Qual è la differenza tra arte moderna e contemporanea?

Landscape with Church (Landscape with Red Spots I) Wassily Kandinsky 1913
Dalla collezione di: Museum Folkwang

Moderna, contemporanea. Contemporaneo, moderno. Questi termini sono spesso usati in modo intercambiabile. Quindi c’è davvero qualche differenza tra loro? E se è così, perché? Una risposta è semplice: il tempo. L’arte moderna è venuta prima dell’arte contemporanea. La maggior parte degli storici e dei critici dell’arte collocano l’inizio dell’arte moderna in Occidente intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, continuando fino agli anni Sessanta del Novecento. Invece, arte contemporanea significa arte fatta ai nostri giorni…

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Qual è la differenza tra arte moderna e contemporanea?

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di pramit marattha da Pixabay

Cosa vuol dire “coltivare il proprio giardino” ?

Pochi giorni fa ci è stata posta la domanda: “Cosa vuol dire coltivare il proprio giardino?”  Il riferimento diretto va a Candido, il famosissimo personaggio di Voltaire, il quale, nelle ultime pagine del libro che porta per titolo il suo nome, rigetta l’invito ad ogni nuova azione per dedicarsi al proprio giardino. Non molti sanno che Voltaire era un giardiniere dilettante e smanettava con utensili vari nelle sue tenute di Les Délices e Ferney. Un passatempo incredibilmente efficace per tenersi occupato e liberare la mente, quando non scriveva, studiava o partecipava ad illuminati salotti.

Naturalmente il giardino coltivato da Candido rappresenta una metafora. È il giardino delle qualità personali, che richiede di essere messo a frutto, senza troppo parlare, ma utilizzando la concretezza derivata da conoscenze ed abilità. Qualora si posseggano veramente.  Per quanto ci riguarda, vale ampliare il discorso dalle doti individuali alle risorse collettive riguardanti, ad esempio, quel ricco ed accessibile territorio di cultura e di natura proprio dell’Italia intera, da Nord a Sud. Molti tentativi sono stati compiuti, ma è necessario mettere a frutto, concretamente, questo giardino, creando un volano economico non indifferente, attraverso una programmazione virtuosa che sappia attivare i giusti processi d’attuazione.

Prendendo spunto da quella solida cultura scientifica, che discende, fra l’altro, proprio dal menzionato Voltaire e dagli illuministi, è possibile muoversi con un’attenta registrazione di fatti, senza farsi condizionare dal troppo disputare inconcludente. Occorre parlare meno e lavorare, perché solo allora la terra può rendere molto, e senza neanche una grande fatica. Un esempio? Lo forniva qualche anno addietro Piero Angela. Il noto giornalista televisivo raccontava «Ero vicino a Yellowstone, nello Stato americano del Montana. La strada era bloccata da una frana. Perciò ne hanno costruita un’altra, e intanto hanno organizzato un Centro per i visitatori, una specie di museo con la storia geologica della frana. Insomma, una calamità naturale è stata trasformata in attrazione turistica. Mi chiedo perché non si faccia lo stesso in Italia».

In verità ce lo domandiamo anche noi, e, considerando la grande attitudine ad assumere iniziative, chiediamo perché gli organi competenti in materia di turismo non considerino di organizzare un “grand tour” nel Montana per studiare e imparare come dal niente si possano creare spunti di attrazione. Questo naturalmente è uno sfottò. Tuttavia, figuriamoci cosa si potrebbe fare con quel grandissimo patrimonio storico, artistico e naturalistico, in gran parte sottovalutato e misconosciuto, che potrebbe davvero arricchire ogni angolo di territorio. Signori Munafò (altro personaggio, questa volta narrato da Sciascia che a Voltaire si ispira) non aspettate a diventare Candidi solo dopo essere emersi dalle macerie.

Perché si dice: Regno delle “Due Sicilie”?

 

Con il nome di “Regno delle Due Sicilie” si identificano i due Regni di Napoli e di Sicilia. Il termine è stato assunto in seguito al fatto che dopo i Vespri siciliani sia i re di Sicilia, per l’effettivo dominio del territorio insulare, e sia i re di Napoli, per non perdere i propri diritti sull’Isola, portarono contemporaneamente il titolo di “re di Sicilia”. Quindi si poteva distinguere un “Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum” cioè un Regno di Sicilia “al di qua del faro”, ossia l’Isola vera e propria, e una Sicilia “al di là del faro”, costituita dalla parte meridionale della penisola, ovvero dallo Stato napoletano. Il Faro al quale si fa riferimento è quello posto sul Braccio di San Raineri a Messina.

Nel 1443 Alfonso V il Magnanimo, re d’Aragona e della Sicilia insulare, avendo conquistato lo Stato napoletano, chiamato quindi da tempo Regno di Sicilia, si proclamò “rex utriusque Siciliae” (re di ambedue le Sicilie). Pur essendo unificati sotto un’unica corona, i due territori, divisi dal braccio di mare dello Stretto di Messina, mantennero amministrazioni locali separate. Tuttavia, con la morte di Alfonso V (1458), i due Regni tornarono ad essere distinti.

A partire dal 1734 i Borboni, che governarono sull’Italia meridionale, compresa la Sicilia, ripresero l’antica denominazione e ciò fino alla restaurazione conseguente al congresso di Vienna del 1815, quando venne formalizzata l’unificazione del Regno di Napoli con il Regno di Sicilia, da parte del re Ferdinando (detto IV re di Napoli e III re di Sicilia). Con la legge del 22 dicembre 1816 che sanciva l’unificazione, Ferdinando assunse il titolo di “Ferdinando I re delle Due Sicilie”. Questa unificazione modificava il reale assetto politico e pertanto suscitò le proteste dei Siciliani e della Santa Sede. Quest’ultima si manifestò contraria perché vedeva mutata l’impronta di un Regno che riteneva da sempre suo vassallo. I Siciliani invece protestarono perché, essendo stata abolita la costituzione – che lo stesso re Ferdinando aveva concesso nel 1812 – venivano a perdere i privilegi di autonomia rispetto alla corona. Di fronte all’unificazione, il popolo siciliano si rivalse con l’arma della satira. Il motto ricorrente era: “Fosti quarto e insieme terzo, Ferdinando, or sei primiero, e se sèguita lo scherzo, finirai per esser zero!”

Il Regno delle Due Sicilie, così denominato, durò fino al 1860, sotto Francesco II di Borbone, quando in seguito alla spedizione di Garibaldi e ai Plebisciti del 21 e 22 ottobre fu proclamata definitivamente decaduta la monarchia borbonica e dichiarata l’unione delle Due Sicilie al Regno d’Italia.

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Si dice arancino o arancina?

 

Annoso problema che divide in due la Sicilia. Sentite dire arancina (rotonda) nella parte occidentale e arancino (rotondo o a punta come la forma dell’Etna) nella parte orientale. Ma quale è il vero nome di queste gustose crocchette di riso? Non si può fare a meno di chiederlo a Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia nazionale della Crusca, intervenuto all’istituto comprensivo Buonarroti di Palermo per presentare l’ultima edizione del suo libro, Conosco la mia lingua. Lui risponde diplomaticamente: «Propendo per la prima forma, “arancino”, perché di solito i diminutivi vanno al maschile. L’arancia è femminile, ma la trasformazione in un’altra cosa dovrebbe far cambiare il genere grammaticale. So che a Palermo si preferisce usare il femminile e allora va bene anche così. L’importante non è come si pronuncia ma chi lo fa meglio».

In verità, l’Accademia nazionale della Crusca è l’autorità assoluta in fatto di Lingua italiana. Non possiamo, dunque, che attenerci a quanto ci spiega con competenza Stefania Iannizzotto, della Redazione Consulenza Linguistica della prestigiosa Accademia. Scopriremo proprio quello che dice il prof. Sabatini: si può dire in ambedue i modi. Inoltre apprenderemo una curiosità storica: anche se molti vorrebbero fare risalire questa preparazione agli arabi, in realtà non ci sono tracce prima della seconda metà del XIX secolo. Per saperne di più, non rimane che leggere la lunga ma “gustosa” risposta sul sito web dell’Accademia della Crusca, così finiremo di domandarci: Si dice arancino o arancina?

LEGGI LA RISPOSTA DATA DALL’ACCADEMIA NAZIONALE DELLA CRUSCA


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DOMANDE & RISPOSTE: Cosa è un’entasis?


In italiano la chiamiamo semplicemente “èntasi“, in greco “èntasis” (ἔντασις), che tradotto letteralmente significa “tensione, sforzo”, per Vitruvio “gonfiezza della colonna”. È un termine tecnico, utilizzato da architetti e storici dell’arte per definire quell’ingrossamento del fusto di una colonna, che compare a circa un terzo dalla base. Se osserviamo infatti una colonna, noteremo che sovente si presenta rastremata, ossia affusolata verso l’alto, con un suo diametro massimo alla base (imoscapo) e uno minimo alla sommità (iposcapo). A questa progressiva riduzione verso l’alto della circonferenza del fusto, si aggiunge l’entasis, ossia un più o meno accentuato rigonfiamento in prossimità della base.

Colonne doriche del tempio di Era a Paestum con rastremazione ed entasi (entasis, in greco).

Questo ingrossamento indica uno sforzo di “tensione”, che richiama alla memoria le antiche colonne quando dovevano sopportare il peso sovrastante della trabeazione. Tale peso era distribuito uniformemente, ad esempio, sulle singole colonne di un peristilio, grazie ai capitelli, i quali sotto il profilo statico hanno la funzione di convogliare i carichi in asse alla colonna stessa. Lo sforzo di tensione è semplicemente apparente nell’architettura in pietra, poiché le colonne sono sovradimensionate rispetto ai carichi effettivi; ma era al contrario reale nell’architettura di epoca tardo antica, quando i templi erano costruiti quasi interamente di legno. Sappiamo infatti che un tronco di legno male si presta ad essere utilizzato per reagire a quello che i tecnici chiamano “carico di punta”. Pertanto sotto uno sforzo di compressione si deforma proprio alla base, in altri termini si schiaccia, determinando una deformazione delle fibre e una conseguente dilatazione della circonferenza: fenomeno che potrebbe preannunciare la rottura.

Non è da escludere, quindi, che nell’architettura classica, realizzata in pietra, l’origine dell’entasis sia da ricercarsi nella “mimesi”, ovvero nella imitazione, del fenomeno elastico o plastico delle primitive strutture lignee. Elastico, se consideriamo una deformazione che aumenta progressivamente, ma che potrà fare tornare il pilastro ligneo allo stato iniziale, una volta scaricata la struttura. Come nel caso di una struttura precaria: un puntellamento, un ponteggio. È fenomeno plastico, nel caso in cui la deformazione diviene permanente con il tempo, perché il carico rimane stabile: ad esempio in un tempio o in altre costruzioni. L’entasis non è sempre presente nelle colonne antiche. Infatti nel caso del dorico arcaico o dell’architettura etrusca molte volte l’entasis può essere totalmente assente, oppure al contrario può essere fortemente accentuata.

Partenone – Pianta e correzioni ottiche

Oltre a queste spiegazioni di ordine statico, secondo alcuni studiosi, l’entasis serviva a correggere le deformazioni ottiche tipiche di una architettura, come quella greca, interamente leggibile con un solo colpo d’occhio: una serie di colonne circondano il naòs, (la cella sacra) e sostengono il sistema di copertura. Guardando i loro templi, i greci, attenti ai fenomeni naturali, hanno percepito che la serie ripetitiva delle colonne, tutte allineate, dà origine a particolari effetti visivi di curvatura dello stilobate (piano di spiccato delle colonne) e ad un assottigliamento ottico del fusto. L’entasis, con il suo rigonfiamento, corregge il gioco di alterazione della vista.

Questi studi sono stati considerati dai trattatisti, a cominciare da Vitruvio Pollione (De Architettura) fino agli scrittori rinascimentali, che ne hanno dettato norme precise. Ad esempio le specifiche classiche di Vignola (Regola delli cinque ordini dell’architettura) stabiliscono che tutte le colonne siano affusolate correttamente, e contemporaneamente rigonfie, per sembrare visivamente corrette; altrimenti la colonna una volta installata presenterà un’apparenza ricurva. La posizione ed il grado di questa curvatura, chiamata appunto entasis, varia con l’ordine architettonico. Tuttavia, nonostante le indicazioni dei trattati di architettura, nelle realizzazioni pratiche di colonne in pietra, la soluzione estetica, scissa dalle concrete imposizioni fisiche delle colonne lignee, è sempre stata dovuta alla sensibilità artistica di ciascun progettista.

L’Entasi della Colonna

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