la riva europea a sinistra; di qui l’antica Tracia, di là l’antica Anatolia. Andando innanzi, infilando cioè il braccio di mare, si trova a sinistra, appena oltrepassata l’imboccatura, un golfo, una rada strettissima, la quale forma col Bosforo un angolo quasi retto, e si sprofonda per parecchie miglia nella terra europea, incurvandosi a modo di un corno di bue; donde il nome di Corno d’oro, ossia corno dell’abbondanza, perché v’affluivano, quand’era porto di Bisanzio, le ricchezze di tre continenti. Nell’angolo di terra europea, che da una parte è bagnato dal mar di Marmara e dall’altra dal Corno d’oro, dov’era l’antica Bisanzio, s’innalza, sopra sette colline, Stambul, la città turca. Nell’altro angolo, bagnato dal Corno d’oro e dal Bosforo, s’innalzano Galata e Pera, le città franche. In faccia all’apertura del Corno d’oro, sopra le colline della riva asiatica, sorge la città di Scutari. Quella, dunque, che si chiama Costantinopoli, è formata da tre grandi città divise dal mare, ma poste l’una in faccia all’altra, e la terza in faccia alle due prime, e tanto vicine tra loro, che da ciascuna delle tre rive si vedono distintamente gli edifizi delle altre due, presso a poco come da una parte all’altra della Senna e del Tamigi nei punti dove sono più larghi a Parigi e a Londra. La punta del triangolo su cui s’innalza Stambul, ritorta verso il Corno d’oro, è quel famoso Capo del Serraglio, il quale nasconde fino all’ultimo momento, agli occhi di chi viene dal mar di Marmara, la vista delle due rive del Corno, ossia la parte più grande e più bella di Costantinopoli.
Fu il Capitano del bastimento, che col suo occhio di marinaio scoperse per il primo il primo barlume di Stambul.
Le due signore ateniesi, la famiglia russa, il ministro inglese, Yunk, io ed altri, che andavamo tutti a Costantinopoli per la prima volta, stavamo intorno a lui stretti in un gruppo, silenziosi, stancandoci gli occhi inutilmente sopra la nebbia, quand’egli stese il braccio a sinistra, verso la riva europea, e gridò: – Signori, ecco il primo spiraglio.
Era un punto bianco, la sommità d’un minareto altissimo, di cui la parte di sotto rimaneva ancora nascosta. Tutti vi appuntarono su i cannocchiali e si misero a frugare cogli occhi in quel piccolo squarcio della nebbia come per farlo più largo. Il bastimento filava rapidamente. Dopo pochi minuti, si vide accanto al minareto una macchia incerta, poi due, poi tre, poi molte che a poco a poco prendevano il contorno di case, e la fila s’allungava, s’allungava. Dinanzi a noi e sulla nostra destra, tutto era ancora coperto dalla nebbia. Quella che s’andava scoprendo allora, era la parte di Stambul che s’allunga, formando un arco di circa quattro miglia italiane, sulla riva settentrionale del mar di Marmara, fra il Capo del Serraglio e il Castello delle Sette Torri. Ma tutta la collina del Serraglio era ancora velata. Dietro le case spuntavano l’un dopo l’altro i minareti, altissimi e bianchi, e le loro sommità, illuminate dal sole, erano color di rosa. Sotto le case cominciavano a scoprirsi le vecchie mura merlate, di color fosco, rafforzate, a distanze eguali, da grosse torri, che formano intorno a tutta la città una cintura non interrotta, contro la quale si rompono le onde del mare. In poco tempo rimase scoperto un tratto di città lungo due miglia; ma, dico il vero, lo spettacolo non corrispondeva alla mia aspettazione. Eravamo nel punto in cui il Lamartine domandò a sè stesso: – È questa Costantinopoli? – e gridò: – Che delusione! – Le colline erano ancora nascoste, non si vedeva che la riva, le case formavano una sola fila lunghissima, la città pareva tutta piana. – Capitano! – esclamai anch’io –; è questa Costantinopoli? – Il capitano m’afferrò per un braccio, e accennando colla mano dinanzi a sé: – Uomo di poca fede! – gridò –; guardi lassù. – Guardai! e mi fuggì un’esclamazione di stupore. Un’ombra enorme, una mole altissima e leggiera, ancora coperta da un velo vaporoso, si sollevava al cielo dalla sommità d’un’altura, e rotondeggiava gloriosamente nell’aria, in mezzo a quattro minareti smisurati e snelli, di cui le punte inargentate scintillavano ai primi raggi del sole. – Santa Sofia! – gridò un marinaio; e una delle due signore ateniesi disse a bassa voce: – Hagia Sofia! (La santa sapienza). I turchi a prora s’alzarono in piedi. Ma già dinanzi e accanto alla grande basilica, si sbozzavano a traverso la nebbia altre cupole enormi, e minareti fitti e confusi come una foresta di gigantesche palme senza rami – La moschea del Sultano Ahmed! – gridava il capitano, accennando –; la moschea di Bajazet, la moschea d’Osman, la moschea di Laleli, la moschea di Solimano. Ma nessuno lo sentiva più. Il velo si squarciava rapidamente, e da ogni parte balzavan fuori moschee, torri, mucchi di verzura, case su case; e più andavamo innanzi, più la città s’alzava e mostrava più distinti i suoi grandi contorni rotti, capricciosi, bianchi, verdi, rosati, scintillanti; e la collina del serraglio disegnava già intera la sua forma gentile sopra il fondo grigio della nebbia lontana. Quattro miglia di città, tutta la parte di Stambul che guarda il mare di Marmara, si stendeva dinanzi a noi, e le sue mura fosche e le sue case di mille colori si riflettevano nell’acqua terse e nitide come in uno specchio.
A un tratto il bastimento si fermò.
Tutti s’affollarono intorno al capitano domandando perché. Egli ci spiegò che per andare innanzi bisognava aspettare che svanisse la nebbia. La nebbia, infatti, nascondeva ancora l’imboccatura del Bosforo come una fitta cortina. Ma dopo meno d’un minuto, si poté proseguire, andando però cautissimamente.
Ci avvicinavamo alla collina dell’antico serraglio.
Qui la curiosità mia e di tutti diventò febbrile.
– Si volti in là –, mi disse il capitano – e aspetti a guardare quando tutta la collina ci sia
davanti.
Mi voltai e fissai gli occhi sopra uno sgabello che mi pareva che ballasse.
– Eccoci! – esclamò il Capitano dopo qualche momento.
Mi voltai. Il bastimento s’era fermato.
Eravamo in faccia alla collina, vicinissimi.
È una grande collina tutta vestita di cipressi, di terebinti, d’abeti e di platani
giganteschi, che spingono i rami fuori delle mura merlate fino a far ombra sul mare; e in mezzo a questo mucchio di verzura s’alzano disordinatamente, separati e a gruppi, come sparsi a caso, cime di chioschi, padiglioncini coronati di gallerie, cupolette inargentate, piccoli edifizii di forme gentili e strane, colle finestre ingraticolate e le porte a rabeschi; tutto bianco, piccino, mezzo nascosto, che lascia indovinare un labirinto di giardini, di corridoi, di cortili, di recessi; un’intera città chiusa in un bosco; separata dal mondo, piena di mistero e di tristezza. In quel momento vi batteva su il sole, ma la ricopriva ancora un velo leggerissimo. Non vi si vedeva nessuno, non vi si sentiva il più leggiero rumore. Tutti i viaggiatori stavano là cogli occhi fissi su quel colle coronato dalle memorie di quattro secoli di gloria, di piaceri, d’amori, di congiure e di sangue; reggia, cittadella e tomba della grande monarchia ottomana; e nessuno parlava, nessuno si moveva. Quando a un tratto il secondo del bastimento gridò: – Signori, si vede Scutari!
Ci voltammo tutti verso la riva asiatica. Scutari, la Città d’oro, era là sparsa a perdita
d’occhi sulle sommità e per i fianchi delle sue grandi colline, velata dai vapori luminosi del mattino, ridente, fresca come una città sorta allora al tocco d’una verga fatata. Chi può descrivere quello spettacolo? Il linguaggio con cui descriviamo le città nostre non serve a dare una idea di quella immensa varietà di colori e di prospetti, di quella meravigliosa confusione di città e di paesaggio, di gaio e d’austero, d’europeo, d’orientale, di bizzarro, di gentile, di grande! S’immagini una città composta di diecimila villette gialle e purpuree, e di diecimila giardini lussureggianti di verde, in mezzo a cui s’alzano cento moschee candide come la neve; di sopra, una foresta di cipressi enormi: il più grande cimitero dell’Oriente; alle estremità, smisurate caserme bianche, gruppi di case e di cipressi, villaggetti raccolti sui poggi, dietro ai quali ne spuntano altri mezzo nascosti fra la verzura; e per tutto cime di minareti e sommità di cupole biancheggianti fino a mezzo il dorso d’una montagna che chiude come una gran cortina l’orizzonte; una grande città sparpagliata in un immenso giardino, sopra una riva qui rotta da burroni a picco, vestiti di sicomori, là digradante in piani verdi, aperta in piccoli seni pieni d’ombra e di fiori; e lo specchio azzurro del Bosforo che riflette tutta questa bellezza.
Mentre stavo guardando Scutari, il mio amico mi toccò col gomito per annunziarmi che aveva scoperto un’altra città. E vidi infatti, voltandomi verso il mar di Marmara, sulla stessa riva asiatica, al di là di Scutari, una lunghissima fila di case, di moschee e di giardini dinanzi a cui era passato il bastimento, e che fino allora eran rimasti nascosti dalla nebbia. Col cannocchiale si discernevano benissimo i caffè, i bazar, le case all’europea, gli scali, i muri di cinta degli orti, le barchette sparse lungo la riva. Era Kadi-Kioi, il villaggio dei giudici, posto sulle rovine dell’antica Calcedonia, già rivale di Bisanzio; quella Calcedonia fondata seicento ottantacinque anni prima di Cristo dai Megaresi, ai quali fu dato dall’oracolo di Delfo il soprannome di ciechi per avere scelto quel sito invece della riva opposta dove sorge Stambul. – E tre città – ci disse il Capitano –; le contino sulle dita perchè a momenti ne salteranno fuori delle altre.
Il bastimento era sempre immobile fra Scutari e la collina del Serraglio. La nebbia nascondeva affatto il Bosforo da Scutari in là, e tutta Galata e tutta Pera che stavano dinanzi a noi. Ci passavano accanto dei barconi, dei vaporini, dei caicchi, dei piccoli legni a vela; ma nessuno li guardava. Tutti gli occhi erano fissi sulla cortina grigia che copriva la città franca. Io fremevo d’impazienza e di piacere. Ancora pochi momenti, e lo spettacolo meraviglioso, che strappa un grido dall’anima! Appena potevo tener fermo agli occhi il canocchiale, tanto mi tremava la mano. Il capitano mi guardava, pover’uomo, e godeva della mia emozione, e fregandosi le mani esclamava:
– Ci siamo! ci siamo!
Finalmente incominciarono ad apparire dietro al velo prima delle macchie bianchiccie, poi il contorno vago d’una grande altura, poi uno sparso e vivissimo luccichio di vetrate percosse dal sole, e infine Galata e Pera in piena luce, un monte, una miriade di casette di tutti i colori, le une sulle altre; una città altissima coronata di minareti, di cupole e di cipressi; sulla sommità i palazzi monumentali delle Ambasciate, e la gran torre di Galata; ai piedi il vasto arsenale di Tophanè e una foresta di bastimenti; e diradando sempre la nebbia, la città s’allungava rapidamente dalla parte del Bosforo, e balzavano fuori borghi dietro borghi, distesi dall’alto dei colli fino al mare, vasti, fitti, picchiettati di bianco dalle moschee; file di bastimenti, piccoli porti, palazzi a fior d’acqua, padiglioni, giardini, chioschi, boschetti; e confusi nella nebbia lontana, altri borghi di cui si vedevano soltanto le sommità dorate dal sole; uno sbarbaglio di colori, un rigoglio di verde, una fuga di vedute, una grandezza, una delizia, una grazia da far prorompere in esclamazioni insensate. Sul bastimento tutti erano a bocca aperta: viaggiatori, marinai, turchi, europei, bambini. Non si sentiva uno zitto. Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi; dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa, bisognava girare sopra sè stessi; e giravano, lanciando da tutte le parti degli sguardi fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava. Che bei momenti, Dio eterno!
Eppure, il più grande e il più bello rimaneva da vedere. Noi eravamo ancora immobili al di qua della punta del Serraglio; senza oltrepassare la quale non si può vedere il Corno d’oro, e la più meravigliosa veduta di Costantinopoli è sul Corno d’oro. – Signori, stiano attenti – esclamò il capitano prima di dar l’ordine d’andare avanti; – ora viene il momento critico. In tre minuti siamo in faccia a Costantinopoli!
Provai un senso di freddo.
Si aspettò qualche altro momento.
Ah! come mi saltava il cuore! Con che febbre nell’anima aspettavo quella benedetta
parola: – Avanti!
– Avanti! – gridò il capitano.
Il bastimento si mosse.
Andiamo! Re, principi, Cresi, potenti e fortunati della terra, in quel momento io ebbi
compassione di voi; il mio posto sul bastimento valeva tutti i vostri tesori, e non avrei venduto un mio sguardo per un impero.
Un minuto – un altro minuto – si passa la punta del Serraglio – intravvedo un enorme spazio pieno di luce e un’immensità di cose e di colori – la punta è passata… Ecco Costantinopoli! Costantinopoli sterminata, superba, sublime! Gloria alla creazione ed all’uomo! Io non avevo sognato questa bellezza!
Ed ora descrivi, miserabile! profana con la tua parola questa visione divina! Chi osa descrivere Costantinopoli? Chateaubriand, Lamartine, Gautier, che cosa avete balbettato? Eppure, le immagini e le parole s’affollano alla mente e fuggono dalla penna. Vedo, parlo, scrivo, tutto ad un tempo, senza speranza, ma con una voluttà che m’inebria. Vediamo dunque. Il Corno d’oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume; e sulle due rive, due catene d’alture su cui s’innalzano e s’allungano due catene parallele di città, che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontori; cento anfiteatri di monumenti e di giardini; una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti; in mezzo ai quali migliaia di minareti dalla punta lucente s’alzano al cielo come smisurate colonne d’avorio; e sporgono boschi di cipressi che discendono in strisce cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti; e una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde. A destra, Galata con dinanzi una selva di antenne e di bandiere; sopra Galata, Pera che disegna sul cielo i possenti contorni dei suoi palazzi europei; dinanzi, un ponte che unisce le due rive, corso da due opposte folle variopinte; a sinistra, Stambul, distesa sulle sue larghe colline, ognuna delle quali sorregge una moschea gigantesca dalla cupola di piombo e dalle guglie d’oro: Santa Sofia, bianca e rosata; Sultano Ahmed, fiancheggiata da sei minareti; Solimano il Grande, coronata di dieci cupole; Sultana Validè, che si specchia nelle acque; sulla quarta collina, la moschea di Maometto II; sulla quinta, la moschea di Selim; sulla sesta, il serraglio di Tekyr; e al disopra di tutte le altezze, la torre bianca del Seraschiere che domina le rive dei due continenti dai Dardanelli al mar Nero. Di là dalla sesta collina di Stambul e di là da Galata non si vedono più che profili vaghi, punte di città e di sobborghi, scorci di porti, di flotte e di boschi, quasi svaniti in una atmosfera azzurrina, che non paiono più cose reali, ma inganni dell’aria e della luce. Come afferrare i particolari di questo quadro prodigioso? Lo sguardo si fissa per qualche momento sulle rive vicine, sopra una casetta turca o sopra un minareto dorato; ma subito si rilancia in quella profondità luminosa e spazia a caso fra quelle due fughe di città fantastiche, seguito a stento dalla mente sbalordita. Una maestà infinitamente serena è diffusa su tutta quella bellezza: un non so che di giovanile e d’amoroso, che risveglia mille rimembranze di racconti di fate e di sogni primaverili; un che d’aereo, d’arcano e di grande, che rapisce la fantasia fuori del vero. Il cielo, sfumato a finissime tinte opaline ed argentee, contorna con una nettezza meravigliosa tutte le cose; il mare, color di zaffiro, tutto picchiettato di gavitelli porporini, fa tremolare i lunghi riflessi bianchi dei minareti; le cupole scintillano; tutta quella immensa vegetazione s’agita e freme all’aria della mattina; nuvoli di colombi svolazzano intorno alle moschee; migliaia di caicchi dipinti e dorati guizzano sulle acque; il venticello del Mar Nero porta i profumi di dieci miglia di giardini; e quando inebriati da questo paradiso, e già dimentichi d’ogni altra cosa, ci si volta indietro, si vede con un sentimento nuovo di meraviglia la riva dell’Asia che chiude il panorama colla bellezza pomposa di Scutari e colle cime nevose dell’Olimpo di Bitinia; il mar di Marmara sparso d’isolette e biancheggiante di vele; e il Bosforo coperto di navi, che serpeggia fra due file interminabili di chioschi, di palazzi e di ville, e si perde misteriosamente in mezzo alle più ridenti colline dell’Oriente. Ah sì! Questo è il più bello spettacolo della terra; chi lo nega è ingrato a Dio e ingiuria la creazione; una più grande bellezza soverchierebbe i sensi dell’uomo!
Passata la prima emozione, guardai i viaggiatori: tutte le facce erano mutate. Le due signore ateniesi avevano gli occhi inumiditi; la signora russa, nel momento solenne, s’era stretta sul cuore la piccola Olga; persino il freddo prete inglese faceva sentire per la prima volta la sua voce, esclamando di tratto in tratto: – wonderful! wonderful! – (stupendo stupendo!).
Il bastimento s’era fermato poco lontano dal ponte; in pochi minuti vi si radunò intorno un visibilio di barchette e irruppe sopra coperta una folla di facchini turchi, greci, armeni ed ebrei, che bestemmiando un italiano dell’altro mondo, s’impadronirono delle nostre robe e delle nostre persone.
Dopo un tentativo inutile di resistenza, diedi un abbraccio al capitano, un bacio a Olga, un addio a tutti e scesi col mio amico in un caicco a quattro remi, che ci condusse alla dogana, di dove ci arrampicammo per un labirinto di stradicciuole fino all’albergo di Bisanzio, sulla sommità della collina di Pera.


Editoria: “La casa delle ombre” – Il nuovo romanzo di Rosalia Lodato

Breve estratto

“Mi appoggiai con le spalle a una colonna e all’improvviso vidi uno stormo di uccelli neri che si alzò in volo.
Erano corvi che volavano all’impazzata, svolazzando proprio a poca distanza dai miei compagni impedendo loro di avvicinarsi e di fatto, crearono una barriera fra me e loro. Io mi tenevo con le mani saldamente attaccata alla balaustra in pietra e guardavo la scena. Tutto prese all’improvviso un altro ritmo e rallentò. Le ali dei corvi si mossero lentamente, Nicholas impiegò un’eternità per alzare la gamba e appoggiare il piede a terra, la polvere alzata dallo scalpiccio dei piedi ricadde a terra formando una spessa coltre. Anche i suoni rallentarono, incupendosi. Sentivo il battito del mio cuore rimbombarmi nelle orecchie e dal nulla prese consistenza la figura di una donna.”

La casa delle ombre è la storia di una donna, Agata, che è costretta a scappare dal proprio paese da un cacciatore di streghe e per sopravvivere agli stereotipi creati dagli uomini, cambia innumerevoli volte vita e pelle.
In seguito, dovrà adeguarsi alle più inverosimili situazioni pur di trovare il suo posto nella società, infatti arriva a Londra e si traveste da uomo per trovare lavoro.
La casa in cui serve come maggiordomo, però, nasconde dei misteri, e la presenza che la abita si impadronisce della sua volontà, costringendola a scrivere una storia che dovrebbe restare ignota agli uomini.
La casa delle ombre è la storia di un tormento e la ricerca di una liberazione.

Durante il suo percorso incontrerà tante maschere e pochi volti, tanti personaggi con doppie personalità e, come in un continuo gioco di specchi, nessuno è quello che dice di essere.
Sta alla protagonista saper vedere oltre le apparenze per scoprire chi le è amico e chi invece trama alle sue spalle. I colpi di scena sono innumerevoli, come i personaggi, che sono i coprotagonisti delle vicende che si svilupperanno tra cielo e terra, tra magia e realtà.
Quando la vita di Agata giunge al termine, le vicende che la riguardano sopravvivono alla sua morte e il tarlo che tormentava la sua mente si impossessa della volontà di sua nipote, e tutto si ripeterà ancora ed ancora.

BIOGRAFIA di Rosalia Lodato

Rosalia Lodato

Rosalia Lodato nasce a Cava de’ Tirreni, una cittadina in provincia di Salerno, il 5 ottobre 1967.
Compie studi tecnici ma non abbandona mai la sua passione per la lettura.
Grande appassionata di libri gialli e fantasy, è autrice di:
–  Il maligno (Pav edizioni)
–  Nemesi, la gemella dimenticata (Altromondo editore)
–  La morte può attendere, la lunga vita della regina Nebet (Altromondo editore)

Il romanzo La casa delle ombre di Rosalia Lodato è stato pubblicato dalla Casa Editrice GPM Edizioni, 202 le pagine.
È pubblicato anche su tutte le migliori piattaforme online, in versione cartacea e formato digitale.


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

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