Il ritratto del pastaio moderno

 

Ma chi era il pastaio? Non vi è un profilo unico, date le differenze tra città, regolamenti e leggi, senza contare il tipo diverso di specialità e formati prodotti dal singolo imprenditore. Persino nella stessa corporazione troviamo delle differenze. Tratte dai documenti, vi sono diverse storie di pastai. Tanto per cominciare, si rilevano differenze societarie e tipologie di accordo.


Siamo nel 1620, il pastaio Domenico Russo si mette in società col mugnaio Stefano de Agnino, abitanti ambedue ad Avellino. Il primo mette in comune le sue capacità di confezionare la pasta, mentre il secondo fornisce 100 tomoli di grano, unitamente ai capitali necessari a stipendiare alcuni operai e apprendisti, oltre le eventuali altre spese. Si fa, naturalmente, affidamento sulle vendite, per rientrare nei costi ed ottenere il guadagno da dividersi in parti uguali.
Nel 1636, troviamo, invece, la figura nota dell’imprenditore, Felice Vigilante, che investe sull’attività del pastaio, per aumentare il suo capitale. Finanzia la spesa dell’affitto dei locali, posti in piazza Mercato a Napoli, l’acquisto della strumentazione e quello delle materie prime, mentre, un suo parente, Aniello Vigilante, si occupa del restante: cioè la gestione del negozio e della produzione della pasta. Anche qui il guadagno sarà spartito al cinquanta per cento. L’imprenditore, Felice Vigilante, aprirà in seguito un’altra bottega di pasta a Napoli, con la stessa procedura.
Altri tipi di società caratterizzano l’attività, come l’associazione societaria tra mugnai, panettieri e vermicellari. Società a volte non permesse dagli statuti della corporazione a cui si era iscritti.
Ad esempio, a Napoli, due vermicellari e un mugnaio si accordano per la fabbricazione della pasta. Il mugnaio, però, si riserva una parte dei locali per la produzione e la vendita del pane. Questa commistione, in realtà, era malvista dall’ordine dei Panettieri e, se venne tollerata, fu solo per l’autorità raggiunta in città dall’Arte dei Vermicellari.

 

Entrano in gioco nuovi strumenti di lavorazione

 

La prima strumentazione
A proposito del capovolgimento e del successo della pasta, Emilio Sereni avanza l’ipotesi di una crescita del prezzo della carne, con conseguente abbassamento di quello della pasta. Non solo. Piano piano, nella produzione della pasta, entrano in gioco nuovi strumenti per la lavorazione. Se nel medioevo si utilizzava la gramola a livello professionale, nel XVI secolo questa venne usata non solo da parte dei cuochi, ma anche in ambito casalingo. Lo dimostra il testo del cuoco pontificio Bartolomeo Scappi, che la consiglia ai tecnici del settore, lodandone l’efficacia. In particolare, l’utilizzo sempre più della semola di grano duro nella specifica produzione, anziché della farina (come per il pane), aveva reso più faticoso il compito dell’impastatore. La gramola, invece, dava aiuto proprio in questa fase della lavorazione.
A livello “industriale” furono introdotti nuovi macchinari e attrezzi per le fasi più pesanti e più lunghe del lavoro. Un laboratorio di pastaio, che si rispetti, aveva, in quel tempo, diversi strumenti: tavolati e spianatoi, mattarelli, “ferri da maccaruni” e modellatori. Non potevano mancare, altresì, torchi e gramole a stanga, che Giovanni Branca, nel 1629, chiamerà “gramola da fornaro”.
L’attenzione verso la strumentazione, da questo momento rimane alta. Alessandro Capra, architetto, nel 1683, fornì due nuovi modelli, pensati, in verità, per i fornai. Non riscossero, però, grande successo, essendo complicati e costosi. Proprio l’opposto di una semplice gramola tradizionale. Di questi modelli se ne trovano ancora in Alta Italia, in Sicilia e in Puglia.
Il lavoro di pastaio, non era ovunque lo stesso. I pastai provenzali, ad esempio, confezionavano per lo più, vermicelli di farina di grano tenero, con una lavorazione di mezz’ora. Al contrario, nel napoletano, si preferiva la semola di grano duro, lavorata nell’impasto molto più a lungo (anche tre ore). La tradizione rimase nel sud Italia, per alcuni secoli, fino all’invenzione, negli anni trenta del XX secolo, della “pressa continua”, da parte della società Braibanti, industria metalmeccanica italiana.
La gramola a stanga interveniva a rendere fisicamente meno dura la fase dell’impasto. A questa seguiva, però, la modellazione dei vari formati, che, seppure non pesante, è comunque quella più lunga, poiché fatta a mano. Tra i piccoli strumenti utilizzati per questa delicata fase vi erano il coltello, la chitarra e il ferro da maccheroni. Bartolomeo Scappi, nel 1570, scrive del ferro, delle mollette e dei coltelli da pasta.

IL TORCHIO
Tra i macchinari più semplici, ma più geniali, introdotti nel XVI secolo, vi è il torchio, sul tipo di quello da vino. Il torchio si impose subito. Sebastian Covarrubias, spagnolo, ce ne parla. In pratica, il torchio pressa l’impasto su una machera di metallo traforata, da cui escono automaticamente i fideus, già preformati. Il torchio fu molto utilizzato dai cuochi italiani, che lo accolsero entusiasti, e per questo lo chiamavano ”ingegno per li maccheroni”. Purtroppo, la configurazione e l’aspetto dei tipi originali di torchio non ci è giunta. Le prime immagini risalgono al 1767, nell’opera Art du vermicellier di Paul-Jacques Malouin.
Il torchio si diffuse presto, come per la gramola a stanga, ad iniziare dall’area napoletana. All’inizio del XVII secolo, era ritenuto così importante (così come la trafila di bronzo) da essere richiesto per essere ammessi nella corporazione dei vermicellari. Il marchingegno, a Napoli, è citato in vari atti notarili del 1596. Per il suo uso fu coniata l’espressione “pasta d’ingegno”. I formati di pasta prodotti con il torchio erano definiti: “maccheroni, tagliatelle, vermicelli fatti all’ingegno”. È in questo periodo che la pasta (dato il grande consumo) inizia a diventare l’immagine di Napoli.

Il supplizio ai pastai che infrangevano le regole

 

CLASSI NOBILI E POPOLARI
Le sanzioni erano tutt’altro che semplici o convenzionali. Per chi infrangeva le regole vi poteva essere, non solo una multa pecuniaria, ma anche il supplizio, con tre tratti di corda. In realtà, la tendenza ad infrangere le norme, aveva una sua ragione.

Ad esempio, il calmiere pontificio fissava un prezzo unico per tutti i tipi di pasta. Evidentemente alcuni formati avevano un costo di produzione più elevato, come, ad esempio, la pasta “colorata”, molto ambita dai cuochi romani. Essa veniva confezionata con l’aggiunta di zafferano, prodotto piacevole (bello e buono), ma molto costoso all’epoca.

Nel regno di Napoli, invece, avevano una maggiore attenzione a questa problematica. In città, vi erano prezzi differenti a seconda gli ingredienti, i tipi di farina ed i formati. Questo permetteva la vendita a tutte le classi, dai nobili ai ceti popolari. A Napoli, esisteva la pasta bianca di prima scelta (per gli aristocratici) e la pasta “d’assisa”, per la popolazione, di qualità definibile ordinaria. Se ne deduce, che la diffusione della pasta, nel XVI e XVII secolo, era così ampia da interessare anche i meno abbienti.

Questa “sensibilità” politica nei confronti del prezzo e quindi della vendita (di pasta, come di altro), scaturiva dalle frequenti lamentazioni, proteste, ma anche sommosse popolari. A dimostrarlo vi è la sentenza del Tribunale di San Lorenzo a Napoli (del 1509), che vietò proprio la vendita della pasta. Essendo in un periodo di forte crisi economica, con la carenza di approvvigionamento di farina e semole, alla pasta fu preferito il consumo del pane, ritenuto più essenziale per la popolazione. Ma capitò anche l’inverso. Quando, nel 1551, dopo la grande crisi, si formarono forti eccedenze di farine e semole nei magazzini comunali. Per evitare che tutto quanto andasse a male, panettieri e pastai, furono chiamati ad aumentare la loro produzione.

Il Tribunale di San Lorenzo, inoltre, intervenne, a Napoli, non solo sulla quantità e i prezzi, ma anche sulla qualità. Si raccomandava, infatti, che i vari formati non fossero “infusi o umidi ma asciutti”, proteggendo, per la prima volta, i consumatori di pasta. Lo desumiamo proprio dai Capitula del ben vivere (1509-1615), che era indirizzato a questi ultimi.

Stranamente in Puglia, nello stesso periodo, non vi è notizia di corporazioni di pastai, ma solo di panettieri o fornai che producono “pane e altre cose di pasta a vendere”. Ma ancora più eclatante è la mancanza di ordini professionali in Sardegna, forte produttrice di pasta, che rappresentava il prodotto principale da esportazione dell’isola (nel 1581, da Tommaso Garzoni).

 

L’autonomia conquistata dai pastai

 

LE CORPORAZIONI
Abbiamo visto come, tra il 1500 ed il 1600, nascono le prime corporazioni autonome dei pastai. Lasciata la corporazione dei panettieri e fornai (ma anche associazioni con gli ortolani o con i formaggiari), le nuove corporazioni fanno sentire la propria voce con le autorità. La causa: il forte sviluppo del settore. In questo periodo si formano corporazioni di pastai a Roma, Genova, Palermo, Savona e, naturalmente, a Napoli, dove all’Arte dei vermicellari seguirà quella dei maccaronari. Per dare una sede fisica alla loro rappresentanza, viene comprata una cappella nel monastero napoletano di Santa Maria del Carmelo. La loro affermazione in città si legge già nel bando del 1509 (poi del 1546). Successivamente, nel 1589, ottengono dal viceré spagnolo la condanna di tutti coloro che producono pasta senza essere iscritti alla corporazione.

LE AZIONI LEGALI

Nel 1574 si costituisce la corporazione dei fidelari di Genova, che si occupa dell’approvvigionamento di grano duro, in maniera chiara, per evitare imbrogli sottobanco. Nel 1577 è la volta di Savona. Anche qui, ci si occupa della difesa degli interessi degli iscritti, come capiterà nel 1617, quando verranno cacciati i formaggiari, rei di aver prodotto pasta in concorrenza sleale ai pastai. Più tardi, nel 1605, si costituisce la Maestranza dei pastai palermitani, che concludono un secolo di piccole confraternite professionali cittadine.
Solo nel 1642, i pastai romani si associano in un ordine autonomo, dopo decenni di polemiche con fornai od ortolani ed azioni legali, che si concluderanno con una sentenza a favore dei vermicellari. Nello stesso periodo, a Roma, si prenderanno ulteriori decisioni amministrative a riguardo. Per esempio, nel 1641, le autorità sanciscono che i negozi di pasta mantengano una distanza minima di ottanta metri l’uno dall’altro. La forte domanda, infatti causa la nascita di un numero sempre più alto di botteghe, che tendono ad ammassarsi lungo determinate vie o quartieri romani. Le autorità pontificie, inoltre, imporranno un calmiere (con specifiche sanzioni) alla tendenza di aumentare i prezzi di un prodotto così tanto gradito.

Grano duro: il migliore per produrre pasta secca

 

IL TIPO DI GRANO
Nel XVII secolo, si menziona il grano duro come il più adatto alla produzione di pasta secca. Il termine “grano duro”, era citato comunemente dai Fidelari di Genova. Ma, anche se conosciuto ed applicato già molto presto, le proprietà scientifiche del grano duro furono scoperte solo nel 1728, da Jacopo Bartolomeo Beccari, medico bolognese. In particolare, egli effettuò la scoperta della presenza di glutine, in diversa quantità, a seconda i vari tipi di grano.

Nel 1767, fu pubblicata la prima monografia sul mestiere del vermicellaro, opera di Paul-Jacques Malouin, in cui l’autore cita alcune località di produzione del grano duro. Tra queste, la Sicilia, il Sudovest asiatico e dell’Africa settentrionale (Barbaria). I grani siciliani e del Mezzogiorno, avevano una qualità superiore a tutto il resto del Mediterraneo. Lo conferma anche Targioni Tozzetti, medico toscano, sempre nel XVIII secolo, che tentò pure di dare vita in Toscana alla coltivazione di varietà siciliane. Il grano pugliese, chiamato “Saragolla”, invece, era molto utilizzato dai pastai napoletani (a partire già dal XVI secolo). La sua qualità fu ritenuta superiore per molti secoli. Solo con le varietà ucraine e russe si raggiungerà un nuovo traguardo.

Paul Jacques Malouin, Description des arts et métiers (Paris, 1967).


LE ANNONE

La pratica dell’Annona, propria di molte grandi città, si distinse a Napoli. I suoi funzionari reperivano grano ovunque, per spedirlo alla città partenopea, dove venivano conservati in magazzini e depositi. L’approvvigionamento aumentò nel XVIII secolo, con la crescita della domanda di pasta, soprattutto da parte delle classi medio-basse e popolari. Se, da una parte, la farina del pane fu vincolata a rigide regole, dall’altra il mercato del grano duro venne quasi liberalizzato.
Con un bando, del 1713, a Napoli, si regolarizzò anche “dove” macinare i vari tipi di grano, per cui i mulini cittadini saranno riservati d’ora in poi alle farine tenere, mentre i mulini del circondario – a Torre Annunziata, Castellamare e Gragnano – saranno destinati alla macinatura di quello duro. Proprio in conseguenza di ciò, in queste zone si realizzerà un forte sviluppo dell’arte dei pastai.

 

Dalla pasta da ferro alla pasta d’ingegno

 

L’alba di un nuovo settore

L’Italia, alla fine del medioevo, era già leader del settore della pasta. Lo dimostra il fatto che l’antico termine di “tria” per indicarla, venne sostituito ovunque da quello di “maccheroni italiani”. Piano piano il settore della pasta lievitò, con un aumento della domanda. I pastai iniziarono ad introdurre strumenti più “sofisticati”. Dalla gramola a stanga si passò al torchio a trafila. La nuova meccanizzazione aiutò a produrre di più, con minore spesa e fatica. L’aumentato consumo di pasta diede origine ad un’attività con maggiori guadagni. Fatalmente, i pastai si staccarono da fornai e panettieri, dando il via all’autonoma corporazione dei pastai. La pasta, sempre più importante a tavola, divenne una specifica categoria alimentare, con un posto d’onore nei consumi alimentari italiani.
Nel manuale di “Agricoltura pratica” si distinguono i due tipi di grano, che producono diversamente l’uno farina e l’altro semola. Nel testo si indica l’uso della farina come migliore per il pane e la semola per la pasta.


LE MISCELE
La pasta tradizionale italiana, oggi, è principalmente a base di semola di grano duro. Alla fine del medioevo, la semola era adottata per pasta di particolare qualità, mentre si tendeva, per la gran parte della produzione, ad usare la farina. La differenza tra le due lavorazioni, già dal XIV secolo, era presente in Sicilia. Spesso i due tipi di grano erano mischiati tra loro, in particolari proporzioni. La miscelazione è presente in documenti normativi del XVII secolo, a Napoli, per abbattere i costi ed aiutare i consumi popolari.  Ugualmente le miscele vennero impiegate in Liguria nell’Ottocento, quando la marina inglese bloccò le vie marittime per la Sicilia ed il Marocco, precludendo così il rifornimento di semola di grano duro. Anche nel Novecento, è presente l’uso di miscele per la pasta. Nel 1929, nel manuale Hoepli, ve ne sono di tre tipi. Ciononostante, le miscele di grano duro e tenero, sono una cosa, le prime truffe un’altra. Nel XVI secolo, alla farina di grano vengono mischiate farine di lupini, granoturco o miglio.

Il grande successo della pasta di semola di grano duro (pura) si registra nei secoli XVII e XVIII, in particolare con i maccheroni di Napoli e quelli di Genova. Oltre il successo economico, la pasta ed il grano italiano riscuotono in Francia grandi apprezzamenti, come in una pubblicazione medica di Lione, del XVII secolo.

Il preludio alla meccanizzazione del settore

 

LA LAVORAZIONE
Riguardo alla tecnica professionale ci informa mastro Martino, che spiega la realizzazione dei vari formati di pasta, dai maccheroni alla siciliana a quelli genovesi o romaneschi. Per la lavorazione dei maccheroni siciliani, ci descrive le varie fasi. Con un impasto, rinforzato da bianchi d’uovo, si realizzano inizialmente dei piccoli ma lunghi tondini, che vengono poi avvolti intorno ad un filo di ferro duro per far loro prendere l’aspetto allungato. Ottenuti i maccheroni, essi vengono preferibilmente essiccati al sole (“nei giorni della luna d’agosto”). Ciò permette un consumo differito nel tempo. Possono essere, infatti, conservati anche due o tre anni, prima di essere mangiati.

Per i maccheroni alla genovese o romaneschi, invece, si parte da una sfoglia di pasta all’uovo, stesa con l’aiuto di un mattarello. Ottenuto lo spessore necessario, la sfoglia è arrotolata su sé stessa. Si tagliano, a questo punto, dei rotolini a spirale, più o meno larghi, che vengono chiamati taglierini o tagliatelle.

Il torchio e la gramola in una illustrazione della grande enciclopedia francese, Parigi 1767

Queste varie tecniche erano probabilmente conosciute, nel medioevo, sia in Sicilia che in Sardegna. Nell’attrezzatura del tempo esistono altri piccoli strumenti, come la “gramola a briga” (che compare nel Codice Diplomatico Barese del 1215), cioè una specie di gramola a stanga, un apparecchio che aiutava ad eseguire il lungo e faticoso lavoro di impastatura per grandi quantità (permetteva di schiacciare e rimpastare più volte, fino ad ottenere la fusione di tutti gli ingredienti nella pasta per la sfoglia).

Inizialmente, la stanga veniva impiegata soprattutto per la lavorazione del pane; entrò poi in uso anche per la lavorazione della pasta. La stanga, anche se in ritardo, fu adottata dai pastai, in maniera ovvia e naturale, perché questi facevano già parte della stessa corporazione dei panettieri e dei fornai. Apparentemente semplice, la stanga è il preludio alla successiva meccanizzazione del settore, con una serie di rivoluzionarie invenzioni tecniche.

La fattura della pasta


Anche nel campo della lavorazione della pasta, l’Italia, in particolare del Mezzogiorno, si evidenzia per l’uso di tecniche più avanzate. Già a partire dal XV secolo, infatti, appaiono i primi strumenti per la lavorazione, mentre all’estero e nel Mediterraneo rimane esclusivamente manuale. Se poche sono le informazioni desunte dagli scritti dei cuochi medievali, una nota curiosa è rappresentata dai Tacuina Sanitatis, libri di medicina miniati, desunti da testi arabi e della successiva scuola salernitana. In essi si affronta il tema di una corretta alimentazione. Vi sono, quindi, dei capitoli sulla Tria (la pasta). Ma mentre il testo descrive la tecnica manuale (essendo lo scritto d’origine araba), le miniature, d’epoca medievale più tarda, ci danno, rispetto alla loro limitatezza, maggiori informazioni. In esse la lavorazione viene rappresentata nella fase iniziale e finale del processo, dove appaiono i vermicelli, pronti per l’essiccazione. Si scopre così che la fattura della pasta è compito prevalentemente femminile e che, all’epoca della rappresentazione, il lavoro si svolge in coppia e non singolarmente. L’illustrazione dei maestri lombardi fa riferimento a quella che doveva essere la piccola manifattura dei negozi di pasta fresca di quartiere e non di quella più industriale.

Tacuinum Sanitatis Bibliothèque nationale de France, Parigi

La bottega della pasta fresca

 

Preparazione della pasta, Tacuinum sanitatis Casanatense (XIV secolo).

All’inizio, la produzione della pasta secca si incentra soprattutto in Sicilia e Sardegna, con presenze nell’Italia meridionale e sulla costa ligure. Nascono un po’ ovunque negozi per lo smercio della pasta secca e fresca al dettaglio. Vengono chiamati “lasagnari”, o, più raramente, “vermicellari”.  Con la loro diffusione, sorgono le prime corporazioni di pastai. Ad esempio, a Firenze, nel 1311, si forma “l’Arte dei cuochi e dei lasagnari”, a cui si aggiungeranno i “cialdonai”, cioè i produttori di cialde.

I produttori di pasta, tuttavia, non creavano la pasta secca, ma, al massimo, la smerciavano. Al contrario, a casa, su ordinazione, si confezionava quella fresca.
La pasta secca continua ad essere lavorata solo a livello professionale, in Sicilia e Sardegna, padroneggiando tecniche più sofisticate, come l’essicazione. È per questo che, nel XV secolo, le botteghe si trovano un po’ ovunque, anche nell’Italia settentrionale. Sono menzionati negozi di pasta, ad esempio, a Roma, Genova, Milano, Venezia, Padova, Reggio Emilia e Bologna. Qui si poteva ordinare pasta fresca, anche fornendo la farina da utilizzare, pagando un prezzo minore. I negozi erano sottoposti a controlli, per evitare possibili frodi o costi eccessivi. La pena sanzionata dall’autorità consisteva in una multa salata. Nel Cinquecento, a Roma si evidenzia una corporazione di vermicellari. Questa si affiancava ai pastai (per la pasta secca) e quella dei lasagnari, per lo smercio di pasta fresca nei quartieri.

Essendo la semola di grano duro di difficile reperibilità nel Nord Italia, la farina principale era quella di grano tenero, e, di conseguenza, era molto diffusa la pasta fresca fatta in casa. Il grande consumo richiese comunque un piccolo periodo d’essicazione della stessa pasta fresca. Tra le necessità, infatti, vi era l’immagazzinamento momentaneo, la pesatura, l’eventuale imballaggio, il trasporto, anche se per breve distanza, ed altro ancora.

Il mercato della pasta secca


Tecniche originarie

Nel XV e XVI secolo, per quanto buona fosse la diffusione della pasta secca, i più rinomati cuochi dell’alta società dell’epoca tendevano a disprezzare la pasta in commercio, preferendo quella fresca. Un po’ ciò che succede attualmente per i prodotti surgelati, evitati dai cuochi pluri-stellati. Ciononostante, la pasta secca era presente sulle tavole nobiliari (nonostante la “fama”). A dimostrarlo, l’invio del viceré di Sardegna di una “barixella plena de maccaroni” (il 15 febbraio del 1467) a Giovanni II d’Aragona. È comunque presente tra gli acquisti della casata d’Aragona (in particolare, ai tempi di Pietro IV).

In effetti, la cattiva nomea aveva un motivo, ed era quello della sua inefficace conservazione. Se non perfettamente essiccata la pasta, contenendo ancora acqua, tendeva a deteriorarsi. Lo dimostra un manuale catalano del 1455, che consiglia, prima della cottura, di controllare il colore dei fideus secchi, raccomandando che siano “molto bianchi e sani”. Se l’idea commerciale dell’essiccazione della pasta era ottima, non altrettanto lo era la fattura e la conservazione ideale del prodotto. La fabbricazione, l’essiccazione, il trasporto e la giusta conservazione erano tutti fattori di rischio riguardo la sua commestibilità ottimale. Basti pensare al problema della corretta essicazione, che portò, dati i fattori climatici, alla superiorità della pasta secca prodotta nelle aree dell’Europa meridionale, rispetto a quelle dell’Europa settentrionale. Ma vi erano differenze tecniche, a volte, anche tra città “limitrofe”, come per la pasta prodotta a Gragnano rispetto a quella di Torre Annunziata.

Nonostante il discredito dei cuochi del XV secolo, la pasta secca era un prodotto ambito. A dimostrarlo i registri contabili della compagnia Datini di Valenza. Su di essi si scopre che la pasta aveva un costo quasi doppio di quello della carne. Nonostante il prezzo elevato, la vendita di pasta continuò e fu calmierata al fine di favorire l’uso interno e la tranquillità popolare. La pasta era un piatto molto gradito, con un buon consumo delle classi medio-alte e urbanizzate, con la praticità di un piatto buono, da cucinare facilmente e velocemente.

Anche nella marineria la pasta secca aveva un ruolo importante nell’alimentazione dei marinai, come il biscotto e lo stoccafisso. Mentre alcune compagnie, però, permettevano un piccolo uso della pasta trasportata, secondo una minima percentuale, altre preferivano imbarcare cuochi, che confezionassero la pasta fresca, pur di non toccare i fideus secchi trasportati per essere venduti.