Kandinsky e Il Cavaliere Azzurro alla ricerca dell’armonia di colori e forme

di Sergio Bertolami

34 – L’esoterismo di Rudolf Steiner influenza Kandinsky

Il Blaue Reiter durò il tempo di tre anni appena. A Monaco Kandinsky aveva soppiantato la Neue Künstlervereinigung (Nuova Società d’Artisti) e s’era portato via altri dissidenti come lui, cioè Franz Marc, Alfred Kubin e Gabriele Münter. Accomunati nelle idee, insieme hanno dato vita al primo nucleo del Blaue Reiter. L’esposizione iniziale si apre il 18 dicembre 1911 nella galleria Tannhäuser. Vengono esposte 43 opere di vari autori. Ci sono, naturalmente, Kandinsky, Franz Marc, Gabriele Münter, ed inoltre Albert Bloch, i fratelli David e Vladimir Burljuk, Heinrich Campendonk, August Macke. Anche i due francesi Robert Delaunay e Henri Rousseau sono invitati e non manca neppure Arnold Schoenberg, che tutti conoscono come musicista, ma che per l’occasione presenta due sue prove da pittore. La rassegna rimane aperta fino al 1° gennaio 1912, poi si trasferisce a Colonia, al Gereonsklub, per interessamento di Emmy Worringer, quindi dal 12 marzo 1912 al 10 aprile a Berlino nella galleria Der Sturm di Herwarth Walden, appena inaugurata. Ma non è l’unica mostra del Blaue Reiter, perché in contemporanea dal 12 febbraio al 2 aprile dello stesso anno 1912 i membri allestiscono una seconda mostra con 315 opere di grafica, intitolata Nero Bianco ed esposta nella libreria e galleria d’arte di Hans Gotz a Monaco. Nonostante l’intestazione sia la più consona per una rassegna del gruppo che raccoglie opere su carta, sono presenti anche composizioni a colori, disegni e acquerelli. Una settimana dopo la chiusura, la mostra riappare al Gereonsklub di Colonia e, seguendo il programma della prima mostra, a metà di marzo è presentata alla galleria Der Sturm di Berlino. A conti fatti una visibilità ben organizzata, in modo da toccare le principali città tedesche e fare conoscere al pubblico degli estimatori i pittori che si riconoscono nelle aspirazioni del nuovo gruppo artistico. Vi figurano 25 pittori che costituiscono gran parte dell’avanguardia europea. Sono francesi, spagnoli, tedeschi, danesi, russi, svizzeri, come Hans Arp, Georges Braque, André Derain, Maurice de Vlaminck, Pablo Picasso, Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Paul Klee, Alfred Kubin, Gabriele Münter, Max Pechstein, Emil Nolde, Kazimir Malevič.

Gabriele Münter, L’uomo seduto al tavolo (Ritratto di Kandinsky), 1911

Il 1912 è un anno ricco di avvenimenti per il movimento: alla mostra del Sonderbund di Colonia sono esposte le opere di Kandinsky, Marc, Macke. Nel mese di aprile compare sulla rivista Der Sturm il saggio di Kandinsky Il linguaggio delle forme e dei colori; inoltre nelle librerie arriva la prima edizione del libro Lo Spirituale nell’arte (Über das Geistige in der Kunst, insbesondere in der Malerei). È forse l’opera più famosa di Kandinsky, sicuramente è quella più dirompente se ancora oggi viene continuamente ristampata. La tesi di fondo del libro, più che estetica o pittorica è quasi filosofica, anzi visionaria. È legata alla dottrina e al movimento teosofico nati nel secolo precedente. Difatti, nel 1909 Kandinsky assiste allo svolgersi a Monaco della seconda conferenza teosofica, presieduta da Rudolf Steiner, dopo la fondazione di un nuovo movimento di pensiero che si distingue, per alcuni versi, dalle lontane teorie spirituali della Società fondata a New York nel 1875 dall’esoterista russa Helena Petrovna Blavatsky e dall’avvocato americano colonnello Henry Steel Olcott. Si sostiene che ogni religione del mondo conserverebbe, fra i suoi insegnamenti, alcuni residui di un’antica verità divina che in epoche remote erano conosciuti soltanto da un ristretto numero di iniziati illuminati, i quali ne avrebbero diffuso solo gli aspetti adatti ad essere recepiti dal contesto culturale dell’epoca. Una teoria da iniziati, per intenderci, che mescola conoscenza mistica con indagine scientifica. Nel 1907 Olcott, che dichiara di seguire le istruzioni dei Maestri, nomina presidente della Società Annie Besant, una libera pensatrice, che sceglie come principale collaboratore Charles Webster Leadbeater. L’attività si diffonde nel mondo germanico a cavallo del primo conflitto mondiale. In un saggio dei due eminenti teosofi, Leadbeater e Besant, intitolato Le Forme-Pensiero, troviamo scritto che i pensieri sono realmente visibili sul “piano astrale” (ovvero la quarta dimensione); hanno forma, colore, suono, proprio come la realtà materiale. Rudolf Steiner, in contrasto con Annie Besant, nel 1913, esce della sezione tedesca della Società teosofica di cui è segretario generale per fondare la Società Antroposofica, con sede a Dornach, il cui esoterismo origina una sintesi fra religioni e culti d’Oriente e tradizione dello gnosticismo occidentale.

Kandinsky, per la verità, dette il suo assenso convinto alle teorie di Steiner, ma non aderì mai alla Teosofia. Ne rimase soltanto affascinato, al punto di porre quelle convinzioni alla base della sua concezione della vita e dell’arte. Nello stesso 1909, influenzato dalla conferenza teosofica, scrive Lo Spirituale nell’arte, anche se lo darà alle stampe solo due anni dopo. Kandinsky annuncia nel libro che, se da principio fu l’età del padre, espressa nell’antico testamento, poi quella del figlio, incarnata nei Vangeli, ora il mondo è pronto per una terza età, quella dello Spirito, che sconfiggerà il materialismo in nome della piena affermazione dei valori interiori e immateriali. In molti passi leggere Kandinsky o il suo maestro risulta indistinguibile. Per Steiner la natura dell’uomo ha tre aspetti: corpo, anima e spirito. Il corpo permette di relazionarsi con le cose, tranne con l’anima, che custodisce le sensazioni. Per vedere il mondo fisico è sufficiente il senso della vista, ma per conoscere il mondo interiore delle sensazioni occorre una particolare percezione soprasensibile che solo lo spirito può rivelare. Come per Steiner, anche per Kandinsky l’opposizione fra mondo fisico e mondo dello spirito sarà, dunque, superata acquisendo una superiore conoscenza. Di qui, nascono le considerazioni visibiliste sui colori e sul loro legame a particolari simbolismi. I colori che circondano una figura umana sono chiamati aura, percettibili solo da un veggente. In certe esperienze «toni di un giallo-rossiccio e di bruno attraversano l’aura in vari punti… con lo sviluppo dell’intelligenza i toni verdi si fanno sempre più frequenti […] In una condizione animica tranquilla, invece, i toni bluastri e rossastri si ritraggono e compaiono varie sfumature di verde […] I toni azzurri compaiono dove regna l’atteggiamento animico della devozione». Queste non sono parole del pittore, ma del filosofo. Il pittore trova, invece, nel filosofo il sostrato culturale delle sue teorie pittoriche. Un colore, considera ad esempio Kandinsky, può essere spiegato seguendo uno schema apparentemente semplice: può essere caldo o freddo, chiaro o scuro. Può essere caldo, come il giallo, oppure freddo, come il blu. Ricordate il concetto di sinestesia? Cioè l’associazione di due parole o due passaggi discorsivi che fanno riferimento a sfere sensoriali diverse? Questo è un esempio concreto. Infatti, dallo schema si possono ottenere quattro combinazioni principali: caldo-chiaro, caldo-scuro; freddo-chiaro, freddo-scuro. Se questa distinzione si applica su di una stessa superficie pittorica, il colore diventa però più materiale o più immateriale, originando veri e propri movimenti: un colore caldo come il giallo tenderà a un movimento centrifugo verso l’osservatore; uno freddo come il blu, al contrario, tenderà a un movimento centripeto, allontanandosi dall’osservatore. «Il giallo è il colore tipico della terra, non può avere troppa profondità […] La profondità la troviamo nel blu».

Wassily Kandinsky, A proposito dello spirituale nell’arte, specialmente nella pittura (Über das Geistige in der Kunst, insbesondere in der Malerei) 1912

«Alla pittura – scrive Maurizio Calvesi – viene attribuito un valore trascendentale, e cioè la funzione di ricongiungere l’uomo all’essere unitario e misterioso che si rappresenta cosmicamente come natura e con cui l’artista può entrare in contatto per un acuirsi della sua tesa sensibilità spirituale. Il mito teosofico ottocentesco di una religione originaria e universale, di cui la natura è continua rivelazione, è al centro degli ideali mistici degli artisti del Blaue Reiter: particolarmente di Marc, che nella sua agitata visione simbolica fa precise allusioni figurative alla natura e al creato; mentre in Kandinskij la ricerca pittorica si presenta più pura, e guidata, nel suo binario astratto, da un sotterraneo ma lucido controllo dell’intelligenza sull’istinto». In effetti, la febbrile ricerca di questi anni, espressa fra sperimentazioni formali e scritti teorici, trova un punto di convergenza nell’Almanacco del Cavaliere Azzurro che vede la luce nel mese di maggio grazie all’editore Reinhard Piper. Un volume di grande formato, arricchito da immagini e stampe a colori, con molti testi critici concernenti la pittura e la musica contemporanea. «L’Almanacco – considera Will Grohmann – rimane un esempio unico nella letteratura artistica europea perché in nessun paese è apparsa mai un’opera come questa che riassumesse tutto il fermento e la tensione degli anni precedenti la prima guerra mondiale». Kandinsky, che traduce tutti gli articoli russi e raccoglie gran parte del materiale iconografico, è anche autore di tre contributi: un saggio dedicato alla pittura, Il problema delle forme, uno riguardante il teatro, Sulla composizione scenica, infine addirittura una sua sinestetica pièce teatrale, Il suono giallo.

Franz Marc e Wassily Kandinsky, dall’Almanacco del Cavaliere Azzurro, pubblicato da R. Piper & Co

Sfogliando il volume è evidente che le immagini relative alle opere figurative sono superiori a quelle astratte. Ciò che in realtà conta, chiarisce Kandinsky, non è scegliere fra realismo ed astrazione, ma provocare nel lettore/osservatore una risonanza che ne faccia percepire il contenuto spirituale: «Realismo ed astrazione si equivalgono, la diversità massima sul piano esteriore si trasforma in massima uguaglianza in quello interiore». Il problema delle forme costituisce una definizione sottile di alcuni argomenti già espressi nel libro Lo spirituale nell’arte: le forme adottate dal pittore, astratte o realistiche, non valgono per sé stesse. Per le forme astratte, come una linea, è importante che il pittore cancelli ogni possibile spiegazione sulla funzione pratica della rappresentazione e il pubblico sia predisposto a comprendere che ciò che si sta guardando non è un “oggetto” rappresentato attraverso una linea, ma la linea stessa. L’astrattismo non è dunque un sistema artistico assoluto, specchio dei tempi moderni, ma la ricerca di una lettura spirituale. Ecco perché non necessariamente l’arte deve essere orientata verso l’astrazione, quasi fosse una meta finale al lavoro del pittore, perché un simile errore finirebbe col negare all’artista ogni libertà: «La cosa più importante non è che la forma risulti personale, nazionale, ricca di stile, che corrisponda al movimento principale dello spirito del suo tempo, che sia affine a molte o a poche altre forme, che sussista o meno isolatamente; la cosa più importante riguardo al problema della forma è se la forma scaturisca o meno da una necessità interiore. In altre parole: non si deve fare della forma un’uniforme. Le opere d’arte non sono soldati». L’Almanacco del Cavaliere Azzurro è pubblicato nel 1912 in edizione normale, accompagnato da un’edizione di lusso di 50 esemplari rilegati in pelle – contenenti anche due xilografie, una di Kandinsky e l’altra di Marc – nonché un’edizione da museo in 10 esemplari. Per l’anno successivo, Kandinsky e Marc hanno in mente una seconda pubblicazione dell’Almanacco che non verrà tuttavia realizzata, pur avendo raccolto parecchi contributi appositamente richiesti agli autori. A questo proposito la moglie di Macke annota nei suoi ricordi: «È un tempo memorabile per noi tutti la nascita del Cavaliere Azzurro […] Erano ore indimenticabili in cui ognuno degli artisti elaborava il suo manoscritto, lo limava, lo cambiava […] Poi arrivavano gli articoli degli artisti invitati a collaborare, le proposte per le riproduzioni […] Lo stesso Kandinsky era un tipo molto strano, singolare, il vero animatore di tutti gli artisti che incappavano nel suo fascino: egli aveva qualcosa di singolarmente mistico e fantastico abbinato a una dogmatica e ad un pathos assolutamente rari».

Wassily Kandinsky, Una voce sconosciuta, 1916

Nel corso di quell’anno 1912 fervono iniziative e progetti, grazie soprattutto alla collaborazione del berlinese Herwarth Walden, forte della sua galleria Der Sturm e dell’omonima rivista d’arte. A luglio dello stesso anno Karl Ernst Osthaus ospita al Museo Folkwang di Essen la mostra del Blaue Reiter, che a settembre è riproposta alla galleria Goldschmidt di Francoforte. L’anno dopo è Herwarth Walden ad organizzare a Berlino la mostra più significativa del gruppo artistico ormai in ascesa. È allestita al Deutscher Herbstsalon, come dire il Salon d’Automne tedesco. Quando nel successivo 1914 scoppia il conflitto, ognuno pensa che si tratterà di una guerra lampo. Per il gruppo di Kandinsky sarà invece la rovina del progetto artistico. Aderente alla Triplice intesa, la Russia, come Regno Unito e Francia, è nemica dichiarata della Germania. Kandinsky, vista la sua nazionalità, nel giro di due giorni deve sloggiare in gran fretta. Si rifugia a Goldach in Svizzera. Con lui parte anche la sua famiglia “allargata”: la prima moglie Anja e la cognata, giunte casualmente in visita dalla Russia, così come Gabriele Münter e la governante bavarese da anni al servizio del pittore. A Goldach con l’intera famiglia lo raggiunge anche l’amico Paul Klee, il pittore svizzero col quale Kandinsky negli ultimi tempi ha intessuto a Monaco una stretta collaborazione artistica. È un momento di stasi pittorica, ma non d’inattività, perché comincia a mettere a punto le idee che sostanzieranno il famoso saggio degli anni Venti: Punto linea superficie. A novembre l’artista decide di rientrare in Russia, così dopo essersi chiusa la parentesi del Blaue Reiter, si chiude in sostanza anche il legame con Gabriele Münter, che torna in Germania. È vero, si ritroveranno a Stoccolma nella primavera del 1916, per esporre le loro opere, ma sarà l’ultimo incontro. Un acquerello astratto, dipinto quello stesso anno, testimonia il passaggio da una relazione sentimentale a quella successiva. S’intitola Una voce sconosciuta (1916), è la voce della giovane Nina von Andreevsky che un anno dopo diventerà sua moglie. È lei stessa a raccontare come, per un fatto del tutto fortuito, l’artista sia rimasto così colpito dalla sua voce al telefono da chiederle con insistentenza di conoscerla. I due si sposano a febbraio del 1917, qualche settimana prima che a Pietrogrado il popolo scenda in strada e dia inizio alla Rivoluzione Russa con la deposizione dello zar.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Kandinsky e Il Cavaliere Azzurro: “Il cavallo porta il cavaliere, ma il cavaliere guida il cavallo”

di Sergio Bertolami

33 – Der Blaue Reiter di Wassily Kandinsky e Franz Marc

Il Cavaliere Azzurro – questa è la traduzione di Der Blaue Reiter – richiama alla memoria un quadro che porta lo stesso titolo, un olio su tela di 50×60 centimetri, dipinto di Wassily Kandinsky nel 1903. Due anni prima della fondazione della Brücke. All’epoca Wassily ha 37 anni e da sette si è trasferito a Monaco da Mosca. È un giovane maturo, deciso a intraprendere la strada della pittura, studiando arte all’Akademie der Bildenden Künste, consapevole di rinunciare alla sua laurea in giurisprudenza, all’offerta d’insegnare materie giuridiche all’Università di Dorpat in Estonia e a una promettente carriera di avvocato. Il 1903 è un anno particolare, perché conosce una giovane artista che è anche una sua alunna, Gabriele Münter, e per lei divorzierà dalla moglie, sua cugina Anna Chimyakina, più grande di sette anni, conosciuta all’Università. Soprattutto in quell’anno particolare realizza quel dipinto divenuto un’icona dell’arte moderna. In origine è chiamato semplicemente Der Reiter (Il Cavaliere), ma verrà ribattezzato per sottolineare l’aspetto premonitore e inconscio che prelude alla nascita di uno dei maggiori movimenti d’avanguardia europei. Raffigura un misterioso messaggero coperto di mantello e cappuccio azzurro, al galoppo su di un cavallo bianco, mentre attraversa un prato verdissimo che ha per sfondo una foresta di betulle e monti in lontananza del medesimo azzurro. C’è chi scrive che il dipinto di per sé non significa niente, ma ha rappresentato un’importante pietra miliare nella transizione artistica di Kandinsky dall’impressionismo (la cui matrice è evidente in quest’opera) all’arte astratta. Giudizio incauto, visto che Kandinsky, dei cavalieri, ha fatto un tema dominante della sua opera iniziale. Problema dei critici è che, con Kandinsky, non possono inventare niente, perché è un pittore che usa anche scrivere, e molto bene: «Con gli anni ho imparato che il lavoro con il batticuore, un senso di oppressione al petto e di angoscia in tutto il corpo, con dolori intercostali, non basta. Può salvare l’artista, ma non la sua opera. Il cavallo porta il cavaliere con forza e velocità, ma il cavaliere guida il cavallo. Il talento trascina l’artista con forza e rapidità verso grandi altezze, ma l’artista conduce il suo talento». Il cavallo rappresenta il talento di Kandinsky, dunque, e Kandinsky il san Giorgio del Novecento. Questo per sua ammissione, scritto nero su bianco in Regard sur le passé (Sguardi sul passato, 1913) dove raccoglie le immagini del proprio mondo autobiografico e immaginativo. La sua memoria, asserisce, è composta soprattutto di colori; della sua stessa infanzia ricorda particolarmente i colori che, con il tempo, hanno preso il posto degli oggetti le cui immagini tendono a sbiadirsi: «I primi colori che mi fecero grande impressione sono il verde chiaro e brillante, il bianco, il rosso carminio, il nero e il giallo ocra. Avevo allora tre anni. Quei colori appartenevano a oggetti che non rivedo più chiaramente, come rivedo, invece, i colori».

Wassily Kandinsky, Il cavaliere azzurro, 1903

Il Cavaliere Azzurro è anche il nome del gruppo artistico nato nel 1911 dalla sua fervida fantasia, e che aggiunge, da quel momento in poi, una tessera significativa all’Espressionismo tedesco. Perché le premesse ideologiche del movimento, che si proponeva di comunicare in modo immediato stati d’animo e sentimenti, erano già state chiarite da Kirchner nel manifesto del 1905. Ma ora, accanto all’Espressionismo psicologico della Brücke (Il Ponte) – rimasto soltanto un fenomeno tedesco col suo linguaggio aspro e contestatario incentrato sulla deformazione dell’immagine per evidenziare gli aspetti esecrabili della realtà – si affermerà l’Espressionismo astratto del Blaue Reiter (Il Cavaliere Azzurro). La diffusione sarà internazionale. E dire che il nome è una trovata di Franz Marc e Kandinsky, come racconta lui stesso, mentre sedevano a un tavolino del caffè-giardino di Sindelsdorf: «Entrambi amavamo l’azzurro, Marc i cavalli, io i cavalieri. Così il nome venne da sé». Secondo Kandinsky, l’emblema del Cavaliere Azzurro, folgorazione casuale durante quella conversazione con Marc, potrebbe essere visto come una sorta di programma breve – come breve e misurato era il manifesto xilografico di Kirchner per Die Brücke – un programma rappresentato dal colore azzurro (che è come un blu cosmico che tende ai toni più chiari) in connessione con la quieta naturalezza del cavallo e il dinamico incalzare del cavaliere per attraversare il confine. Quel confine che finora ha separato le arti, dal momento che uno degli sforzi più importanti di Kandinsky è trasmettere l’idea che l’arte è sinestetica, trascende cioè i confini tra le sue varie forme. L’idea di sinestesia non è distante da tutti noi; viene espressa inconsapevolmente nel linguaggio quotidiano quando ci riferiamo ad uno “sguardo silenzioso”, a un “dolce suono”, una “luce calda o fredda”, quando dinanzi ad un quadro affermiamo di “sentire il colore” o ascoltando una musica di “vedere lo stormire delle fronde o il gorgogliare di un ruscello”. Nello stesso modo, il colore può avere un timbro, così come una musica può avere un tono.

Citazione di Eugène Delacroix

In che modo spiegare tutto questo, e tanto altro ancora, al pubblico di una mostra? Aspettare che un critico lo faccia interpretando un artista? «La maggior parte dei testi sull’arte sono scritti da persone che non sono affatto degli artisti, quindi tutti i termini e i giudizi sono sbagliati». La citazione perentoria, del pittore romantico Eugène Delacroix, campeggia isolata in una pagina dell’Almanacco del Cavaliere Azzurro. Suona come protesta contro tutta la critica d’arte del tempo e sembra volere uccidere la ricerca storico-artistica. La misura di tutte le cose, secondo il gruppo del nuovo movimento Der Blaue Reiter, non è nelle osservazioni di presunti esperti, bensì nelle mani stesse degli artisti. La nota di biasimo è rafforzata da una litografia che mostra San Giorgio a cavallo, mentre conficca la sua lancia nella gola del drago. Cavalieri cristiani e figure equestri occupano buona parte delle illustrazioni del volume. L’innamoramento per questi temi rappresenta in Kandinsky la strada verso una vita semplice, non convenzionale, in armonia con la natura e il mondo rurale, quello dell’Alta Baviera.

Wassily Kandinsky, Ritratto di Gabriele Münter, 1903

La storia inizia nel 1908, quando Kandinsky e Gabriele Münter, che fanno coppia ma non sono sposati, incontrano, durante le vacanze a Murnau, Marianne von Werefkin e Alexej von Jawlensky, anche loro legati da un “matrimonio selvaggio”. L’anno successivo, Gabriele decide di acquistare una casa a Murnau, ancora oggi esistente, fra le cui mura trascorrere, lei e Wassily, soprattutto le estati, tornandoci ogni anno fino al 1914. La soluzione va intesa come una scelta di vita, che influenzerà tutto il periodo immediatamente precedente lo scoppio della guerra. Esprime nello stesso tempo amore per la natura e critica verso le costrizioni della città, ma rappresenta anche la volontà di provare a sperimentare una stabile esistenza affettiva. In dodici anni, trascorsi insieme, i due non arriveranno mai al matrimonio. Annota Wassily: «Il carattere di Gabriele non poteva andare d’accordo con il mio … e io non ero disposto a fare concessioni». L’interesse di Kandinsky e Münter per l’arte popolare, in particolare per la pittura su vetro dell’Alta Baviera, è comunque un momento di visione comune. Scaturisce dal convincimento che tutte le arti debbano condividere uguali diritti, come è possibile riscontrare dai documenti pubblicati più tardi nell’Almanacco.

La casa di Gabriele Münter a Murnau, la cosiddetta “Casa Russa”.

L’amicizia tra Gabriele Münter e Marianne Werefkin, come tra Alexej von Jawlensky e Wassily Kandinsky produrrà anche una collaborazione artistica e una reciproca influenza. Anzitutto nella rappresentazione del luminoso paesaggio lacustre dell’Alta Baviera, dominato dalla catena alpina, reso attraverso il trattamento del colore luminoso, brillante e acceso, con superfici a spatola di chiaro dinamismo. Gabriele Münter descrive questa ricerca come un passaggio «dal dipingere la natura – più o meno impressionista – al sentire un contenuto – all’astrarre – nel senso di dare un estratto» di quel contenuto. È questo un concetto nevralgico. Sotto l’impulso di Kandinsky il gruppo di amici intende intraprendere nuove vie espressive, verso la creazione di spazi immateriali, verso l’astrazione lirica e fantastica della realtà. Così i quattro, nel 1909, insieme a Adolf Erbslöh, Oscar Wittenstein, Alexander Kanoldt, Hermann Schlittge, Alfred Kubin, e molti altri, danno vita all’associazione Neue Künstlervereinigung München (NKVM, ovvero Nuova associazione di artisti di Monaco), della quale Wassily Kandinsky, viene eletto presidente. Già prima di organizzare le mostre del 1909 e del 1910, introduce nello statuto della NKVM la cosiddetta “clausola dei quattro metri quadrati”, scaturita da una discussione col pittore Charles Johann Palmié: «Ogni membro titolare ha il diritto di esporre due opere, non soggette al giudizio della giuria, purché non superino una superficie totale di 4 metri quadrati».

Wassily Kandinsky, Murnau: case sull’Obermarkt, 1908 

All’interno dell’associazione monacense, tuttavia, non si respira un’aria tranquilla. Si creano dubbi e disaccordi, perché la maggior parte dei membri non approva la progressiva tendenza all’astrazione manifestata da Kandinsky. Quando le forze conservatrici della NKVM scatenano la loro aperta opposizione verso la pittura sempre più irreale di Kandinsky, richiedendo opere «più comprensibili», il pittore a gennaio del 1911 lascia la presidenza. Gli subentrano prima Erbslöh poi Franz Marc. Gli attacchi nell’ambiente rimangono violenti: «O si suppone che la maggior parte dei membri e degli ospiti dell’associazione sia inguaribilmente malata di mente, o si ha a che fare con degli impudenti bluffatori, che non ignorano la necessità di sensazionalismo dei nostri tempi, cercando solo di sfruttare la situazione». La scissione si verifica quando in preparazione della terza esposizione, verso la fine del 1911, il quadro di Kandinsky intitolato Composizione VGiudizio Universale, è respinto adducendo il pretesto che la somma delle misure delle opere che il pittore vorrebbe presentare supera le prescrizioni dello statuto. Kandinsky lascia l’associazione, e Franz Marc, Alfred Kubin, Gabriele Münter escono con lui per formare il nucleo centrale del Blaue Reiter.

Wassily Kandinsky, Primo acquerello astratto, 1910

Qualche mese prima, per l’esattezza il 19 giugno 1911, Wassily Kandinsky in una lettera a Franz Marc aveva menzionato per la prima volta l’idea di una pubblicazione da eseguire insieme. Non poteva immaginare che un anno dopo avrebbero avviato quella che immaginavano come una serie di volumi intestati Almanach Der Blaue Reiter. In verità, la serie si ridurrà ad un numero unico, il quale però è diventato così famoso da essere considerato uno dei più importanti scritti programmatici dell’arte del XX secolo. «Beh, ho un nuovo programma», riferisce Kandinsky nella lettera a Marc. «Piper sarà la casa editrice e noi due dovremmo essere i curatori. Una sorta di Almanacco annuale con riproduzioni e articoli soltanto di artisti. […] Il volume dovrà rispecchiare l’intero anno, e una catena rivolta al passato e una orientata al futuro dovrebbero dare vita a questa specie di specchio. […] Presenteremo i burattini egiziani delle ombre accanto a uno scarabocchio infantile, un disegno ad inchiostro cinese accanto a Rousseau il doganiere, un giornale popolare accanto a Picasso, e molto altro! A poco a poco diventeremo letterati e musicisti. Il volume potrebbe intitolarsi Die Kette (La catena) o qualcosa di simile».

Wassily Kandinsky, Composizione V (Giudizio Universale), 1911

In questa bozza di progetto, Kandinsky precorre l’idea di mettere uno accanto all’altro artisti di differenti paesi ed espone il principio fondamentale del libro: la giustapposizione comparativa di opere d’arte afferenti a culture, geografie ed epoche diverse, una combinazione di arte elitaria e arte popolare, senza dimenticare le sculture del Camerun, del Messico o della Nuova Caledonia oppure la pittura europea sia antica che moderna. Una bozza di progetto che troverà riscontro nella pubblicazione del 1912, con sedici testi, 141 illustrazioni e tre spartiti musicali. Un esempio concreto del nuovo canone artistico. Contemporaneamente al volume d’arte, Kandinsky e Marc organizzano in tutta fretta la loro prima mostra. Dal 1910, Franz Marc e Maria Franck (che sposerà l’anno seguente) vivevano insieme a Sindelsdorf, a 15 chilometri da Murnau. Per cui tutti questi preparativi hanno sede nella casa di Murnau di Gabriele Münter, dove si intessono stimolanti discussioni per tutto l’autunno del 1911, fra Wassily e Franz, Maria e Gabriele, nonché altri artisti loro amici, come Heinrich Campendonk e i cugini August e Helmuth Macke.

Prima mostra Der Blaue Reiter alla Galleria Thannhauser, Monaco di Baviera, 1911, foto di Gabriele Münter
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Il 18 dicembre 1911 puntualmente la mostra è presentata nella Galleria Thannhauser col titolo di Prima mostra degli editori del “Blaue Reiter”. L’Almanacco, invece, è pubblicato a Monaco di Baviera a maggio del 1912, destinato esclusivamente dagli artisti che lo hanno redatto agli artisti e ai cultori illuminati che lo leggeranno. Vi compaiono saggi di Marc, Kandinsky e Macke e, in chiusura, spartiti musicali di Scriabin e Schoenberg. Accompagnano i testi, riproduzioni di dipinti e illustrazioni di maestri come El Greco, Van Gogh, Matisse, Picasso, Rousseau, non manca il gruppo della Brücke con Kirchner ed Heckel e chiaramente il gruppo del Blaue Reiter. Immagini che si confrontano con xilografie, intagli e arazzi medievali, dipinti dell’arte vetraria bavarese, ombre egizie, bronzi del Benin e disegni fanciulleschi, manufatti realizzati fuori d’Europa, provenienti dall’America Latina, dall’Alaska, dal Giappone e dall’Africa. Una manifestazione imponente e straordinaria di cultura aperta e tollerante, resa ancora più eccezionale se si pensa che solo due anni più tardi il mondo sarà lacerato con l’esplosione della Prima guerra mondiale. La prima edizione raggiunge le 1200 copie e va esaurita in breve tempo. Cosicché proprio in quell’anno tragico 1914, l’editore Richard Piper pubblica una seconda edizione dell’opera, esattamente identica alla prima.

Copertina dell’Almanacco del cavaliere azzurro pubblicato nel 1912

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Karl Schmidt-Rottluff – “Obiettivo della Brücke è attirare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento”

di Sergio Bertolami

32/4 – I protagonisti

Karl Schmidt-Rottluff (Rottluff 1884 – Berlin 1976). C’è un ritratto fatto da Ernst Kirchner, in cui compare anche Schmidt-Rottluff. Per essere precisi Kirchner affermava: «I miei dipinti sono allegorie, non ritratti». In questo dipinto del 1925, rappresenta I pittori della Brücke. Sono passati dodici anni dallo scioglimento; anni che riaffiorano nel ricordo di quella giovane ed eccitante comunità di artisti. Sono in quattro, ma al posto di Fritz Bleyl è raffigurato Otto Müller (seduto, mentre fuma la pipa). La presenza di Bleyl, rimasto nel gruppo per soli due anni, dev’essere stata percepita come una meteora. In piedi, invece, riconosciamo gli altri tre fondatori: Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff. Allegoria, dunque, di quegli anni di certo difficili. Prima, l’affermazione delle nuove idee che ricordavano battaglie ed assalti Sturm und Drang. Poi, i contrasti per cercare di mantenere coeso un gruppo di spiccate individualità. Kirchner, tiene in mano un giornale: una critica negativa? I presenti appaiono perplessi. Schmidt-Rottluff, a destra col pizzetto, ha una mano in tasca come Heckel, che sta al centro: un atteggiamento che conferisce loro un’aria intellettuale irresistibile.

Ernst Ludwig Kirchner: I pittori della Brücke, 1925, Museum Ludwig. Da sinistra a destra: Müller (seduto), Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluff

Erich e Karl si erano conosciuti nel 1901 al liceo umanistico di Chemnitz (in Sassonia). Entrambi avevano preso a frequentare i dibattiti del circolo Vulkan, dove gli studenti delle scuole superiori di Chemnitz discutevano gli scritti d’attualità degli autori più autorevoli, come Friedrich Nietzsche, Fjodor Dostojewski, August Strindberg, Henrik Ibsen. Dopo il diploma del liceo, sempre insieme, si stabiliscono a Dresda nel 1905 per studiare architettura e dare vita, con Bleyl e Kirchner, al gruppo degli artisti della Brücke. Karl prende la decisione che da allora, per farsi distinguere dagli omonimi, si sarebbe fatto chiamare Karl Schmidt-Rottluff. In Germania, il cognome Schmidt è comune quanto Rossi in Italia. Così – come da noi abbiamo un Leonardo da Vinci, un Merisi da Caravaggio, un Antonello da Messina – Karl Schmidt pensò di affiancare, anche lui, il nome del luogo di nascita. Suo padre era il proprietario del mulino Friedrich Schmidt di Rottluff e Karl era nato proprio nella casa adiacente al mulino, a un tiro da Chemnitz. A Rottluff nel 1891 aveva cominciato le elementari, anche se per breve tempo frequenterà una scuola privata a Rabenstein. Dal 1897 è al liceo di Chemnitz, quindi dal 1905 finalmente è a Dresda, dove ha inizio la sua vita artistica.  

Ernst Ludwig Kirchner, Copertina del quarto annuario del gruppo artistico Die Brücke dedicato a Karl Schmidt-Rottluff, 1909

Pur essendo il più giovane fra i quattro fondatori del gruppo Die Brücke è dotato di una forte personalità. È lui che propone il nome del movimento e che ne definisce molte delle linee stilistiche. Come già Fritz Bleyl, anche Schmidt-Rottluff descrive le condizioni dello studio di Dresda in cui i quattro lavoravano e vivevano: «L’atelier era sotto il tetto. Abitare in questo spazio era vietato a causa delle restrizioni del codice antincendio, ma era consentito rimanere e lavorare lì. Dovevamo quindi evitare l’impressione che questi fossero i nostri alloggi. I mobili più necessari dovevano scomparire in soffitta durante il giorno. E così il posto era decorato esclusivamente con tende. Una tenda era appesa davanti alla porta d’ingresso, una seconda davanti al riscaldamento del forno […] una stanza attigua era nascosta da una tenda batik a fantasia astratta».

Karl Schmidt-Rottluff, Case sulla Gartenstrasse, 1906

Schmidt-Rottluff s’impegna anche ad allargare il gruppo, così per esempio scrive a Emil Nolde, a febbraio del 1906, insistendo perché partecipi alle loro esposizioni e si unisca a loro: «Per andare dritto al punto, il gruppo di artisti chiamato Die Brücke considererebbe un grande onore poterti accogliere come membro. Ovviamente saprai poco di Die Brücke come noi sapevamo poco di te prima della tua mostra alla galleria Arnold a Dresda. Uno degli obiettivi di Die Brücke è attirare a sé tutti gli elementi rivoluzionari e in fermento: questo è il significato del nome Brücke. Il gruppo organizza anche diverse mostre all’anno, che manda in tournée in Germania. Ora, caro Herr Nolde, pensa come ti pare e piace, speriamo che questa offerta sia il prezzo giusto per le tue tempeste di colore». Schmidt-Rottluff aveva conosciuto Emil Nolde a Dresda, visto che spesso accompagnava la moglie Ada per controlli medici in ospedale. Aveva trascorso l’estate sull’isola danese di Alsen nel Mar Baltico, ospite dei coniugi Nolde che possedevano una casa vicino al villaggio di Guderup, raffigurata in un quadro dai forti contrasti cromatici e dalle pennellate rapide e nervose, al limite dell’astrazione. Nell’anno successivo, in compagnia di Heckel e della pittrice di Oldenburg Emma Ritter, Schmidt-Rottluff trascorre per la prima volta i mesi estivi a Dangastermoor e Dangast e ci tornerà fino al 1909. Come ad Alsen, lavora sul ritmo e sulla direzione delle sue pennellate. Ora esegue marine e paesaggi, insistendo con ampie aree di colore stese direttamente sulla tela per mezzo di una spatola. Linee vibranti che ricordano quelle di Van Gogh. Non ha più dubbi: interrompe gli studi di architettura in quello stesso anno 1907, per dedicarsi interamente alla pittura. Sempre nel 1907 Heckel e Schmidt-Rottluff, inseparabili, divengono membri dell’Associazione degli artisti della Germania nord-occidentale. Recatosi ad Amburgo conosce l’avvocato e collezionista Gustav Schiefler e la storica dell’arte Rosa Schapire, della quale ha così grande stima da ritrarla ripetutamente nel 1911, 1915 e 1919. Pensa che i due possano far parte dei membri passivi della Brücke. L’affiatamento col gruppo è tale che la cartella di stampe del 1909, distribuita fra i membri passivi, è interamente dedicata alle sue opere e ha in copertina un suo ritratto eseguito da Kirchner.

Karl Schmidt-Rottluff, Bahndamm in inverno, 1905/06
Karl Schmidt-Rottluff, Deichbruchbruch, 1910

I primi quadri di Schmidt-Rottluff esprimono uno stile pittorico dettagliato e puntinista (Bahndamm in inverno, 1905/06), che con il tempo va cambiando carattere. Per tutto il periodo della Brücke a Dresda, come gli altri membri, Schmidt-Rottluff subisce l’influenza di Van Gogh e del neoimpressionismo che, dal 1908, lo fa orientare verso «la dialettica “linea-superficie” organizzando la sua composizione nel concorso di questi due elementi e in questo seguendo il medesimo processo di Kirchner e Heckel». (Ewald Rathke, L’Espressionismo). Come i suoi amici e compagni d’avventura, la sua pennellata energica crea nella scena un senso potente di movimento, quasi vertiginoso, che dal 1910 si trasforma in uno stile piatto, cromatico e ritmico, dalle forme appuntite, tratteggi nervosi e toni più tenui, dove si avverte l’influenza dei Fauves (Deichbruchbruch, 1910). Questo contribuisce fortemente alla monumentalità dell’insieme. Vale anche per le xilografie, realizzate in contemporanea, che mostrano nella loro semplice severità espressiva la sua attenzione rivolta alla scultura sviluppata dalle culture fuori d’Europa. Riguardo alle sue grafiche commenta: «A volte arrivavo ad esagerare certe forme, in violazione della proporzione scientifica, ma in accordo con l’equilibrio delle loro relazioni spirituali l’una con l’altra. Ho realizzato teste enormemente sovradimensionate rispetto ad altre parti del corpo, perché la testa è il punto di concentrazione di tutta la psiche, di tutta l’espressione». Nell’inverno del 1910, Schmidt-Rottluff soggiorna ad Amburgo e affitta qui un piccolo studio in un sottotetto. Dipinti e acquerelli, realizzati negli anni che precedono la Prima guerra mondiale, mostrano principalmente paesaggi dai colori forti, in cui deliberatamente utilizza una combinazione di forme semplici e poche linee espressive. (Abeti davanti alla casa bianca, 1911). Sono i frutti maturi dei suoi viaggi. Da aprile a giugno 1911 si ritira ancora una volta a Dangast; quindi, si reca a Lofthus in Norvegia per un mese, all’inizio di luglio, dove ammira le opere di Munch.

Karl Schmidt-Rottluff, Sole nella pineta, 1913

Alla fine di ottobre 1911, Schmidt-Rottluff decide di trasferirsi stabilmente da Dresda a Berlino. Intesse stretti contatti con il gruppo di artisti che si raccoglie attorno a Herwarth Walden. Sono, difatti, gli anni in cui Walden sviluppa la sua galleria d’arte e la rivista, che sotto il medesimo nome di Der Sturm fino agli anni Trenta del secolo divengono giustappunto il centro dell’Espressionismo, non solamente tedesco. Berlino è un cuore pulsante, piena di vita, una metropoli dinamica, che sa proporre le giuste stimolazioni che gli artisti vanno cercando. Nel 1912 conosce Franz Marc, anche lui a Berlino per selezionare opere da inserire nella seconda mostra del Blauer Reiter e le cerca pure fra gli artisti della Brücke. I contatti si moltiplicano: stringe rapporti con Else Lasker-Schüler, Alfred Mombert, Karl Sternheim. In questi mesi anche il tema del nudo, che in precedenza appariva specialmente in disegni e stampe, comincia a proporsi nella sua opera pittorica (Dopo il bagno, 1912). Con l’aiuto di contorni e strutture interne, i corpi sono modellati sulla tela (Ragazza alla toilette, 1912). Prende parte alla mostra Sonderbund di Colonia con tre dipinti: è qui che, impressionato dal lavoro di Pablo Picasso, gli elementi e le forme cubiste si riflettono nelle sue opere. Una tendenza che si fa strada ancora di più, quando conosce e comincia a frequentare assiduamente Lyonel Feininger, un pittore statunitense di origine tedesca, che gli fa apprezzare le aperture spaziali del Cubismo. Un esempio di questa influenza è Sole nella pineta, dipinto tra maggio e agosto del 1913. Infatti, proprio a maggio, dopo che la comunità degli artisti della Brücke ufficialmente viene sciolta, pensa di trascorrere l’estate con Pechstein a Niden, nella penisola di Neringa, una sottile striscia di terra di 98 chilometri che separa la laguna dei Curi dal Mar Baltico. Lontano da ogni civiltà, nascono nudi e paesaggi, dipinti, disegni, xilografie, in cui Schmidt-Rottluff può liberamente esprimere tutto il proprio stile personale, creando una grande sintesi tra espressione e forma. I nudi compaiono – a volte insolitamente proporzionati – nei grandi spazi aperti della natura (Tre nudi rossi, 1913). Sul finire del 1913 partecipa alla mostra della Nuova Secessione, a Berlino. Il suo amico Pechstein, proprio per le sue simpatie verso la Nuova Secessione e il Blauer Reiter era stato allontanato dalla Brücke. Ora ambedue sono liberi di intraprendere nuove strade.  

Karl Schmidt-Rottluff, Tre nudi rossi, 1913

Quando a marzo 1914 compare il primo articolo dedicato alla sua arte sulla rivista Kunst und Künstler siamo ormai alle porte della Grande guerra. Al deflagrare del conflitto Schmidt-Rottluff si ritira in privato, fino a quando non viene richiamato nel 1915 per svolgere il suo servizio militare in un battaglione di rinforzo nella Russia settentrionale. Prosegue, quando può farlo, le ricerche estetiche e si concentra sempre più sui temi figurativi, lasciando in secondo piano le rappresentazioni di paesaggi che tanto aveva prediletto nella sua pittura. Ora il paesaggio è solo quello sconvolto dalla guerra. Con l’uso persistente dei colori primari (blu, verde, rosso), in connessione con distorsioni di forme e stilizzazioni, crea la sua nuova visione del mondo. Lo possiamo percepire in Ragazza allo specchio (1915), tela che manifesta l’ansia e l’angoscia del pittore per la guerra. Un nudo che si riflette in un dualismo di linee diventate spigolose e irrequiete, che nulla hanno a che fare con le figure morbide e sensuali delle bagnanti dipinte negli anni precedenti. Un corpo smilzo e giallastro che si richiama alle sculture lignee africane ed oceaniche. Durante tutto il servizio militare, Schmidt-Rottluff intraprende, infatti, le sue prime opere scultoree, realizzando busti e maschere scolpite nel legno, nudi e figure vestite.

Karl Schmidt-Rottluff, Ragazza allo specchio, 1915
Karl Schmidt-Rottluff, Preghiera, bronzo, Musei Vaticani, 1918
Karl Schmidt-Rottluff, Christo e giuda, xilografia, Musei Vaticani, 1918

Nel 1917 i primi temi religiosi trovarono spazio nella sua opera (Adoranti, 1917). Esegue una serie di xilografie (I tre re, 1917) e prende a lavorare al portfolio Kristus, pubblicato a dicembre del 1918 da Kurt Wolff-Verlag, dopo che il pittore ha ottenuto finalmente il congedo dal servizio militare. Quando torna a Berlino, Schmidt-Rottluff è tra i firmatari del primo manifesto dell’Arbeitsrat für Kunst, il Consiglio dei lavoratori per l’arte, considerato un’anti-accademia di artisti tedeschi. Fra i membri trova molti dei suoi amici della Brücke: Erich Heckel, Otto Müller, Emil Nolde, Max Pechstein. Soprattutto, quando torna a Berlino, è intenzionato a mettere su famiglia, unendosi in matrimonio con la sua fidanzata di lunga data Emy Frisch.

Karl Schmidt-Rottluff, Progetto per un’aquila imperiale (Fonte DHM)

La strada che, a guerra finita, intravede per riprendere la propria attività pittorica quasi del tutto interrotta per quattro anni è quella di una religiosità pacata e maestosa, come dire una esplicita e solenne professione di fede. Naturalmente continua ad approfondire i temi delle sue composizioni e risponde ai bandi pubblici, rivolti agli artisti per ampie discussioni sul nuovo spirito della rinata Germania. Sono gli anni della cosiddetta Repubblica di Weimar (1918-1933), il sogno di stabilire una democrazia liberale, che non durerà a lungo, reso vano nel 1933 dall’ascesa al potere di Adolf Hitler e del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, che tutti conoscono come Partito nazista. Una proposta parlamentare di utilizzare nello stemma solo le iniziali “DR” per identificare la repubblica tedesca di Weimar, al posto dell’aquila imperiale, non è accettata. Così anche Schmidt-Rottluff risponde al bando per ridisegnare il simbolo dell’aquila. Non è affatto d’accordo, perché, come scrive, «l’opinione pubblica all’estero difficilmente perderebbe la buona occasione di utilizzare il disegno del nuovo stemma, in particolare la corpulenza invadente dell’animale araldico, per aprire ampie discussioni sullo spirito nuovo della nuova Germania». La xilografia di Schmidt-Rottluff non supera la selezione finale.

Karl Schmidt-Rottluff, Valle di dune con albero morto, 1937

Per tutti gli anni Venti, Schmidt-Rottluff passa le sue estati a Jershöft sulla costa baltica della Pomerania e i temi naturalistici tornano in primo piano: nei suoi dipinti compaiono operai, artigiani, contadini o pescatori, mostrati al lavoro (Fienagione, 1921). Fino al 1926 le forme si fanno più plastiche, poi la sua tavolozza di colori diviene più tenue e sommessa (Malve in casa, 1926). Espone in molte rassegne in Germania e all’estero. Viaggia in Francia e in Italia, dove viene nel 1923 con Georg Kolbe e Richard Scheibe. Nel 1930 trascorre un periodo a Roma come studente presso l’Accademia Tedesca a Villa Massimo. Il 1930, in particolare, è anche un anno drammatico, perché proprio nel periodo del suo maggior successo, le campagne diffamatorie dei nazionalsocialisti iniziano a diventare pesanti. Nonostante il fatto che nel 1931 sia nominato membro dell’Accademia Prussiana delle Arti, Schmidt-Rottluff preferisce lasciare la città e ritirarsi nel Mar Baltico. Tuttavia, l’oppressione politica, che si estende in Germania, irrimediabilmente tende a trasparire anche nelle tonalità di colore delle sue tele, che sempre più esprimono stati d’animo soffocanti (Valle di dune con albero morto, 1937) a testimonianza la sua solitudine. Dal 1933 tutto precipita: escluso dall’Accademia prussiana, radiato dall’unione arti e mestieri, 608 sue opere sono sequestrate dai musei tedeschi e ben 25 esibite al pubblico ludibrio nella mostra di Arte degenerata del 1937. Quattro anni dopo gli viene ingiunto di non dipingere, mentre dall’altra parte dell’Oceano, negli Stati Uniti, gli americani espongono i suoi lavori. Quando i dipinti il ​​20 marzo 1939 sono bruciati nel cortile della principale caserma dei vigili del fuoco di Berlino, anche molte delle sue opere vengono distrutte.

Per tutto il periodo del Secondo conflitto mondiale si ritira a Rottluff e Chemnitz, rinviando le sue creazioni a tempi migliori. Nel 1947 riceve la nomina a professore dell’Università di Belle Arti di Berlino, cosicché, tornata la voglia di spendere le proprie energie a favore dell’arte, riprende il lavoro sugli acquerelli di grande formato, per i quali Schmidt-Rottluff è conosciuto. Dà vita a numerosi quadri invernali in cui predominano stati d’animo sommessi (Paesaggio innevato, 1947, Luna e cancello del giardino, 1960). Dal 1964 circoscrive il suo raggio d’azione alle chine, agli acquerelli, ai pastelli, oltre a sviluppare un vasto lavoro grafico incentrato su xilografie e litografie. Non mancano disegni per mosaici, lavori su vetro, arazzi, oggetti di uso quotidiano e gioielli. Numerosi riconoscimenti e mostre hanno allietato i suoi ultimi anni e da parte sua ha ricambiato, compensando il mondo dell’arte con un lascito, nel 1964, per celebrare il gruppo di artisti con i quali ha condiviso la nascita dell’Espressionismo tedesco. La sua Fondazione Karl ed Emy Schmidt-Rottluff ha posto, difatti, le basi per l’apertura del Brücke Museum di Berlino, istituzione sotto la responsabilità del Dipartimento della Cultura. Solo tre anni dopo, il 15 settembre 1967, il museo ha trovato la sua sede stabile in un nuovo edificio progettato da Werner Düttmann nel quartiere berlinese di Dahlem.

Brücke-Museum di Berlino, nel quartiere di Dahlem. Il museo raccoglie una collezione di pittura espressionista tedesca del gruppo Die Brücke.
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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Erich Heckel: “Era chiaro per noi da cosa dovevamo allontanarci. Meno chiaro dove saremmo andati”

di Sergio Bertolami

32/3 – I protagonisti

Erich Heckel (Döbeln 1883 – Radolfzell 1970) è uno dei quattro fondatori della Brücke ed è considerato fra i principali rappresentanti dell’Espressionismo tedesco. Ha frequentato la scuola elementare a Olbernhau (1891-1895), la scuola secondaria a Freiberg (1896-1900), quindi il liceo classico a Chemnitz, dove si è diplomato nel 1904. In questo istituto, già dal primo anno, ha fatto amicizia con Karl Schmidt-Rottluff. I due giovani prendono a seguire i dibattiti del circolo letterario Vulkan, associazione di studenti appartenenti alle scuole superiori di Chemnitz. In questo modo possono conoscere i testi, molto attuali, di autori come Friedrich Nietzsche, Fjodor M. Dostojewski, August Strindberg e Henrik Ibsen. Approfittando del semestre estivo del 1904, Heckel si iscrive in architettura all’Università Tecnica di Dresda (Technische Hoschüle), stringendo amicizia, attraverso il fratello maggiore Manfred, con Ernst Ludwig Kirchner e Fritz Bleyl. Il 7 giugno 1905, Heckel, Kirchner, Bleyl e Schmidt-Rottluff, fondano a Dresda Die Brücke, che sugella fra i quattro una stretta collaborazione artistica. Heckel assume la segreteria della piccola comunità, anche perché l’atelier è allestito in un appartamento di proprietà dei suoi genitori, al 65 di Berliner Strasse nel quartiere Friedrichstadt. Insieme decidono di orientarsi verso nuove forme di espressione artistica. Diversamente da Kirchner, che abbandona l’architettura solo dopo avere sostenuto gli esami finali (1905), Heckel interrompe gli studi prematuramente. Come Kirchner, si concentra sull’introspezione psicologica e il senso doloroso dell’esistenza; come tutti i membri della Brücke, ama gli spazi aperti e sin dall’inizio della sua pittura cerca ispirazione nella natura. Il tema costante della sua pittura rimarrà sempre il paesaggio, frutto di meditate riflessioni quasi fosse la risultante di una concettuale elaborazione progettuale. Il gruppo s’impegna nei cosiddetti “quarti d’ora” (Viertelstundenakten) cioè su disegni veloci ed estemporanei, ma Heckel a differenza dei compagni, durante le escursioni in esterni, non traccia mai schizzi sul suo taccuino. Disegna a memoria, setacciando le immagini della realtà che ha impresso in memoria.

Erich Heckel ritratto da Ernst Ludwig Kirchner al cavalletto

L’arte di Erich Heckel è pacata. Non solo in pittura, ma anche nella grafica, priva di quel tratto irrequieto, a volte patologicamente eccitato che domina frequentemente le opere del suo amico Kirchner. Si dedica da subito alla litografia e all’incisione, tecniche di cui acquisisce presto padronanza. I personaggi rappresentati non sottendono un desiderio aggressivo, accusatorio, rivoluzionario. Queste figure riflettono, come i suoi paesaggi, l’essenza dell’uomo. Le persone che compaiono nelle grafiche sono mosse dalla pietà, piuttosto che dalla ribellione, dalla forza spirituale con la quale vivono ritirate, chiuse in sé stesse. Questo non significa affatto che la grafica di Heckel sia conciliante. Tutt’altro. Le sue xilografie sono rigorose, anche se esprimono il tentativo di ammorbidire il gioco aggressivo delle superfici bianche e nere con l’uso frequente del colore, ma non in modo pittorico. Heckel giungerà a colorare col pennello la tavola uscita in bianco e nero dalla stampa. Nella sua arte i contorni allungati, le sovrapposizioni ad angolo acuto e le pieghe, indicano atavici gesti di emozione silenziosa e di spiritualità antica, quasi gotica. Si può avvertirlo chiaramente negli autoritratti e nei ritratti, oppure nell’aspetto delle persone. Nelle opere grafiche come nella pittura. «Così quando nella sua pittura appare la figura umana questa è pervasa da un’inquietudine sottile, carica di un’energia segreta e vibrante. Allungata e nervosa, dai tratti marcati angolosi, esprime una spiritualità appagata e malinconica» (Lara-Vinca Masini).

Erich Heckel, Fränzi sdraiata, 1910

Heckel segue per intero l’esperienza della Brücke. Come segretario dell’associazione, è attento ai giudizi che compaiono sulla stampa, è sempre pronto a risolvere tutte le questioni pratiche che insorgono. Soprattutto costituisce l’elemento di equilibrio tra le differenti personalità che convivono all’interno del gruppo, specialmente quando nuovi componenti entreranno a farne parte. Per carattere è animato da un forte senso dell’amicizia, così si spende per favorire il sodalizio e la collaborazione fra gli artisti. S’incarica di organizzare le esposizioni collettive e rappresenta spesso i colleghi nelle trattative commerciali. Tutto ciò sin dall’inizio, da quando cioè, nell’autunno del 1905, gli artisti della Brücke espongono per la prima volta nella galleria d’arte PH Beyer & Sohn a Lipsia e la mostra si rivela un fallimento. Nel 1906, Max Pechstein, Emil Nolde e il pittore svizzero Cuno Amiet sono conquistati dalle idee della Brücke, e per un limitato periodo di tempo accettano di diventare membri della piccola comunità. Nello studio al 65 di Friedrichstadt a Dresda, Heckel realizza innumerevoli disegni, xilografie e dipinti, nonché le sue prime acqueforti. Ad agosto del 1906 il mercante d’arte Beyer osa ascoltarlo ancora una volta e lo lascia tentare un’altra mostra a Lipsia, nonostante il primo insuccesso. In ottobre organizza la prima vera esposizione della Brücke, che ha luogo negli showroom della fabbrica di lampade Karl-Max Seifert, progettata da Wilhelm Kreis a Dresda-Löbtau. In qualità di segretario, delegato dagli altri soci, Heckel cerca contatti con collezionisti, mercanti d’arte ed esperti di musei, esplora ogni possibilità espositiva e recluta altri membri che possano portare linfa vitale, perché è convinto che l’idea per riuscire è fare gruppo. Questo lo porta a stringere amicizia con il direttore del tribunale distrettuale di Amburgo, nonché collezionista d’arte, Gustav Schiefler, che Heckel probabilmente conosce attraverso Karl Ernst Osthaus, al tempo direttore e fondatore del Museo Folkwang di Hagen (lo stesso museo che oggigiorno dedica un ampio spazio all’artista). Schiefler diviene uno dei “membri passivi” della Brücke, ovvero quel gruppo di sostenitori che mantiene finanziariamente le attività dell’associazione. Nel 1907, abbandona definitivamente il lavoro tecnico nello studio di architettura di Kreis, che finora gli è servito a sostentarsi, per dedicarsi interamente ai propri interessi artistici.

Erich Heckel, Fornace (Dangast), 1907

Oltre alla serie di xilografie per Oscar Wildes, stampa le prime litografie che chiama Ballata dal carcere di Reading. Nell’estate del 1907, si ritira insieme a Schmidt-Rottluff, per la prima volta e per diversi mesi, a Dangast. Una produzione più concentrata porta all’accrescimento dell’attività espositiva. A tale scopo vengono allestite diverse raccolte di quadri degli artisti della Brücke, che potrebbero essere considerate come vere e proprie mostre itineranti in tutta la Germania e la Svizzera. Il primo soggiorno del 1907 a Dangast, ospite di Schmidt-Rottluff, segna un momento fondamentale della sua formazione. È qui che supera alcune incertezze stilistiche giovanili. Le tele sul cavalletto, in questi mesi restituiscono un disegno sommario, un uso aggressivo e acceso dei colori. Vogliono ricordare le ultime opere di Van Gogh, con la sua pennellata materica, vivace, circolare. Lo possiamo vedere in Fornace del 1907, ma non è ancora l’Erich Heckel, che impareremo a conoscere già dall’anno successivo, quando torna a Dangast e comincia ad addolcire linee e contrasti, più in sintonia con il suo carattere riservato, introverso, inquieto. I viaggi di questi anni gli offrono spunti opportuni per la sua evoluzione creativa. Come quello che compie nella primavera del 1909 in Italia. Un lungo itinerario di studio, dove visita Verona, Padova, Venezia, Ravenna, Rimini, Firenze, Roma, e dove apprezza la semplicità e la severità dell’arte etrusca, rimanendo colpito dalle bellezze dei nostri paesaggi collinari (Paesaggio vicino Roma, 1909).

Erich Heckel, Bagnanti tra i canneti, 1909

La sua pittura sembra distendersi, assumendo ampiezza e serenità fino a raggiungere, negli anni, una trama più astratta, forme più semplici e precise, distinte da regolarità geometriche e trasparenze coloristiche chiare e luminose. Nei mesi estivi tra il 1909 e il 1911, Heckel e Kirchner, e in seguito anche Pechstein, si ritrovano a dipingere sui laghi di Moritzburg per realizzare una serie di nudi nella natura. In ottobre, sempre con Kirchner ad Amburgo visita il collezionista d’arte e mecenate Gustav Schiefler. L’attività comincia a marciare, tanto che nel 1910 occorre cercare un nuovo studio a Dresda, vicino alla stazione ferroviaria principale (An der Falkenbrücke 2a), dove il gruppo si trasferisce. Il 1910 è pure l’anno in cui conosce, ed associa, Otto Müller che lo porterà a stringere amicizia anche con Feininger, Macke, Marc, i quali sono entusiasmati dal Cubismo Orfico di Delaunay. Sono esperienze alternative, che portano Heckel ad elaborare nuove idee, ben più aderenti all’altro gruppo col quale si è aperto un dialogo creativo, il Blaue Reiter. Scrive nel 1910: «Era chiaro per noi da cosa dovevamo allontanarci. Meno chiaro era dove saremmo andati». Ciò che più conta nella vita di un uomo, il 1910 è l’anno in cui incontra la ballerina Milda Frida Georgi, soprannominata Siddi. Sarà sua modella, ispiratrice, compagna e infine moglie, perché con lei si unirà in matrimonio il 19 giugno 1915. Tra i numerosi ritratti a lei dedicati troviamo quello del 1913, pregevole per l’intensità dello sguardo della donna e l’attento dosaggio delle luci.

Erich Heckel, Donna sdraiata (Ritratto di Siddi), 1913

Nell’autunno del 1911, Heckel da Dresda si trasferisce nella capitale, e rileva lo studio di Müller a Berlino-Steglitz (Mommsenstrasse 66, oggi Markelstrasse). Vi organizza il suo atelier e la sede della stessa Brücke, perché alla fine dell’anno anche Kirchner arriva a Berlino, così l’originario nucleo di artisti si trova di nuovo riunito. Pur tuttavia, l’orientamento stilistico sembra ormai cambiato, rispetto alla reciproca ispirazione della prima fase espressionista, quella sperimentata durante i soggiorni estivi di Moritzburg. Kirchner è attratto dal tema della metropoli che raffigura nella serie degli Straßenbilder (Scene di strada, 1913). Heckel, al contrario, ama interpretare con un ampio respiro spaziale, il paesaggio naturale, non certo quello urbano, visto da Kirchner come luogo del pericolo, della solitudine, dell’alienazione. I motivi abbozzati insieme, mutuati dall’ambiente circostante (come scene di strada, vaudeville, danza, circo, nudi in studio) oppure dalla natura (paesaggi, scene di bagni) sono interpretati da Heckel in modo del tutto personale. Utilizza colori ad olio fortemente diluiti con trementina o benzina allo scopo di restituire espressioni spontanee. In verità, per Heckel la tecnica dell’acquerello sta acquisendo una importanza crescente. In occasione della mostra Sonderbund di Colonia, Kirchner ed Heckel sono incaricati di dipingere una cappella costruita appositamente e adornata con vetrate artistiche ideate da Jan Thorn-Prikker. A Berlino, inoltre, si tengono spesso serate con letture ed ecco allora che nelle opere di Heckel si riscontrano riferimenti a Dostoevskij (Due uomini al tavolo, 1912). Però, invece dei colori contrastati, accesi e puri che utilizzava negli anni di Dresda, ora preferisce toni misti, tenui e terrosi. La scelta dei temi e delle immagini di questo periodo trasmettono per lo più uno stato d’animo cupo.

Erich Heckel, Due uomini al tavolo, 1912

A primavera del 1913, si ritira a Caputh vicino a Potsdam, e a maggio – il 27 maggio 1913 per la precisione – la comunità della Brücke si scioglie risolutivamente. Ora è libero da ogni impegno di gruppo. Dalla metà del mese di giugno 1913, trascorre l’estate prima nella casa per le vacanze di Mellingstädt vicino ad Amburgo, ospite di Schiefler, il collezionista e mecenate che ha sempre aiutato la loro comunità di artisti. Poi con Siddi si sposta a Osterholz, sul fiordo di Flensburg. Durante una gita in barca individua una spiaggia nei pressi della cittadina, che ritiene perfetta per ambientarvi una serie di nudi in riva al mare, come ad esempio Bagnanti che dipingerà l’anno successivo quando tornerà a Osterholz. Da un carpentiere locale, un certo Peter Hansen, affitta una vecchia casa, che usa come studio, e che nel 1918, a guerra conclusa, deciderà di comprare. A Berlino riesce ad aprire presso la galleria di Fritz Gurlitt la sua prima mostra personale. Nel 1914, nell’ambito della esposizione Werkbund a Colonia, Heckel dipinge le stanze del Rheinisches Kunstsalon di Otto Feldmann, visita Heinrich Nauen a Dilborn sul Basso Reno in primavera e viaggia in Olanda e Belgio.

Erich Heckel, Bagnanti in spiaggia, 1913

Ma la guerra ormai non lascia più spazio all’arte. È impegnato in un corso come infermiere volontario presso la Croce Rossa di Berlino e qui ha modo di fare amicizia con Franz Pfempfert, l’editore di Aktion. In qualità di paramedico, viene mandato di stanza nelle Fiandre (Roeselare e Ostenda), dove ha modo d’incontrare Max Beckmann e James Ensor, che esercitano su di lui grande attrazione. In una lettera a Gustave Schiefler, dalle Fiandre, a Natale del 1915, scrive: «Come sono contento di dipingere. Per i soldati è molto bello; quanto rispetto, e anche amore per l’arte, c’è negli esseri umani, nonostante tutto, e chi avrebbe mai pensato che il mio stile, che sembrava così moderno e incomprensibile a critici e pubblico, nelle mostre marce delle città, ora potrebbe parlare e trasmettere qualcosa agli uomini a cui ne faccio dono». In numerose xilografie raffigura soldati e marinai feriti, affidati alle sue cure.

Erich Heckel, Due feriti, 1915, stampa xilografica su carta

Nel 1918, quando riprende l’attività d’artista a guerra conclusa, ritorna a Berlino, dove, sotto l’influenza decisiva di Pfempfert, viene fondato l’Arbeitsrat für Kunst ovvero il Consiglio dei lavoratori per l’arte, importante per i contatti tenuti con il Novembergruppe – fondato a dicembre del 1918 e nel quale l’artista entra, anche se per breve tempo – e il Deutscher Werkbund. il Consiglio dei lavoratori per l’arte riunisce architetti, pittori, scultori e scrittori d’arte, all’insegna di un programma preciso: «L’arte e le persone devono formare un’entità. L’arte non deve più essere un lusso di pochi, ma deve essere goduta e vissuta dalle grandi masse. L’obiettivo è un’alleanza delle arti sotto l’ala della grande architettura». Oltre a Heckel, tra i membri fondatori troviamo anche Nolde, Ludwig Meidner, Pechstein, e tanti altri ancora.

Erich Heckel, Ritratto di un uomo (autoritratto), 1919 xilografia a colori

Lo scenario è ormai cambiato. Heckel riprende a dipingere. Nelle nuove immagini si può osservare come il suo linguaggio formale sia mutato: si è gradualmente quietato, le linee si sono ancora ammorbidite e qua e là emergono tendenze astratte. Intraprende anche un intenso lavoro adoperando la tecnica dell’incisione su legno (Autoritratto, 1919). Nel 1923 Israel Beer, mercante d’arte berlinese, organizza la più importante mostra sul suo lavoro grafico, rimasta ad oggi insuperata. Heckel non è un tipo sedentario, in questi anni fra le due guerre, compie molti viaggi e sviluppa amicizie, sia in Germania che all’estero: in Svizzera, Francia, Inghilterra, Danimarca, Svezia, Spagna e Italia. Durante questi suoi viaggi dipinge composizioni per lo più di grandi dimensioni: sono ancora paesaggi montani e costieri (Paesaggio di dune a Sylt, 1931), ma anche paesaggi urbani. Tutto questo fino a metà degli anni Trenta, quando da parte dei nazionalsocialisti, che lo dichiarano nientemeno pervertito, gli viene vietato di esporre. Nel 1937 a proposito della mostra di Arte degenerata, 729 opere sono rimosse dai musei e confiscate, molte delle quali distrutte o vendute all’estero per il tornaconto del partito nazista. Nel 1944, durante il secondo conflitto mondiale, il suo atelier di Berlino (Emser Straße 21), dove avevano lavorato spesso insieme i componenti della Brücke, è distrutto da un bombardamento e gran parte del suo lavoro si perde tra le fiamme, in particolare i disegni, tutti i suoi blocchi per la stampa delle xilografie e molta produzione grafica. Così a maggio di quell’anno preferisce trasferirsi a Hemmenhofen sul Lago di Costanza, dove rimarrà fino al 1949, quando è nominato all’Accademia di Belle Arti di Karlsruhe, dove insegnerà fino al 1955. Da allora si ritira in Engadina e, salvo brevi viaggi, trascorre gli ultimi anni sempre dipingendo. Torna ai temi pittorici familiari e completa tranquillamente le sue composizioni equilibrate.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Fritz Bleyl – Non era un vero bohémien, ma uno studente di architettura organizzato

di Sergio Bertolami

32/2 – I protagonisti

Hilmar Friedrich Wilhelm Bleyl, noto agli amici come Fritz Bleyl (Zwickau in Sassonia 1880 – Bad Iburg 1966), è uno dei quattro fondatori del gruppo artistico Die Brücke (“Il Ponte”). Forse è il meno conosciuto, rispetto a Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel e Karl Schmidt-Rottluff. Il meno conosciuto, perché prese parte al sodalizio che avviò l’Espressionismo tedesco soltanto per un paio d’anni. I quattro si erano incontrati, ancora studenti, nelle aule del Politecnico di Dresda. Fritz Bleyl conobbe Ernst Ludwig Kirchner durante il primo semestre di corso e divennero subito molto amici. Insieme si sono avventurati in lunghe passeggiate per studiare la natura e discutere delle loro idee artistiche. C’è chi dice che non siamo noi a scegliere la vita, ma è la vita a sceglierci. In questo caso il detto sembra calzare a pennello, perché Fritz, che studiava architettura solo per assecondare i desideri dei genitori, sognava di diventare un pittore, ma fu l’unico fra i quattro amici che condusse la sua esistenza facendo davvero l’architetto e insegnando ai giovani come diventare a loro volta degli architetti. A partire dal 1906, infatti, fu impegnato alla Bauschule (la Scuola Edile) di Freiberg e presso la Scuola di Falegnameria Applicata, dove insegnò disegno a mano libera e disegno ornamentale. È scritto ovunque che Bleyl scelse una “vita borghese” piuttosto che l’anticonformismo: si sposò nel 1907 con Gertrud Tannert e svolse una professione che gli permetteva di mantenere dignitosamente la famiglia. Il convincimento prevalse sulle aspirazioni di cambiare l’arte del nuovo secolo, così in quello stesso anno 1907 si svincolò dal perseguire gli intenti della Brücke e mollò tutto. Da quel momento in poi Bleyl continuò a insegnare e a lavorare, conducendo una vita tranquilla. E questo non è affatto indice di demerito.

Fritz Bleyl, Inverno, 1905
Fritz Bleyl, Flucht nach Ägypten (Fuga in Egitto), 1910

Eppure, in quei primi anni i quattro amici condividevano tutti l’atteggiamento libertario e le idee rivoluzionarie di Kirchner. La ribellione contro la pittura tradizionale e accademica rispecchiava un sentimento comune fra la maggior parte dei giovani artisti dell’epoca. La vera novità che li caratterizzava era invece la nuova proposta estetica: un “ponte” fra la tradizione dell’arte tedesca (quella di Albrecht Dürer, Matthias Grünewald e Lucas Cranach il Vecchio) e il presente moderno, che infervorava di convinzioni innovative le avanguardie europee. Fritz Bleyl stesso descrisse le riunioni del gruppo della Brücke nel primo studio di Kirchner a Dresda, ricavato in un’ex macelleria. Era quello lo spazio «di un vero bohémien, pieno di dipinti sparsi dappertutto, disegni, libri e materiali d’artista. Era molto più simile all’alloggio di un artista romantico che alla casa di uno studente di architettura ben organizzato». L’asserzione suona come una sottile critica. Lo studio di Kirchner era in verità uno spazio dove incontrarsi liberi dalle convenzioni sociali. Schizzi e foto lo dimostrano. Vi si tenevano in gruppo esercitazioni di disegno dal vero, per cui, volendo rompere con le scrupolosità accademiche, iniziarono a fare rapide sessioni estemporanee di un quarto d’ora, prediligendo di riportare su carta atteggiamenti consueti, nel tentativo di catturare ogni spontaneità. Le modelle che ritraevano nude, in quei primi lavori, non erano delle professioniste come quelle che posavano nelle aule didattiche delle accademie. Appartenevano piuttosto alla cerchia di amiche e fidanzate che Kirchner raccoglieva intorno a sé nel proprio studio. In effetti, i rapporti che s’intrattenevano suggeriscono amori istintivi e allegre capriole. Bleyl ha descritto una di queste modelle, Isabella, una quindicenne del quartiere, «molto vivace, dai bei lineamenti, gioiosa, senza alcuna deformazione causata dalla stupida moda del corsetto e pienamente adatta alle nostre esigenze artistiche, soprattutto nella stagione in cui prendeva a germogliare la sua femminilità». Tutto sommato, uno stile di vita spregiudicato che forse poco si addiceva al carattere appartato di Bleyl.

Fritz Bleyl, manifesto promozionale della prima mostra Die Brücke, 1906, vietato dalla censura.

Dal punto di vista artistico, in quei primi anni, Bleyl contribuì attivamente e con passione ai lavori della Brücke. Dal momento che si era indirizzato alla progettazione grafica toccava a lui, in quanto pittore e incisore, produrre manifesti, locandine e biglietti per le esposizioni aperte al pubblico dal gruppo. Da settembre a ottobre del 1906 si tenne la prima mostra collettiva, nello showroom di K.F.M. Seifert e Co. a Dresda. Tema scelto era, ovviamente, il nudo femminile, derivato dagli studi dal vero. Bleyl realizzò un manifesto litografico promozionale, stampato con inchiostro arancione su carta bianca. Il suo formato stretto e lungo si distingueva dall’usualità, più simile alle xilografie giapponesi anziché alle stampe contemporanee. Tutt’altra cosa rispetto al manifesto realizzato nel medesimo anno da Otto Gussmann per la Terza Mostra tedesca di arti applicate di Dresda. Immagine liberty di donna, quella di Gussmann, avvoltolata in un abito fluente, con una corona in capo, esibisce una lampada che i visitatori troveranno nei padiglioni in esposizione. Bleyl, al contrario, per pubblicizzare la collettiva artistica della sua Brücke, ritrae le curve sensuali di Isabella in un nudo solarizzato a figura intera, eretta in piedi sulla scritta Mostra del gruppo artistico Brücke (Ausstellung kunstlergruppe Brücke). La censura, manco a dirlo, vietò – appigliandosi a una sottigliezza – la collocazione in pubblico del manifesto, ai sensi dell’articolo 184 della legge nazionale sulla pornografia. Non per il nudo in sé, ma per l’idea dei peli pubici che l’ombra sotto il ventre faceva intuire.

Otto Gussmann, manifesto promozionale della terza mostra tedesca di arti e mestieri,

Gli anni studenteschi che vanno dal 1901 al 1906 sono stati oggetto di studi attenti e approfonditi sulla base della documentazione conservata al Politecnico di Dresda. La domanda spontanea che sorge è come mai quattro studenti che in teoria avrebbero dovuto interessarsi al disegno tecnico di piante ed alzati edilizi, alle geometrie prospettiche ed assonometriche, allo studio della storia dell’arte e della composizione architettonica, fossero presi piuttosto dal disegno a mano libera e da escursioni didattiche naturalistiche. La risposta è semplice, quasi scontata: l’ordinamento universitario, già avanti in quegli anni, offriva alla formazione degli studenti di architettura una vasta gamma di corsi, tra cui arredamento d’interni, disegno artistico, storia e critica dell’arte, nonché aspetti teorici e pratici delle arti applicate. Questo mette in dubbio le affermazioni gratuite che gli artisti della Brücke fossero totalmente autodidatti. Sono stati ricostruiti i corsi impartiti a Dresda in quegli anni, così come si è esaminato il semestre invernale di Kirchner del 1903-1904, trascorso nei laboratori della scuola d’arte Debschitz e della Obrist Art School di Monaco. Parimenti, sono state analizzate le minute delle lezioni di Hermann Obrist e dei due più noti professori di Dresda, Cornelius Gustav Gurlitt e Fritz Schumacher. Questo per comprendere quale influenza possano aver avuto sugli studenti dell’epoca le idee e le posizioni teoriche dei loro insegnanti.

Fritz Bleyl, Susanna II, 1920

Nel 1905, Bleyl completò gli studi universitari e, dall’anno successivo, iniziò a insegnare alla Bauschule. Per il resto dei suoi anni continuò a dividersi fra il lavoro didattico e la professione tecnica. Nel 1910 tornò a Dresda ed entrò nello studio dell’architetto Ernst Kühn fino al 1912, quando lasciò Dresda e lavorò sempre come architetto nell’ufficio immobiliare di Korff a Laage (Meclemburgo-Pomerania). Dopo la chiusura dell’ufficio, fu di nuovo a Dresda nel 1915/16 per coadiuvare Cornelius Gurlitt nel suo studio e sotto la sua guida completare la tesi di dottorato all’Università di Dresda. L’estro artistico Bleyl lo riservò privatamente al disegno e alla grafica, ma si astenne sempre dalle pubbliche esposizioni. Nel corso della Prima guerra mondiale, prestò servizio militare a Sensburg nella Prussia orientale e diresse le officine per disabili di guerra nell’ospedale di riserva di Görden, vicino al Brandeburgo. A guerra conclusa, negli anni Venti e Trenta, annualmente viaggiò per studio in Germania e all’estero. Visitò Boemia, Italia, Svizzera. Nel 1919 era stato nominato Consigliere di Stato per l’Educazione, nel 1940 divenne anche Consigliere di Stato per l’Architettura presso la Scuola Statale di Architettura di Berlino. Sempre dal 1940, trovò lavoro come insegnante e funzionario edile presso la scuola di edilizia di Berlino/Neukölln. Quando il suo appartamento nella capitale fu confiscato nel 1945, si trasferì prima a Calbe/Saale e dall’anno successivo decise di stabilirsi con suo fratello Herbert a Zwickau, dov’era nato, e ci rimase per tre anni, fino al 1948, per raggiungere quindi suo figlio vicino a Colonia. Dopo aver soggiornato in una casa di riposo a Knechtsteden e nell’insediamento forestale Schlebusch vicino a Leverkusen, a partire dal 1959 si stabilì definitivamente in Svizzera, a Lugano. Morì a Bad Iburg, in Germania, all’età di 85 anni.

Fritz Bleyl, Castello di Moritzburg, 1932
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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Ernst Kirchner – Riportare ordine nel caos circostante: questo è il mio compito

di Sergio Bertolami

32/1 – I protagonisti

Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffenburg 1880 – Frauenkirch, presso Davos, 1938). È spesso considerato il rappresentante più tipico del gruppo Die Brücke, la personalità più interessante, il più dotato di talento e creatività. Senza dubbio è la guida spirituale del sodalizio artistico, il riferimento teorico, il principale organizzatore. Alla base del suo carattere è una irrequietezza esistenziale che lo porta a sperimentare nuove forme d’arte, esplorare percorsi alternativi. Tutto ciò è testimoniato dalla ricca produzione, che gli ha permesso di realizzare oltre mille tele e un numero maggiore fra disegni, acquerelli, incisioni, illustrazioni per libri e, in quanto architetto, anche decorazioni d’interni. Pur credendo in un lavoro di gruppo, normalmente preferiva dipingere in solitudine, alla ricerca di una libertà espressiva scissa da qualsiasi vincolo. A cominciare dai vincoli imposti dai critici, dai mercanti d’arte e dai collezionisti.

Ernst Kirchner, Autoritratto con pipa, 1905

Visse l’infanzia nella bassa Baviera, dov’era nato il 6 maggio del 1880. Fino a nove anni risiedette a Francoforte per poi trasferirsi a Perlen, presso Lucerna, dove il padre, Ernst Daniel Kirchner – professore di chimica ed esperto in tecnologie industriali – assunse la direzione di una cartiera. Per questo motivo il giovane Ernst fu sempre spinto dalla famiglia a disegnare e dipingere. Il padre venne chiamato a Chemnitz, per insegnare tecniche sulla fabbricazione delle carte, e qui a Chemnitz Kirchner proseguì gli studi e ottenne il diploma del Realgymnasium. Quindi, si recò a Dresda per frequentare i corsi universitari alla Technische Hoschüle, desideroso di assecondare il percorso delineato dal padre. Sin dall’inizio a Dresda alternò interessi non solo verso l’architettura, ma anche verso le tecniche d’incisione, come la xilografia e le stampe. Fonte di ispirazione era il bidimensionalismo giapponese. Inoltre, poteva ammirare le opere dei moderni, come quelle di Seurat, di Gauguin e ancor meglio di Van Gogh, col suo linearismo ondoso e vibrante. Nel 1905 Kirchner abbandona definitivamente l’idea di abbracciare la professione di architetto e il 7 giugno, solo tre settimane prima dell’esame di laurea, fonda l’associazione artistica denominata Die Brücke (Il Ponte). Nel 1906 utilizza lo studio del collega Heckel al numero 60 della Berliner Straße. Nello medesimo anno il gruppo allestisce la prima mostra ufficiale negli spazi espositivi della fabbrica di lampade di Seifert, nel quartiere Löbtau.

Ernst Kirchner, Danzatrice, 1911

Inizia un’attività di ricerca e di riflessione artistica. Nel 1908 visita varie mostre dove sono esposte opere Vincent van Gogh e dei Fauves. Durante l’estate si reca per la prima volta sull’isola di Fehmarn, nel mar Baltico. Nel gennaio del 1909 alla Galleria Paul Cassirer visita la prima personale di Matisse in Germania, a distanza di un mese, una mostra di Cézanne. Il Museo Etnografico di Dresda riapre i battenti a marzo del 1910 e Kirchner scrive agli amici Pechstein e Heckel: «Qui il museo etnografico è nuovamente aperto, anche se solo in piccola parte, ma è un godimento e ti si allargano i polmoni a vedere i famosi bronzi del Benin; alcuni oggetti dei pueblos messicani sono ancora esposti e anche sculture negre». Nelle sale osserva una trave dell’Isola di Palau e molti fra i reperti arrivati al museo, frutto di una spedizione tedesca intrapresa nei mari del Sud fra il 1908 e il 1910. «Una trave davvero meravigliosa… le cui raffigurazioni rivelano un linguaggio formale identico al mio». Questo primitivismo è, a tutti gli effetti, il terreno di fondazione per costruire un linguaggio personale, che possiamo vedere evolversi e definirsi nel tempo. Nel 1909, a corto di denaro, è costretto a trovare nuovi locali. L’avvocato e collezionista Gustav Schiefler descrive così il nuovo atelier dell’artista: «Le stanze erano decorate in modo fantastico con tessuti colorati che aveva realizzato usando la tecnica batik, con tutti i tipi di attrezzature esotiche e sculture in legno di sua mano. Un ambiente primitivo, nato per necessità, tuttavia fortemente segnato dal suo gusto. Qui ha condotto uno stile di vita disordinato, se paragonato agli standard borghesi, semplice in termini materiali, ma molto ambizioso nella sua sensibilità artistica. Lavorava febbrilmente, senza badare all’ora del giorno».

Ernst Kirchner, Persone che entrano in mare, 1912

Legato a questi concetti è anche uno dei temi più sentiti di questo periodo: i nudi femminili in rapporto con la natura. In contrapposizione con i nudi accademici, i suoi lavori rappresentano espressivamente il sovrapporsi di diverse forme di primitivismo, con preciso riferimento all’Urzustand, letteralmente lo “stato originale”, la condizione umana primaria, arcaica, iniziale. Persone che entrano in mare è un dipinto del 1912. Il fascino di queste escursioni era una fuga spensierata dalla ristretta mentalità cittadina. Kirchner e i suoi amici consideravano i laghi di Moritzburg come un’area nella quale i confini inibitori tra arte e vita svanivano lasciandoli liberi di esprimersi. «Liberati dalla folla urbana, gli uomini e le donne nei dipinti di Kirchner si divertono sotto gli alberi, nuotano nudi nel mare, giocano con archi e frecce o fanno l’amore all’aria aperta, sciolti dai vincoli e dai tabù della civiltà… Spogliati dei loro vestiti e dei loro ornamenti civilizzati, artisti e modelle erano tutt’uno con la natura e conducevano la vita dei moderni primitivi» (Jill Lloyd, German Expressionism: Primitivism and Modernity). Uno stile esistenziale che in Germania era definito Künstler Boheme ovvero vita da Boheme artistica, che sconvolgeva il consolidato concetto sociale di “moralità”, quando ipocritamente erano in molti a sapere che all’epoca numerosi nudisti frequentavano le rive del Moritzburger Teiche, un’area di boschi e bacini lacustri a nord di Dresda in Sassonia. Per Kirchner l’essere umano rappresentato nelle sue opere appare in tutta la sua neutralità, come un elemento della natura, come un nudo immerso nella vastità di un paesaggio in cui cresce come una pianta o un fiore.

Ernst Kirchner, Coppia di visitatori in studio con Dodo e Marzella, 1910

Tra le modelle si ricordano Marzella e Fränzi, che posano anche per Pechstein e Heckel. Un’altra modella è Dodo (la sua ragazza dell’epoca), visibile in opere tra il 1908 e il 1911. Marzella e Fränzi sono le figlie della vedova di un artista che viveva vicino a Kirchner. Sono spesso raffigurate, sia vestite che nude, all’interno dello studio ed anche associate a vari manufatti di ispirazione africana scolpiti dall’artista. In una rappresentazione vediamo un’elegante coppia borghese mentre prende del tè nello studio dell’artista, che in pochi tratti di penna fonde tre piani di immagini: nel primo piano spiccano i visitatori alla moda che conversano, al centro ci sono Marzella e Dodo nude e sullo sfondo si scorge il dipinto di Kirchner Danza del funambolo. Anche Fränzi compare in diverse opere, come Fränzi davanti a una sedia intagliata, dove il volto della ragazza è restituito da colori nient’affatto naturalistici, dietro a lei uno schienale in legno intagliato realizzato dall’artista. Sono composizioni pittoriche libere da pregiudizi che permettono a Kirchner e gli altri artisti della Brücke di conquistare presto un vago successo all’interno di una minuscola cerchia di collezionisti. Dopo una mostra a settembre del 1910 alla Galerie Arnold, una delle più importanti gallerie d’arte moderna di Dresda, ora potevano considerarsi realmente i nuovi esponenti dell’avanguardia tedesca.

Ernst Kirchner, Fränzi davanti a una sedia intagliata, 1910

Il linguaggio personale di Kirchner si evolverà, esplorando nuovi temi, dopo il 1911, quando si trasferisce a Berlino. La ragione principale di tale decisione è la ricerca di una affermazione definitiva della sua arte. Insieme alla sua nuova fiamma, Erna Schilling (1884-1945), dalla quale non si separerà più, Kirchner ricrea l’atmosfera del suo atelier di Dresda, addobbando il nuovo monolocale con arazzi primitivisti, pitture murali e sculture africanizzate da lui stesso scolpite. L’atelier di Berlino è anche concepito come spazio per una sua nuova impresa chiamata MUIM-Institut (che sta per Moderner Unterricht in Malerei, Insegnamento Moderno In Pittura), una scuola d’arte privata fondata col suo amico della Brücke Max Pechstein. L’idea riscuoterà talmente scarsi consensi da richiamare soltanto due studenti, peraltro amici intimi di Kirchner. Nel frattempo, le controversie e le divergenze di opinioni porteranno presto il gruppo della Brücke allo scioglimento. Nel 1913, infatti, il resoconto sull’attività dell’associazione, redatto da Kirchner, provoca lo scontento dei soci, che preferiscono mettere fine all’esperienza comune. Da ora in poi, l’artista affronterà una serie di traversie che lo formeranno nel profondo. I temi dell’uomo immerso nella natura, una volta che si trova a vivere l’atmosfera berlinese lasceranno spazio alle molte scene ambientate nelle strade della grande metropoli.

Ernst Kirchner, Scena di strada berlinese, 1913

Questo ambiente urbano, del tutto nuovo per lui, lo attrae, tanto quanto lo respinge. In dodici dipinti ad olio Kirchner rappresenta Scene di strada, dai forti contrasti coloristici, caratteristici della sua produzione berlinese. All’epoca, la città si presentava già come una metropoli sempre più in espansione. Un centro vivace anche sotto il profilo artistico e culturale. Il gruppo della Brücke fa il suo esordio con una collettiva alla galleria Gurlitt, ma, anche dopo l’epilogo delle attività comuni, Berlino continua ad esercitare forti attrazioni su Kirchner, proprio per la sua vita convulsa. Nel 1931 in Omnibus scriverà un articolo autobiografico Über Leben und Arbeit (Sulla vita e sul lavoro), affermando: «Le luci della città moderna e il movimento delle sue strade sono per me un continuo stimolo che sempre si rinnova». Ecco, dunque, che ai nudi gioiosi e spontanei, raffigurati sulle coste dei mari del Nord o dei laghetti di Moritzburg, subentra la calca cittadina, che restituisce all’autore un senso panico, opprimente e claustrofobico. Un dinamismo che ritrova, per certi versi, nelle due mostre alla galleria Sturm di Walden del 1912, dove può osservare da vicino le opere dei futuristi italiani (Boccioni, Carrà, Russolo, Severini) imperniate proprio sulla città moderna. Nel suo diario scriverà, ponendo come titolo Le mie immagini di strada: «sono nate fra il 1911 e il 1914, in uno dei periodi di maggiore solitudine della mia vita, quando un’inquietudine tormentosa di giorno e di notte continuamente mi faceva uscire di casa, nelle lunghe strade piene di gente e di vetture».

Ernst Kirchner, Cinque donne per strada, 1913

Naturalmente prende appunti, schizzi, che tramuta in disegni, pastelli, incisioni a stampa. Diventa un testimone, del tutto soggettivo, della frenesia urbana, identificata nei nomi dei viali principali o delle loro traverse. Cinque donne per strada, è il primo quadro della serie. Si vedono cinque donne elegantemente vestite, donne da marciapiede, pronte ad attrarre clienti: una scena notturna della capitale subito prima della guerra, nell’autunno del 1913. A sinistra dell’immagine è appena rappresentata una ruota d’automobile, simbolo della mobilità in tempi moderni. In Scena di strada berlinese, alle spalle dei personaggi in primo piano, raffigura, invece, un servizio tramviario: un omnibus trainato da due cavalli sul quale i viaggiatori stanno prendendo posto ed altri che si accalcano sul predellino per salirvi. Individui disinteressati gli uni degli altri. Sul piano frontale spiccano quattro figure: due signori di spalle (uno gira distrattamente il capo, mostrando la sigaretta che pende dalle labbra) e due eleganti signore. Fin troppo vistose. Indossano cappelli con piume e soprabiti lunghi fino alle caviglie: sono due cocotte, nome dai molteplici sinonimi che oggi potremmo trasporre con escort d’alto bordo. Il contrasto è netto in questa città moderna: da una parte l’atmosfera esagitata, caotica, vociante e sferragliante, dall’altra la solitudine e l’alienazione dei più, quell’incomunicabilità anche fra la moltitudine, che ritroveremo frequentemente espresse nelle opere di molti altri autori nel procedere del Novecento. Ma il contrasto si ripercuote anche nell’animo dell’artista che scriverà nel 1916: «Siamo come le cocotte che ho dipinto, travolte, destinate a scomparire. Tuttavia, cerco sempre di riportare equilibrio nei miei pensieri e di creare un’immagine del tempo, ponendo ordine nel caos circostante: questo è il mio compito». Si può comprendere chiaramente come i temi di Kirchner ruotino sempre intorno alle persone e nel compenetrarsi con esse mostra tutta la sua angoscia. In queste rappresentazioni la critica alla società del proprio tempo diventa estremamente esplicita.

Ernst Kirchner, Autoritratto da soldato, 1915

A Berlino Kirchner prende a frequentare gli ambienti letterari dell’avanguardia, come il Neue Club, un cabaret fondato da Kurt Hiller e Jakob van Hoddis nei cortili di Hackesche Höfe. Oppure, la cerchia degli intellettuali facenti capo alla Weltbühne, nata col nome di Die Schaubühne come rivista di puro teatro, che dal 1913 aveva cambiato nome per occuparsi di politica, arte e affari. Kirchner espone nella sua prima mostra personale, proprio a ridosso dello scoppio nel 1914 della Grande guerra. È richiamato alle armi, assegnato al 75° reggimento di artiglieria, ma il suo spirito libertario e irriducibile gli impedisce di attenersi alla disciplina militare. Più che come un dramma collettivo, vive il conflitto come un dramma personale: «enormi compiti ci aspettano; personalmente non potrò parteciparvi molto; sopporto tutto, meno questa sistematica distruzione che ora è di moda e della quale diventerò probabilmente vittima, sia che lo voglia o no». Ben presto è congedato per inidoneità al servizio militare. L’esperienza bellica sconvolge intensamente Kirchner, che a dicembre del 1915 è ricoverato nel sanatorio di Königstein, dove i medici lo reputano inguaribile. Il crollo fisico e mentale lo spinge verso la droga, dalla quale si libererà con fatica. A poco a poco, riesce a recuperare la fantasia creativa.

Ernst kirchner, Ritratto di Erna Schilling, 1913

Gli sta accanto Erna Schilling, compagna della sua vita. Erna si occupa anche degli affari dell’artista, supplendo agli alti e bassi del suo esaurimento nervoso e badando al patrimonio finanziario ora in crescita, grazie alla vendita dei quadri. Dal 1923 la coppia si trasferisce nella “Wildbodenhaus” a Davos Frauenkirch (in Svizzera). Le montagne e la vita semplice dei pastori lo rincuorano. Ritrova lo spirito di gioventù. Scrive nel suo diario: «La nostra nuova casetta è una vera gioia per noi. Vivremo qui comodamente e in un grande nuovo ordine. Questo sarà davvero un punto di svolta nella mia vita. Tutto deve essere accomodato e la casetta arredata nel modo più semplice e sobrio possibile, pur restando bella e intima».

Locandina dell’esposizione sull'”Arte degenerata” (Entartete Kunst), Berlino, 1938

Nel 1926 rientra per la prima volta in Germania. Riceve l’incarico per un grande dipinto murale nel Museum Folkwang di Essen. L’artista elabora numerosi schizzi e studi, ma nel 1933, per via dei contrasti con la direzione e la situazione politica tedesca, il progetto di decorazione viene abbandonato. Due anni prima era stato nominato membro dell’Accademia Prussiana delle Arti di Berlino. Quando, però, i nazionalsocialisti prendono il potere in Germania, per l’artista diviene impossibile vendere i suoi quadri. Kirchner rimane inizialmente membro dell’Accademia, ma la sua arte risulta invisa al potere e nel luglio 1937 è infine destituito. Centinaia di opere sue vengono sequestrate e rimosse dai musei: sono ben 639, delle quali 25 dirottate a Monaco di Baviera, per essere esposte in una mostra diffamatoria di “Arte degenerata”, organizzata per propaganda dal partito nazionalsocialista, che dal 1933 al 1945 è l’unico partito ammesso in Germania. L’esposizione, voluta da Hitler, è inaugurata nel luglio 1937 e rimane aperta fino al mese di novembre dello stesso anno. Le difficili condizioni economiche, aggravate dalla malattia, che lo costringe a letto per lunghi mesi, acuiscono i problemi.

Ernst Kirchner, Gregge di pecore, 1938

Dal 1932 è nuovamente dipendente dalla morfina e in una lettera all’amico Erwin Friedrich Baumann, architetto e scultore, gli descrive il pericolo della droga. Ricaduto nei propri drammi psicologici, come ai tempi della guerra, Kirchner vede un’unica soluzione plausibile, per affermare il proprio ideale di artista libero. Muore suicida a Davos il 5 giugno 1938, con un colpo al cuore. La sua pistola viene trovata a un metro di distanza dal corpo. Tuttavia, il colpo è così preciso da destare sospetti. Secondo il referto medico ufficiale «Il cuore è stato centrato così bene che la morte è risultata immediata»; ma l’esperto di armi Andreas Hartl, afferma per contro che tutto ciò era assai difficile, con il modello FN Browning 1910, a causa del dispositivo di sicurezza sull’impugnatura dell’arma. Per certo sappiamo che al momento del suicidio, secondo la sua compagna, sul cavalletto c’era il dipinto Schafherde (Gregge di pecore, 1938). «La sua casa sul Wildboden è difficilmente riconoscibile: nessuna porta, nessun fiore, nessuna visione chiara, finestre di studio cieche. Un grande gregge di pecore, intorno alla casa, blocca la via d’uscita, la via della libertà» (Albert Schretzenmayr).

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Kirchner, Bleyl, Heckel, Schmidt-Rottluff: i magnifici quattro dell’Espressionismo tedesco

di Sergio Bertolami

32 – I protagonisti

Il primo decennio del Novecento vede il manifestarsi delle “avanguardie”, gruppi di artisti o singole individualità, che operano in rottura drastica con la tradizione, fanno circolare manifesti e diffondono programmi, accompagnati da pubbliche manifestazioni considerate dal perbenismo comune come provocatorie. Nelle arti figurative, tra le avanguardie artistiche stiamo considerando l’Espressionismo, con le più importanti esperienze esercitate da Die Brücke e Der Blaue Reiter. Nelle pagine a seguire si potranno leggere almeno i tratti essenziali del Fauvismo e Cubismo. Ci accorgeremo come progressivamente queste correnti saranno sempre più accomunate da una forte tendenza non figurativa, tanto da convergere nell’astrattismo, distinguendo, così, De Stijl, Costruttivismo, Futurismo, Raggismo, Dadaismo, Surrealismo. La letteratura in proposito è notevole e variegata, per questo è consigliabile leggerla direttamente, anziché accontentarsi delle sintesi approssimative che si trovano dappertutto. Il fil rouge, che qui seguiremo, cercherà di essere utile come indirizzo agli approfondimenti.
 
Al momento, rimaniamo concentrati sull’Espressionismo, che, come si è visto, si sviluppa a partire dal 1905, e continuiamo a descrivere gli ambiti della cultura artistica tedesca. In pittura i precursori possono farsi risalire a Ensor o Munch, che fra i primi hanno rappresentato il mondo reale direttamente attraverso il filtro della propria personalità. Caratteristica principale è che gli espressionisti tedeschi manifestano una visione del mondo quasi sempre tormentata, tragica e desolante. Tra i maggiori rappresentanti ho citato, finora, solo quelli appartenenti al gruppo della Brücke, che a partire dal 1913 decidono di sciogliersi e continuare a esprimere in modo autonomo le proprie esperienze. Nelle note seguenti, comincerò col parlare dei quattro studenti di architettura, che dettero vita a Dresda nel 1905 proprio al sodalizio della Brücke: Ernst Kirchner (1880-1938), Fritz Bleyl (1880-1966), Erich Heckel (1883-1970), Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). L’idea, infatti, è realizzare delle schede individuali, attraverso le quali descrivere i tratti salienti delle singole personalità e inserire almeno le loro opere più significative. Questa scelta permetterà di seguire negli articoli lo svolgersi delle tematiche artistiche, che per loro natura si intrecciano e si evolvono, mentre le schede dei protagonisti permetteranno di soffermarci su particolarità e dettagli.






IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Die Brücke, per chiamare a raccolta i giovani e procurarsi libertà d’azione e di vita

di Sergio Bertolami

31 – Die Brücke, perché l’uomo è un ponte, non una meta

Il movimento artistico che rappresentò il primo momento dell’Espressionismo tedesco è quello costituito nel 1905 da quattro studenti di architettura del Politecnico di Dresda, per la precisione il Collegio tecnico reale (Königliche Technische Hochschule): Fritz Bleyl, Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff. I primi due, i più maturi, avevano 25 anni, gli altri due, i più giovani, avevano rispettivamente 22 e 21 anni. Condividevano il programma di elaborare, piuttosto che nuove forme architettoniche, una pittura svincolata dai canoni naturalistici e accademici. I temi fondanti erano sostanzialmente simbolici, rivolti soprattutto alle introspezioni dell’animo e ai turbamenti esistenziali. Il gruppo nasceva sull’impronta di altre associazioni tedesche, come Die Scholle (la Zolla) e Die Phalanx (la Falange) di Monaco, con il proposito di richiamare a sé gli artisti rivoluzionari o comunque in fermento. A dimostrarlo era chiaramente la denominazione scelta, Die Brücke (Il Ponte), per fare da “collegamento” tra i diversi nuclei di agitazione innovatrice. Il nome pare sia stato suggerito da Schmidt-Rottluff, ispirato da un brano tratto da Così parlò Zarathustra (Thus Spoke Zarathustra) di Friedrich Nietzsche: «L’uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo, — una corda tesa su di una voragine. Pericoloso l’andar da una parte all’altra, pericoloso il trovarsi a mezza strada, pericoloso il guardar a sé, pericoloso il tremare, pericoloso l’arrestarsi. Ciò che è grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già una meta: ciò che è da pregiare nell’uomo, è l’essere egli una transizione ed una distruzione».

Una pagina di Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883

Nel 1906 furono chiamati a prendere parte alla Brücke anche il danese Emil Nolde, il tedesco Max Pechstein, lo svizzero Cuno Amiet e il finlandese Akseli Gallén-Kallela. Nel 1908 accolse l’invito anche l’olandese Kees van Dongen, colui che rese attivo il contatto con i Fauves di Parigi; per ultimo, nel 1910, si unì al gruppo il tedesco Otto Müller. Altri artisti, in modo più o meno assiduo, fecero parte del sodalizio: ancora un olandese, Lambertus Ziji, il ceco Bohumil Kubista e il tedesco Franz Nölken. Dalle origini geografiche dei componenti emerge palesemente il tentativo di costituire un parterre internazionale. Lo scopo, d’altra parte, era anche auto-promozionale, giacché i componenti si proponevano di organizzare esposizioni di gruppo in modo da promuovere, in patria e all’estero, l’attività collettiva. Per stringere un legame con i collezionisti, i membri della Brücke ebbero la buona idea di costituire un circolo di “membri passivi”, la cui quota di adesione annuale di dodici marchi (che divenne di venticinque dal 1912) dava diritto a una tessera, un almanacco e una cartella di xilografie eseguite dagli artisti dello stesso sodalizio. In pratica i soci ebbero modo di essere costantemente informati sulle assemblee, sugli incontri pubblici e sulle circa settanta esposizioni realizzate negli anni a seguire. Ricevettero regolarmente i Brücke Mappen, sorta di resoconti dell’attività, ed anche l’attesa cartella di grafiche a tiratura limitata. Grazie all’interessamento di Heckel, si trovarono gli spazi espositivi necessari. Dopo un esordio poco più che privato, la prima vera manifestazione pubblica non sortì pressoché alcun effetto. Tenuta nel 1906 nella sala vendite della fabbrica di lampade K.F.M. Seifer & Co, l’esposizione passò del tutto inosservata, ma nessuno si perse d’animo, perché alla prima mostra di dipinti ne seguì un’altra di stampe. L’anno successivo si optò per la Galleria Richter, nella Prager Strasse. Questa volta il gruppo riuscì ad incassare l’attenzione della critica, che, però, si manifestò ostile e denigratoria.

Tessera dei membri passivi della Brücke per l’anno 1911, xilografia di Karl Schmidt-Rottluff.
Nel riquadro centrale, a mano, è segnato il nome del socio.

I quattro fondatori della Brücke provenivano da famiglie borghesi e, per quanto riguarda l’esperienza artistica, secondo alcuni, erano quasi del tutto autodidatti. Questo non è affatto vero e avremo modo di constatarlo. Nel 1901 Ernst Ludwig Kirchner, figlio di un ingegnere, inizialmente avrebbe voluto intraprendere la professione di architetto, una volta conclusi gli studi al Politecnico. È qui che fece amicizia con Fritz Bleyl. Soprattutto s’imbatté in una serie di mostre d’arte che lo convinsero a deviare il suo percorso di vita. A Monaco, tra il 1903 e il 1904, frequentò per due semestri i corsi della scuola d’arte di Wilhelm von Debscitz ed Hermann Obrist, seguì gli incontri della Secessione, che lo delusero non poco, prese direttamente atto dei lavori Jugendstil. Sempre a Monaco, in questi anni, vide una mostra di post-impressionisti belgi e francesi organizzata dall’associazione Phalanx, presieduta da Kandinskij, e a Dresda, nel 1905, ammirò opere di Van Gogh alla galleria Arnold che negli anni seguenti avrebbe portato anche lavori di Munch, Gauguin, Seurat, Klimt. Il 1905 è, soprattutto, l’anno in cui Kirchner e Bleyl concludono il percorso di studi universitari. Decidono, tuttavia, di dedicarsi alle arti figurative, unendosi a Erich Heckel, che l’anno precedente, dopo la maturità a Chemnitz, si era iscritto ad architettura come il suo compagno di liceo Karl Schmidt-Rottluff. Il gruppo della Brücke era, a tutti gli effetti, completo.

Elenco dei soci della Brücke, xilografia di Ernst Ludwig Kirchner

Costituitosi, come sappiamo, nello stesso anno in cui i Fauves esposero le loro prime opere al pubblico del Salon d’Automne a Parigi, il sodalizio della Brücke rappresentò a tutti gli effetti l’avvio dell’arte moderna in Germania. L’humus più favorevole al germinare della nuova arte fu la cultura del post-impressionismo: dal simbolismo allo Jugendstil, al “naturalismo lirico” delle scuole di Worpswede e di Dachau. Influenzati dai pittori più espressivi del momento – Munch, Ensor, van Gogh, Gauguin – entusiasmati dalla rivelazione dell’arte nera e oceanica, che Kirchner ebbe modo di approfondire fin dal 1904 al Museo Etnologico di Dresda, i membri della Brücke si orientarono da subito in senso antimpressionista. Non erano affatto interessati a descrivere le “impressioni”, piuttosto sentivano l’urgenza di proiettare sulla tela le risonanze emotive dei propri sentimenti individuali. Il manifesto del gruppo è inciso da Kirchner in una xilografia: «Con una profonda speranza nel progresso, in una nuova generazione di creatori e di pubblico, chiamiamo a raccolta l’intera generazione di giovani e come la gioventù è legata al futuro, desideriamo procurarci libertà d’azione e di vita, contro le vecchie forze così profondamente radicate. È al nostro fianco chiunque corrisponda con immediatezza e sincerità a quanto lo spinge a creare».

Programma della Brücke, 1906, xilografia di Ernst Ludwig Kirchner

Il programma, formulato da Kirckner nel 1908, è sintetizzabile nei suoi tratti salienti: «Aspirazione ad un rinnovamento totale dell’arte tedesca col suo completo affrancamento degli influssi dell’arte francese; interpretazione di tutta la vita come arte; esaltazione della forza intatta e creativa della gioventù e della carica emozionale della vita e dell’eros; immersione nell’interiorità profonda e oscura dell’io e nelle radici del reale: senso della sacralità primigenia del vivere e liberazione dalla schiavitù della sfera del sociale, secondo quel senso antico del “sacro” che l’Europa e la Germania soprattutto esprimevano nelle sculture medievali e che anche nel mondo moderno si manifesta nella scultura dei popoli primitivi; un esasperato pessimismo con intenti di ribellione morale; ritorno, dunque, dell’uomo (che attraverso il sociale si è alienato la propria autenticità) a se stesso, in un coinvolgimento totale sia della sfera etica sia di quella politica» (Lara-Vinca Masini).

Mostra del gruppo di artisti della Brücke nelle sale della Galleria Arnold nel settembre 1910

Sono questi i temi che gli artisti della Brücke ritrovano nella lettura di Nietzsche, Kierkegaard, Wedekind, Freud, Ibsen, Strindberg. In altre parole, sono distanti dai valori che permeano l’etica borghese, rigettano l’ottimismo positivistico incentrato sull’illusione di una società sempre in perenne progresso. Punto fermo sono invece le esperienze soggettive, legate ad un’arte irrazionale. Denominatore comune è, infatti, la convinzione che l’emotività interiore e passionale – costante dello spirito germanico e nel contempo ripresa di istanze di derivazione romantica – non possa essere espressa attraverso concetti e parole, ma unicamente con la forza delle immagini. Pur essendo legati da palesi analogie, queste idee rappresentano la differenza sostanziale tra Fauves ed espressionisti della Brücke. «I membri del gruppo tedesco ignorano l’edonismo raffinato e mentale dei loro compagni francesi e tendono all’urlo, alla protesta, al grido dell’anima, anteponendo alla conchiusa bellezza dell’immagine le dissonanze e gli scatti derivanti da una viva partecipazione morale. Le semplificazioni formali, i contorni marcati, le stesure di colori puri e squillanti in uno spazio non naturalistico sono tipici del primo stile della Brücke» (Eraldo Gaudioso).

Ernst Ludwig Kirchner: I pittori della Brücke, 1925, Museum Ludwig. Da sinistra a destra: Müller (seduto), Kirchner, Heckel, Schmidt-Rottluff

Il primitivismo evidente in quest’arte espressionista tedesca è sempre assunto come evocazione di una autenticità primordiale, che trova le proprie radici anzitutto nel romanticismo e nell’area simbolista, ma che ora tende ad un tono del tutto particolare. Lungamente represso dalla società, ora esplode, dal profondo dell’inconscio, nello Urschrei, il grido primordiale, e si confonde nello «sforzo di una strutturazione astrattistica, spesso specificamente geometrica» laddove «per “geometria” intenderemo l’astrattizzazione deformatrice e ricostruttrice delle forme naturali». (Ladislao Mittner). «L’esperienza del “primitivo degli artisti di Brücke è stata attinta dal tessuto vivente delle loro vite nella Germania coloniale, piuttosto che semplicemente dalle teche polverose dei musei etnografici» (Jill Lloyd). Queste componenti primitivistiche appaiano manifeste nelle grafiche e in particolare nelle opere xilografiche, recuperate dalla tradizione popolare e dagli incisori tedeschi quattrocenteschi. Per comprendere meglio, basti immaginare l’artista al lavoro, la relazione prodigiosa tra la soggettività dell’impulso gestuale mentre scava il legno e le caratteristiche organiche che costituiscono la sua materia.

Ernst Ludwig Kirchner, Manifesto della mostra Die Brücke alla Galleria Arnold di Dresda, 1910

Gli artisti del gruppo frequentano la Pinacoteca di Dresda, per formarsi con la visione dei maestri, ma sono attratti soprattutto dalle stampe del Gabinetto delle incisioni, che raccoglie le grafiche di autori moderni come Henri de Toulouse-Lautrec e molte stampe giapponesi. Pechstein compie un viaggio a Parigi nel 1907 e stringe rapporti con i Fauves. Fino al 1908 sono anni di intenso lavoro comune, si frequentano assiduamente e, dipingendo insieme, rinsaldano la propria identità di gruppo. Trascorrono i mesi estivi alla ricerca di spunti naturali e primitivi. Se Gauguin s’era spinto fino a Tahiti, loro raggiungono le coste del Mare del Nord o del Baltico. Nel 1910 Pechstein, Kirchner ed Heckel soggiornano a Moritzburg, vicino Dresda, per dipingere nudi e paesaggi. Per tutto il mese di settembre dello stesso anno, in sei – Pechstein, Kirchner, Schmidt-Rottluff, Müller, Amiet ed Heckel – espongono ottantasette tele alla galleria Arnold di Dresda. Sempre nel 1910, in occasione della XX Secessione di Berlino, l’esclusione di 27 artisti, tra i quali membri della Brücke, costituisce l’occasione per una frattura e la formazione di una Neue Sezession. E in quanto a secessioni, in quello stesso anno, Kirchner, Heckel e Schmidt-Rottluff, partecipano all’esposizione del Sonderbund di Düsseldorf, il cui nome completo testimonia di per sé il carattere contrastato di queste associazioni di artisti: Sonderbund westdeutscher Kunstfreunde und Künstler, ovvero Lega separata degli amanti dell’arte e degli artisti della Germania occidentale.

Kirchner and the Berlin Street,
catalogo di una mostra sulla straordinaria serie di dipinti di Ernst Ludwig Kirchner

Dal canto suo, anche il sodalizio della Brücke comincia a mostrare le prime incrinature, dopo anni in cui si era lavorato con unità di intenti, grazie ad affinità di sentimento e di stile. Nolde era uscito dal gruppo nel 1907 e lo stesso aveva fatto Fritz Bleyl, lasciando non solo i compagni per insegnare e sposarsi, ma anche la pittura, così da mettere a frutto la propria laurea in architettura. L’anno stesso si stacca anche Kees van Dongen. Nel 1908 Pechstein da Dresda si trasferisce a Berlino e due anni dopo Kirchner, Schmidt-Rottluff, ed Heckel vi si stabiliscono anche loro. Lasciare Dresda per la capitale è un passo importante, perché, nelle aspettative, trasferirsi da una città relativamente intima e barocca al più ampio ambiente culturale della metropoli, potenzialmente permette di trovare un pubblico molto più reattivo verso il loro lavoro. Scrive Kirchner, ammiccante, a Erich Heckel nel 1911: «Rimarrai totalmente sorpreso quando metterai piede a Berlino. Siamo diventati una famiglia numerosa e qui puoi ottenere tutto ciò di cui hai bisogno: donne e un riparo». In effetti, per un paio d’anni, la città in rapida crescita offre la frenesia e lo stimolo artistico che stanno cercando. Insieme continuano a dipingere oppure a frequentare i ritrovi degli artisti e degli intellettuali, come il caffè Grossenwahn (megalomania), il cui nome sintetizza con ironia tutto il programma. La pittura del gruppo, trattando tematiche di carattere sociale e di costume, assume un carattere ancor più violento in un crescendo drammatico di deformazioni. Oltre alle relazioni, non difettano neppure le partecipazioni alle mostre, come le tre del 1912, che rappresentano, in qualche modo, il canto del cigno della Brücke. Quella tenuta alla galleria Gurlitt dal Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), gruppo che si era formato a Monaco di Baviera nel 1911. Una seconda esposizione alla galleria Der Sturm di Herwarth Walden (12 marzo – 12 aprile). Infine la Mostra internazionale d’arte del Sonderbund di Colonia (25 maggio – 30 settembre). Quest’ultima è una concentrazione di artisti di spicco. Ci sono personalità come Picasso, Matisse, Munch e molti pittori indipendenti. Non mancano naturalmente i due gruppi della Brücke e del Blaue Reiter. In quest’occasione Kirchner ed Heckel hanno il compito di decorare una cappella edificata per l’occasione.

Copertina della cartella annuale del 1912 basata su un disegno di Otto Müller, dedicata a Max Pechstein, che non fu mai pubblicata a causa della sua esclusione in quell’anno dal gruppo della della Brücke

Già dai primi mesi del 1912, però, serpeggia il dissenso all’interno della Brücke, causato da interessi contrastanti e dalle accese rivalità che caratterizzano il mondo dell’arte berlinese. Ormai, le divergenze sono all’ordine del giorno. Come conseguenza naturale la competitività finisce col dissolvere l’affiatamento fra gli artisti del gruppo. Sebbene insieme continuino a organizzare mostre collettive a Berlino, la stretta coesione personale va allentandosi col tempo e, quel che è più, i membri si spostano verso differenti orientamenti artistici. Con il movimento del Blaue Reiter, condotto da Kandinskij e Marc, il gruppo della Brücke ha praticamente fine. Pechstein che comincia a mostrare segni di avvicinamento alla nuova formazione, viene espulso nel 1912. La cartella di stampe, preparata per i “membri passivi” con i suoi lavori, è sospesa. L’anno seguente, quando a Kirchner tocca redigere il resoconto dell’attività associativa, il suo testo appare troppo soggettivo. Nella cronaca si rappresenta come la figura di spicco. Con una certa dose autoreferenziale si riferisce a sé stesso in terza persona. Chiaramente, gli altri artisti del gruppo, non si trovano adeguatamente apprezzati.

Kirchner, Il Giudizio di Paride, 1913

In questo contesto, il Giudizio di Paride, un olio su tela, dipinto da Kirchner nel 1913, potrebbe avere un significato differente rispetto a un’interpretazione insolita e moderna di uno dei temi mitologici più popolari nell’arte. Figurativamente rappresenta il concorso di bellezza tra Venere, Minerva e Giunone, il cui premio, una mela d’oro, è assegnato da Paride a Venere. Qui Kirchner dipinge tre moderne dee con i loro sensuali lineamenti, simili a maschere esotiche e primitive, ispirate dalle fattezze di Erna (la sua fidanzata). Sfilano di fronte a un Paride seduto in penombra con una sigaretta in bocca. Una delle dee esibisce uno specchietto, simbolo di vanità. Forse il dipinto è semplicemente il ribaltamento delle argomentazioni che hanno portato allo scioglimento del gruppo: non Kirchner, ma i suoi compagni rispecchiano ostentazioni e vanaglorie che gli attribuiscono. È la fine. A maggio del 1913 i “membri passivi” ricevono i cartoncini che annunciano lo scioglimento formale del gruppo. La lite fra i membri della Brücke è netta e insanabile. Negli anni a seguire, per gran parte della vita. il rapporto rimane talmente difficile da portare Kirchner a rifiutare con veemenza qualsiasi associazione con loro. Nel 1919, ad esempio, arrivò a dichiarare: «Dal momento che la Brücke non ha mai avuto nulla a che fare con il mio sviluppo artistico, qualsiasi menzione al gruppo in un articolo riguardante il mio lavoro è del tutto superfluo». La realtà artistica, per fortuna, supera i più aspri rancori, perché l’esperienza comune in realtà non andrà persa. Anche se in maniera autonoma, i vecchi amici che avevano dato vita all’Espressionismo della Brücke continueranno tutti a portare avanti le istanze elaborate insieme sino al momento dello scioglimento.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Alla ricerca di una definizione di Espressionismo

di Sergio Bertolami

30 – L’origine del termine Espressionismo

L’idea di Adolf Behne che il nuovo movimento Espressionista rappresentasse «il ridestarsi di tendenze che hanno sempre dominato l’arte nelle sue epoche più felici» non è nuova. Spesso la troviamo riproposta nella letteratura artistica, riguardo a opere di ogni età storica nelle quali hanno prevalso esasperazioni emotive. Anche per Kasimir Edschmid – che dell’Espressionismo fu uno dei maggiori teorici (Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung, Sull’espressionismo in letteratura, 1919) – la nuova tendenza poteva considerarsi all’interno di una categoria sconfinata dell’arte. Tuttavia, facendo prevalere questo concetto critico (dettato da un particolare fascino per certe istanze irrazionali) rispetto ad una vera e propria definizione storiografica (con i suoi limiti temporali ben definiti) finiremmo con avvalorare il detto biblico Nihil sub sole novum (Nulla di nuovo è sotto il sole). Ecco perché, in queste brevi note, intenderemo l’Espressionismo in un’ottica rigorosamente storica, ovvero come quel fenomeno artistico collocabile nei primi anni del Novecento, iniziato intorno al 1905 e conclusosi, al più tardi, durante il corso degli anni Venti.

Paula Modersohn-Becker, Autoritratto su fondo verde con iride blu, 1905 circa

Anticipatrice della nuova tendenza fu la pittrice Paula Modersohn-Becker, morta trentunenne di parto. Nei quasi 14 anni di lavoro ha lasciato ben 750 dipinti, circa 1000 disegni e 13 acqueforti. Tuttavia, la piena attuazione formale si concretizzò con il gruppo della Brücke (il Ponte) costituito a Dresda nel 1905. Nondimeno, basta sfogliare più di un volume per rendersi subito conto che il nuovo movimento necessita di essere messo attentamente a fuoco, perché l’Espressionismo non è altrettanto circoscritto e chiaro come l’Impressionismo, identificabile nelle otto mostre parigine tenute tra il 1874 e il 1886. Un gustoso episodio sembra testimoniarlo. Durante una seduta della giuria che alla mostra della Secessione di Berlino del 1910 doveva selezionare i quadri da ammettere alla pubblica esposizione, al momento di dovere valutare un dipinto di Max Pechstein, ci si chiese se potesse essere ancora definito “impressionista”. La risposta, pare del mercante d’arte Paul Cassirer, fu che gli sembrava “piuttosto espressionista”. La questione sollevata non era nell’attribuzione del dipinto di Pechstein ad una corrente anziché ad un’altra, ma che il termine “espressionista”, all’epoca, era indifferentemente adoperato: sia per gli artisti d’avanguardia, quanto per i pittori di tendenze ben differenti. Il termine “espressionista” era una specie di calderone, dove ci si metteva di tutto e di più.

Ritratto di Paul Cassirer di Leopold von Kalckreuth, 1912

Qualche altro esempio potrebbe chiarire meglio il discorso. Nel 1901, il pittore Julien-Auguste Hervé usò il temine “expressionisme” riferendolo a due suoi dipinti accademici esposti al Salon des Indépendants di Parigi. Dal canto suo, Matisse, in Note di un pittore uscite nel 1908, cerca di spiegare sotto il profilo critico il termine “expression”. Per lui l’espressività di un’opera non ha nulla a che fare con la dimensione psicologica, con i motivi angoscianti o dolorosi, ma deriva dalla «semplificazione delle idee e della composizione». Siamo in un’ottica completamente divergente dal significato che, qualche anno più tardi, verrà riconosciuto alla nuova corrente. Eppure, in Germania, nel 1910, c’era chi definiva “espressionisti” lo stesso Matisse e i Fauves francesi. Nel 1911 il catalogo della XXII mostra della Secessione berlinese chiamava “espressionisti” i quadri di alcuni pittori francesi come Braque, Derain, Friesz, Vlaminnck, Marquet, Dufy. Si era ad aprile; mentre a giugno dello stesso anno il vocabolo “espressionisti” era usato per definire altri artisti francesi che esponevano a Düsseldorf. Bisognerà leggere la rivista Rheinlande, per trovare nel numero di dicembre un articolo (Über Expressionisten, Sugli impressionisti) di Paul Ferdinand Schmidt, che usa il termine esteso anche ad artisti tedeschi. Tuttavia, è su Der Sturm, considerato il più importante organo letterario del movimento, che lo storico dell’arte Wilhelm Worringer utilizza per primo il termine “espressionismo” con prerogative simili alle attuali. Nonostante ciò, generalmente, il concetto rimane ancora assai confuso, se vediamo comparire i nomi di Marinetti e Rivière accanto a quelli di Döblin e Apollinaire in un saggio su Baudelaire apparso sempre sullo Sturm, ma nel 1912. A marzo dello stesso anno, Herwarth Walden apre nella sua galleria Der Sturm di Berlino una importante mostra, ma usa il termine “espressionisti” solo per i francesi. D’altra parte, anche la prefazione del catalogo della mostra Sonderbund di Colonia rimane nel generico senza sbilanciarsi: «Questa quarta esposizione desidera offrire un panorama del movimento pittorico più recente, l’espressionismo, affermatosi sulla scia del naturalismo e dell’impressionismo: esso mira a una semplificazione e intensificazione delle forme espressive, monumentali». L’anno successivo la galleria Cohen di Berlino apre una esposizione intitolata “Rheinische Expressionisten” (Espressionisti renani), e fra questi troviamo citati Campendonck, August ed Helmut Macke, Nauen ed Ernst.

Per grandi linee siamo giunti al 1914, quando Paul Fechter a Monaco diviene noto al pubblico grazie al suo saggio critico Der Expressionismus, il cui testo si riferisce chiaramente agli artisti della Brücke, del Blaue Reiter e a Kokoschka. All’apparire di questa prima monografia dedicata all’espressionismo, il movimento è ormai considerato quasi esclusivamente come un’avanguardia nazionale tedesca: «Dresda e Monaco – scrive Paul Fechter – si contendono l’onore di essere patria della nuova arte». La realtà politica è impregnata di bellicoso nazionalismo per la guerra ormai alle porte. L’attenzione artistica è rivolta oltre frontiera al successo del futurismo, incentrato anche questo sull’esaltazione patriottica. Così arte e politica si fondono, spingendo a trascurare, se non addirittura accantonare, le origini delle prime esperienze Fauves. Occorre tuttavia precisare che proprio gli espressionisti tedeschi in Germania si schierarono decisamente contro la guerra. In ogni modo, il termine Espressionismo divenne sempre più di uso comune e, dal 1914 in poi, per “espressionisti” s’intenderanno, pertanto, soprattutto gli artisti operanti in Germania. Più equilibrati ed obiettivi furono, comunque, gli scritti già citati di Hermann Bahr (nel 1916) e Kasimir Edschmid (tra il 1917 e il 1919).

Copertina del Blaue Reiter Almanach, Monaco 1912

Se oltre ai critici, citati finora, volessimo fare riferimento agli artisti stessi, noteremmo che pure loro usavano la parola “espressionismo” con difficoltà. Marc, presentando L’Almanacco del Blaue Reiter uscito a Monaco nel 1912, parla di Fauve tedeschi. Kandinskij nel suo fondamentale volume Lo spirituale nell’arte impiega il termine una sola volta. Non avevano, dunque, un nome preciso coloro che oggi consideriamo espressionisti nel senso proprio del termine? Niente affatto: erano identificati, certamente, ma come “neopatetici, astrattisti, eternisti, futuristi, attivisti”. Non sono, questi, nomi occasionali, ma attinenti allo spirito che i primi espressionisti manifestarono pubblicamente. Indicativo, ad esempio, è il nome di “neopatetici”, perché il pathos rappresentava il grido dell’anima dell’artista, una forza d’urto tempestosa, lacerante, esasperata; e al contempo negli interlocutori suscitava sentimenti di commozione, di mestizia, di pietà. Il nuovo movimento tendeva all’identificazione romantica di arte e vita. Per questo motivo in vari autori troviamo che l’Espressionismo tedesco è spesso riconosciuto come il nuovo Sturm und Drang (Tempesta e Impeto), con riferimento a uno dei più importanti movimenti culturali tedeschi sviluppatosi tra il 1765 e il 1785. Come allora, il linguaggio delle arti figurative e della poesia tornavano ad essere rivoluzionate. Non si può, infatti, dimenticare lo stretto rapporto esistente fra arti e letteratura. Oggi molti conoscono Oskar Kokoschka come pittore, ma quanti ricordano i suoi drammi giovanili? Assassino, speranza delle donne è una sua rappresentazione teatrale espressionista scritta nel 1907. Pure Ernst Barlach, oltre ad essere stato uno dei pochi scultori espressionisti fu anche scrittore; lo stesso vale per Theodor Däubler che a lungo esitò fra pittura e poesia, per decidersi infine a seguire la strada della scrittura.

Locandina del film “Il gabinetto del dottor Caligari” film muto del 1920 diretto da Robert Wiene

Si comprenderà, dunque, che la definizione di una poetica dell’Espressionismo, dei suoi limiti geografici o la sua periodizzazione, sono temi particolarmente complessi. In anni recenti la critica d’Arte ha proposto qualche spostamento e accomodamento, peraltro senza giungere a un inquadramento condiviso da tutti. Il termine Espressionismo è oggi solitamente riferito alle manifestazioni sviluppate in area tedesca, sebbene, come s’è detto, l’origine sia da rintracciarsi nell’area francese dei Fauves e di Matisse. Per altri versi, anche di recente, alcuni critici parlano di un Espressionismo tedesco e di un Espressionismo francese; mentre c’è chi preferisce circoscrivere il fenomeno alla Germania e all’area mitteleuropea, mantenendo ancora attiva la distinzione netta col fenomeno francese del fauvisme. Distinzioni precise vanno poste anche per quanto concerne i limiti cronologici. Sono differenti quando si parla di arti figurative, di architettura, di letteratura e chiaramente della nuova arte come era allora considerato il cinema. In particolare, per la pittura e la grafica, la tendenza probabilmente più corretta è quella di circoscrivere gli anni dell’Espressionismo al periodo compreso tra la nascita di Die Brücke e l’inizio della Prima guerra mondiale, quando la coesione del gruppo vero e proprio si deteriora. Nel dopoguerra, si svilupperanno nuove tematiche relative alla satira sociale, dapprima con la dura ottica “veristica” di George Grosz e di Otto Dix, successivamente con il cosiddetto “realismo trascendente” di Max Beckmann. Più breve il periodo che racchiude l’effimero espressionismo architettonico, che nasce e si sviluppa nel 1918 per sfumare intorno al 1921. All’incirca contemporanea è l’apparizione di un Espressionismo cinematografico, segnato nel 1920 dal suo film simbolo: Il gabinetto del dottor Caligari.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Espressionismo – La forza creatrice per scrutare l’interiorità più profonda dell’animo

di Sergio Bertolami

29 – La tempesta dell’Espressionismo

Ogni anno ha la sua storia. Per riprendere le fila del discorso sull’arte del Novecento (Seconda serie), scelgo il 1905 e non a caso. È l’anno in cui Einstein elabora la teoria della relatività ristretta e Robert Wood realizza il primo cristallo di sicurezza. Johon Danton costruisce il primo juke box con cui la gioventù dell’epoca può alternare le note di una doppia dozzina di dischi. Nella capitale austriaca, al Theater an der Wien, Franz Lehàr mette in scena l’operetta La vedova allegra e, alla Königliches Opernhaus di Dresda, Richard Strauss rappresenta in musica la Salomè di Oscar Wilde. Ma ciò che ci interessa più da vicino è che sempre a Dresda, in quello stesso anno 1905, un gruppo di studenti di architettura, desiderosi di conquistarsi “libertà d’azione e di vita”, fonda un movimento prorompente che chiamerà Die Brücke (il Ponte). Questi giovani hanno deciso di esprimersi con una tecnica recuperata dall’incisione e dalla xilografia del XV e del XVI secolo tedesco (Grünewald, Dürer, Cranach), ma tengono presenti le sperimentazioni condotte da Van Gogh, da Gauguin e le sue influenze polinesiane. La loro grafica restituisce linee spigolose, crude, immagini deformate. Non sono i soli, perché a Parigi, da ottobre a novembre di quello stesso 1905, nella sala 7 del Salon d’Automne, sono esposte opere così travolgenti per la violenza espressiva del colore, steso in tonalità pure e con effetti assolutamente innaturali, che il critico Vauxcelles definisce «cage aux fauves» quella sala del tutto inospitale, come dire la gabbia delle bestie “dal pelo fulvo”, cioè la gabbia delle belve selvagge. Sembra quasi che nella capitale francese non si paventi più che in una mostra possa esserci un nuovo scossone: i tempi dei contestati Salon sono lontani e la pittura rassomiglia all’acqua cheta della Senna che scorre sotto i ponti.

Scrive L’illustration: «Ci è stato detto: “Perché L’illustration, che consacra ogni anno ai tradizionali Saloni di primavera tutto un numero, sembra ignorare il giovane Salon d’Automne?”. Voi lettori di provincia e stranieri, esuli lontani dal Grand Palais, sareste felici di avere almeno un’idea di questi capolavori poco conosciuti, che i giornali più seri (lo stesso Temps) hanno così calorosamente elogiato. Per queste ragioni, dedichiamo due pagine, così da riprodurre al meglio delle nostre capacità una dozzina di quadri suggestivi del Salon d’Automne. Manca sfortunatamente il colore, ma si potranno almeno giudicare il disegno e la composizione. Se alcuni lettori rimarranno sorpresi da certe nostre scelte, invitiamo tutti a leggere le righe stampate sotto ogni quadro: sono i pareri dei più illustri scrittori d’arte, e noi ci sottraiamo (da ogni commento) dietro la loro autorevolezza. Mettiamo soltanto in evidenza che, se la critica, in passato, riservava tutto il suo incenso alle glorie consacrate e tutto il suo sarcasmo ad esordienti e praticanti, oggi le cose sono davvero cambiate». Sicuro che sono cambiate! Per tornare a Dresda, anche la Dresdner Secession è ormai fuori dal tempo e persone come il professore Gotthardt Kuehl, pioniere dell’Impressionismo tedesco col suo circolo Die Elbier (L’Elba), non possono che combattere una battaglia persa in partenza.

Henri Matisse, Donna con cappello, 1905, San Francisco Museum of Modern Art

La verità è che in questi anni si stanno sviluppando nuove sensibilità che trovano le premesse nelle esperienze di personalità come Ensor, Munch, van Gogh, Gauguin. Sensibilità che scorgono possibili relazioni con l’arte popolare, con le culture primitive, con le nuove espressioni musicali. L’arte non è a compartimenti stagni, disciplinata e analgesica. Ci sono nuovi linguaggi, non sempre univoci, che non hanno ancora neppure un nome che li accomuni, né un organo di stampa che ne diffonda lo spirito. Tempo al tempo: solo cinque anni più tardi Herwarth Walden – scrittore, critico, compositore di musica – fonderà una galleria d’arte e una relativa rivista, Der Sturm, ovvero La tempesta: sono approdi concettuali di un movimento che alle “impressioni” di una realtà oggettiva sostituirà le “espressioni” del mondo soggettivo dell’artista. Sulle pagine di Der Sturm del 1914, Adolf Behne titola Deutsche Expressionisten un suo intervento. Nel 1916 Hermann Bahr pubblica un libro di successo: Expressionismus. L’Espressionismo, grazie a questi testi, si chiarisce al pubblico come movimento artistico che propone di contrapporre alla pittura impressionista un’arte personale, coinvolgente, capace di fare risaltare ogni umano dramma esistenziale. Mentre l’Impressionismo descrive ancora la realtà fisica, l’Espressionismo non ambisce più questa realtà, ma la vuole sottomessa alle turbolenze degli stati d’animo. Un movimento, dunque, del tutto innovativo che racchiude due vitalità contrapposte: l’una sensitiva, l’altra volitiva. Le sue forme espressive saranno per questo diverse. Nella Francia di Bergson, e del suo “slancio vitale”, prende strada il movimento dei Fauves. Nella Germania di Nietzsche, e della sua “volontà di potenza”, si affermeranno Die Brücke e Der Blaue Reiter. Due vitalità, quella francese e quella tedesca, che teoricamente avrebbero potuto fondere il classicismo latino e mediterraneo con il romanticismo germanico e nordico. Una fusione che non si realizzerà mai, in assenza di una ricerca comune, anche se ci saranno incontri e tentativi. Il vento della Storia spira in realtà in tutt’altra direzione. Il dissidio delle nazioni per l’egemonia economica e politica in Europa porterà ben presto al primo conflitto mondiale. Una sorta di testimonianza dal vivo è proprio il libro di Hermann Bahr. Expressionismus, uscito nel corso della Grande guerra, ebbe tre edizioni in poco tempo. Le sue intense pagine mettono in luce la reazione dell’Espressionismo nei confronti dell’Impressionismo, giustificando in qualche modo il suo grido di angoscia, la sua mancanza di speranza. Ne stralcio un brano iniziale, condensando più pagine in poche righe. Mi pare che rappresentino bene il dibattito interiore tra generazioni diverse.

kirchner, Invito alla Brücke, 1906

«Dovrei tenere una conferenza a Danzica, all’Hebest. Il consigliere comunale Goerltz, presidente dell’associazione dove spesso prendo la parola, mi ha offerto di parlare sull’ultima arte: sull’Espressionismo, il Cubismo, il Futurismo. Mi ha incoraggiato a non risparmiarmi. Ma quando ho detto di sì, è stato difficile per me, perché ho dovuto riflettere prima di tutto su cosa penso io stesso dell’Espressionismo. Sono cresciuto con l’Impressionismo. Ero un impressionista prima di conoscerne uno. Quindi, ho seguito l’Impressionismo per tutto il corso della mia vita. E quando all’improvviso l’ho visto non più minacciato dal vecchio, ma dalla nuova gioventù, mi sono ricordato che per noi s’era fatta sera. All’inizio ho solo concluso che era finalmente ora che imparassi a invecchiare dignitosamente. Quelli che erano giovani quando anche io ero giovane non lo volevano affatto, e questo mi dava fastidio. Ora vedono i giovani così stolti e ingiusti, come trent’anni fa vedevano noi. La prima conseguenza è stata che ho evitato d’incontrare gli espressionisti. Piano piano l’ho superato, e mi sono detto: devi imparare a orientarti, delle nuove persone sono qui, lo vedi! Così ho fatto. Non ho capito tutto di loro, ma non ho trovato nulla che mi ha fatto arrabbiare: ho visto all’opera grande volontà, con passione pura e, anche se non sempre potevo interpretarla, ho avuto la forte sensazione della più bella promessa. Dopotutto, cosa c’entra con i cittadini di Danzica, se mi piace o non mi piace l’Espressionismo e per quali ragioni? Che senso ha promuovere un’arte o mettere in guardia contro quell’arte? Ha senso essere Giudici d’arte?».

Il numero della rivista Der Sturm sulla quale appare il saggio di Adolf Behne, 1914
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Pagina dopo pagina Hermann Bahr spiegava che inizialmente furono definiti “Espressionisti” i componenti di un gruppo di pittori francesi, non tedeschi. Erano Picasso e altri artisti della cerchia di Matisse. Era un modo appropriato per indicare i nuovi orientamenti dell’arte francese. Il termine Espressionismo entrò nell’uso “tedesco” dopo che nel 1914 il critico figurativo Adolf Behne, esponente dello Sturm, affermò che il nuovo movimento rappresentava «il ridestarsi di tendenze che hanno sempre dominato l’arte nelle sue epoche più felici». In realtà, sulla scena erano comparsi i due gruppi della Brücke e del Blaue Reiter. In sintonia con loro, Herwarth Walden colse nell’Impressionismo e nell’Espressionismo non due fasi storiche nella evoluzione dell’arte moderna, bensì due differenti momenti dello spirito umano. La ricerca comune consisteva per lui nel comprendere le immagini del mondo, non più necessariamente legate ad una rappresentazione naturalista (ein getreues Abbild der Natur), ma rispecchiava nell’opera d’arte il contenuto dell’immagine interiore (Bild). «È qualcosa di più di un mero ricordare o di una semplice riproduzione del vedere sensibile; è una produzione autentica, perché il vedere spirituale ha una forza creatrice, la forza di creare un mondo secondo leggi diverse da quelle della vista sensibile».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Hermann Traub da Pixabay