Paul Signac – Les Démolisseurs

Paul Signac (Parigi, 11 novembre 1863 – Parigi, 15 agosto 1935) è stato un pittore francese. Diede vita, assieme a Georges Seurat, al Puntinismo e alla tecnica del Divisionismo.

Les Démolisseurs

Les Démolisseurs è una litografia di 50×31 cm (56,6×45,6 il foglio) realizzato dal pittore francese Paul Signac nel 1896. Fu pubblicata nel 1896 sulla rivista anarchica Les Temps nouveaux. È una delle poche opere di grafica del puntinista francese (si contano infatti soltanto 20 litografie e 7 acqueforti).

È un’opera intrisa di simboli, che svela chiaramente le posizioni anarchiche dell’autore. Il lavoratore in primo piano (forse lo stesso Signac) colpisce ed abbatte il passato, il capitalismo. Il messaggio politico è completato dal sole nascente, simbolo anarchico fin dal 1890: l’alba di un nuovo giorno, di tempi nuovi.

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Giuseppe Pellizza da Volpedo – Il Quarto Stato

 

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, 1901, olio su tela, 293×545 cm, Museo del Novecento, Milano
Giuseppe Pellizza (Volpedo, 28 luglio 1868 – Volpedo, 14 giugno 1907) è stato un pittore italiano, dapprima divisionista, poi esponente della corrente sociale, autore del celeberrimo Il quarto stato, divenuta una perfetta allegoria del mondo del lavoro subordinato e delle sue battaglie politico-sindacali, specie nell’Ottocento.

Il Quarto Stato

Pellizza iniziò a lavorare ad un bozzetto degli Ambasciatori della fame nel 1891, dopo aver assistito ad una manifestazione di protesta di un gruppo di operai. L’artista rimase molto impressionato dalla scena, tanto che annotò nel suo diario:

« La questione sociale s’impone; molti si son dedicati ad essa e studiano alacremente per risolverla. Anche l’arte non dev’essere estranea a questo movimento verso una meta che è ancora un’incognita ma che pure si intuisce dover essere migliore a petto delle condizioni presenti »
Ambasciatori della fame costituisce la prima tappa del percorso che condurrà poi alla redazione finale del Quarto stato.

L’abbozzo venne completato nell’aprile del 1891. Il soggetto è una rivolta operaia nella piazza Malaspina a Volpedo, con tre soggetti posti davanti alla folla in protesta: la scena è vista dall’alto, e le figure sono distribuite su linee ortogonali. Nonostante la composizione ancora «embrionale» dell’opera, com’ebbe ad affermare lo stesso artista più tardi, Ambasciatori della fame si imposta già come caposaldo per le successive redazioni dell’opera, che pure presenteranno come peculiarità il terzetto posto dinanzi alla massa di gente sullo sfondo e lo stacco d’ombra in primo piano.

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Edvard Munch – L’urlo

Edvard Munch, L’urlo, 1893, olio/tempera/pastello su cartone, 91×73,5 cm, Galleria Nazionale, Oslo
Edvard Munch (Løten, 12 dicembre 1863 – Oslo, 23 gennaio 1944) è stato un pittore norvegese. Munch esercitò un’influenza determinante sull’arte a lui coeva, specialmente sull’espressionismo tedesco e nord-europeo.

L’urlo

Lo spunto del quadro è prettamente autobiografico. È infatti lo stesso Munch a indicarci, in una pagina di diario, le circostanze che hanno portato alla genesi de L’urlo: «Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo… Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando. Questo è diventato L’urlo» Munch avrebbe poi rielaborato questo ricordo rendendolo un poema e segnandolo sulla cornice della versione del 1895: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». In ogni caso, Munch tentò di trasporre questo tramonto «rosso sangue» in una tela in grado di restituire quella visione di «sangue coagulato» che egli stesso provò in quella sera d’estate.

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Vincent van Gogh – I mangiatori di patate

 

Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885, olio su tela, 82×114 cm, Museo Van Gogh, Amsterdam
Vincent Willem van Gogh (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese. Autore di quasi novecento dipinti e più di mille disegni, senza contare i numerosi schizzi non portati a termine.

I mangiatori di patate

Vincent trattò il soggetto dei mangiatori di patate in altri due cimenti pittorici, i quali sono sì propedeutici alla realizzazione della versione definitiva, ma non per questo poco interessanti: la prima redazione, anzi, presenta una notevole struttura compositiva e viene delineata da pennellate veloci che ricolmano la tela di una autenticità tutt’agreste. Meno spontanea, perché più meditata e monumentale, è invece la seconda versione de I mangiatori di patate, con la figura di tergo che si incunea rigidamente nella disposizione asimmetrica degli altri quattro commensali. La versione conclusiva di Amsterdam, terminato come si è già detto nel 1885, riprendeva e portava ad un maggiore grado di raffinatezza formale quei valori che avevano già reso celebre l’arte di Millet e di Breton e, pertanto, era quello più apprezzato da van Gogh, che la firmò e ne fornì persino un ampio commento letterario. Alla descrizione della tela, infatti, Vincent dedicò un’impressionante quantità di lettere, le quali nella loro intimità sostituivano il manifesto programmatico e, anzi, orchestravano un raffinato sincretismo tra passato e presente, letteratura e pittura, cromatismo e critica sociale.

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Paul Gauguin – Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Paul Gauguin, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? (1897- 1898); olio su tela, 139×374,5 cm, Museum of Fine Arts, Boston
Paul Gauguin (Parigi, 7 giugno 1848 – Hiva Oa, 8 maggio 1903) è stato un pittore francese, considerato tra i maggiori interpreti del post-impressionismo. L’eco figurativa riscossa dalla visione dell’arte nutrita da Gauguin fu immensa: i pittori nabis e i simbolisti si richiamarono esplicitamente a lui, mentre la libertà decorativa delle sue composizioni aprì la via all’Art Nouveau, così come il suo trattamento della superficie lo rese un precursore del fauvismo e la semplificazione delle forme fu tenuta presente da tutta la pittura del Novecento.

Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?

L’opera, che pone i massimi quesiti esistenziali dell’uomo, fu dipinta dall’artista a Tahiti in un momento assai delicato della sua vita: prima di un tentativo non riuscito di un suicidio (l’artista era malato, aveva seri problemi al cuore ed era sifilitico, in lotta con le autorità locali ed isolato sia fisicamente che artisticamente). Ad aggravare le cose, giunse a Gauguin la notizia della morte della figlia prediletta Aline, avvenuta pochi mesi prima. Il dolore per la perdita spinse l’artista a creare un’opera di grandi dimensioni (la più grande del suo opus) che fosse una riflessione sull’esistenza, un testamento spirituale e quindi una summa di tutte le sue ricerche cromatiche e formali degli ultimi otto anni.

In questa pirotecnia di luttuosi eventi Gauguin volle mettere mano ad un quadro che, agendo come un vero e proprio «testamento spirituale», riuscisse a condensare la sua visione sull’arte. Egli descrisse per la prima volta Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo? in una lettera indirizzata all’amico Daniel de Monfreid; dopo alcuni schizzi preparatori, il pittore vi lavorò notte e giorno per circa un mese, imponendosi un ritmo di lavoro frenetico che finì col prostrarlo. Fu così che, ritenendosi incapace di finire il dipinto, Gauguin tentò di suicidarsi ingerendo arsenico, ma la dose troppo forte e presa di getto determinò un forte vomito che annullò l’effetto del veleno. In un paradiso tropicale che si era lentamente tramutato in inferno Gauguin ebbe la forza di infondere in questo quadro tutta la carica grezza e veemente delle sue pennellate e, ovviamente, del suo temperamento. «Prima di morire» osservò «ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende, una visione così chiara e precisa che non c’è traccia di precocità e la vita ne sgorga fuori direttamente». Gauguin, detto in altre parole, voleva che questo quadro potesse «essere paragonabile al Vangelo», calandosi dunque nel mistico ruolo di Cristo, vittima e redentore al tempo stesso, in ciclica fuga dal labirinto della civilizzazione occidentale.

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Paul Cézanne – La montagna Sainte-Victoire

Paul Cézanne (Aix-en-Provence, 19 gennaio 1839 – Aix-en-Provence, 22 ottobre 1906) è stato un pittore francese. Nel febbraio del 1907, al Salon d’Automne, gli fu dedicata una imponente retrospettiva commemorativa, che sconvolse un’intera generazione di nuovi artisti (tra cui Picasso e Modigliani), pose le basi del cubismo ed aprì le strade alle più importanti avanguardie artistiche del Novecento.

Mont Sainte-Victoire

L’opera raffigura il Sainte-Victoire, massiccio calcareo nella valle nei pressi di Aix-en-Provence, luogo molto familiare all’autore fin dall’infanzia. La montagna Sainte-Victoire è uno dei temi più frequentemente trattati dal pittore, oggetto di una serie di quadri, di cui questo è uno degli ultimi.

Cézanne lavorerà a questo “motivo” per oltre vent’anni, realizzando diversi acquarelli e dipinti a olio. La ricerca di sintesi si fa ancora più forte nella serie di dipinti dedicati alla montagna di Sainte-Victoire, dominanti l’ultima fase dell’attività dell’artista. Il desiderio di rendere la sua arte il più possibile espressione naturale e concreta spinge il pittore ad affermare: “Il colore è biologico, è vivente, è il solo a far viventi le cose”, e ancora “Per dipingere bene un paesaggio devo scoprire prima le sue caratteristiche geologiche”. Si direbbe che il senso dell’arte di Cézanne consista in un incessante tentativo di portare alla luce ciò che in natura è immutabile, eterno, per riconoscere riflesso nell’occhio che lo contempla, seppure per un istante, la medesima divina proprietà. È lui stesso a svelarcelo:” Ora, la natura, per noi uomini, è più profonda che in superficie, e da ciò la necessità di introdurre nelle nostre vibrazioni di luce, rappresentate dai rossi e dai gialli, una somma sufficiente di colori azzurrati per far sentire l’aria”. Questo nesso tra percezione, rappresentazione e conoscenza si pone alla base della dissoluzione della forma che verrà poi operata dalle avanguardie novecentesche, in particolare dal cubismo: lo spazio della pittura non è più dell’occhio ma dell’intelletto.

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Pierre-Auguste Renoir – Ballo al moulin de la Galette

 

Pierre-Auguste Renoir, Ballo al moulin de la Galette, 1876, olio su tela, Musée d’Orsay, Paris

Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 25 febbraio 1841 – Cagnes-sur-Mer, 3 dicembre 1919) è stato un pittore francese, considerato uno tra i massimi esponenti dell’Impressionismo. Artista prodigiosamente prolifico, con all’attivo ben cinquemila tele e un numero altrettanto cospicuo di disegni e acquerelli.

Bal au moulin de la Galette

Il Bal au moulin de la Galette è una delle opere più note di Renoir ed è unanimemente considerato uno dei più alti capolavori del primo Impressionismo. Il dipinto, nonostante consegua risultati di grande freschezza e intensità, conobbe una gestazione molto elaborata, attentamente descritta dall’amico Georges Rivière nelle sue memorie Renoir et ses amis. Renoir pensava di dipingere uno spaccato di vita mondana parigina all’epoca della Belle Époque sin dal maggio 1876, e trovò nel Moulin de la Galette un soggetto che si prestava perfettamente alle sue esigenze. Il Moulin de la Galette era un locale molto amato dalla gioventù parigina, ottenuto dalla ristrutturazione di due mulini a vento abbandonati, e ubicato sulla sommità della collina di Montmartre. Il nome del locale, in particolare, si riferisce alle frittelle rustiche offerte come consumazione e comprese nel prezzo d’ingresso, che all’epoca era pari a venticinque centesimi di franco. Quando Renoir attendeva al dipinto il luogo brulicava di gente: erano moltissimi i giovani, artisti e non, che decidevano di trascorrere le loro domeniche pomeriggio al Moulin, per ballare, bere, discutere, o comunque trascorrere del tempo in compagnia e divertirsi.

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Berthe Morisot – La culla

 

Berthe Morisot, La culla, 1872, Olio su tela, Musée d’Orsay, Paris

Berthe Marie Pauline Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 – Parigi, 2 marzo 1895) è stata una delle interpreti più significative, fantasiose e vivaci del movimento impressionista.

La culla

Ne La culla la Morisot coglie un momento di struggente intimità familiare, raffigurando la sorella Edma mentre veglia sul sonno della figlioletta Blanche. Berthe riesce a porre grande attenzione al fresco naturalismo della rappresentazione, enfatizzando al tempo stesso l’affettuosa quotidianità del soggetto. Edma, infatti, ha un’espressione intensa e amorosa ed è assorta in chissà quali pensieri. Mossa da un innato istinto di protezione materno, inoltre, la donna sfiora un lembo della tendina e lo interpone tra l’osservatore la neonata, ponendolo così a protezione della culla. Blanche, invece, dorme beatamente e le sue delicate fattezze «sboccia[no] come un fiore prezioso» (Cricco, Di Teodoro) attraverso la candida trasparenza del velo. Sia la giovane madre sia la bambina vengono raffigurate con un braccio piegato, come a sottolineare un’affinità psicologica.

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Claude Monet – Impressione, levar del sole

Claude Monet, Impression, olio su tela, 1872, Musée Marmottan Monet, Paris

Claude-Oscar Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 5 dicembre 1926) è stato un pittore francese, considerato uno dei fondatori dell’impressionismo francese e certamente il più coerente e prolifico del movimento.

Impressione, levar del sole

La critica accolse l’opera del pittore, poco più che trentenne, in modo impietoso. Il messaggio di Monet non venne affatto compreso, e le sue scelte, consapevoli e coraggiose, vennero invece fraintese come un’offensiva trascuratezza pittorica. Tra gli esegeti più feroci vi fu certamente Louis Leroy, il quale per criticare la nuova maniera impiegata dalla «società anonima» immaginò in un articolo di visitarne la mostra insieme ad un immaginario, pluridecorato pittore accademico: « Gettai un’occhiata all’allievo di Bertin, il cui volto era adesso di un rosso cupo. Ebbi il presentimento di una catastrofe imminente; doveva essere Monet a dargli il colpo finale. “Ah, eccolo, eccolo!” esclamò dinanzi al n. 98. “Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo”. “Impressione, sole nascente”. “Impressione, ne ero sicuro. Ci dev’essere dell’impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell’esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancor più curata di questo dipinto”. Ma che avrebbero detto Bidault, Boisselier, Bertin, dinanzi a questa tela importante?” “Non venitemi a parlare di quegli schifosi pittorucoli!” urlò il povero Vincent. L’infelice rinnegava i suoi dèi […]. Il vaso, alla fine, traboccò. Il cervello classico del vecchio Vincent, assalito da troppe parti insieme, venne sconvolto del tutto Si fermò dinanzi al custode che vigila su tutti quei tesori e, prendendolo per un ritratto, cominciò a farne una critica alquanto rigorosa: “Ma quanto è brutto!” fece, alzando le spalle. “In faccia ha due occhi, un naso e una bocca. Non sono di sicuro gli impressionisti che si sarebbero lasciati andare in tal modo al particolare. Con tutte le cose inutili che il pittore ha sprecato in questa faccia, Monet avrebbe fatto almeno venti custodi”».

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Édouard Manet – La ferrovia

 

Edouard Manet – Le Chemin de fer, olio su tela, 1872-1873, National Gallery of Art di Washington.

Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 – Parigi, 30 aprile 1883) è stato un pittore francese, considerato il maggiore interprete della pittura preimpressionista. Sin dal principio Manet era animato dalla volontà di ricercare il vero dietro l’apparenza, e di fissare sulla tela la fremente realtà.

La ferrovia

Manet intraprese l’esecuzione de La ferrovia nel 1872, dipingendo per la maggiore in en plein air, con l’aggiunta di alcuni dettagli secondari eseguita nel chiuso dell’atelier e la rifinitura globale portata a termine nel giardino del pittore Hirsch, all’incrocio tra rue de Rome e rue de Constantinople, dunque a poca distanza dal parco binari della trafficata stazione di Saint-Lazare. Il dipinto raffigura una donna e una bambina, per le quali posano rispettivamente Victorine Meurent, già modella di Olympia, e la figlia di un amico, probabilmente proprio dell’Hirsch. La ragazza di sinistra ha uno sguardo pensieroso e mesto e regge sul grembo un ventaglio, un libro aperto e un cagnolino addormentato (si tratta questa di una citazione dalla Venere di Urbino di Tiziano Vecellio, antico maestro particolarmente amato dal Manet). La bambina di destra, invece, è vestita con un elegante abito bianco e blu e rivolge le spalle all’osservatore: è aggrappata all’inferriata di ferro, e ammira con grande reverenza lo spettacolo del treno in manovra, che si fa strada verso la stazione con grandi sbuffi di vapore. Alla vivace curiosità della fanciulla si contrappone la mestizia della donna, consapevole della propria maturità, la quale infatti non è interessata all’arrivo della locomotiva, anche se interrompe per un attimo la lettura. A completare la composizione vi è un grappolo d’uva, posto a destra del muricciolo.

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