Al Grand Palais di Parigi il critico Vauxcelles in gabbia tra le bestie feroci

di Sergio Bertolami

40 – L’affermazione dei Fauves al Salon d’Automne del 1905

Chi ricorda il critico d’arte Louis Vauxcelles? Colui che offrì lo spunto per definire cage aux fauves (gabbia delle belve) la sala nella quale erano esposte 39 scandalose tele dipinte da un gruppo di giovani artisti francesi? Gli organizzatori della terza edizione del Salon d’Automne di Parigi – che tenne aperti i battenti del Grand Palais dal 18 ottobre fino al 25 novembre del 1905 – decisero di unire nella stessa sala VII le opere di numerosi ex allievi di Moreau. L’allestimento dell’esposizione era curato dall’architetto Charles Plumet, che pensò bene di usare un criterio di ripartizione stilistica. Criterio che garantì il successo della manifestazione. Nella sala contigua alla VII, spiccava invece un dipinto di Henri Rousseau il Doganiere dal titolo significativo Il leone affamato si getta sull’antilope.

Henri Rousseau il Doganiere, Il leone affamato si getta sull’antilope, 1905

Più che i soggetti ad impressionare per la loro aggressività era l’uso di colori violenti – come fece notare il Journal de Rouen – accostati in modo stridente, lontani da ogni realtà oggettiva. La veemenza cromatica e la libertà d’espressione saltavano agli occhi. Tele tanto scandalose che persino Emile Loubet, Presidente della Repubblica francese, si rifiutò d’inaugurare l’esposizione. In un’atmosfera di scandalo sapientemente orchestrato, la sala VII, in cui si trovavano le opere sotto accusa, fu ritenuta inaccettabile da tutta la critica. La stampa battezzò quelle opere – firmate Henri Matisse, Albert Marquet, André Derain, Maurice de Vlaminck, Kees van Dongen, Charles Camoin, Henri-Charles Manguin, Jean Puy – nei modi più fantasiosi. Camille Mauclair ebbe l’impressione di “un barattolo di vernice gettato in faccia al pubblico”, Marcel Nicolle le paragonò a “giochi barbari e ingenui” di bambini, altri – nomi meno illustri, giornalisti improvvisati e di provincia – parlarono di “campioni informi”, di “pennelli deliranti”, di “un miscuglio di cera di bottiglia e piume di pappagallo”. La nota più mirata fu quella del supplemento dedicato all’evento da L’Illustration del 4 novembre che concludeva con una frecciata: «purtroppo manca il colore», inconveniente che il bianco e nero della rivista non rendeva l’abuso coloristico, impossibile colmare con le sole parole. (Le due pagine della rivista)

Collocato al centro della sala, solo un piccolo busto in marmo, classicheggiante, modellato con delicata sapienza da Albert Marque, fece scrivere al critico Louis Vauxcelles: “È Donatello tra le bestie”. L’espressione divenne così popolare che la sala fu presto ribattezzata “la gabbia degli animali selvatici” e, per estensione, la pittura degli artisti che vi esponevano fu definita fauvista. Così il termine fauvisme prese ad indicare il movimento artistico francese che ricevette il battesimo ufficiale proprio a quel Salon d’Automne di Parigi dell’anno 1905. Dell’articolo, uscito sul supplemento al quotidiano Gil Blas del 17 ottobre 1905 – il giorno prima dell’apertura ufficiale, per invitare gli spettatori alla visita – i libri parlano, ma pochi lo hanno letto. Sono andato perciò a reperire quel numero. Non è stato difficile trovare le due pagine dedicate al Salon, rispetto alle otto dell’intero giornale, e ho tradotto il testo riguardante la famigerata sala VII per leggerlo insieme. 

Stralcio dal supplemento a
Gil Blas del 17 ottobre 1905


Sala VII

«Sala arci-chiara, degli audaci, degli oltraggiosi, dei quali vanno decifrate le intenzioni, lasciando il diritto di ridere ai furbi e agli stupidi, critica troppo facile. E c’è una quantità di Indipendenti, Marquet e compagnia, un gruppo che si tiene così fraternamente unito come, nella generazione precedente, Vuillard e i suoi amici.

Raggiungiamo senza indugio M. Matisse [nota: M. sta per Monsieur, come dire il signor Matisse]. Ha coraggio, perché il suo invio – lo sa del resto – avrà la sorte di una vergine cristiana consegnata alle bestie del Circo. M. Matisse è uno dei pittori più espressivamente dotati di oggi, avrebbe potuto ottenere facili “bravo!” [applausi]: preferisce affondare, vagare in una ricerca appassionata, chiedere al puntinismo più vibrazioni, luminosità. Ma la preoccupazione per la forma ne risente.

M. Derain [il signor Derain] sussulterà; spaventa gli Indipendenti. Penso che sia più un artista da manifesti che un pittore. Il pregiudizio del suo immaginario virulento, la facile giustapposizione di elementi complementari, sembrerà ad alcuni un’arte volutamente infantile; riconosciamo, però, che i suoi Battelli abbellirebbero allegramente la parete della cameretta di un bambino. M. de Vlaminck epinalizza [nota: il signor de Vlaminck riproduce immagini colorate come quelle di Epinal ]; la sua pittura, che sembra terribile, è in fondo da bravissimo bambino. M. Ramon Pichot si distingue dai coloristi cupi o allegri della Spagna, suoi compatrioti, che non hanno affatto il senso del caricaturale; la cosa più fastidiosa è che difficilmente comprendiamo se è un caricaturista di proposito; si diverte, è un Dewambez, un Jean Veber madrileno; eppure, il suo Notturno è grazioso ed esatto.

La signorina Jelka-Rosen usa colori ribes molto acidi, la sua fantasia è comunque decorativa. M. Girieud è un lirico che stilizza ingrandendole ortensie, peonie, zinnie e physalis del Jardin des Suppliçes [nota: Il giardino dei supplizi, romanzo ironico di Octave Mirbeau]; ama i tessuti sontuosi, i mosaici, i personaggi leggendari. La sua tavolozza è sgargiante. Di quale luce è bagnata questa donna

seminuda che sonnecchia su un divano di vimini! Il sole di Saint-Tropez accarezza la sua pelle pallida e umida; il suo corpo pesante riposa, beato, all’aria aperta, vivificato dal soffio salato del mare che si intravede attraverso i rami.

Nessuno esimerà M. Marquet dal rimprovero di ripetersi: la sua gioiosa serie di Agay, di Saint-Tropez, di Antehor, non ricorda in alcun modo le sponde desolate che ha fatto ammirare al Salon des Indépendants. Ecco le rocce rosse, di Agay e di Trayas, che puntano nell’azzurro glauco del mare, e i pini di un verde metallico, e le colline dell’Esterel, le barche a vela del porto di Saint-Tropez, le case rosa. La fattura è grossa, grassa, di taglio originale, e che difficilmente ricorda (tranne un quasi inevitabile riavvicinamento con le Rocce Rosse di Guillaumin), l’ambientazione nella cornice delle altre analisi del Sud. Eppure, ho trovato i “Marquets” di Parigi più profondi e commoventi; la dura aridità di questo Sud di cartone mi urta. Forse M. Marquet è il miglior narratore degli aspetti settentrionali.

M. Camoin, anche lui se n’è andato a Saint-Tropez. Sono volati tutti lì, come uno stormo di uccelli migratori. Era la primavera del 1905, una valorosa piccola colonia di pittori che dipingevano e chiacchieravano in questo paese incantato: Signac, Cross, Manguin, Camoin, Marquet; vicino a loro, a Cagnes, d’Espagnat e il maestro Renoir. M. Camoin costruiva quadri traboccanti di sano e denso vigore; è il brulicante mercato della cittadina marittima, il taglio quasi giapponese dei graniti di Agay, il porto di Cassis e lo sfarfallio arancione dei riflessi tremolanti nell’acqua azzurra. Audaci e sicure opposizioni; una franchezza netta, diretta, di un colore che non tradisce; e, a volte, fantasie divertenti, questo Ombrellone, sotto il quale sorride una coraggiosa principessa circondata da un alone di luci policrome, mollemente intorpidita nel prendere il sole.

Al centro della sala, un torso di bambino, e un piccolo busto in marmo, di Albert Marque, che modella con delicata scienza. Il candore di questi busti sorprende, in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello tra le bestie».

Ora, finalmente, possiamo parlare con cognizione di causa. Abbiamo letto che la critica troppo facile che sfocia in risata Vauxcelles la lascia ai pettegoli e agli stupidi. In questa sala VII sono raccolte le opere di un gruppo di amici fraternamente unito, una quantità di pittori Indipendenti, che fanno capo ad Albert Marquet. Nella primavera precedente gli stessi pittori erano presenti al Salon des Indépendents, esposizione d’arte annuale che dal 1884 offriva visibilità agli artisti di Parigi in assenza di una giuria e, per contro, senza alcun premio. Il riferimento a Marquet è solo di comodo per il critico, perché dire Marquet è come dire Henri Matisse. Si erano conosciuti nell’ottobre del 1892 frequentando i corsi alla Scuola di Arti Decorative di Parigi. Avevano fatto presto amicizia e Matisse, di cinque anni più grande, aveva preso sotto la sua ala protettrice questo giovane forestiero come lui (Marquet di Bordeaux e Matisse di Le Cateau-Cambrésis), un po’ complessato, canzonato per il suo accento e soprannominato l’inglese per via dei suoi occhiali particolari. I due amici avevano poi abbandonato le arti decorative per migrare alle Beaux-Arts di Parigi, seguendo l’insegnamento libero di Gustave Moreau, che si definiva un vecchio simbolista interessato soprattutto alla tecnica pittorica. Scriveva Roger Marx sulla Revue Encyclopédique del 25 aprile 1896: «Tutti coloro che intendono svilupparsi secondo la propria individualità si sono riuniti sotto l’egida di Gustave Moreau». Con Moreau i due amici si legano ad alcuni di quei pittori che ritroviamo nella nostra sala VII: con Henri Manguin e soprattutto Charles Camoin. Gli altri li incontrano per la prima volta, dopo la morte di Moreau, nelle aule di disegno dell’Académie Julian, dell’Académie Carrière o dell’accademia privata Camillo, in rue de Rennes: sono André Derain, Pierre Laprade, Jean Puy, Maurice de Vlaminck. Nel 1925 Matisse ricorderà questi anni di apprendistato e di povertà: «Non avevamo abbastanza per pagarci una birra». Quando, ad esempio, si legge che Marquet e Matisse collaborarono alle decorazioni del Grand Palais per l’Esposizione di Parigi del 1900 – quella descritta all’inizio di queste pagine sull’Arte del Novecento – bisogna focalizzare l’idea che i due amici avevano accettato, chiarisce sempre Matisse, di «spazzolare chilometri di ghirlande sui soffitti del Grand Palais». Una mansione estenuante e sottopagata, tanto da non potere, tolte le spese alimentari, neppure acquistare certi colori costosi come i gialli e rossi di cadmio per dipingere, nel tempo libero dal lavoro, le proprie tele.

Gustave Moreau, Autoritratto (1850)

Vauxcelles, dunque, cita Marquet, ma lascia fuori Monsieur Matisse, che giudica esplicitamente uno dei pittori espressivamente più dotati da ottenere facili approvazioni da parte della critica specializzata. La sua recensione ondeggia tra l’elogio e l’ironia. Matisse è encomiabile per il suo coraggio col quale si spinge in modo vago in una ricerca appassionata della novità. Una novità che chiaramente non convince il critico di Gil Blas, che preferirebbe il candore classicheggiante del piccolo busto ispirato a Donatello piuttosto che quel macello di colori sgargianti. Matisse, si ostina a fare parte di questo Circo, rischiando di essere sacrificato come una vergine cristiana votata al martirio e consegnata alle bestie feroci. Derain, gioca troppo facilmente con i suoi colori, sembra un pittore da manifesti con cui arredare una stanza per bambini. Similmente de Vlaminck sembra un colorista che usa stampini, come gli artigiani indaffarati a colorare le stampe di Epinal che tanto successo riscuotono, fra gli amanti delle arti popolari. Manguin sembra fare, invece, enormi progressi, ma subisce ancora la fascinazione di Cézanne, anzi non si è ancora tolto di dosso il suo odore.

Louis Vauxcelles, schizzo di Jules Chéret, 1909

Gli articoli, come quelli del sarcastico Vauxcelles e dei suoi pari, ebbero l’esito inaspettato di unire in una corrente degli artisti che non avevano alcuna intenzione di fondare un movimento unitario come in Germania la Brücke. Artisti che non avevano un programma d’intenti, ma solo affinità espressive. Avevano un denominatore comune da intravvedere nella componente pointilliste, nell’influsso di Gauguin, nelle mostre d’arte islamica e dei primitivi, indirizzati verso una ricerca individuale dagli effetti cromatici utilizzati con libertà totale. Ecco allora distinguere una nuova formazione costituita dall’accorpamento di almeno tre gruppi. Il primo è formato, sicuramente, dagli allievi dell’atelier di Gustav Moreau e della serie di successive accademie frequentate. Nel secondo gruppo distinguiamo Derain e de Vlaminck che avevano preso sede a Chatou sulle rive della Senna. Appartengono al terzo gruppo tutti coloro di Le Havre che si aggiunsero a breve, come Friesz, Dufy, Braque. Tra quelli rimasti staccati, il più vicino ai Fauves è Kees van Dongen. Ma possiamo includere anche Valtat, Rouault, lo scultore Maillot, Pascin e persino un giovanissimo Picasso che ben presto metterà in crisi l’intero fauvismo. Quasi come programma del nuovo sodalizio scriveva Othon Friesz: «Dare l’equivalente della luce solare con una tecnica fatta di orchestrazioni colorate, trasposizioni passionali (che hanno come punto di partenza l’emozione diretta sulla natura) le cui verità e le cui teorie si elaborano attraverso ricerche ardenti ed entusiasmanti».

Al Grand Palais di Parigi il Salon d’Automne del 1905

Quando Vauxcelles si accorse di avere dato una spinta unificatrice non mancò di descrivere di nuovo i Fauves: «Un movimento che ritengo pericoloso (nonostante la grande simpatia che nutro per i suoi autori) sta prendendo forma in un piccolo gruppo di giovani. È stata istituita una cappella, officiano due preti superbi. MM. Derain e Matisse; poche decine di catecumeni innocenti hanno ricevuto il battesimo. Il loro dogma è uno schematicismo vacillante che vieta modellazioni e volumi in nome dell’astrazione pittorica del non so cosa. Questa nuova religione non mi attrae che a malapena. Io non credo in questo Rinascimento […] M. Matisse, fauve-in-chief; M. Derain, sostituto fauve; MM. Othon Friesz e Dufy, fauves presenti […] e M. Delaunay (un allievo quattordicenne di M. Metzinger…), fauvelet infantile. (Vauxcelles, Gil Blas, 20 marzo 1907)».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

L’interazione tra arte, industria e artigianato al Deutscher Werkbund di Colonia

di Sergio Bertolami

39 – La ricerca di uno stile contemporaneo nel disegno per l’industria

Il discorso di Loos, chiuso su sé stesso, non poteva portare a soluzioni concrete. Era troppo semplicistico affermare: «Dato che l’ornamento non ha più alcun rapporto organico con la nostra civiltà, esso non ne è più neppure l’espressione. L’ornamento realizzato oggigiorno non ha nessun rapporto con noi, non ha in genere nessun rapporto con gli uomini, nessun rapporto con l’ordine del mondo. Esso non è suscettibile di sviluppo. […] L’ornamento moderno non ha predecessori, né ha discendenza, non ha un passato né avrà un futuro». La realtà è che Loos confondeva la superata ornamentazione col nascente design, come poteva essere quello della Weiner Werkstatte, che Loos detestava largamente, ma che Josef Hoffmann e Koloman Moser, dal 1903, avevano portato al successo. Il 5 e 6 ottobre del 1907 – ovvero l’anno prima che Loos cominciasse a diffondere le idee di Ornamento e delitto – nasceva a Monaco il Werkbund tedesco, nel 1910 quello austriaco e nel 1913 il Werkbund svizzero. Tutte associazioni decise ad arricchire la ricerca artistica con l’intento di migliorare proprio il design e, con questo, la qualità del prodotto industriale.

Il perfezionamento del lavoro commerciale nell’interazione tra arte, industria e artigianato – Trattative del Werkbund tedesco a Monaco l’11 e 12 luglio 1908

Abbiamo già visto – nel corso della nostra passeggiata sull’arte del Novecento – come il movimento Arts and Crafts chiedesse che ogni minimo oggetto, «ogni sedia, ogni tavolo e ogni letto, ogni cucchiaio, ogni brocca e ogni bicchiere [dovesse] essere reinventato» ma pur sempre prodotto dalle mani di un uomo. Ovviamente, il movimento di John Ruskin e William Morris era consapevole di non poter fermare la meccanizzazione e il progresso industriale, per questo s’era orientato in gran parte d’Europa verso nuove forme artistiche che hanno dato spazio alla nascente Art Nouveau. In Germania le teorie riformatrici fin dall’inizio si sono, invece, legate alle idee economiche del governo e alla volontà di contribuire allo sviluppo dell’industria. In tal senso l’associazione più nota che ha implementato il nuovo orientamento è stato il Deutscher Werkbund (Lega tedesca artigiani), fondato nel 1907 come Associazione all’avanguardia di artisti visivi, architetti, industriali, uomini d’affari e scrittori. In verità l’idea organizzativa era nata già sul finire del secolo precedente, imbastita a Monaco di Baviera nel 1898 nella Vereinigte Werkstätten für Kunst im Handwerk (Laboratori uniti per arti e mestieri). L’obiettivo era quello di dare uno stile contemporaneo e innovativo a tutti gli oggetti della vita quotidiana, come tavoli e sedie, stoviglie e altro ancora. La ricerca, ad ampio spettro, comincerà ad interessare dapprima le abitazioni, per passare successivamente alla vita moderna nella sua totalità.

Hotel Vier Jahreszeiten Munich

Su iniziativa di Hermann Muthesius, Friedrich Naumann e Henry van de Velde, facendo seguito ad un appello di dodici artisti e dodici industriali, un centinaio di stimati artisti, industriali e operatori culturali il 5 ottobre 1907 s’incontrarono all’Hotel Vier Jahreszeiten di Monaco per istituire una nuova coalizione che ponesse il prodotto del proprio lavoro al centro di ogni attenzione. Tra gli iniziatori c’erano personaggi noti, ma anche coloro fino ad allora meno conosciuti. Tra gli architetti e gli artisti troviamo Peter Behrens (1868-1940), Theodor Fischer (1862-1938), Josef Hoffmann (1870-1956), Josef Olbrich (1867-1968), Bruno Paul (1874-1968), Richard Riemerschmid (1868-1957), Fritz Schumacher (1869-1947). Tra le principali industrie spiccavano, fra le altre, la fabbrica di posate Peter Bruckmann a Heilbronn, i laboratori tedeschi di artigianato a Dresda (poi Deutsche Werkstätten Hellerau), l’editore Eugen Diederichs a Jena, la fonderia di caratteri Gebrüder Klingspor a Offenbach, la tipografia di libri Poeschel & Trepte a Lipsia e la Wiener Werkstätten. Come primo presidente fu eletto l’architetto di Stoccarda Theodor Fischer e Karl Schmidt fu la personalità più rilevante dal punto di vista imprenditoriale. Gli iniziali fondatori, che includevano 12 artisti e 12 aziende, a marzo del 1912 erano saliti a 1.312 membri e nell’estate del 1914 a 1.870.

Manifesto per la mostra del Deutscher Werkbund del 1914 a Colonia. Disegno di Peter Behrens

A grandi passi si era arrivati alla “Prima mostra tedesca del Werkbund” (1914) a Colonia. La mostra fu fortemente voluta dal cancelliere tedesco Konrad Adenauer – che nel secondo dopoguerra sarà uno dei padri fondatori della Comunità europea – allora di 36 anni, membro del Werkbund e politico a Colonia. La città spese per l’evento la strepitosa somma di 5 milioni di marchi. La pianificazione fu messa a punto nel 1912, mentre i lavori edilizi cominciarono all’inizio del 1914. La mostra fu aperta al pubblico da van de Velde il 16 maggio 1914. Una cinquantina erano i padiglioni espositivi. A Peter Behrens, Walter Gropius, Bruno Taut e Henry van de Velde erano state affidate le costruzioni in muratura di particolare importanza. L’edificio più ricordato è quello di Bruno Taut, con la sua cupola prismatica del Glaspavillon (padiglione di vetro), rimasta nell’immaginario degli architetti dell’epoca. Walter Gropius e Adolf Meyer concentrarono la progettazione su di una fabbrica modello, così come Henri van de Velde concepì un Teatro modello. Peter Behrens realizzò la Festhalle (salone delle feste) ed Hermann Muthesius la Casa dei colori.

Pianta generale della mostra del Deutscher Werkbund a Colonia, 1914,
ad opera dell’architetto-urbanista Carl Rehorst .

La mostra non intendeva puntare ad un ritorno finanziario, quanto adempiere ad un compito culturale. Carl Rehorst, considerato un popolare urbanista e carismatico architetto dalle idee innovative, nel catalogo ufficiale della mostra sottolineava: «Per la prima volta, si è tentato di portare l’obiettivo del Deutscher Werkbund a realizzare una nobilitazione del lavoro commerciale e industriale tedesco grazie alla collaborazione fra gli artisti, attraverso una mostra rivolta alla moltitudine più ampia della nostra gente […] Nuovi pensieri devono costituire la sua base, il suo programma, il suo aspetto esteriore ridisegnato a modo. Il contenuto offerto al visitatore dovrà fare recepire nuovi stimoli». I lavori e i progetti incontrarono il largo favore pubblico e grande influenza si riverberò in Europa. Si calcola che allo scoppio della guerra, la mostra del Werkbund avesse attirato oltre un milione di visitatori. Tutto questo per la qualità delle esposizioni. Nella sala principale, ad esempio, alcuni pezzi unici, selezionati tra le vecchie e le nuove realizzazioni, erano posti in mostra come indicatori della produzione commerciale in atto.

Cartolina Colonia sul Reno, mostra Deutsche Werkbund 1914, panorama della città e dell’area espositiva

A tal proposito il mensile olandese Elsevier’s Geïllustreerd Maandschrift scriveva: «La Germania si è mossa negli ultimi anni nel campo dell’artigianato con nota energia». Elsevier’s è stata la principale rivista olandese di riflessioni sulla letteratura e le arti visive. Non è che uno dei molteplici periodici culturali europei di ampio pubblico che si possono addurre ad esempio. Scorriamone alcuni passaggi essenziali: «L’artigianato tedesco, in generale, non si è limitato al lavoro di pochi individui, ma ha coinvolto l’intera industria. Con la sua istituzione, il Werkbund ha cercato il contatto tra artisti e industriali, ha dato ai primi l’opportunità di realizzare i propri pensieri, ha portato i secondi a vedere che la loro attività poteva e doveva essere migliorata a un piano estetico più elevato; mentre nel contempo si è ottenuto che il pubblico fosse interessato allo sviluppo delle arti e dei mestieri attuali. Inoltre, la collaborazione dell’industriale e dell’artista ha portato all’artigianato esteso anche a quello che può essere fatto a macchina e che può così essere offerto alla portata di moltissimi».

Raccolta della rivista mensile illustrata Elsevier’s,
volume 24/volume 48, 1914

Il successo dell’iniziativa tedesca valicava, dunque, gli ambiti nazionali e persuadeva l’Europa sulle strade da intraprendere. D’altra parte, il programma del Werkbund era chiaro più che mai: «Lo scopo della Federazione è il perfezionamento del lavoro commerciale nell’interazione tra arte, industria e artigianato attraverso l’istruzione, la propaganda e una dichiarazione unificata su questioni rilevanti». Era dunque possibile dimostrare fattivamente e non solo sul piano teorico che la collaborazione tra artisti moderni e imprenditori progressisti non solo avrebbe innalzato il livello dei prodotti manifatturieri tedeschi, ma avrebbe anche reso più umano il processo di produzione. «Con grande perseveranza – continuava l’articolo di Elsevier’s – la Germania ha lavorato in modo tale da rendere popolare l’artigianato giovane e fiorente; al che bisogna aggiungere che la riorganizzazione delle varie scuole di arti e mestieri, passate sotto la direzione dei più eminenti artisti del movimento, non solo è stata una buona idea del governo, ma non ha mancato di esercitare la sua influenza. E l’influenza già emanata da quelle scuole è molto evidente, di conseguenza, in molti rami dell’industria, dove sta emergendo una direzione precisa che punta a nuove forme, nuove applicazioni, nuovi modi di far conoscere i prodotti al pubblico, nuovi modi di esporre, confezionare, annunciare. E quello che si vede da tutto ciò, non solo è fresco e buono, ma è “finito”, curato nei minimi dettagli, pensato, insomma è ottimo».

Bruno Taut, Glashaus-Pavillon, Kölner Werkbundausstellung, 1914

Come, d’altra parte, indicavano gli ordinamenti del Deutscher Werkbund, il focus principale era incentrato su tre attività. In primis la propaganda per gli obiettivi dell’associazione, quindi l’educazione del pubblico ed infine la riforma estetica. Fino al 1914, infatti, ogni azione predisposta dal Werkbund aveva scopo propagandistico. Il solo annuario pubblicato dal 1912 aveva raddoppiato la tiratura a 10.000 copie nel 1914 e la prefazione al catalogo ufficiale di Carl Rehorst chiariva, come s’è visto, gli obiettivi della stessa mostra. Tutto ciò, però, non bastava, perché anche svolgere un’educazione artistica era una necessità impellente: «In nessun momento in Germania l’educazione artistica è stata così importante come lo è oggi». In modo particolare, si puntava ad orientare il gusto del pubblico riguardo ad un’arte “buona”, prendendo le distanze da quella “cattiva”. Anzi, occorreva insegnare alle persone come distinguere da sole l’arte “cattiva” dalla “buona”. L’aspetto educativo era considerato, in effetti, particolarmente importante, poiché la produzione industriale incontrollata aveva dato origine al fenomeno del cosiddetto kitsch, cioè tutti quegli oggetti artistici di massa in realtà banali e di pessimo gusto. Basti l’esempio del lucidante per scarpe, marchiato “Crema degli eroi tedeschi”, immesso sul mercato nel 1914 allo scoppio del conflitto. «Finalmente – si poteva leggere riguardo al Werkbund – per la prima volta, si è cercato anche di mantenere una mostra libera da tutti quegli oggetti inferiori, invadenti e sfacciatamente offerti che così spesso hanno quasi sopraffatto quelli buoni veramente». E come contrappunto a questo “kitsch”, veniva portato ad esempio un “servizio da pranzo” di Henry van de Velde realizzato nel 1903.

Van de Velde propone la sedia individuale, Muthesius propone la sedia tipo e il falegname costruisce la sedia per sedersi. Disegno satirico di Karl Arnolds sulla controversia del congresso del Deutscher Werkbund apparso su Simplicissimus del 3 agosto 1914

La terza attività principale, menzionata negli ordinamenti del Werkbund, era la riforma estetica stessa. Col principio che «Bisogna abolire la differenza tra realtà e apparenza», si faceva un salto di qualità, voltando definitivamente le spalle alle vecchie concezioni. Nello storicismo la decorazione enfatizzava gli oggetti. Fino ad allora i prodotti, anche quelli di comune utilizzo, soddisfacevano la cultura della perenne imitazione di una classe superiore aristocratica alla quale teoricamente si doveva aspirare di appartenere. Finora la Nazione era rappresentata da un imperatore che, attraverso l’arte nazionale ufficiale, riprendeva antiche tradizioni. Ma se è vero, com’è vero, che i governanti sentivano il bisogno di esibire al mondo esterno il loro potere in manifestazioni fastose e rappresentative, ciò non poteva più interessare sia gli acquirenti della classe media istruita, sia la nuova classe media industriale o imprenditoriale. Per il Werkbund gli oggetti avrebbero dovuto essere disadorni nella forma, e sviluppare qualità funzionali e pratiche, in opposizione alla falsa estetica del lusso.

Hermann Muthesius e la moglie Anna bevono il tè, intorno al 1900
Peter Behrens, Teiera elettrica componibile in differenti varanti

Come attuare questo nuovo approccio culturale in linea con i tempi correnti? Sin dalla fondazione dell’associazione, le posizioni, seppure in un clima di apertura e pluralismo, furono molteplici e dissonanti fino ad esplodere nello scontro aperto fra Muthesius e van de Velde. In occasione del congresso annuale del Werkbund tenuto una settimana prima dell’apertura della mostra nella stessa Monaco, nel corso della sua prolusione Muthesius ripartisce il futuro lavoro dell’associazione in dieci tesi. A suo avviso sono le direttrici per il futuro. L’opposizione del gruppo degli artisti, capitanati da van de Velde, non manca a farsi sentire. Muthesius riesce, comunque, a raggiungere un compromesso, evitando non solo i rischi di una spaccatura, ma la mancata apertura della mostra, un evento talmente importante nello sviluppo dell’architettura moderna e del design industriale, che avrebbe compromesso l’evoluzione futura verso la creazione del Bauhaus. Infatti, la mostra aperta a maggio avrebbe dovuto protrarsi fino ad ottobre, ma venne bruscamente chiusa.

Dopo la dichiarazione di guerra del 31 luglio 1914 e la successiva mobilitazione, anche a Colonia furono chiusi tutti i luoghi di intrattenimento, i teatri e i musei. Un ultimo reportage sulla mostra del Werkbund è apparso sul Kölnische Zeitung il 6 agosto ed anche il quotidiano sospende le pubblicazioni. Per il Deutscher Werkbund e per gli espositori, la chiusura significò un contraccolpo finanziario. Tutti i padiglioni furono immediatamente rimossi e l’area espositiva, accanto alla stazione Deutz, messa a disposizione delle autorità per l’acquartieramento delle truppe e la disposizione dei servizi medici. Raccontano le cronache che la Festhalle di Peter Behrens venne utilizzata per il ricovero del bestiame e il Werkbundtheater di van de Velde come magazzino di fieno e paglia. La casa di vetro di Taut fu oggetto di tiro al bersaglio. Fra il 1915 e il 1920, tutti gli edifici espositivi, ad eccezione della casa da tè di Wilhelm Kreis, furono demoliti.

HERMANN MUTHESIUS

LE DIECI TESI

1. L’architettura, e con essa l’intera area delle attività del Werkbund, è incalzante verso la standardizzazione, e solo attraverso la standardizzazione può recuperare il significato universale che le era caratteristico ai tempi della cultura armonica.

2. Solo con la standardizzazione, intesa come risultato di una sana concentrazione, il buon gusto universalmente valido e affidabile può ritrovare un accesso.

3. Fino al raggiungimento di un livello di gusto elevato e generale, non possiamo aspettarci un’effettiva diffusione delle arti e dei mestieri tedeschi a livello internazionale.

4. Il mondo richiederà i nostri prodotti solo quando parleranno in uno stile espressivo convincente. I principi fondamentali per questo sono stati stabiliti dal governo tedesco.

5. Lo sviluppo creativo di quanto già realizzato è il compito più urgente del nostro tempo. Il successo finale del movimento dipenderà da questo. Qualsiasi ricaduta e deterioramento verso l’imitazione significherà oggi il degrado di qualsiasi immobile di pregio.

6. Partendo dalla convinzione che affidarsi sempre di più alla sua produzione sia una questione vitale per la Germania, il Deutcher Werkbund, in quanto associazione di artisti, industriali e commercianti, deve indirizzare la sua attenzione a creare le condizioni per un’arte industriale da esportare.

7. I progressi della Germania nelle arti applicate e nell’architettura dovrebbero essere portati avanti. Il modo più ovvio per farlo è raccomandare la realizzazione di periodici illustrati e mostre.

8. Le mostre del Deutcher Werkbund hanno senso solo se sono radicalmente circoscritte alla produzione migliore e più ammirevole. Esibizione artistica e commercio con l’estero devono essere considerati come una questione nazionale e quindi necessitano di sovvenzioni pubbliche.

9. Per qualsiasi esportazione, presenza aziendale potente e su larga scala e di buon gusto, sono dei prerequisiti. Neppure le esigenze interne potrebbero essere soddisfatte da un oggetto disegnato da un artista isolato.

10. Per ragioni nazionali, le grandi imprese di trasporto e distribuzione, le cui attività sono dirette all’estero, devono aderire al nuovo movimento, ora che ha mostrato i suoi frutti e rappresenta con coscienza l’arte tedesca nel mondo.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Adolf Loos: “L’ornamento non soltanto è opera di delinquenti, ma è esso stesso un delitto”

di Sergio Bertolami

38 – Il saggio alle origini del modernismo

Mi riesce difficile commentare di Adolf Loos il testo più significativo: Ornamento e delitto (Ornament und Verbrechen). Non perché dica cose che non condivida nella loro essenza, ma perché le dice in modo così sconclusionato che meraviglia come abbiano fatto presa. Loos era un (simpatico) polemista, un litigioso che sapeva dare spettacolo come tanti protagonisti dei salotti televisivi di oggi. Tornato dagli Stati Uniti, era ancora alla ricerca di un proprio spazio, all’interno dei circoli intellettuali viennesi, e di un linguaggio espressivo che definirà col tempo. Li troverà sparando a zero contro gli amici di un tempo. A cominciare da Josef Hoffmann, compagno di liceo a Igiau, che aveva creato la Wiener Werkstaette e che della Secessione era uno dei protagonisti di primo piano. Eppure, qualcuno rammenterà che proprio sulla rivista simbolo della Secessione, Ver Sacrum – il nome aveva lo scopo di illustrare il nuovo stile, giovane e fiorito; un modo diverso per declinare l’Art Nouveau – Loos aveva pubblicato due articoli sullo storicismo dell’architettura della Ringstrasse. In verità, il giovane architetto sperava di suscitare l’attenzione del contesto al quale si rivolgeva. Ambiva ad essere incaricato per la progettazione del tempio sacro dello Jugendstil, quel palazzo che in Olbrich trovò, invece, il suo realizzatore. Con quel palazzo era stata posta la prima pietra per innescare la lite contro i migliori allievi e collaboratori del già famoso Otto Wagner. «Ma dove sono mai oggi i lavori di Otto Eckmann? Dove saranno tra dieci anni le opere di Olbrich?» si domandava Loos con livore proprio su Ornamento e delitto. Con questo saggio aveva trovato la materia del contendere e aveva qualcosa, da pari suo, per contribuire a demolire la seduzione delle arti applicate, che altri diligentemente stavano tentando di rinnovare. L’ornamento è superato diceva Loos. L’ornamento è un residuo di epoche passate, è destinato immancabilmente a sparire col progresso della civiltà. Prima gridava, poi si lamentava di rimanere inascoltato: «Guardate, il momento si approssima, il compimento ci attende. Presto le vie delle città risplenderanno come bianche muraglie! Come Sion, la città santa, la capitale del cielo. Allora sarà il compimento. Ma taluni uccelli del malaugurio non hanno potuto sopportare tutto questo. L’umanità doveva continuare ancora per lungo tempo ad ansimare nella schiavitù dell’ornamento».

Recente edizione tedesca di
Ornament und verbrechen

Che strano: la casa sulla Michaelerplatz – sottolineata col nome di Looshaus, la casa di Loos – è tutt’altro che priva di ornamenti. Fa parte di quell’atteggiamento al quale accennavo: sconclusionato e contraddittorio. Loos diffonde degli assiomi: «Io ho scoperto e donato al mondo la seguente nozione: l’evoluzione della civiltà è sinonimo dell’eliminazione dell’ornamento dall’oggetto d’uso. Credevo di portare con questo nuova gioia nel mondo, ma esso non me ne è stato grato. Tutti ne sono stati tristi e hanno chinato il capo. Provavano un senso di oppressione di fronte all’idea che non si possa più produrre un ornamento nuovo». Eppure, nel palazzo sulla Michaelerplatz, proprio lui indica un nuovo ornamento modernista dato dai materiali pregiati: marmo screziato, legni venati, metalli e vetri lucidi. Nel 1909, un concorso di architettura, che non portò alla selezione di alcun vincitore, fece sì che Leopold Goldmann affidasse ad Adolf Loos l’incarico di erigere un edificio per aprire un elegante negozio di abbigliamento maschile della sua ditta Goldman & Salatsch.

Looshaus in Michaelerplatz, Vienna

Loos pensò di evidenziare la parte commerciale, con marmo cipollino e colonne tuscaniche ispirate alla città storica, da quella meramente residenziale lasciata disadorna. Scrive Loos in Parole nel vuoto: «Ciò che a me premeva era di separare nettamente nell’edificio la parte commerciale e gli appartamenti. Ho sempre avuto l’illusione di avere risolto questo problema nel senso dei nostri vecchi maestri viennesi. E questa illusione mi è stata confermata da quanto mi disse un artista moderno mio nemico: vuol essere moderno e costruisce una casa come le vecchie case viennesi!». Naturalmente l’edificio creò scandalo. Ciò che, però, occorre considerare è che quei rivestimenti marmorei e quelle colonne, inspiegabilmente, Loos non li considerava falsi e bugiardi quanto gli ornamenti utilizzati dai secessionisti e dalla Wiener Werkstaette. Bisogna, infatti, ricordare che Loos era figlio di uno scalpellino che non si limitava a sbozzare la pietra, ma la scolpiva. Da suo padre aveva ereditato il talento artistico e da quei marmi per tutta l’infanzia aveva assorbito conoscenze. Molte sono le ville e i palazzi innalzati da Loos, che, imbiancati di calce all’esterno, sfoggiano all’interno pregiati marmi venati, motivi ornamentali come solo la natura sa creare e un architetto di gusto sa accostare.  

Recente edizione italiana di “Parole nel Vuoto”, Adelphi 2016

In tutto c’è un prima e c’è un dopo. Già Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc si domandava: «Una concezione architettonica comporta una sua decorazione, oppure l’architetto fa ricorso alla decorazione quando la composizione dell’edificio è conclusa? In altri termini: la decorazione è parte integrante dell’edificio o è solo un vestito più o meno vuoto con il quale lo si copre quando le sue forme sono ormai stabilite?». Il dopo potrebbe essere sintetizzato nelle parole di Le Corbusier che entusiasta proclamava: «L’arte decorativa moderna non comporta nessun tipo di decorazione», che detto in questi termini è sicuramente paradossale, e aggiungeva: «Loos è passato con la scopa sotto i nostri piedi e ha fatto una pulizia omerica, esatta, sia filosofica che lirica».

In realtà quell’ornamento che Loos considera azzerato nei fatti, aprirà una discussione su problemi che il nascente Movimento moderno metterà a tacere, passando un colpo a pavimento con la scopa di Le Corbusier e di tanti altri protagonisti. In modo evidente, il rifiuto dell’ornamento non comprendeva per Loos il ricorso ai motivi tratti dalla naturalezza delle pietre e dei marmi. Le sue invettive contro l’ornamento erano indirizzate a contrastare la degenerazione di soluzioni socialmente insopportabili, diventate il simbolo di una classe sociale decadente, come la borghesia. Questo ornamento borghese era qualcosa di posticcio, una eccedenza rispetto alla struttura dell’oggetto, tanto da poterlo paragonare ad una maschera. La domanda alla quale altri hanno avuto il dovere di rispondere è questa: all’interno dell’arte, esiste o no uno spazio per una nuova sperimentazione sull’ornamento? In verità Loos stava lottando, con le sole forze che disponeva, per un proprio ideale di bellezza. Probabilmente non campava pretese; ma a posteriori è stato fatto diventare il profeta dell’architettura moderna: l’equivalente di un «Gesù Nazareno Re dei Giudei» (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum) pietra fondante di un Cristianesimo tutto da inventare. Ne consegue che Loos è oggi ricordato più per il suo saggio sull’Ornamento, anziché per il tentativo di razionalizzare lo spazio interno degli edifici, identificato come Raumplan (piano spaziale). Intuizione ben maggiore. Attraverso un insieme di piani sfalsati, Loos compirà infatti i primi passi per rompere la meccanica sovrapposizione della struttura edilizia degli alloggi e garantire ad ogni stanza un’altezza funzionalmente idonea, attraverso la combinata rappresentazione di pianta e sezione.

Il Raumplan di Villa Mueller (Praga, 1930) permette di organizzare su piani separati lo spazio in una sequenza di zone a gradini dove l’altezza del soffitto è in relazione alle differenti funzioni

Ornamento e delitto rimane comunque il più celebre saggio di Loos, che invero ha scritto di tutto: come vestirsi, come arredare la propria casa, cosa mangiare, come comportarsi in società, come tagliarsi i capelli. Il testo viene iniziato nel 1908, anno della prima Kunstschau, quale abbozzo per una serie di conferenze, di cui innanzitutto quella all’Akademischer Verband für Literatur und Musik del 1910 a Vienna. Compare poi nel 1912 pubblicato dalla rivista Der Sturm e nel 1913 su Les Cahiers d’aujourd’hui in francese. Una notorietà che gli fa assumere la risonanza di un manifesto. Pur tuttavia, quello di Loos più che un programma culturale costituisce un vero e proprio pamphlet col quale prendeva posizione contro l’intera società, su svariate problematiche di stretta attualità che, a suo avviso, sarebbero connesse con l’ornamento paragonato ad una azione criminosa. Gli esempi che porta a sostegno delle sue motivazioni sono alquanti vacui e discutibili, dando per scontato ciò che non lo è affatto. Motivazioni estetiche, per cui l’ornamento maschera la dimensione utilitaria degli oggetti d’uso e degli spazi da abitare. Motivazioni sociali, perché l’ornamento esige un aumento dei tempi di lavorazione. Motivazioni economiche, perché il maggiore costo di produzione è scaricato sui lavoratori, che ricevono salari inadeguati.

Da sinistra: Adolf Loos, Karl Kraus, Herwarth Walden

Benché il testo sia reperibile su internet, in lingua originale o in traduzione italiana, pochissimi lo hanno letto integralmente oppure, come spesso accade, hanno accentrato il proprio interesse sui saggi dei commentatori che lo presentano. Sin dal titolo dato a questo scritto, Ornamento e delitto (Ornament und Verbrechen), si dimostra la virulenta radicalità con cui Loos esporrà le sue tesi. Non è assolutamente un testo criptico dal momento che i concetti sono delineati in modo semplice e comprensibile. Il problema è che Loos non riesce ad approfondire alcun assunto di base. Emerge già dalle prime righe come la sua vis polemica lo porti a ribaltare l’ottica dei suoi contemporanei. Non solo quella dei fautori di un classicismo che lui stesso non ha del tutto abbandonato – come quelle colonne tuscaniche della Looshaus – ma persino le tesi delle avanguardie espressioniste. Queste ultime cercano nelle isole lontane lo stato della purezza originaria alla quale aspirare, mentre lui, che accetta l’ornamento solo nei primitivi, lo considera simbolo di arretratezza perché primitivo. Chi, al tempo della modernità, continua ad utilizzare qualunque forma di ornamentazione o è un delinquente o è un degenerato. Leggere le prime battute fornisce l’idea di come delle valide intuizioni di base siano espresse in modo del tutto fuorviante. A questo punto, vi consiglio di leggere tutto, per avere la cognizione particolareggiata del contenuto: «Il Papua copre di tatuaggi la propria pelle, la sua barca, il suo remo, in breve ogni cosa che trovi a portata di mano. Non è un delinquente. Ma l’uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato. Vi sono prigioni dove l’ottanta per cento dei detenuti è tatuato. Gli individui tatuati che non sono in prigione sono delinquenti latenti o aristocratici degenerati. Se avviene che un uomo tatuato muoia in libertà, significa semplicemente che è morto qualche anno prima di aver potuto compiere il proprio delitto». Il resto leggetelo voi; io l’ho fatto più di una volta e non sono riuscito a trovare cosa ci sia veramente di criminoso nell’ornamento. Ma, come spesso accade, non è Loos che pecca nel dire ciò che onestamente pensa, ma coloro che nel Movimento moderno si dimostreranno più realisti del re.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Adolf Loos: ciò che ha scritto e costruito era esattamente quello che pensava

di Sergio Bertolami

37 – L’architetto precursore del Movimento moderno

L’amico architetto di Oskar Kokoschka, Adolf Loos – Dolfi come lo chiamavano familiarmente – non è soltanto il sacro autore di Ornamento e delitto (1908), granitico come la pietra che scolpiva suo padre, scalpellino di Brunn. Sapeva anche scherzare sulle situazioni quotidiane. Come quella volta che, parlando di Ulk, il critico viennese che lo prendeva in giro proprio per quel suo famosissimo saggio, rispondeva lapidario: «Caro Ulk! Ti sto solo dicendo che verrà il momento in cui allestirete una cella carceraria secondo le indicazioni del tappezziere di corte Schulze o del professore Van de Velde e questo conterà come un inasprimento di pena». Dolfi andava alla ricerca della semplicità. Ma non riusciva a trovarla nemmeno fra i suoi contemporanei fautori dell’arte applicata. «Una cultura comune – scrive sulla mostra del Deutscher Werkbund – crea forme comuni. E le forme dei mobili di Van de Velde differiscono notevolmente da quelle di Josef Hoffmann. Quale cultura dovrebbero scegliere i tedeschi? La cultura di Hoffmann o quella di Van de Velde? Di Riemerschmied o di Olbrich?». Se da un lato è aperto alle innovazioni, dall’altro Loos è ostile ai formalismi discutibili. Per lui tutto è discutibile, persino l’arte. «L’arte è un’alta dea per l’uomo moderno, e lui sente che è un attentato all’arte quando viene prostituita per merci». Loos nei suoi scritti traccia deliziosi ritrattini letterari coi quali ridicolizza ricchi e borghesi arcicontenti, come quel tale che sente il bisogno di richiedere le prestazioni di un famoso architetto: «Mi porti l’arte, porti l’arte fra le mie pareti domestiche. Non bado a spese». A leggere questo racconto – dal titolo Da un povero ricco (Von einem armen reichen Manne) – potreste riconoscerci Hoffmann che progetta Palazzo Stoclet, oppure Van de Velde e Olbrich che disegnano persino abiti per le proprie consorti. L’architetto immaginato da Loos non si fa ripetere due volte la richiesta del suo nuovo cliente. Va a casa dell’uomo ricco, fa gettare via tutti i mobili – quelli grazie ai quali poteva condividere le sue radici familiari – per chiamare uno stuolo di parchettisti, decoratori, laccatori, muratori, imbianchini, falegnami, idraulici, fumisti, tappezzieri, pittori e scultori e in men che non si dica, l’arte è catturata, inscatolata, ben sistemata tra le pareti domestiche dell’uomo ricco. «L’uomo ricco era tutto felice. Tutto felice attraversava i nuovi locali. Dovunque posasse gli occhi si imbatteva nell’arte, ogni cosa esprimeva l’arte. Quando afferrava una maniglia posava la mano sull’arte, si sedeva sull’arte quando si abbandonava in una poltrona, sprofondava la testa nell’arte quando, stanco, poggiava la testa sui cuscini, i suoi piedi affondavano nell’arte quando camminava sui tappeti. Egli nuotava nell’arte con immenso fervore. Quando anche il suo piatto fu provvisto di decorazioni raddoppiò l’energia con cui si accingeva a tagliare il suo boeuf à l’oignon. Fu lodato. Fu invidiato. I periodici d’arte lo esaltavano come uno dei più grandi mecenati, i locali della sua abitazione furono riprodotti come esemplari, furono discussi e illustrati».

Adolf Loos, racconto dal titolo Da un povero ricco
(Von einem armen reichen Manne)

Un racconto immaginario che sintetizza il clima dell’epoca, dalla Secessione viennese di Klimt, Hoffmann, Helmer e tanti altri, alla Wiener Werkstätte che progetta e produce veri e propri gioielli artistici. A leggere gli scritti completi di Adolf Loos – da Parlato nel vuoto (1897–1900) a Tuttavia (1900–1931) – ci si trova davanti ad una fonte inesauribile di notizie, raccontate con impietoso sarcasmo, ma anche giocosa leggerezza. Questa, per esempio, sembra una spiritosaggine, ma per chi conosce Loos non è una novità: il suo modo di esprimersi è stato sempre sarcastico, enfatico, plateale. Un giorno incontra un famoso architetto di cui tace il nome: «Salve, ieri ho visto uno dei vostri appartamenti. Quello del dott. Y». Forse, attendendosi un complimento, come per schermirsi, quello risponde: «Per l’amor di Dio, non guardate quella bruttura. L’ho fatta tre anni fa». Al che Loos ribatte caustico: «Ho sempre creduto, caro collega, che ci fosse una differenza sostanziale tra noi. Ora mi accorgo che c’è solo una differenza di fuso orario. Una differenza di tempo, che può essere espressa anche in anni. Tre anni! All’epoca io stesso avevo detto che faceva schifo, voi lo state riconoscendo solo ora».

Adolf Loos, ritratto fotografico di 
Otto Mayer (intorno al 1904)

Adolf Loos è un tipo senza perplessità, sempre sicuro delle sue opinioni, che, intelligentemente, qualche volta rende malleabili. Racconta che la fabbrica francese Christofle aveva una filiale di fronte all’Opera a Heinrichshof. «Le vetrine non ti obbligano mai a fermarti». Per cui, dovendoci passare davanti ogni giorno, cerca di farlo in tutta fretta. Un anno accade qualcosa di speciale. «Tra i centritavola e le posate d’argento – le posate per chi sa mangiare, basate sui modelli inglesi, e quelle disegnate da Olbrich per le persone che non possono mangiare – era esposto un pinscher a grandezza naturale in porcellana bianca, smaltata. Solo gli occhi e il muso del cane erano colorati. Il mio primo pensiero è stato: Copenaghen. E ho cominciato ad ammorbidire il mio giudizio su Copenaghen». Esistono artisti, si domanda, che creano oggetti di questo tipo, oggetti che si desidera possedere? Come si chiama? Dove vive? Entra, chiede e si sente rispondere che l’uomo è morto forse da centocinquant’anni. Quella esposta è una copia della fabbrica di Sèvres. Costa troppo, non può permettersi l’acquisto, ma da quel momento Loos sta insieme a quel cane di porcellana tutti i giorni. Si limita ad ammirarlo in vetrina. «È andata così per un anno. Ma l’altro giorno la mia gioia si è trasformata in acqua. Il cane era sparito. Sono entrato e ho detto, dov’è il mio cane? Lo ha comprato un americano». Gli viene, però, assicurato, che presto, spedito l’ordinativo, una nuova copia del cane sarebbe stata in mostra. «Spero che gli americani utilizzino il marciapiede opposto» conclude Loos.

Pinscher tedesco, elegante cane a pelo raso
Adolf Loos con la cagnetta Beau-Beau, intorno al 1930
(Foto di Claire Beck)

Molte volte Loos riesce ad essere spiazzante. Claire Beck Loos (terza moglie dell’architetto) ne traccia un simpatico ritratto confidenziale. Ricorda quando, con un gruppo di amici, entrò nel negozio di un artigiano di ceramiche in un paese sperduto nei dintorni di Cannes. Loos si guarda intorno. Prende un piatto da zuppa da uno scaffale, lo osserva con attenzione e lo posa di fronte a sé. Il proprietario è in allarme. «Mi scusi, monsieur – dice – ma quello è uno scarto!» e, imbarazzato, toglie via il piatto. Loos lo guarda e ride. «Quel piatto è particolarmente bello. Vorrei dodici piatti da zuppa come quello». «Ma è stato un incidente se il marrone è finito sul giallo – risponde disperato il proprietario – Di sicuro non ricapiterà mai su dodici piatti!». «È davvero un grazioso incidente. Non importa se i colori non sono perfettamente uniformi. Mi faccia dodici piatti di scarto … proprio come quello» (Beck 2014).

Claire Beck Loos: Adolf Loos privato. Ritratto di un eccentrico genio

Potrei continuare a raccontare episodi umoristici di questo genere per mettere in luce il temperamento irriverente di Loos, ma forse ripercorrere brevemente gli anni, almeno fino al primo conflitto mondiale, potrebbe tornare utile per comprendere meglio l’architetto che tutti riconoscono come il precursore del Movimento moderno. Primogenito di tre figli, nasce il 10 dicembre 1870 a Brunn, in Moravia (oggi Brno, Repubblica Ceca) da Adolf Loos e da Maria Hertl. È uno studente intelligente, ma dal rendimento incostante, anche perché deve affrontare il continuo trasferimento in vari istituti scolastici. Completa le quattro classi del liceo a Jihlava, Melk e Brunn. Al Melk Abbey Gymnasium, per esempio, rimane solo un anno, il 1881, ma a causa degli scarsi voti la sua iscrizione è rifiutata. Dopo l’estate è trasferito al liceo di Igiau, in Moravia, dove conosce Josef Hoffmann. Frequenta, quindi, dal 1885 la Imperial-regia scuola professionale (K.K. Staats-Gewerbeschule) di Reichenberg, in Boemia, e si diploma alla Scuola Statale Tedesca per il Commercio a Brunn nel 1889. Studia poi, dal 1890 al 1893, presso il dipartimento di ingegneria strutturale dell’Università Tecnica di Dresda, ma anche qui interrompe gli studi per un anno per arruolarsi a Vienna come volontario nella polizia militare; quindi, sempre a Vienna, studia per un breve periodo all’Accademia di arti applicate. Rientrato all’Università, solo al terzo anno, cioè dal 1886, si dedica finalmente all’architettura e nell’estate del 1887 acquisisce anche un certificato di muratore presso l’impresa Czapka & Neusser in Moravia.

Vista dell’Home Insurance Building dell’architetto William Le Baron Jenney a Chicago, Illinois. Primo esempio di grattacielo.

Nell’estate del 1893, nonostante non conosca una parola d’inglese, con un solo biglietto da 50 dollari in tasca, parte per gli Stati Uniti. Il primo maggio si è, infatti, inaugurata l’Esposizione Universale di Chicago per celebrare il quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America. Qui prende atto, con grande meraviglia, di una città in fermento dopo distruzione quasi completa per il Grande incendio dell’8 ottobre del 1871. Le fiamme avevano ridotto in cenere le numerose case del centro che erano ancora in legno. Con la ricostruzione viene elevato il primo grattacielo della storia, l’Home Insurance Building e gli edifici che seguono danno origine alla decantata architettura della Scuola di Chicago. l’Home Insurance Building, progettato nel 1885 da William Le Baron Jenney aveva dieci piani d’altezza tirati su interamente con telaio metallico, sistema costruttivo brevettato da altri nel 1888. Dieci piani sono il doppio di quelli che Loos aveva potuto vedere fino ad allora. Ma ciò che più meraviglia è che, mentre in Europa ci si perde dietro un decorativismo inutile, a Chicago la sfida in altezza non si ferma. Nel 1889 John Wellborn Root fa svettare i diciassette piani del Monadnock Building, che detiene ancora oggi l’imbattuto record del più alto edificio con struttura portante in mattoni rafforzata da un telaio in ferro. Le nuove linee architettoniche e le tecnologie adottate, convincono il giovane Loos che occorre trovare forme espressive al passo con i tempi, superando l’Art Nouveau, «l’opera – come sosteneva Henry van de Velde – messa assieme, giudicata e studiata attraverso la sola qualità ovviamente comune a tutti: la novità». Ma per Loos l’Art Nouveau non era più una novità.

Adolf Loos, Parole nel vuoto (Ins Leere gesprochen), 1900 

A New York Loos vive in ristrettezze economiche e si mantiene con umili lavori occasionali, come garzone di un parrucchiere, lavapiatti, disegnatore e posatore di tarsie, infine dal 1894 è assunto come disegnatore in uno studio di architettura. Collabora anche con riviste in lingua tedesca. Di questa esperienza americana scrive: «L’uomo che possiede la cultura occidentale sa adattarsi immediatamente a quella cultura che corrisponde a un certo terreno, a una certa attività e a un certo clima. Ogni viennese può indossare scarpe chiodate, lederhosen corti al ginocchio e giacca in loden, quando va in montagna. Ma l’uomo di montagna non può indossare una redingote e un cappello a cilindro quando va in città». Loos vive a New York e in altre città degli Stati Uniti fino al 1896, poi rientra a Vienna, passando per Londra e Parigi. Ha guadagnato bene e può potersi di pagare il viaggio di ritorno.

Die Fackel, rivista in lingua tedesca pubblicata da Karl Kraus a Vienna tra il 1899 e il 1936

Dopo il rinnovato servizio militare, Loos entra nella società di costruzioni dell’architetto Carl Mayreder, da tre anni anche docente alla Technische Hochschule. Nel contempo scrive, acquisendo una certa notorietà attraverso i suoi articoli pubblicati su giornali e riviste in cui sostiene con tenacia e argomentazioni la riforma della professione. Trascorre le sue serate frequentando caffè e teatri, alla ricerca di una vita mondana che gli permetta di inserirsi nel cuore della società viennese fin de siècle. Al Cafè Griensteidl e al Cafè Central, stringe amicizia con due intellettuali di spicco, quali Peter Allenberg (pseudonimo di Richard Englander), eccentrico letterato più grande di una decina d’anni, e il coetaneo Karl Kraus, appartenente a una facoltosa famiglia ebrea di industriali della carta, che dal 1899 darà alle stampe la rivista Die Fackel (La fiaccola), attraverso la quale diffonderà critiche graffianti sulla società del tempo. Il lavoro professionale di Loos nei primi anni a Vienna riguarda solo la progettazione d’interni. Si occupa della ristrutturazione e dell’allestimento di banche, negozi e appartamenti, per i quali disegna anche gli arredi. Nel 1899 progetta il Café Museum all’angolo tra la Opemgasse e la Friedrichstrasse di Vienna, ancora oggi in funzione. Invece di realizzarne gli interni in tessuto felpato rosso – secondo l’arredamento consueto per i locali in voga – Loos decide di lasciare le pareti nude e di utilizzare dei mobili, da lui stesso disegnati, talmente essenziali che questo “disadorno” locale è subito soprannominato Café Nihilismus, in riferimento al rigetto di qualsiasi ornamento. ​

Adolf Loos, Café Museum, 1898-1899

«Adolf Loos si dimostra un sincero non-secessionista col suo caffè Museum; non nemico della Secessione viennese, ma qualcosa di diverso. Può essere in un certo modo nichilista, anzi molto nichilista, ma è attraente, logico, pratico, insolito» (Lajos Hevesi, Kunst auf der Strasse, Fremben Blatt, Vienna 30 maggio 1899).

Adolf Loos, American Bar Kärntner Durchgang Nr. 10, 1907

Subito dopo il Café Museum, Loos si occupa degli interni della casa del dottor Hugo Haberfeld in Alserstrasse. L’anno successivo esegue l’ammodernamento di una casa a Brunn e la sistemazione del Wiener Frauen-Club a Vienna. Sono lavori che lo pongono all’attenzione di una cerchia di persone benestanti, che conosce tramite l’amicizia di Karl Kraus e della sua cerchia, con cui condivide gli ideali di modernità. Realizza gli arredi dell’appartamento Turnowsky in Wohllebengasse e dell’appartamento Steiner in Gumpendorferstrasse. Sempre tramite Kraus progetta le abitazioni di Otto Stössl, due case per Chlotilde Brill Schweiger ed Elisabeth Reitler e poi gli appartamenti per i fratelli Alfred e Rudolf Kraus.

Villa Karma a Montreux, sulle rive del lago di Ginevra in Svizzera, 1904-1906

La prima grande opera di architettura di Loos è, tuttavia, la ristrutturazione e l’arredamento della Villa Karma a Clarens (Montreux) sul Lago di Ginevra dal 1903 al 1906 (completata dall’architetto croato Hugo Ehrlich dopo il 1908). A gennaio del 1903 il fisiologo viennese Theodor Beer, anche lui collaboratore come Loos della rivista Neue Freie Presse, lo aveva invitato a Clarens, per completare i lavori della sfarzosa villa. In questo progetto, Loos manifesta i suoi tratti caratteristici, come i corpi stereometrici – cubo e parte cilindrica – quali forme costruenti la geometria dello spazio edificato. L’interno è un susseguirsi di ambienti di diverse altezze e dai particolari tagli della luce. L’effetto decorativo è affidato ai materiali pregiati: marmo, legno, metallo. Utilizza vetri e specchi per conseguire illusioni spaziali.

Adolf Loos, Villa Steiner, nel 13° distretto di Vienna a St.-Veit-Gasse n. 10, 1910

Quando nel 1903 inizia Villa Karma, la rivista Kunst di Peter Altenberg il primo di ottobre esce con un supplemento interamente redatto da Loos e intitolato Das Andere. Ein Blatt zur Einfuhrung abendländischer Kultur in Osterreich (L’Altro. Foglio per la diffusione della cultura occidentale in Austria). Si prospettano vari allegati alla rivista, ma Das Andere si conclude già con il secondo numero del 15 ottobre, nel quale è inserito un polemico editoriale contro la Wiener Sezession.

L’Altro. Foglio per la diffusione della cultura occidentale in Austria

L’articolo è intitolato “Cosa ci vendono”. «In questa sezione – scrive Loos – voglio provare a educare il mio pubblico a conoscere. I fabbricanti di beni buoni benediranno il mio inizio, i fabbricanti di beni scadenti mi malediranno […] C’erano già approcci felici. Ricordo solo l’industria viennese della pelle, l’arte viennese dell’oreficeria. Era comprensibile quando qualcuno pagava per il suo desiderio di un buon materiale e di un lavoro corretto. Nessuno è mai stato considerato un idiota perché alla Würzl pagava quattro volte il prezzo di ciò che comprava in un negozio scadente per pochi soldi. Poi venne la Secessione e gettò fuori bordo tutte le buone idee. Tuttavia, alcuni mestieri furono risparmiati dalla Secessione. Lo dobbiamo a una fortunata circostanza se il Ministero della Pubblica Istruzione tuttora non ha nominato alla Scuola di Arti Applicate un artista “moderno” per la costruzione di carri, abbigliamento maschile e calzature. Per questo sono ancora all’apice».

Manifesto di Adolf Loos per la conferenza Ornament and Crime

La chiave per comprendere l’essenza della poetica di Loos è linguistica, afferma Luigi Prestinenza Puglisi, filtrata attraverso la riflessione di Karl Kraus, geniale indagatore dell’espressione verbale, direttore della rivista Die Fakel: «Un linguaggio scorretto – ecco la tesi di Kraus che sarà fatta propria da Loos, ma anche dal filosofo Wittgenstein e dal compositore Schönberg, tutti affezionati lettori della rivista – mischia fatti e valori. In architettura ciò avviene quando si vuole a tutti i costi rendere artistico il quotidiano, dando all’oggetto d’uso un’inusitata importanza. Quando si confonde l’urna con il pitale. È l’evoluzione culturale che porta a eliminare dal quotidiano la decorazione, togliendole la sua commistione con l’artistico. Se invece si vuole saltare il problema della civiltà, proponendo la scorciatoia dell’invenzione formale, non si possono che produrre disastri, rendendo retorico, cioè inautentico – e quindi brutto e farsesco – il mondo». Su questo, però, ci soffermeremo più attentamene, prendendo in considerazione Ornamento e delitto, il saggio più importante. Un saggio al quale Adolf Loos ha lavorato a lungo, limandolo e correggendolo, fino a modificarne l’anno originale in cui l’aveva composto per la prima volta, retrodatandolo al 1908 per assumere il primato nel confronto con i Secessionisti.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Oskar Kokoschka: “Non esiste un Espressionismo ma solo giovani che cercano di orientarsi nel mondo”

di Sergio Bertolami

36/3 – I protagonisti

Oskar Kokoschka (Pöchlarn 1886 – Montreux 1980). Nasce, nella periferia di una cittadina austriaca del sud, dalla modesta famiglia di un commesso viaggiatore e gli inizi sono abbastanza difficili. Le biografie, invece, tendono sempre all’esaltazione e fanno di suo padre un orafo cecoslovacco, mestiere praticato in realtà dai suoi antenati. La famiglia nel 1887 si trasferisce a Vienna e qui comincia la storia di un ragazzino capace di attirare l’attenzione come uno studente straordinariamente ricco di talento, ma poco incline alle regole ferree. Frequenta la KK Staatsrealschule Währing ed è accettato nella classe di Carl Otto Czeschka, designer di spicco della Wiener Werkstätte, che individua subito le qualità pittoriche del suo allievo. Così, dal 1905 al 1909, eccolo alla Kunstgewerbeschule di Vienna, la Scuola di arti decorative, architettura e arti applicate. Pittore preferito? Immancabilmente Vincent van Gogh. Nel prestigioso istituto, al quale ha potuto iscriversi usufruendo di una borsa di studio, insegnano anche i professori Josef Hoffmann e Koloman Moser. Non può meravigliare, dunque, se le sue prime commesse come artista free-lance gli vengono proprio dalla Wiener Werkstätte. Disegna manifesti, cartoline, dipinge ventagli per signora, e collabora all’allestimento del Cabaret Fledermaus, il locale alla moda che mette in scena vizi e virtù della società viennese. Nei primi anni, Oskar Kokoschka è ben accolto da chi circonda Gustav Klimt e Carl Moll e, grazie a questi, espone con il Gruppo Klimt alle due mostre d’arte del 1908 e 1909. Il plauso, gli viene anche da un intellettuale come l’architetto Adolf Loos, talmente lontano dallo stile Art Nouveau, prevalente all’epoca, che Kokoschka ne rimarrà sempre più influenzato. Loos lo introduce nei circoli dell’avanguardia che fanno riferimento a Karl Kraus, Peter Altenberg e Arnold Schönberg.

Vista aerea di onde che si infrangono sulla spiaggia.
Vista aerea di onde che si infrangono sulla spiaggia.
Oskar Kokoschka, I ragazzi che sognano, ristampa del 1917

Da subito, il giovane gode del successo ottenuto con il suo libro di fiabe. Nel 1907 Fritz Waerndofer, finanziatore della Wiener Werkstätte, aveva infatti commissionato a Kokoschka, ancora studente alla Kunstgewerbeschule, un racconto illustrato per i suoi figli. Gli promette che le tavole originali a colori del libro per bambini sarebbero state esposte alla mostra Kunstschau del 1908. Il giovane, perspicace, coglie l’occasione per elaborare delle immagini che interpretano una sua poesia scritta un anno prima, Die träumenden Knaben (I ragazzi che sognano). Kokoschka confeziona un libro d’artista composto da alcune pagine introduttive con due litografie in bianco e nero e da otto pagine di immagini e testo nelle quali descrive il risveglio della sessualità adolescenziale connesso con la paura di dover lasciare il paradiso dell’infanzia. Le immagini ambientate in isole esotiche richiamano alla memoria Gauguin, mentre il testo allude sia alla letteratura classica di Goethe, sia a quella contemporanea del viennese Altenberg. Nell’autobiografia, apparsa nel 1971, Kokoschka ha spiegato le origini della poesia, nata dalla sua esperienza personale di studente, innamorato della sua compagna di classe svedese Lilith. Quando propone questa sua fantasia adolescenziale autobiografica, l’opera naturalmente appare inappropriata per un pubblico infantile. L’editore, che avrebbe dovuto dare alle stampe il libro, da includere in una serie per bambini, dopo aver visto le bozze di Kokoschka, decide di ritirare la propria offerta. Il libro viene ugualmente pubblicato, ma direttamente dalla Wiener Werkstätte ed è tirato in 500 copie, che saranno vendute con non poche difficoltà. Tuttavia, nel 1917, il volume sarà ristampato, in altri 275 esemplari numerati, dall’editore Kurt Wolff amico dell’artista. L’opera dedicata dall’autore a Klimt, dal quale ha ripreso il formato quadrato, è oggi celebrata dalla critica come il passaggio di Kokoschka dallo Jugendstil all’Espressionismo.

Oskar Kokoschka,
Assassino, speranza delle donne, 1909

Tra il 1908 e il 1909 Kokoschka compone due opere teatrali – Uomo di paglia e sfinge, nonché Assassino, speranza delle donne – ritenute tra le prime sperimentazioni dell’Espressionismo letterario austriaco. L’epiteto di Oberwildling (Super selvaggio), come viene presto soprannominato dalla stampa, Kokoschka se lo guadagna allorché inscena all’Internationale Kunstschau proprio il dramma Assassino, speranza delle donne (Mörder, Hoffnung der Frauen). Ha solo ventidue anni, ma lo scossone che provoca rappresenta l’inizio promettente di una carriera artistica sfolgorante. Un anno dopo pubblica il copione sulla Rivista berlinese Der Sturm di Herwarth Walden, che non riproduce l’autentico testo recitato a Vienna, visto che l’autore ha distribuito agli attori soltanto fogli volanti di appunti. È, insomma, un rifacimento in progress che riunisce ben quattro redazioni diverse dell’opera, scritta fra il 1907 e il 1910. La rappresentazione teatrale, nondimeno, scatena a Vienna un vero scandalo, tanto da creare a Kokoschka problemi anche all’interno della stessa Scuola di Arti Applicate, dove prenderà presto a lavorare come assistente. Persino l’arciduca erede al trono, raccapricciato, inveisce che dovrebbero «rompere tutte le ossa» che ha in corpo all’autore che ha composto quel repellente dramma e uno dei critici più in vista dell’epoca, Ludwig Hevesi, non manca di chiosare: «Il nome dell’Oberwildling è Kokoschka», ma in questo caso quello di Hevesi va colto come un complimento. L’agitazione del pubblico nasce perché alla rappresentazione scenica si assomma anche il tema orrido del manifesto che lo pubblicizza. Una donna pallida tiene fra le braccia il suo uomo grondante di sangue, apparentemente morto. Sullo sfondo compaiono Sole e Luna simboli della battaglia fra sesso maschile e sesso femminile. In breve, alla prima del 4 luglio 1909, l’opera espressionistica suscita l’ira tra gli spettatori.

Oskar Kokoschka con la testa rasata, 1909

Per sottolineare come l’ostracismo del pubblico lo avesse colpito, Kokoschka si fa ritrarre in una foto per Der Sturm con la testa rasata. Non ha tutti i torti, dal momento che i viennesi per molto tempo non lo capiranno affatto, pur precipitandosi alle sue esposizioni, così «da ridere a crepapelle», come ricorderà Loos. I due anni della mostra Kunstschau, contribuiscono tuttavia a far conoscere il nome di Kokoschka, il quale sdegnato volge le spalle alla metropoli del Danubio e si orienta verso la Germania della rivista di Walden o della Brücke e del Blaue Reiter. Espone con Wassily Kandinsky e Franz Marc. Nel 1910, lo stesso anno in cui è fondata la Neue Secession, Kokoschka si trasferisce a Berlino. Il mercante d’arte Paul Cassirer lancia l’artista nell’ambiente internazionale e, solo nel primo anno di attività, Herwarth Walden, editore e critico d’ arte al quale Kokoschka è presentato da Loos, lo incarica di realizzare ben ventotto disegni per la rivista Der Sturm.

Oskar Kokoschka, La bella pattinatrice a rotelle,
frontespizio del periodico Der Sturm Settimanale della cultura e dell’arte, vol. 1, n° 37 (10 novembre 1910)

L’incomprensione da parte del pubblico, in effetti, intacca lo stato d’animo del giovane e gli crea problemi esistenziali. Ricorda Kokoschka nella sua biografia che, quantomeno, per tutto il 1910 quasi morì di fame, e la situazione si protrasse inizialmente anche a Berlino. Qui, però, incontra diversi scrittori e artisti dell’entourage della rivista e della galleria Der Sturm. Così commenta: «Conoscevo personalmente pochi membri del circolo Sturm e mi interessavo molto poco dei loro problemi formali o delle loro idee morali. Non ho contribuito a manifesti programmatici, nemmeno con una firma. Non avevo intenzione di sottomettere la mia indipendenza conquistata a fatica al controllo di qualcun altro. Questa è la libertà per come la intendo io». Naturalmente, i programmi d’azione di quei movimenti artistici tedeschi sono anche per lui, austriaco, di stimolo e di sostegno. Lo coinvolgono emotivamente e concretamente, sia chiamandolo a partecipare agli eventi, sia nel personale processo creativo. Anche se, in età matura, l’Espressionismo di quegli anni, in quanto a concezione del mondo (Weltanschauung), non sembrerà più appartenergli. «Non esiste – asserisce – un Espressionismo tedesco, francese o angloamericano! Ci sono solo giovani che cercano di orientarsi nel mondo».

Oskar Kokoschka, Ritratto di Hans Tietze e Erica Tietze-Conrat, 1909

Adolf Loos gli fa da mecenate: presenta il giovane pittore ai collezionisti della ricca società viennese e a metà ottobre 1909 si fa accompagnare da lui in un viaggio in Svizzera, a Leysin, vicino al lago di Ginevra. È qui che Kokoschka per la prima volta s’impegna sulla pittura di paesaggio. Ed è sempre qui, che dipinge il ritratto di Adolf Loos e di sua moglie Bessie Bruce. Con l’appoggio del suo amico architetto, da questo momento, Kokoschka si dedicherà ai ritratti e lo farà solo in questi anni. Ottiene, infatti, un inaspettato successo, tanto da farlo considerare in tale genere di pittura la punta di diamante delle avanguardie. In realtà, la maggior parte delle commissioni di Kokoschka viene da clienti di Loos, che, in un certo senso, gli ordina i ritratti ogni volta che stringe una sorta di patto con i suoi amici, dichiarandosi disponibile ad acquistarli lui stesso se avessero preferito non farlo a lavoro concluso. In pratica, a partire dal 1909, Kokoschka rompe con l’idea, comunemente diffusa, dei ritratti rappresentativi. Ciò che l’artista pone sulla tela è il proprio mondo emotivo, nell’intento di afferrare nei suoi modelli un qualche aspetto visionario, anche allontanandosi dal reale e mettendo in mostra persino la bruttezza, al punto di deformarne il corpo. Dipinge ad esempio con pennello, mani e unghie, il ritratto di Hans Tietze e Erica Tietze-Conrat nella loro biblioteca, lasciandoli liberi di continuare a lavorare alla scrivania o muoversi nell’ambiente, mentre lui li osserva. L’anno dopo altri due ritratti: il primo dedicato alla duchessa Victoire de Montesquiou-Fezensac, il secondo al marito. Dopo altri ritratti degli amici viennesi, come quello di Felix Albrecht Harta, cofondatore della Secessione viennese, il ritratto del professore Auguste Forel, famoso biologo, dell’amico Karl Kraus e dello scrittore Ludwig Ritter von Janikowsky, Kokoschka ritrae Herwarth Walden (1910), l’attore Karl Etlinger (1911), Frau Karpeles (1911) ed Emil Löwenbach (1914) e continuerà anche durante la guerra col ritratto di Hermann Schwarzwald (1916).

Oscar Kokoshka, Doppio ritratto con Alma Mahler, 1913

Il ritratto che più lo coinvolge, sicuramente, è quello di Alma Schindler, vedova da un anno del compositore Gustav Mahler, figlia del paesaggista Emil Jacob Schindler e (dopo le seconde nozze di sua madre) figliastra del pittore Carl Moll. Una delle più belle ragazze di Vienna, circondata da uno stuolo di ammiratori legati al mondo degli affari, della scienza e dell’arte, che frequentano il suo salotto. Kokoschka s’innamora perdutamente della modella al suo primo ritratto, anche se più che della donna è verosimile che sia conquistato dall’ideale femminile che rappresenta: donna seducente ed emancipata, indipendente finanziariamente, colta, artisticamente talentuosa, aspirante cantante lirica e compositrice di Lieder per voce e pianoforte. Una “leonessa dei salotti viennesi”. Da parte sua, dopo la morte del marito, Alma sta vivendo un periodo di incertezza emotiva e sentimentale. Anche se il pittore appare impacciato, timido, colpito, ne scaturiscono tre anni di passione turbolenta fra due persone che non avrebbero mai potuto vivere insieme. Con Alma, Kokoschka viaggia in Italia, dove rimangono impressionati in particolare da Tintoretto, ma soprattutto dipinge e manifesta il lato peggiore del suo carattere inquieto. Oskar e Alma stringono una relazione tanto segreta quanto segnata da scene esagitate da sospetti e litigi. Una storia che ha interessato da vicino anche un romanziere come Andrea Camilleri (La creatura del desiderio, 2013). Alma rimane incinta e asseconda Oskar a portare avanti la realizzazione di un tetto sotto cui vivere insieme. Il pittore è però folle di gelosia. Non vuole neppure che alcun ricordo appartenuto a Mahler entri nella nuova casa, neppure il busto realizzato da Auguste Rodin. Quando vede recapitare la cassetta che racchiude la maschera mortuaria di Mahler, Kokoschka stravede. La scaglia a terra e offende la giovane vedova e persino il bambino che porta in grembo. In una lettera scrive: «Non posso venire da te in pace finché so che un altro uomo, vivo o morto, ti possiede. Perché mi hai invitato a un ballo di morte e mi costringi a rimanere in silenzio, per ore e ore a guardare la tua schiavitù spirituale, mentre segui il ritmo di un uomo che fu e che deve essere un estraneo per te?». Alma decide di abortire e avviare il rapporto alla sua conclusione. Anche perché non è sola. Torna, infatti, da Walter Gropius – l’architetto che sarà uno dei fondatori del Bauhaus – col quale aveva già intessuto una romantica amicizia, quando Mahler era ancora in vita. Lo raggiunge a Berlino e lo sposa nel 1915.

Oskar Kokoschka, La sposa del vento, 1913

L’appassionato amour fou di Kokoschka si riverbera in numerose opere artistiche e letterarie. Le litografie della Bach-Kantate sono un esempio. Undici illustrazioni della cantata n. 60 di Bach, O Eternità, Tu Parola del Tuono, nelle quali Kokoschka interpreta il ruolo di Hope, mentre Alma Mahler interpreta Fear. Il dialogo tra Paura e Speranza tessuto in musica da Bach serve all’artista ad intrecciare allusioni biografiche sul suo rapporto d’amore con Alma. Lo stesso vale per il lavoro teatrale Orfeo ed Euridice. È però La sposa del vento (2014) la tela più famosa di Kokoschka, che materializza il tormento di quei giorni. I due amanti sono rappresentati sulla fragile imbarcazione della loro esistenza, appena accennata, sommersa dall’andamento ondoso, in un turbinio di pennellate dai colori freddissimi e profondi, in procinto di essere travolti. Da una parte Kokoschka raffigura la tenerezza dell’abbraccio con Alma, mentre la protegge dalle minacce incombenti, dall’altra raffigura la tempesta che a breve sconvolgerà l’Europa con la guerra. Quando l’anno seguente la relazione fra i due avrà irrimediabilmente fine e il conflitto è già in atto, il pittore non saprà darsi pace.

Oskar Kokoschka volontario nel 15° Reggimento Dragoni

All’inizio del 1915, Kokoschka compra un cavallo, che porta con sé quando si offre volontario per il fronte. «Al mio felice ritorno dalla guerra non mi avrebbe aspettato nessuna donna, nessun bambino. Di sicuro, non avevo niente da perdere in guerra né da difendere». Anche per arruolarsi la mediazione dell’amico Adolf Loos è necessaria, affinché Kokoschka possa essere ammesso nel 15° Reggimento Dragoni imperiali “Arciduca Giuseppe”, l’unità di cavalleria più illustre del regno. Le esperienze di guerra di Kokoschka in Galizia e Ucraina, così come sul fronte isontino, le sue due ferite e il suo successivo soggiorno nel sanatorio militare a Dresda – nonché gli intellettuali che incontrerà nel dopoguerra, come il dottore Fritz Neuberger, lo scrittore Walter Hasenclever o l’attrice Käthe Richter – influenzeranno la trasformazione dell’artista in un convinto oppositore della guerra e in un manifesto pacifista ad oltranza.

La creatrice di bambole Hermine Moos con la bambola realizzata per Oskar Kokoschka, 1919

Gli orrori non gli hanno fatto dimenticare, tuttavia, la sua delusione d’amore. Nell’ospedale di Dresda, trova collegamenti artistici con l’accademia locale; ma trova anche un’abile artigiana che, su sua indicazione, può realizzargli una bambola a grandezza naturale con le fattezze di Alma. Non le assomiglia granché, ma cosa importa a chi sta delirando? Fortunatamente Kokoschka rinsavisce, disfacendo la bambola e fugando i demoni che hanno pervaso la sua mente. Seguiranno anni di viaggi e peregrinazioni: in Europa, Oriente, Nord Africa. Farà ancora ritorno a Vienna, mentre la Germania di Hitler bandisce anche lui come rappresentante dell’Arte degenerata, confiscando 417 dipinti dai musei.

Oskar Kokoschka, Autobiografia
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Oskar Kokoschka, Salisburgo 1957

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Egon Schiele: “L’Arte non può essere moderna, l’Arte appartiene all’eternità”

di Sergio Bertolami

36/2 (Parte seconda) – I protagonisti

Con l’idea che non esista un’arte moderna, ma eterna, Egon Schiele dal 1909 entra a pieno titolo nella cerchia dei pittori di primo piano. Fa parte del “gruppo Klimt”. La Weiner Werkstatte stampa tre sue grafiche. Già nel 1911 gli è riservata una monografia scritta dall’amico Albert Paris von Gütersloh, uno degli artisti del suo stesso Neukunstgruppe. Nel medesimo anno, Arthur Roessler ne recensisce le opere per il mensile Bildende Künstler. A Vienna partecipa alla mostra collettiva della Galleria Miethke. In questo momento, Schiele si esprime con toni alquanto cupi e sottilmente sfumati, le cui forme s’ispirano in modo evidente a Klimt. Nondimeno, il suo è l’esempio dei mutamenti che concretizzano la formazione di uno stile espressionista anche in Austria e che segnano il definitivo superamento della Secessione. Schiele firma i suoi schizzi, ad acquerello o ad olio su carta, come vere e proprie opere d’arte. L’incompiutezza dei suoi lavori estemporanei caratterizza pienamente il processo artistico che utilizza anche nei dipinti ad olio. Rispetto a Klimt, elimina gli sfondi virtuosistici e concentra l’attenzione sui soggetti, il più delle volte appena abbozzati, con un disegno aspro dalle linee dure e sofferte. Rinuncia del tutto al gusto della decorazione ornamentale e preziosa, in totale contrasto con le morbidezze dell’Art Nouveau. Il confronto tra Schiele e Klimt è ricco di suggestioni e infervora gli stessi due artisti, raffinati ed espressivi. Ma ciò che marca la differenza, quasi antitetica, è la loro contrapposta visione dell’esistenza. In Klimt vive ancora la speranza di poter vincere il male, il dolore, con la forza purificatrice dell’arte – così come ne parlava Friedrich Nietzsche in Umano troppo umano – in Schiele, al contrario, domina un amaro pessimismo, nei confronti delle proprie fragilità di artista e di uomo, ma soprattutto nei confronti di una società arroccata in convinzioni conservatrici, da espugnare provocatoriamente. L’esempio più evidente lo troviamo nei ritratti che hanno per tema la donna. Per Schiele è come quando ci si guarda allo specchio e non si hanno occhi che per sé stessi. Allo specchio ha realizzato, non solo gli autoritratti, ma molti dei suoi nudi femminili, restituiti con lo sguardo di un amante che, dinanzi al corpo dell’innamorata, dimentica l’esistenza del mondo che lo circonda. Ecco perché riesce ad esprimere in questi nudi tutta la sua autenticità.

Egon Schiele disegna una modella nuda davanti a uno specchio, 1910

L’immagine che ha Klimt delle donne è l’esaltazione del corpo femminile come espressione della natura, anche quando viola il comune senso del pudore. Schiele, parte da qui, sfidando volutamente pudore e tabù sessuali del suo tempo. In contrapposizione con i disegni di nudo accademici, apparentemente neutri nelle loro rappresentazioni anatomiche, sempre alla ricerca di una sublimata perfezione, Schiele mostra esplicitamente corpi nel momento dell’eccitazione. Conosce perfettamente i segnali erotici che la società utilizza, ma non ritrae labbra carnose dipinte di rosso, occhi cerchiati di nero pesto. Schiele sciocca i suoi spettatori d’inizio secolo con immagini esplicite, difficili da esporre ancora oggi. Basti pensare a opere come Osservato in un sogno oppure L’ostia rossa, ambedue del 1911. Nel primo, il volto della modella è parzialmente coperto da un velo, al contrario delle sue intimità esibite senza riserbo; nel secondo – che è pure un autoritratto – anziché la bianca ostia del pane consacrato citata nel titolo, espone all’adorazione un enorme fallo eretto, ardente per le carezze dell’amante. Suonerebbe falso far finta d’ignorare che tali soggetti erotici erano acquistati riservatamente, e ad un prezzo maggiorato, da un pubblico amatoriale e che presto disegni ed acquerelli sarebbero stati ampiamente sostituiti da album fotografici. Oggi mostrare immagini forti come L’origine del mondo di Gustave Courbet o gli amplessi fra Jeff Koons e la moglie Cicciolina, fanno molto “intellettuale”: metabolizzate, non suscitano più scandalo. Non era, comunque, così all’epoca di Schiele, perché proprio a causa dei suoi ritratti, reputati spropositatamente spinti e indecenti, dovette patirne le conseguenze.

Egon Schiele, Ragazza con le calze grigie, 1917

«Vienna è piena di ombre, la città è nera – scrive nel suo diario – Voglio essere solo [nei] boschi boemi, ché non ho bisogno di sentire nulla di me stesso». Decide, quindi, di trasferirsi a Krumau, città natale di sua madre. Willy Lidl gli procura una casetta appartata, con giardino, nella quale impianta l’atelier. Aveva conosciuto l’amico Willy quando, con i compagni della colonia del Neukunstgruppe, una prima volta a Krumau aveva già trascorso un’estate. Gli facevano strada sua sorella Gerti e Anton Peschka, che più tardi la sposerà, e Erwin Osen con la fidanzata del momento, una danzatrice di nome Moa, che per gli artisti farà da modella. In quell’occasione Willy Lidl aveva confessato ad Egon la sua profonda tenerezza e lui lo ritrarrà nel 1910. A Krumau, questa volta, è accompagnato da Wally (Valerie Neuzil), il primo vero amore della sua vita. È una delle modelle che gli presta Klimt, del quale dicono che sia anche l’amante. Da questo momento sarà solo per Schiele. Si apre una fase creativa molto intensa. Vedute dei dintorni agresti o del borgo, ma soprattutto studi di nudo incentrati sulla convivenza erotica dei due giovani. Questa strana e illecita situazione – e quel gironzolare di ragazzini e ragazzine incuriositi, che spesso si prestano a fare da modelli – porta a dicerie che si trasformano in aperto conflitto. Tra la fine di luglio e primi d’agosto del 1911, Egon e Wally devono lasciare Krumau e si trasferiscono a Neulengbach, una cittadina vicino a Vienna. Nell’autunno del 1911 e nel primo trimestre dell’anno successivo Schiele crea opere di pittura rivoluzionarie, come la Città morta o il Municipio di Krumau, Paesaggio con corvi, Gli eremiti, Donna in lutto, Cardinale e suora e una serie di Alberi in autunno.

Egon Schiele, Wally, 1912

Vivere nel peccato con l’ancora minorenne Wally irrita la popolazione di una città di provincia come Neulengbach. La pensano diversamente i ragazzi che preferiscono oziare nello studio di Schiele. Il suo amico biografo Albert Paris von Gütersloh ha descritto l’atmosfera libertaria che vi si viveva: «Beh, hanno dormito, si sono ripresi dalle sberle dei genitori, hanno oziato pigramente, cosa che non era permesso fare a casa loro». Il colpo di scena avviene il 13 aprile 1912, quando Schiele a Neulengbach viene arrestato. Una quattordicenne, Tatjana von Mossig, scappata di casa ha trovato riparo da Egon. Il padre, alto dirigente del Ministero della Marina, lo ha denunciato per sequestro di persona e stupro. Non c’è da meravigliarsi che una preadolescente, sognatrice, si fosse invaghita di Schiele. Gütersloh lo descrive come «eccezionalmente bello», di aspetto curatissimo, sempre sbarbato ed elegante, dai modi raffinati. Esattamente il contrario di come amava ritrarsi: la fronte alta, gli occhi sbarrati e profondi che sbucano dalle orbite, espressione tormentata, corpo emaciato, mani ossute come quelle di uno scheletro. Nel suo Diario dal carcere, il 18 aprile 1912 scrive: «Devo vivere con i miei escrementi, respirarne l’esalazione velenosa e soffocante. Ho la barba incolta – non posso nemmeno lavarmi a modo. Eppure, sono un essere umano! Anche se carcerato. Nessuno ci pensa?». Carl Reininghausen, influente collezionista di Schiele, gli procura un avvocato, ma gli toglie il confidenziale “tu”. L’accusa principale di aver sedotto la ragazzina si rivela infondata, visto che da un accertamento risulta ancora illibata. Schiele è, però, condannato all’arresto, perché gli adolescenti hanno potuto vedere affissi al muro dei «disegni indecenti» e uno di quei nudi, servito come atto d’accusa, viene pubblicamente bruciato in aula a conclusione del processo. A St. Pölten, Schiele trascorre in custodia gli ultimi ventiquattro giorni che gli rimangono da scontare. Continua a lavorare lo stesso, anche senza strumenti: «Mi sono messo a dipingere per non impazzire del tutto. Servendomi delle macchie nell’intonaco ho creato paesaggi e teste sulle pareti della cella, poi osservavo il loro lento asciugarsi fino a impallidire e svanire nella profondità del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata».

Egon Schiele, L’unico arancione era l’unica luce, 19.04.1912 , acquarello e matita su carta

Nel 1912, insieme al gruppo da lui fondato, espone col Der Blaue Reiter a Budapest, di nuovo a Monaco ed Essen. A novembre torna a Vienna e si trasferisce in un atelier nella Hiertzinger Hauptstrasse, da cui non si sposterà più. Klimt lo presenta al collezionista August Lederer, che gli chiede di impartire lezioni al figlio Erich. Franz Pfemfert pubblica poesie e disegni di Schiele sul periodico berlinese Die Aktion. Tre delle sue opere sono richieste per una mostra internazionale a Colonia e una litografia appare nel portfolio della casa editrice Delphin di Monaco di Baviera. Nel 1913 è ammesso alla Federazione degli artisti austriaci (Bund Österreichischer Künstler), di cui Gustav Klimt è presidente, e nel medesimo anno si reca a Monaco, dove espone in una collettiva alla Galerie Golz. Sembra che il motore abbia impresso tutta la sua spinta, ma il 28 luglio 1914 è ufficialmente dichiarata la guerra tra l’Impero Austro-Ungarico e la Serbia. Schiele commenta: «Viviamo nel periodo più violento che il mondo abbia mai visto. Centinaia di migliaia di persone moriranno miseramente, ognuno dovrà sopportare il proprio destino o vivendo o morendo. Siamo diventati duri e senza paura. Ciò che era prima del 1914 appartiene a un altro mondo». Nonostante tutto, Schiele tiene abilmente in mano le redini della sua carriera e continua imperterrito il lavoro. Come sosteneva in quegli stessi anni Kandinsky: «Il cavallo porta il cavaliere, ma è il cavaliere che guida il cavallo». È ormai un artista internazionale. Anton Josef Trèka lo fotografa in pose stravaganti da pantomima. Nel 1915 espone alla Galerie Arnot viennese una mostra esclusiva di sedici dipinti, acquerelli e disegni: tra questi, l’Autoritratto in cui si raffigura come un moderno San Sebastiano vittima delle frecciate dei suoi detrattori. Nel 1916 Die Aktion pubblica un Libretto Egon Schiele che, oltre alle riproduzioni dei suoi disegni, contiene una sua xilografia.

Egon Schiele, manifesto per la personale alla Galerie Arnot, 1915

L’arte s’intreccia sempre con la realtà della vita. Schiele è ritenuto idoneo e arruolato al “servizio per un anno” – concesso a chi possiede un titolo di studio – nel 75° reggimento fanteria imperiale e reale. Ne consegue che impedito nel suo lavoro creativo, a corto di denaro, dovrà chiudere lo studio. Non è possibile. Ha un’idea: di fronte all’atelier abitano i suoi padroni di casa, i coniugi Harms della media borghesia, che hanno due giovani figlie, Edith e Adele. Le ragazze, per vanità, si sono concesse al pittore come modelle, che ne ha approfittato per farsi pagare le prestazioni. Schiele propone a Edith, che è maggiorenne, di sposarlo. Edith, da lui affascinata, accetta, ma gli chiede di rompere la relazione con la sua modella. Il pittore, con freddezza, informa perciò Wally della sua decisione di unirsi in matrimonio con Edith, solo per interesse. Per lui è un matrimonio socialmente vantaggioso, per cui le propone il classico triangolo amoroso. Forse la sorte della ragazza sarebbe stata differente, se non si fosse trovata in questa sventurata situazione. Wally delusa entra nella Croce Rossa come infermiera volontaria e al fronte morirà nel 1917 affetta da scarlattina. Il capolavoro allegorico che Schiele dipinge racchiude tutto il senso tragico di questa vicenda. Al momento del distacco s’intitolava L’Uomo e la Ragazza. Prostrata si aggrappa all’innamorato, incapace di trattenere la sua fragile presa. Il lenzuolo bianco, che sembra avvolgere le due figure rannicchiate, ora appare come un sudario. Quando Schiele è informato della morte di Wally cambia il titolo, ricalcando il Quartetto in re minore di Franz Schubert, pubblicato postumo nel 1831. Questo è quanto dicono i critici d’arte, spesso dimentichi di cosa sia il dolore vero e non letterario. La Morte e la Fanciulla, rappresenta in realtà la presa di coscienza di Schiele di essere stato la causa di una decisione che, forse, poteva evitare.

Egon Schiele, La Morte e la Fanciulla, 1915

Il 17 giugno 1915, infatti, cinque giorni dopo il suo venticinquesimo compleanno, Schiele aveva sposato Edith Harms e immediatamente dopo era partito per il servizio militare in Boemia. Nel 1916 è recluso nel campo di prigionia russo situato a Mühlung vicino a Wieselburg. Liberato, un anno dopo, torna a Vienna per lavorare nel Museo dell’esercito. Potendo usufruire di congedi parentali, sua moglie gli fa da modella, ma quando rimane incinta Schiele riprende a cercare altrove delle figure esili. Nel 1918 sul suo taccuino sono registrate centodiciassette sessioni di posa con altre modelle. Disegna in continuazione, producendo studi e immagini per libri o riviste. Lavora per il periodico The Dawn. Il libraio viennese Richard Lanyi pubblica un portfolio con dodici collotipie. Scrive al cognato, incitandolo ad afferrare ogni momento libero dal servizio militare per disegnare: «Da quando ci ha colpito il sanguinoso terrore della guerra mondiale, alcuni probabilmente si saranno resi conto che l’arte è più di una semplice questione di lusso borghese».

Egon Schiele, La famiglia, 1918

Dopo l’inattesa morte di Klimt, su Schiele si concentra l’attenzione degli ambienti artistici viennesi. Alla 49a esposizione della Secessione, nel 1918, porta diciannove grandi dipinti e ventiquattro disegni. Franz Martin Haberditzl acquista per la Moderne Galerie il Ritratto di Edith. Chiede però una modifica, poiché l’ha trovata troppo indecente e Schiele lo accontenterà coprendola con una gonna. Sbaglia chi nella profusione di biografie insiste, in modo melenso, su di uno Schiele presago dell’imminente fine. Fra gli ultimi suoi dipinti c’è La Famiglia: la figura dell’uomo racchiude e protegge la donna, che, a sua volta, racchiude e protegge il bambino. Adele, la sorella di Edith, ricorda in uno scritto come il bambino di questo dipinto fosse stato ideato «come un mazzo di fiori». Sembra quasi che Schiele abbia raggiunto finalmente una stabilità interiore. Già immagina un atelier più grande, perché i locali in cui ha prodotto i lavori di questi ultimi anni li vede trasformati in una scuola. Ha in progetto un Centro d’arte dove fare coesistere varie discipline, dell’arte visiva alla musica e alla letteratura. I membri fondatori dovrebbero essere Schönberg, Klimt, Hofmann. La morte lo coglie il 31 ottobre, tre giorni dopo sua moglie e il figlio che porta in grembo. Tre giorni dopo ancora, il 3 novembre 1918, capitola anche l’impero Austro-Ungarico e tutta un’epoca.

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Egon Schiele: “Fanno un sacco di pubblicità con i miei disegni proibiti”

di Sergio Bertolami

36/2 (Parte prima) – I protagonisti

Non soltanto la guerra, ma anche la pandemia d’influenza spagnola, falcidiarono milioni di vittime. «La guerra è finita e devo andare – scrive Egon Schiele ansioso di riprendere a pieno ritmo il suo lavoro d’artista – I miei dipinti saranno esposti in tutti i musei del mondo». In quell’anno 1918 arriva la tanto sognata svolta con la 49ª mostra della Secessione. Schiele espone 19 tele ad olio e una trentina fra disegni ed acquerelli: vende ben cinque dipinti. La Österreichische Galerie Belvedere acquisisce il Ritratto di Edith, sua moglie: è il primo acquisto di una sua opera da parte di un museo austriaco. È lui che disegna il manifesto dell’importante mostra: una specie di tavola rotonda dell’avanguardia austriaca. Schiele siede a capotavola, gli altri personaggi rimangono indistinti, sono artisti e ammiratori del suo lavoro: Georg Merkel, Willi Novak, Felix Harta, forse Otto Wagner. Dicono che la sedia vuota in primo piano era nei disegni preparatori occupata dalla figura di Klimt. Al momento di andare in stampa il maestro era già morto e quindi, nella versione finale, Schiele lasciò la sedia vuota. L’influenza spagnola già impazzava anche a Vienna e Gustav Klimt era stato una delle prime vittime. Colpito da ictus l’11 gennaio 1918, al rientro da un viaggio in Romania, è ricoverato d’urgenza e in ospedale si contagia, morendo per infezione polmonare provocata dal virus, il 6 febbraio, a soli 56 anni.

Egon Schiele, manifesto per la 49ª mostra della Secessione, 1918

La medesima sorte tocca in autunno allo stesso Schiele, il prediletto di Klimt. E dire che, per ironia, per scongiuro o, davvero, presago di una presumibile e imminente fine a causa della pandemia, in quello stesso anno Schiele aveva progettato un mausoleo per sé e per sua moglie. In una fotografia dell’artista sul letto di morte (ritratto da Martha Fein) ha la testa appoggiata sul braccio piegato come se dormisse, in una delle pose da pantomima raffigurate nei disegni che lo hanno reso celebre. Si è spento il 31 ottobre 1918, tre giorni dopo sua moglie, Edith Harms, incinta di sei mesi. Per evitare l’infezione, chi veniva a fargli visita comunicava con lui attraverso uno specchio, posto sulla soglia tra la stanza da letto e l’atelier. Lo stesso specchio che usava per ritrarre le modelle. Durante la sua esistenza brevissima, conclusa a 28 anni – di cui poco più che una decina dedicati all’arte – ha prodotto 334 dipinti ad olio e 2.503 disegni. Carattere insofferente ma vitale, elegantissimo dandy, dall’abilità grafica straordinaria, ha ottenuto consensi sin dall’inizio del suo promettente lavoro di studente. Tra il 1906 e il 1909, quando ancora frequenta l’Accademia di Vienna, è accolto con entusiasmo nella cerchia sofisticata ed estetizzante di Klimt e di Hofmann, semplicemente esibendo l’album dei suoi lavori. Per gli intellettuali ed artisti che lo elogiano rappresenta il senso concreto di quel clima innovativo e lineare dello stile Jugend. Raffigura ritratti di amici ed autoritratti, nature morte e paesaggi di case, ma soprattutto un’infinità di nudi. Terribilmente non convenzionali. Così mentre Sigmund Freud mette in evidenza le turbe represse della società viennese, Schiele scruta le intimità delle sue giovanissime modelle, smascherando la celata sessualità di un pubblico ipocrita.

Egon Schiele in un ritratto fotografico di Anton Josef Trcka (Antios), 1914

Unico figlio maschio di Adolf Schiele e Marie Soukup, Egon Schiele è nato il 12 giugno 1890 a Tulln, sulle rive del Danubio, a una trentina di chilometri a nord di Vienna. Passa l’infanzia in un appartamento di servizio al primo piano dell’edificio dello scalo ferroviario, dal momento che suo padre è il capostazione di Tulln. Come spesso accade, in famiglia tutti sono convinti che “da grande” sarà un eccellente ingegnere ferroviario, come il nonno Karl, a suo tempo impegnato nel progetto per la costruzione della linea ferroviaria di collegamento fra Praga e la Baviera. Lo zio, Leopold Czihaczek, marito di una sorella del padre, è impiegato nelle ferrovie come ispettore capo e anche il nonno materno, Johann Soukup, da giovane lavorava su di una linea della Boemia meridionale. Così Egon sviluppa da bambino una innata passione: installa i binari dei suoi trenini a molla e gioca con locomotive e vagoni in miniatura. Già dall’età di dieci anni, ispirandosi agli schizzi del padre, disegna stazioni e convogli passeggeri. Se questa storia fosse continuata assecondando le attitudini infantili, avremmo perso uno dei maggiori esponenti della pittura espressionista. Per fortuna Egon cambiò idea, forse dopo uno scatto d’ira di suo padre, che un giorno gli bruciò uno dei quadernini da disegno. Per la verità, il padre ogni tanto trascendeva oltre misura, non per carattere, ma per malattia: una volta tentò di gettarsi dalla finestra e un’altra scaraventò nel fuoco i titoli azionari delle Ferrovie di Stato austriache, mandando in cenere la sua modesta fortuna. Una fortuna che avrebbe garantito finanziariamente la famiglia, quando la sifilide peggiorò la sua salute, rendendolo paralitico. Si raccontava in famiglia di avere contratta la malattia durante il viaggio di nozze, quando sua moglie, la prima notte, era fuggita dalla camera da letto e il marito ebbe la pessima idea di far visita a un bordello di Trieste e s’infettò. A Capodanno del 1905, la paralisi progressiva se lo portò definitivamente via a 55 anni.

Treno disegnato da Egon bambino intorno al 1900, grafite su carta, coll. 
privato (dettaglio)

Una morte che colpisce profondamente il giovane Schiele, già scosso della precedente scomparsa, a undici anni, della sorella maggiore Elvira, forse causata della medesima malattia ereditata dal padre, trasmessa alla madre, e che probabilmente aveva in precedenza ucciso in culla anche altri due maschietti nati prima di Egon. Queste tragedie familiari non sono prive di riflessi sul carattere e l’opera dell’artista, perché causate dal contorto e intransigente moralismo dei suoi tempi. Sono una reazione a tutto questo anche le intese e proibitive sessioni di nudo svolte con la sorella Gerti, che gli fa da modella, dove l’artista mostra, con un interesse distaccato, le intimità sovreccitate della disinibita dodicenne. Gerti, pelle lentigginosa, occhi verdi e capelli rossi, è il prototipo di tutte le successive donne e modelle di Schiele. Quando si trattò di commentare la prima grande mostra dedicata Schiele, a Londra nel 1964, Oskar Kokoschka la giudicò espressamente come “pornografica”. Un’idea ancora oggi radicata, se nel 2018, sempre a Londra, nei manifesti della metropolitana che pubblicizzavano la rassegna “Egon Schiele, espressionismo e lirismo”, esposta al Leopold Museum, le “parti intime” dei soggetti raffigurati da Schiele sono state coperte dalla scritta «Sorry, 100 years old but still daring today», come dire “Scusate, sono state dipinte cent’anni fa, ma sono ancora troppo audaci”. È una trovata di marketing. Norbert Kettner, quale amministratore delegato dell’ente turistico viennese ha così commentato: «Vogliamo mostrare alle persone quanto in anticipo sui tempi fossero questi grandi artisti attivi a Vienna più di un secolo fa. Oltre a questo, vogliamo incoraggiare il pubblico a notare quanto poco aperte e moderne siano rimaste le nostre società». Anche lo stesso Schiele si lamentava che i giornali censuravano i suoi lavori per vendere più copie. In una lettera scrive: «Fanno un sacco di pubblicità con i miei disegni proibiti». e continua citando cinque importanti organi di stampa che indecorosamente si riferivano a lui.

Egon Schiele, Giovane seminuda sdraiata, 1911, matita, guazzo e acquarello su carta

Dopo aver frequentato, prima il Realgymnasium a Krems, poi a Klosterneuburg, nell’ottobre 1906 Schiele supera al primo tentativo l’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti ed entra nella classe di pittura di Christian Griepenkerl. Un colpo di fortuna al quale nessuno sperava, perché fino ad allora Egon era stato sempre uno studente negligente e demotivato. Lo zio Leopold Czihaczek, divenuto tutore del ragazzo, aveva sperato per lui in un lavoro di fotografo a Vienna, ma ora l’Accademia poteva rappresentare una soluzione. Già nel 1907 Egon fa di tutto per conoscere personalmente Gustav Klimt e ci riesce. Da quel momento ricopre per lui la figura paterna per eccellenza. Lo sostiene generosamente, lo incita artisticamente, e lo farà per il resto della vita. Si scambiano disegni. Accetta persino di posare per questo giovane talento.

Egon Schiele, Gustav Klimt nella sua camicia blu per dipingere (1913)

Schiele si trasferisce in un proprio studio a Vienna e nel 1908 espone per la prima volta dieci opere in una mostra pubblica nella Sala Imperiale del Monastero di Klosterneuburg. Sono paesaggi di piccola scala dipinti fra l’estate e l’autunno. All’accademia dura solo tre anni, trascorsi senza piacere né emozioni artistiche. Non frequenta le lezioni, è presente solo alle sessioni di disegno per usufruire gratuitamente dei modelli. Non può assolutamente conciliare il suo spirito innovativo con l’orientamento storicista di Griepenkerl, il quale a sua volta ha divergenze anche con un altro studente: Richard Gerstl. Così si convince che questi due bizzarri allievi li abbia mandati nella sua classe il diavolo fatto persona. Alla fine, Schiele riesce a strappare un mezzo attestato e abbandona l’Accademia ad aprile del 1909, seguito da numerosi colleghi, tra cui Anton Peschka, Anton Faistauer, Rudolf Kalvach e Franz Wiegele. Con loro fonda il Neukunstgruppe, ovvero il Nuovo gruppo artistico. Poco dopo, Albert Paris Gütersloh e Hans Böhler si uniscono a loro. Come d’uso Schiele stende anche il manifesto programmatico del nuovo gruppo: «L’arte resta sempre la stessa, non c’è arte nuova. Ci sono solo nuovi artisti […] Il nuovo artista è, e deve essere necessariamente, sé stesso. Deve essere un creatore e deve, senza intermediari, senza utilizzare l’eredità del passato, costruire le sue fondamenta assolutamente da solo. Allora soltanto sarà un nuovo artista. Ognuno di noi sia sé stesso».

Ritratto di Poldi Lodzinsky, 1910

Schiele è intraprendente e riesce a fare inserire quattro delle sue opere nella Internationale Kunstschau Wien del 1909, il cui comitato espositivo è diretto proprio dal suo amico Gustav Klimt e dove espongono ufficialmente di Gauguin, Van Gogh, Munch, Vallotton, Bonnard, Matisse, Vlaminck. Le tele di Schiele passano inosservate alla critica, ma è questa l’occasione per conoscere persone e farsi conoscere da un pubblico ampio. Entra in contatto con la Wiener Werkstätte e per il tramite dell’architetto Josef Hoffmann otterrà presto delle commesse: gli è richiesto un bozzetto per una vetrata di palazzo Stoclet che Hofmann sta realizzando ed arredando a Bruxelles. Si tratta del Ritratto di Poldi Lodzinsky, una ragazza fragile, che posa seduta con le mani in grembo, veste un camice scuro ed è avvolta da una coperta a quadri colorata. La modella è la figlia di un autista di autobus di Krumau, la città natale della madre di Schiele. È un gioco di geometrie coloristiche ispirate a Klimt; ma è anche il tentativo di inserire nella casa di un ricco signore l’idea della fame e dalla miseria dei derelitti. Manco a dirlo, nonostante i vari schizzi, di cui una versione ad olio, la vetrata non fu mai realizzata.

A dicembre del 1909 il Neukunstgruppe allestisce la sua prima mostra alla Kunstsalon Pisko e, in questa circostanza, Arthur Roessler, critico d’arte del quotidiano socialdemocratico Arbeiter-Zeitung, scopre le doti del giovane pittore. Attraverso la mediazione di Roessler, Schiele incontra i collezionisti d’arte Carl Reininghaus e Oskar Reichel, che finanziariamente gli permettono un dignitoso ingresso nell’ambiente artistico viennese assicurandogli molte opere su commissione. Influente mecenate è il collezionista d’arte Franz Hauer, ma c’è anche l’editore Edouard Kosmack al quale Schiele dedicherà uno dei suoi ritratti più espressivi. Quel che più conta è la stretta amicizia che nasce con Klimt. Lo aiuta, lo consiglia, gli paga le modelle. Tuttavia, a differenza di Klimt, Schiele preferisce cercare per strada i soggetti dei suoi lavori. Sono ragazze del proletariato oppure prostitute. Ama i corpi smilzi e asciutti, giovani donne che ricordano il fisico acerbo di sua sorella, con la quale aveva cominciato a disegnare, soprattutto modelle che si diversificano per la loro appartenenza ad una classe subalterna, così differenti dalle signore abbienti, procaci e ben nutrite, strette nei loro traboccanti corsetti. Un’idea che non mancherà di suscitare le obiezioni dei benpensanti.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Richard Gerstl – Il primo espressionista austriaco, un esistenzialista “avant-lettre”

di Sergio Bertolami

36/1 – I Protagonisti

Richard Gerstl (Vienna 1883 – Vienna 1908). Per esprimere il senso tragico di una realtà che sta mutando anche in Austria, si può fare riferimento ad un pittore in particolare, conosciuto perlopiù fra gli addetti ai lavori. È Richard Gerstl, considerato dall’attuale critica come il primo artista espressionista austriaco. Uno spirito irrequieto e ribelle, un esistenzialista avant-lettre, un solitario, rimasto quasi del tutto estraneo allo stesso ambiente viennese dei suoi tempi. Nei cinque anni durante i quali si è dedicato alla pittura ha realizzato un’ottantina di quadri, che non ha mai voluto presentare in pubblico. È nato a Vienna il 14 settembre 1883, terzo figlio di Emil Gerstl e Maria Pfeiffer. Il padre, originario della diocesi ungherese Neutra, è un agente di cambio ebreo che ha conseguito una notevole fortuna, grazie alla quale la famiglia può vivere le condizioni agiate della buona borghesia. La madre viene da Kaplice, nell’odierna Repubblica Ceca, è cristiana e insiste perché i figli ricevano il battesimo cattolico romano. Per questo motivo Richard frequenta inizialmente il Ginnasio nell’Istituto dei Padri Scolopi di Vienna, ma il ragazzo presenta già problemi caratteriali e la famiglia decide di trasferirlo in una scuola laica, la Meixner Private School. Nel corso dell’anno scolastico Gerstl riceve le prime lezioni di disegno da Otto Frey.

Richard Gerstl, Autoritratto

Nel 1898, trascorre due mesi nella scuola di disegno “Aula” di Ladislaus Rohsdorf per prepararsi a sostenere l’esame d’ammissione all’Accademia di Belle Arti di Vienna (Akademie der bildenden Künste Wien). Il padre non è convinto che questa sia la strada giusta per affermarsi, ma lo aiuta economicamente e moralmente. Quindicenne, inizia alla Allgemeine Malerschule. In verità, ad osservare, il suo ondivago andamento di studi si può notare subito una irrequietezza di fondo che porta Gerstl ad intraprendere percorsi di apprendimento, anche nell’ambiente artistico, che non lo convincono affatto. Dal 1898 al 1900 frequenta il corso tenuto da Christian Griepenkerl presso l’Accademia di Belle Arti di Vienna. Dopo continue tensioni con il suo insegnante, di ferme idee tradizionaliste, Gerstl interrompe gli studi. Si chiude nella stanza della pensione in cui abita e limita al minimo i contatti. S’interessa di filosofia e di musica, impara l’italiano e lo spagnolo, legge con passione gli scritti di Otto Weiniger e Sigmund Freud. Dal 1900 al 1901 segue pittura di paesaggio con Simon Hollósy a Nagybánya. Poi torna a Vienna e a ottobre del 1904 riprende le lezioni all’Accademia. Gerstl decide di rientrare nella classe di Griepenkerl. È qui che conosce Victor Hammer, col quale apre nel medesimo anno un primo studio artistico.

Richard Gerstl, Karoline e Pauline Fey, 1905

All’Accademia di Vienna, frequenta anche la sezione speciale sistematica per la pittura di paesaggio, coordinata da Heinrich Lefler. A proposito dell’incontro col professor Lefter, si racconta che nel 1905 Gerstl avesse già ritratto le sue due sorelle, Karoline e Pauline Fey, con eleganti abiti da sera, dove mani e piedi scomparivano del tutto fra i copiosi veli indossati: due figure dall’espressione solenne e ieratica. La tela convince il professor Lefter a proporre al giovane di frequentare il suo corso di pittura. Non si producono occasioni favorevoli. In realtà Gerstl, per le sue riconosciute abilità pittoriche, avrebbe diverse opportunità, ma non sa o, meglio, non vuole approfittarne. Ecco perché, alcune opere di Gerstl sono esposte in pubblico una sola volta, dal 7 al 14 luglio 1907, negli stessi locali dell’Accademia. Anche il rapporto col professore Lefler coi mesi diviene abbastanza teso e quando si tratta di proporre i suoi elaborati si preferisce escluderlo dalle presentazioni per timore di scandali che minaccia sempre di suscitare. Ad esempio, rifiuta che i suoi dipinti siano esposti accanto a quelli di Gustav Klimt alla Galerie Miethke diretta da Carl Moll. Le sue opinioni radicali e il suo atteggiamento elitario ed egocentrico provocavano controversie ovunque. Nel 1908 il rapporto tra Gerstl e il professore Lefler si deteriora del tutto. Gerstl lamenta la mancata partecipazione di Lefler al Kaiserjubiläum e alla prevista mostra dell’Hagenbund. Allo stesso modo, fallisce la partecipazione all’Ansorge-Verein. Il 22 luglio scrive una lettera al Ministero della Cultura e dell’Istruzione in cui protesta che Lefler non lo ha lasciato esporre alla nuova mostra in Accademia.

Richard Gerstl, Il lungolago vicino a Gmunden, 1908

Una breve e contrastata esistenza creativa, dunque, che si è conclusa a pochi giorni dalla chiusura della Kunstschau Wien 1908, nella notte tra il 4 e il 5 novembre, a soli 25 anni. Dopo avere bruciato alcuni schizzi e dipinti e avere tentato di accoltellarsi, si è impiccato nel suo studio di Vienna, in Lichtensteinstrasse 20, davanti allo specchio più volte utilizzato nei suoi numerosi autoritratti. La famiglia scossa dal gesto inconsulto, benché lo avesse sostenuto nella scelta di frequentare l’Accademia e dedicarsi all’arte, ha deciso di conservarne in privato la memoria, probabilmente non consapevole del valore artistico delle opere. I dipinti salvati, raccolti amorevolmente nell’atelier dal fratello Alois, sono imballati e depositati nei locali di una ditta di spedizioni, la Rosin & Knauer. Fra questi dipinti, 34 sono tornati alla luce per interessamento del mercante d’arte Otto Kallir, fondatore della Galerie Saint Etienne. Acquistati e restaurati, nel 1931 sono stati offerti al pubblico in una mostra che ha fatto scalpore: Richard Gerstl – Il destino di un pittore. Dopo Vienna, altre città, come Monaco, Berlino e Aquisgrana, sono state le tappe successive di una mostra itinerante. In Italia sono state presentate per la prima volta alla XXVIII Biennale di Venezia nel 1956.

Gerstl nel suo studio, 1907. Sullo sfondo lo specchio davanti al quale si è suicidato

Oggi le opere recuperate di Richard Gerstl sono sessanta tele e 8 disegni, tutte non datate, salvo l’ultimo autoritratto del 12 settembre 1908. Va detto, per comprendere il tragico evento, che Gerstl, appartenendo a una famiglia benestante, frequenta circoli esclusivi. Oltre alla pittura è un appassionato di concerti, così fra le sue aspirazioni c’è quella di critico musicale. Intorno al 1907 stringe amicizia con i compositori Arnold Schönberg e suo cognato Alexander von Zemlinsky, che all’epoca vivono nel medesimo palazzo. In particolare, a Schönberg impartisce lezioni private di pittura e con lui si intrattiene in lunghe disquisizioni su temi d’arte. Trascorre le vacanze del 1907 sul lago Traum e qui esegue anche vari ritratti dei famigliari e degli amici del musicista. L’iniziale riferimento a Van Gogh influenza la sua pennellata, ma non mancano riflessi di Toulouse-Lautrec o tocchi più morbidi che ricordano Bonnard o Vuillard. Col tempo la sua pittura assume accenti più convulsi e brillanti, da farne anticipare soluzioni proprie di un nascente Espressionismo.

A luglio 1908 Gerstl si reca per la seconda volta a Traunstein dalla famiglia Schönberg in vacanza. Continua a fare ritratti. Modella preferita degli ultimi tempi è la moglie di Schönberg, Mathilde. Con lei, di sei anni più grande, intraprende, però, una relazione che a Schönberg si rivela in modo lampante. Alla fine di agosto, infatti, Gerstl e Mathilde sono colti in flagranza dal marito. I due amanti fuggono insieme e rientrano a Vienna, tuttavia Mathilde interrompe la relazione dopo pochi giorni, grazie all’intervento di un amico comune, il compositore Anton Webern. Così la donna decide di tornare dal marito. Gerstl viene, però, escluso non solo dall’amicizia con Schönberg, ma dall’intero Circolo di compositori e musicisti. Il 4 novembre 1908 si tiene un concerto degli allievi di Schönberg nella Great Viennese Musikvereinssaal, e chiaramente Gerstl non è invitato. La stessa sera si suicida.

Nessuno immaginava che il giovane, sentitosi rifiutato dalla donna amata e dalla cerchia di conoscenze, potesse giungere a una decisione irrevocabile. In un autoritratto Gerstl rappresenta il proprio corpo nudo con i genitali enfatizzati. Il dipinto è una provocazione rivolta alla collettività alla quale si mostra come una persona spoglia e indifesa che ormai ha riposto la sua vita nelle mani del destino. La figura è snella, rappresentata con pennellate veloci, e sullo sfondo astratto blu e giallo si evidenzia l’uso della punta in legno del pennello, per segnare riccioli che ricordano ancora una volta Van Gogh. In contrapposizione con lo stile diretto e irriverente dell’autoritratto, l’artista rappresenta Mathilde come una donna riservata, distaccata, quasi passiva. Il ritratto s’intitola Nudo femminile seduto (autunno 1908). È probabilmente l’ultimo dipinto in cui Gerstl manifesta il suo amore, realizzato nei pochi giorni che precedono la morte, a conclusione il suo lavoro d’artista e della sua vita.

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Il Gruppo Klimt e le mostre d’arte 1908 e 1909 a Vienna

di Sergio Bertolami

36 – L’Espressionismo in Austria

Fino allo scoppio della Grande guerra, Vienna è senza dubbio uno dei centri più vivaci dell’arte moderna. Le eleganti suggestioni dell’Art Nouveau, avvalorate dagli artisti della Wiener Sezession, sono gli ultimi sprazzi della Bella époque mitteleuropea, caratterizzata da prosperità economica e da una vita spensierata e gioiosa. Perlomeno, riguardo alle classi elevate. Il personaggio cool dell’arte è Gustav Klimt; pur tuttavia, laddove si concentra una moltitudine di personalità e d’interessi, la frangia dei dissenzienti si accresce senza eccezione. Uno dei primi motivi di malanimo si rivela di fronte alla scelta delle opere da inviare oltre Oceano, all’Esposizione Universale di San Louis del 1904. Ecco così che nel 1906, dopo ripetuti screzi, considerata l’impossibilità di colmare la frattura fra i membri della Secessione, Klimt ed altri artisti a lui vicini danno vita alla “secessione dalla Secessione” e fondano un nuovo gruppo, denominato, va da sé, “Gruppo Klimt”, per il ruolo svolto dall’artista come esponente di primo piano. Ne scaturisce un comitato per realizzare una grande mostra d’esordio: la Kunstschau (Mostra d’arte).

Kunstschau Wien 1908, edificio principale. Cartolina disegnata da Emil Hoppe

Ciò nonostante, Vienna non possiede un edificio ritenuto idoneo all’esposizione, quindi si decide di eseguire il progetto di Josef Hoffmann, Otto Schonthal, Karl Breuer e Paul Roller. Viene individuata una vasta area libera nei pressi di Lothringenstrasse e si erige un palazzo con ampi belvederi, piazzali e giardini, un locale di ritrovo e 44 sale per mostre. All’esterno sono previsti spazi terrazzati, una caffetteria e un piccolo teatro all’aperto, dove allestire spettacoli nelle giornate estive. Hoffmann e Klimt, anche in questa occasione, vedono un’opportunità per creare la vagheggiata opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk). Mentre Josef Hoffmann e Koloman Moser fondano la Wiener Werkstätte (laboratorio viennese, 1907-1908) nell’estate del 1908 (dal 1° giugno al 16 novembre) è inaugurata finalmente la prima manifestazione ufficiale del nuovo gruppo, la Kunstschau Wien 1908, una mostra d’arte e artigianato, presieduta da Klimt.

Manifesto di Rudolf Kalvach, 1908

Moser è incaricato di allestire la Sala espressamente dedicata al maestro, per esporre sedici dei suoi capolavori. Hoffmann si occupa, invece, dello spazio per la presentazione dei prodotti della Wiener Werkstätte. Varie sale sono destinate alle opere d’arte: le sculture di Franz Metzner e i dipinti di Alfred Roller e Carl Otto Czeschka, Koloman Moser. Non mancano i giovani talenti come Oskar Kokoschka, Elena Luksch-Makowsky, Max Oppenheimer ed Heinrich Schröder. L’anno successivo, nel complesso edilizio di Hoffmann, la seconda esposizione ha a un taglio di più ampio respiro e prende il nome di Internationale Kunstschau (Mostra d’arte internazionale), con Klimt sempre presidente. Espongono artisti stranieri come lo scultore Barlach o pittori come Van Gogh, Gauguin, Munch, Amiet, i Nabis Bonnard, Vuillard e Denis, i Fauve Vlaminck e Matisse. Nonostante le due mostre riscuotano da parte della critica giudizi positivi, si rivelano un insuccesso economico e la terza edizione viene annullata. Quel che rende la decisione irrevocabile è che il 4 novembre 1909 il palazzo delle esposizioni è demolito ed oggi la medesima area è occupata della sala per concerti Wiener Konzerthaus.

Internationale Kunstschau, spazi degli allestimenti

A ben considerare, il Friedrich Nietzsche di Umano troppo umano (1886) che si sofferma sul grandissimo compito dell’arte, disatteso dalla cosiddetta “arte vera e propria delle opere d’arte”, si sarebbe appassionato – e forse avrebbe modificato qualche tratto del suo ragionamento – di fronte al prospettarsi dei nuovi orientamenti: dallo sviluppo delle idee portate dalla Secessione viennese alle nuove linee espressionistiche della Brücke e del Blaue Reiter che filtrano, in questi stessi anni, negli ambienti artistici dell’avanguardia. «L’arte – scrive Nietzsche – deve innanzitutto e in primo luogo abbellire la vita […] deve nascondere o reinterpretare il brutto, quelle cose sgradevoli, orribili e ripugnanti che, nonostante ogni sforzo, proromperanno sempre di nuovo conformemente all’origine della natura umana: così essa deve operare soprattutto nei confronti delle passioni e dei dolori e angosce dello spirito, e lasciar intravvedere l’elemento significativo di ciò che è inevitabilmente o irreparabilmente brutto». Ma l’arte della maggior parte di coloro che dispongono di tempo libero – riflette – di coloro cioè che credono di non poter vivere senza musica, teatro e visite alle gallerie, senza letture di romanzi e poesie, senza l’arte del “bello”, per intenderci, «è solo un accessorio […] Se cominciamo il pasto dal dessert e assaporiamo dolciumi su dolciumi, che c’è da stupirsi se ci guastiamo lo stomaco e persino l’appetito per il pranzo buono, sostanzioso e nutriente al quale l’arte ci invita!». È passata poco meno di una dozzina d’anni da quando il filosofo ha scritto queste annotazioni e l’arte, quella autentica e non edulcorata, sta cercando nuove vie di cambiamento. In Germania, come in Austria.

Oskar Kokoschka, Pietà, Manifesto per Murderer, Hope of Women, dramma,Internationale Kunstschau, Vienna, 1909

«La frase già citata di Nietzsche “l’arte deve prima di tutto abbellire la vita…” – scrive Lara-Vinca Masini – se può riferirsi all’Espressionismo della Brücke, non può essere citata per quanto concerne l’altro polo d’irradiazione dell’Espressionismo mitteleuropeo, Vienna. Personalità come quelle di Kubin, Schönberg, Eugen von Kahler, Gerstl, Kokoschka, Schiele, hanno in comune un pessimismo profondo, che non trova soluzione nell’espansione del colore acceso, o nell’aspirazione ad un ritorno alle radici primigenie della vita, sul modello delle arti primitive, africane o oceaniche. Perciò i colori sono in generali cupi, il ricorso al fantastico e all’immaginario è allucinato e quasi medianico; anche il rapporto con l’arte francese più mediato; i legami sono semmai più profondi con il Simbolismo francese; ma più direttamente gli ascendenti sono Redon per Alfred Kubin, Van Gogh per Gerstl e Kokoschka, lo Jugendstil per Schiele». In verità, i rapporti degli artisti austriaci più che con la Brücke si stringeranno, a partire dal secondo decennio del Novecento, soprattutto col Blaue Reiter, almeno per quanto riguarda Kubin e Schönberg. Il fatto è che eventi tragici si stanno per abbattere sulla Felix Austria e faranno crollare l’illusione di un Felice Impero, capace di unire pacificamente popoli di etnie differenti, così come auspicato dalla politica matrimoniale adottata nel regno, secondo l’antico detto «Bella gerant alii, tu felix Austria nube» (Le guerre le facciano gli altri, tu, Austria felice, sposati). Il primo tragico evento è il triste epilogo della Prima guerra mondiale e la conseguente caduta dell’Impero Austro-Ungarico. Calerà a seguito di ciò il sipario sul lungo XIX secolo (Long 19th Century), per usare un’espressione dello storico britannico Eric Hobsbawm. Il secondo tragico evento è il diffondersi in Europa dell’influenza spagnola, che ucciderà più persone della stessa guerra: giovani vite in età compresa fra i 20 e i 40 anni. Tra l’inizio e la fine del conflitto mondiale, si spegne in Austria la vivacità di ogni processo artistico, che si chiami Jugendstil o Espressionismo. Solo nel 1918 muoiono Otto Wagner, Koloman Moser, Gustav Klimt e il suo prediletto Egon Schiele. La cesura col primo ventennio del Novecento è netta, quanto non poteva neppure immaginarsi.


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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Franz Marc: “Le nuove idee sono difficili da capire solo perché non sono familiari”

di Sergio Bertolami

35 – Der Blaue Reiter: rinnovamento spirituale della cultura occidentale

Se Kandinsky è il teorico del Blaue Reiter, Franz Marc, grazie al suo senso pratico, ne è a tutti gli effetti l’organizzatore: mantiene i contatti fra i membri, informa mercanti d’arte e curatori delle mostre, editori e collezionisti. Kandinsky lo ritroveremo nel dopoguerra, più animato che mai, perché la Rivoluzione russa offrirà all’artista una miriade di possibilità per affermare i propri indirizzi. Per Franz Marc non è così. Lui che poco prima della guerra diceva «Solo a quaranta o cinquant’anni dipingerò i miei quadri migliori», a quaranta o a cinquant’anni non ci arriverà mai. Come era avvenuto un anno e mezzo prima per l’amico August Macke, ucciso sul fronte occidentale, Marc, arruolato in cavalleria, è colpito da schegge di granata durante una ricognizione e muore il 4 marzo del 1916 a Braquis, nella piana di Woevre, a 15 chilometri da Verdun. Quella mattina aveva scritto alcune righe a sua moglie Maria, perché doveva essere l’ultimo giorno al fronte: «Sì, tornerò anche quest’anno. Alla mia intatta, cara casa. Tra le terrificanti immagini di distruzione tra le quali ora vivo, questo pensiero di ritorno a casa ha un alone che non può essere descritto in modo sufficientemente dolce. Non preoccuparti, me la caverò». Unanime è il cordoglio fra gli artisti. «Il cavaliere azzurro è caduto – scriverà cinque giorni dopo sul quotidiano Berliner Tageblatt la poetessa Else Lasker-Schüler, fra i massimi rappresentanti dell’Espressionismo tedesco in letteratura – su di lui scendeva il profumo dell’Eden. Gettava un’ombra blu sul paesaggio. Era lui che sentiva ancora parlare gli animali; ed ha trasfigurato le loro anime incomprese».

Franz e Maria Marc in veranda a Sindelsdorf, in una foto scattata da Wassily Kandinsky

«Io cerco di potenziare la mia sensibilità per il ritmo organico di tutte le cose, cerco di raggiungere una sintonia panteistica col vibrare e scorrere dei succhi vitali nella natura, negli alberi, negli animali, nell’aria…». Proprio così, e il colore è per Marc l’elemento essenziale per entrare in sintonia col mondo che lo circonda, ed ecco allora i suoi cavalli rossi o blu come originale espressione di spiritualità. Aveva conosciuto Auguste Macke nel 1911 e attraverso di lui aveva potuto scoprire le tinte esuberanti dei Fauves e quelle di Kandinsky, che lo attrasse per il «fascino dei suoi colori puri, vigorosi, fiammeggianti». Ambedue amavano l’azzurro: per questo aveva proposto d’intitolare Blaue Blatter (Pagine Azzurre), la rivista da realizzare insieme. Kandinsky, privato della capacità organizzativa di Marc, ammetterà di avere rinunciato alla pubblicazione di un secondo numero dell’Almanacco, nonostante il cospicuo materiale raccolto, perché non si sentiva di affrontare da solo il lavoro editoriale dopo la prematura scomparsa dell’amico. Dobbiamo però riconoscere che a fianco di Kandinsky e Marc c’era la stretta collaborazione di molti altri. August Macke, per primo: senza il suo provvidenziale aiuto e senza il finanziamento di suo zio, il mecenate Bernhard Köhler, l’Almanacco non sarebbe stato mai pubblicato. Il sostegno morale e intellettuale per la conoscenza di testi teosofici di Gabriele Münter ingenerosamente dimenticata da Kandinsky e riscoperta come pittrice solo in anni recenti. Così come altri artisti, considerati di minore spicco e rivalutati solo negli ultimi studi: è il caso di Alexej von Javlenskij e della moglie Marianne von Werefkin per certe tematiche spiritualistiche estremamente interessanti. «Tuttavia, il Blaue Reiter è stato anche questo: l’occasione unica per tener unite figure diversissime e pur legate dalla ricerca di un’alternativa spirituale alla civiltà europea, e di una sintesi di spunti di marca simbolista francese, russa e tedesca, ponte tra le esperienze romantiche e le avanguardie» (Jolanda Nigro Covre).

Auguste Macke, Ritratto di Franz Marc, 1910

Nondimeno, fra tutti è Franz Marc il vero punto di riferimento per Kandinsky nella realizzazione dell’Almanacco del Blaue Reiter. La ragione della pubblicazione, s’è detto, era la riconosciuta necessità di porre rimedio all’incomprensione della nuova arte moderna da parte del pubblico, spiegandone i motivi intrinseci. Marc è un punto centrale, e i suoi tre saggi lo dimostrano: Beni intellettuali (Geistige Güter), Il selvaggio in Germania (Die Wilden Deutschlands) e Due immagini (Zwei Bilder). «Nella nostra epoca di grande lotta per l’arte nuova – evidenzia nell’Almanacco – combattiamo da “selvaggi”, non organizzati, contro un vecchio potere organizzato. La lotta sembra impari, ma nelle cose spirituali non vince mai il numero, ma la forza delle idee. Le temute armi dei “selvaggi” sono i loro nuovi pensieri: uccidono meglio dell’acciaio e spezzano ciò che era considerato indistruttibile. Chi sono questi “selvaggi” in Germania? Una gran parte è nota e ampiamente descritta nella rivista: la Brücke di Dresda, la Neue Sezession di Berlino e la Neue Vereinigung di Monaco». Franz Marc tesse, dunque, il collegamento fra le avanguardie, spiega, chiarisce. Perché? «Le nuove idee – questa è la sua risposta – sono difficili da capire, solo perché non sono familiari». È nel suo carattere comprendere a fondo le cose. L’insegnamento gli proviene dalla famiglia. Nato a Monaco l’8 febbraio 1880, ha imparato a dipingere dal padre, autore di soggetti religiosi. Dalla madre, calvinista, ha acquisito una severa educazione. La sua indole gli fa porre sempre domande, e cercare risposte; a volte però gli capita di non sentirsi all’altezza per comprendere le spiegazioni, come quelle che fornisce il pastore alle sue richieste, tanto che la madre insiste perché Franz intraprenda studi teologici. Nel 1899 opta, invece, per la facoltà di filosofia dell’Università di Monaco; ma è un convincimento fugace, perché già l’anno successivo, dopo aver terminato il servizio militare, in autunno scopre la vocazione artistica ed entra all’Accademia di Belle Arti (Königlich Bayerischen Akademie in München).

Franz Marc, Ritratto della madre dell’artista, 1902

Come allievo di Gabriel Hackl e Wilhelm von Diez, non può che imparare bene il fare artistico della tradizione. Forma e struttura del ritratto della madre lo attestano. Grazie alla sua ottima conoscenza del francese a maggio del 1903 Marc convince un ricco amico a farlo studiare a Parigi per diversi mesi e qui vede le opere di Gustave Courbet ed Eugène Delacroix. È il contraccolpo che lo convince a interrompere gli studi all’Accademia. Si trasferisce in uno studio a Schwabing, famoso a Monaco come quartiere degli artisti, nel quale si concentrano da vari anni pittori, scrittori, musicisti che occhieggiano alle avanguardie e approfittano della vicinanza all’Università e all’Accademia di Belle Arti. Continua a disegnare, soprattutto illustrazioni per accompagnare le poesie di Richard Dehmel, Carmen Sylva, Hans Bethge. Questi lavori sono stati pubblicati postumi solo nel 1917 da Anette von Eckhardt col titolo in italiano di Stella Peregrina. Anette è una pittrice che si dedica a fare copie dei maestri; è sposata e il suo matrimonio pesa molto sulla relazione che ha con Franz, il quale cerca invano di scrollarsi di dosso umori melanconici e incertezze artistiche, viaggiando. Nella primavera del 1906 accompagna il fratello Paolo a visitare i monasteri bizantini del Monte Athos e ne studia i manoscritti. In modo realistico, esegue poche e modeste grafiche di animali e paesaggi. Ancora un altro breve viaggio a Parigi, nella primavera del 1907, dove si entusiasma per le opere di Vincent van Gogh e Paul Gauguin, modificando così la tavolozza dei suoi colori che diventa sempre più chiara quando ritrae vedute. Per mantenersi, cerca di fare fronte alla sua precaria situazione finanziaria, impartendo lezioni di disegno anatomico, che immancabilmente hanno per oggetto studi dettagliati sugli animali.

Franz Marc, Lärchenbäumchen (Larici), 1908

Marc trascorre l’estate a Lenggries con la futura moglie, la pittrice Maria Franck. Studia la natura e dipinge principalmente animali, alla ricerca di una semplificazione sempre maggiore delle forme, utilizzando il colore come mezzo di espressione indipendente, discostandosi dal naturalismo e dal realismo, che da fine Ottocento continuano ad essere insegnati all’Accademia e che lui ha appreso perfettamente. A Parigi aveva scoperto vis a vis i quadri degli impressionisti, ma soprattutto dei post-impressionisti e la xilografia giapponese. Da allora la sua ricerca naturalistica è mutata: «Van Gogh è per me la più grande, la più autentica, la più commovente figura di pittore che io conosca. Dipingere un frammento della più semplice natura e dipingervi dentro tutta la fede e tutto lo slancio dell’anima, questa è veramente la cosa più degna». Nel dipinto Larici l’influenza di van Gogh è evidente. Dà alle sue composizioni un significato poetico e simbolico. Lenggries rappresenta una svolta. La sua ricerca si rivolge completamente al colore, che profonde brillante e puro sulla tela. Inizia anche ad occuparsi sempre più esclusivamente degli animali, dei loro movimenti, singolarmente o in gruppo. Per settimane studia cavalli, mucche, cervi. Li dipinge oppure li modella in creta. L’influenza di van Gogh rimane dominante anche nelle opere dell’anno successivo, quando trascorre del tempo a Sindelsdorf. «Io ora generalmente non dipingo […] che le cose più semplici, poiché solo in esse sta il simbolismo, il pathos, e il mistero della natura. Tutto il resto si allontana da lei, si perde nella meschinità e nelle stonature». Compie un’opera di esplorazione, cercando di «ovviare al rischio della “naturalizzazione” che significa decadenza dell’arte, contrapponendole il concetto di “animalizzazione”, a mezzo del quale egli, secondo la teoria di Cézanne (“guardare più profondamente nella struttura organica delle cose”), intende indagare nelle leggi della natura» (Lara – Vinca Masini).

Franz Marc, Nudo con gatto, 1910

Marc ama talmente van Gogh da aiutare i galleristi Brakl e Thannhauser ad allestire la prima mostra del pittore olandese a Monaco, nell’inverno del 1909. A gennaio 1910 riceve nel suo studio la visita del giovane pittore August Macke e di suo zio Bernhard Köhler, che presto diverrà mecenate di entrambi e chiaramente del sodalizio che a breve i due contribuiranno a realizzare. A febbraio, Marc può esporre per la prima volta il suo lavoro nella galleria d’arte moderna di Brakl a Monaco. È un’affermazione che attira l’interessamento dei collezionisti. Difatti, grazie ad una successiva visita a Berlino, Köhler assicura al giovane pittore il mantenimento, con uno stipendio mensile che gli permette di risolvere le pressanti difficoltà economiche in cui si trova. Decide così di lasciare lo studio di Monaco per abitare nel vicino villaggio di Sindelsdorf, dove può dipingere liberamente a stretto contatto con la natura. Nel settembre 1910, Marc visita la seconda mostra della Neue Künstlervereinigung, grazie alla quale conosce Wassily Kandinsky, Alexej Jawlensky, Gabriele Münter, Marianne von Werefkin e gli altri pittori dell’associazione. Finalmente si è liberato dal suo isolamento artistico e inizia una fase completamente nuova della sua pittura. Il dipinto Nudo con gatto mostra per la prima volta per Marc, che si lascia ispirare dal lavoro di Macke, una intensità cromatica tipica dei Fauves.

Quadri come Cavalli al pascolo I, inizialmente basati su colori naturalistici, trovano nuove forme espressive fino alla famosa composizione Cavalli al pascolo IV. Queste composizioni si avvicinano alle creazioni astratte di Kandinsky, perché il blu di quei cavalli, considerato come un colore spirituale per eccellenza, li rende simili a degli esseri mitici e soprannaturali. La storia di Marc da questo momento in poi corre parallela a quella di Kandinsky. A febbraio del 1911 Marc diventa membro della Neue Künstlervereinigung di Monaco. A maggio tiene la sua seconda mostra alla Galleria Thannhauser. Durante i preparativi per la terza mostra della Neue Künstlervereinigung, la giuria respinge la Composizione V di Kandinsky. È la scissione e il 18 dicembre Marc, Münter, Kubin, guidati da Kandinsky, inaugurano la prima mostra del Blauer Reiter nella galleria Thannhauser di Monaco. Marc, tra le altre composizioni presenta la Mucca gialla.

Franz Marc, Mucca gialla, 1911
Franz Marc, Cervo nel giardino di un monastero, 1912

I propositi artistici di Marc collimano con quelli di Kandinsky: denominatore comune è il desiderio di contribuire a un rinnovamento spirituale della cultura occidentale. Solo che la spiritualità di Marc è in armonia con la tradizione dell’arte religiosa occidentale e usa i suoi animali metafisici per evidenziare i valori del creato. Nell’autunno del 1912 Marc in compagnia di August Macke è di nuovo a Parigi e fa visita a Robert Delaunay. Un incontro questo che influenzerà profondamente il lavoro dei due tedeschi alla luce delle idee francesi sul Cubismo. L’inseparabilità di spirito e materia si riflette nelle successive raffigurazioni come La tigre (1912), Sotto la pioggia (1912) o Cervo nel giardino di un monastero (1912, tutti a Monaco di Baviera, Lenbachhaus).

Dall’alto in basso: Destini animali (a sinistra), Il mandrillo, Immagine con bovino, tutti dipinti del 1913 di Franz Marc

Nell’estate del 1913, Marc si dedica alle grandi e importanti composizioni, realizzate tra le sue due case di Sindelsdorf e Ried, vicino a Benediktbeuren. Sono le opere dell’ultimo periodo prima dell’inizio della guerra, dove il soggetto è quasi del tutto scomposto in strutture prismatiche di diversi colori. Un Marc cubista a sua insaputa. Inoltre, sogna un progetto comune: pubblicare un’edizione biblica illustrata insieme a Kandinsky, Kubin, Klee, Heckel, Kokoschka e comincia a redigere le prime bozze. Su richiesta di Hugo Ball, per breve tempo, si occupa anche di mettere insieme idee per una produzione della Tempesta di Shakespeare, che però non si concretizzerà mai, perché allo scoppio della guerra, il 1° agosto 1914, si offre volontario per il fronte. Ad animarlo è lo spirito nazionalista, convinto che la Germania s’imporrà sull’Europa: «L’aquila tedesca avrà alcuni artigli più appuntiti nel suo stemma. Vorrei disegnare la nuova aquila tedesca quando questa guerra sarà finita». Esattamente all’opposto di quello che scriverà Schmidt-Rottluff per l’aquila che simboleggerà la nuova Repubblica di Weimar. Marc è fermamente convinto della vittoria finale. «Il popolo sente di dover prima attraversare la Grande guerra per dare inizio a una nuova vita e a nuovi ideali». E fra questi ideali non può mancare la nuova arte: «Chi assiste dall’esterno e prefigura la nuova vita che stiamo conquistando, probabilmente penserà che il vino nuovo non debba essere messo nelle bottiglie vecchie. Spingeremo attraverso il nuovo secolo con la nostra volontà costruttiva». Una testimonianza diretta e stringente della guerra vista dall’altra parte del fronte occidentale, come nel libro di Erich Maria Remarque. Marc scrive molte lettere alla moglie, prende appunti e fa disegni. Paul Cassirer pubblicherà questi fogli sparsi con il titolo Franz Marc, Lettere dal campo, schizzi, e aforismi (Briefe aus dem Felde e Aufzeichnungen und Aphorismen, Berlino 1920). Cambia poco, anche per il cavaliere azzurro caduto per la sua Patria. Pure lui sarà diffamato come “artista degenerato” alla mostra del 1937 e 130 delle sue opere confiscate dai musei tedeschi.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay