Ercole Luigi Morselli – La Befana di Baciccia

In questo racconto la Befana non c’entra niente. È solo la ricorrenza in cui avviene un fatto. Come sono solo ricorrenze le Feste dell’anno: ad alcuni butta bene e ad altri meno. Questa è una storia di emigrazione di altri tempi, quando erano gli italiani che partivano per terre lontane a cercare fortuna. Un figlio “bastardo”, dopo avere ritrovato la madre, migrata in Francia, proprio nel giorno della Befana ritrova anche il padre che lo ha messo al mondo e non lo ha mai conosciuto.

Il padre di Baciccia non era morto affatto – come sempre gli avevano fatto credere – ma era vivo e vegeto, ed anche ricco e senza figli. Aveva delle fattorie nell’America del Sud e una bella casa in città, a La Plata.

Baciccia, che per mestiere fa il marinaio, dopo sessantotto giorni di navigazione, vede la sua nave entrare finalmente in porto, proprio il sei di gennaio. Chissà che questo non sia il segno del destino.

«Era il giorno dell’Epifania, il cuore dell’estate australe, e sembrava che il sole fosse cascato sulla coperta per il caldo che faceva; e dal cassero, quell’aborto di metropoli che è la città di La Plata, tremava tutto ai nostri occhi, rovente nella fiamma del sole, disteso sull’orlo della Pampa bruciata, dove da trent’anni sta, aspettando che i suoi atenei, i suoi osservatori, le sue biblioteche, i suoi palazzi, e soprattutto il suo immenso porto, vanto di costruttori italiani, gli servano a qualche cosa».

Per tutto il tempo del viaggio Baciccia non ha fatto altro che fantasticare l’incontro e parlarne con tutti a bordo.

«Non c’è dubbio! Questa è la Befana che vi vuol bene, e ha preparato tutto in modo e maniera…!», gli dice il capitano. Ma la Befana a Baciccia non ha mai portato niente, neanche quand’era bambino.
«Vi porterà tutto in una volta», gli tuona il capitano.

L’epilogo – insolito quando s’immagina il giorno della Befana – lo lascia bene intendere Ercole Luigi Morselli, nel titolo del libro che raccoglie i suoi otto racconti: Storie da ridere… e da piangere (Milano, 1918).  

IMMAGINE DI APERTURA di Comfreak da Pixabay

Le vignette dei nostri bis-nonni

Come si rideva all’inizio del secolo scorso? Questa volta siamo andati a spulciare nelle pagine di burle, curiosità del mondo, motti, racconti allegri, passatempi di famiglia, dettati e frizzi popolari, raccolti e pubblicati da Francesco Dani nel suo “Libro per ridere” (1905). Abbiamo scelto alcune battute simpatiche arricchite da illustrazioni. Giusto per rivivere lo spirito del tempo.

Curiosità del mondo

IMMAGINE DI APERTURA rielaborazione grafica della copertina de “Il libro allegro” di Ugo Vivarelli.

Come si divertivano i nostri bis-nonni?

Come si rideva all’inizio del secolo scorso? Siamo andati a spulciare nelle pagine de “Il libro allegro” di Ugo Vivarelli (1901) e ci siamo divertiti anche noi, coinvolti da quel pizzico di sana ingenuità, tanto da proporvi una selezione di battute di spirito che abbiamo rielaborato appena-appena per esporle con un linguaggio leggermente più attuale.

A scuola… e non solo

Un padre sdegnato di fronte ai pessimi risultati domanda al figlio:
– Ma tu, perché vai a scuola?
– Per aspettare l’ora di uscita!

Allora il padre, deluso, si confida con un amico, chissà che non sappia fornirgli qualche consiglio:
– Dovresti dare a tuo figlio un giusto rimprovero.
– Tempo perso, caro mio; non ascolta che gli imbecilli…
– Allora gli parlerò io.

Alle domande dell’amico del padre, il ragazzo risponde di non studiare perché stanco di imparare controsensi.
– Fammi un esempio – chiede l’uomo incuriosito.
– Anche più di uno: perché si chiama quadrante la mostra di un orologio, mentre è rotonda e si chiama circolare il foglio delle comunicazioni del preside che invece ha la forma di un rettangolo? Perché si dice rosso il tuorlo di un uovo che invece è giallo, e si dice nero il vino che è rosso?

Il figlio dell’amico del padre a queste domande sa rispondere, perché è un ragazzo studioso. Meravigliato della sua erudizione, un compagno gli ha chiesto:
– Ma come fai a trovare il tempo per leggere tanti libri?
– La maggior parte li leggo la notte.
– Di notte? E ci vedi?

Preso dall’emulazione, anche il ragazzo svogliato confessa all’insegnante:
– Sa, professore? Ho deciso di bruciarmi il cervello sui libri.
– Non ci riuscirai, il vuoto è incombustibile!

Il problema è che gli asini sono asini! Protesta il padre del ragazzo che di studiare non ne vuole sapere. E racconta di quando il suo vecchio insegnante entrato in aula per far lezione si accorse di un fascio di fieno che, per scherzo, gli avevano posto sulla cattedra. Comprese subito l’atto di spirito, ma senza scomporsi, lo prese e porgendolo alla scolaresca esclamò:
– Signori, chi non ha terminato di fare colazione?!

I figli, oggigiorno, sono pieni di riguardi da parte dei loro genitori, che al contrario li considerano geniali. Si racconta, infatti, che una buona mamma, parlando col professore gli abbia detto:
– Malgrado tutte le sue lagnanze, dovrebbe confessare che mio figlio ha una gran testa: sveglia, aperta.
– Molto aperta! Tutto ciò che gli entra da un orecchio gli esce dall’altro.

In classe l’insegnante spiega:
– Un nome astratto deve indicare qualche cosa che si può immaginare, che si può pensare, ma che non si può toccare. Sapresti farmi un esempio?
– Sissignore…. un ferro rovente.

Stessa scuola, stessa classe:
– Chi era Pitagora?
– Un falegname.
– Ma che dici?
– Non ci restano le tavole fatte da lui?

Di matematica capiscono poco, questi ragazzi; ma di scienze?
– Che cosa sono i quadrupedi?
– Quelli che hanno quattro gambe!
– Per esempio?
– La sedia… il tavolino… due galline…

Un ragazzaccio, però, la matematica l’ha usata a modo suo. All’uscita di scuola si è avvicinato al banco di un venditore d’arance e ha chiesto:
– Quante me ne date per quattro soldi?
– Cinque.
– E allora, quattro per tre soldi?
– Esattamente.
– Tre per due, due per uno e una per niente….
Così, acchiappata un’arancia, è scappato via.

La solita chiacchiera di una volta: ultimi a scuola, primi nella vita. C’è pure chi racconta una storiella. Sentite: un professore monta in una barca per attraversare un certo fiume che ha la corrente molto impetuosa.
– Conosci la storia? – chiede al barcaiolo.
– No, signore.
– Sventurato! Metà della tua vita è perduta!
Dopo una pausa:
– Almeno, conosci la matematica.
– Neppure.
Sciagurato! Tre quarti della tua vita sono perduti.
Di lì a poco un colpo di vento rovescia la barca.
Il barcaiolo grida:
– Signore! Sa nuotare?
– No, aiutami…
– Allora, l’intera sua vita è perduta!

Se le acque di quel fiume sono pericolose, si può fare sempre una passeggiata in campagna.
Un signore attraversando un bosco vede una signorinella raccogliere funghi, prendendoli alla rinfusa.
– Fai attenzione, ragazza mia, ve ne potrebbero essere di velenosi.
La ragazza si ferma, e, guardandolo con un sorriso dolce e ingenuo, esclama:
– Oh! non importa, signore. Sono da regalare.

IMMAGINE DI APERTURA rielaborazione grafica della copertina de “Il libro allegro” di Ugo Vivarelli.

Emilio Salgari – Alla conquista della luna, 1904

I RACCONTI DI AVVENTURE DI EMILIO SALGARI

Alla conquista della luna

Alcuni anni or sono, i pochi abitanti di Allegranza, un piccolo isolotto del gruppo delle Canarie, venivano bruscamente svegliati da un colpo di cannone il cui rimbombo s’era ripercosso lungamente fra quelle aride rocce, bruciate dall’ardente sole africano.

Un colpo di cannone per quegl’isolani, che vivevano così lontani da qualsiasi terra considerevole, e che solo a lunghi intervalli vedevano qualche piccolo veliero entrare nella baia dell’isolotto per provvedersi d’acqua ed imbarcare qualche partita di pesce secco, era un tale avvenimento da metterli nella più viva curiosità.

La nave che aveva annunziato il suo arrivo con quel colpo, non era uno dei soliti velieri, bensì un bel vapore dipinto in grigio e che inalberava sull’albero di maestra la bandiera brasiliana.

Non era di grossa portata; se fosse stato di mole considerevole non avrebbe potuto trovare fondo sufficiente nella piccola baia; tuttavia era un bel piroscafo che doveva stazzare almeno cinque o seicento tonnellate, come asseriva José Faja, il più vecchio e rispettato dei pescatori dell’isola e che nella sua gioventù aveva navigato il mondo in lungo ed in largo.

Tutta la popolazione, dunque, una quarantina di persone, fra uomini e donne, si era rovesciata sulla spiaggia, attratta da quella inaspettata novità.

In vent’anni era il secondo battello a vapore che s’era degnato mostrarsi agli sguardi degli isolani: meritava quindi la pena di andarlo ad ammirare.

Tutti si erano affollati attorno al vecchio Faja, che, nella sua qualità di marinaio, doveva saperla più lunga di tutti, chiedendogli il suo parere su quella visita straordinaria.

— Che cosa verrà a fare qui, che non vi è nulla da imbarcare fuorchè delle pietre? — si chiedevano tutti, guardando il vecchio.

— Non posso dirvi altro che è una bella nave a vapore, che deve camminare come una dorata — rispondeva l’ex marinaio. — Quando l’equipaggio verrà a terra, ne sapremo di più.

Il battello a vapore, dopo quel colpo di cannone, era entrato lentamente nella baia, scandagliando con precauzione il fondo, per non correre il pericolo di arenarsi; poi aveva gettato le sue àncore, senza occuparsi dei curiosi che si affollavano sulla riva.

Terminate quelle manovre, gli uomini che formavano l’equipaggio erano scomparsi sotto coperta e più nessuno si era fatto vedere, nè alcuna scialuppa era stata calata in mare.

Il vecchio Faja non sapeva che pensare. Se quella nave era entrata nella baia, non era certo per riposarsi. Qualche motivo ci doveva essere per approdare a quell’isolotto, che non offriva nulla di attraente, fuorchè rocce e rupi con pochi fili di erba e pochi alberi semibruciati dal sole.

Durante quella prima giornata, gl’isolani attesero invano che qualcuno sbarcasse.

Verso sera, invece, due grosse scialuppe furono calate dalla nave e trasportarono a terra un bel numero di casse accuratamente numerate ed una certa quantità di legname, che pareva destinato alla costruzione di una capanna o di qualche cosa di simile.

Faja, che sapeva qualche parola brasiliana, si provò ad interrogare i marinai e non ebbe alcuna risposta. Tutti quegli uomini parevano muti.

Senza darsi alcun pensiero degl’isolani, disposero le casse in bell’ordine, poi scavarono un fosso profondo, di forma circolare, ed eressero una palizzata abbastanza alta per impedire ai curiosi di vedere nell’interno.

Compiuti quei lavori e chiusa la palizzata con un robusto cancello di ferro con doppi chiavistelli, i marinai tornarono a bordo del piroscafo, senza aver pronunziato una sola parola.

— Non capisco nulla — disse il vecchio Faja, un po’ indispettito. — L’isola appartiene a noi e quegli stranieri ne dispongono come se fosse di loro proprietà. Se domani il comandante del piroscafo non ci darà spiegazioni, parola da marinaio che farò bruciare la cinta e anche le casse.

— E noi ti aiuteremo, Faja — gridarono in coro gl’isolani.

— Andiamo a dormire e a domani — disse il vecchio.

All’alba l’ex marinaio era già in piedi, ben deciso di recarsi dal comandante e di dirgli ad alta voce che quell’isola era proprietà del Governo spagnuolo e non già del brasiliano; invece, con sua profonda sorpresa, non vide più la nave.

I Brasiliani, approfittando del sonno degl’isolani, se n’erano andati, senza degnarli d’un colpo di cannone come saluto.

Alcuni pescatori, che si erano alzati per tempo al pari di lui, lo avevano raggiunto, mostrandosi non meno stupiti per quell’improvvisa partenza della nave.

Avevano però constatato che la cinta non era stata levata e che le casse non erano state toccate.

— Vecchio Faja — disse uno dei pescatori — ci capisci qualche cosa di quell’improvvisa fuga di quei misteriosi naviganti?

— Meno d’ieri — rispose l’ex marinaio.

— E quel recinto perchè l’avranno inalzato? — chiese un altro.

— E quelle casse che cosa conterranno? — chiese un terzo.

— Se contenessero delle macchine infernali cariche di dinamite per far saltare l’isola e provare la potenza di qualche nuovo esplosivo! — esclamò Faja, con spavento.

Quelle parole avevano terrorizzato di colpo quei bravi pescatori, i quali avevano una cieca fiducia nell’ex marinaio. Stavano per darsela a gambe per rifugiarsi sulle rive occidentali dell’isola, quando uno di loro li fermò, dicendo

— Vedo due uomini nel recinto!

Tutti si erano fermati. Se vi erano delle persone fra quelle casse, non vi era più da temere un’esplosione. Non sarebbero stati così stupidi da saltare in aria assieme al recinto.

— Andiamo a interrogarli — disse Faja, che aveva riacquistato prontamente il suo coraggio. — Si spiegheranno o li metteremo in un canotto e li affideremo alle onde.

Scese verso la riva seguìto dai pescatori e, giunto dinanzi al cancello, si annunziò con un clamoroso:

— Oh, signori! Che cosa fate qui?

I due stranieri erano occupati ad aprire delle casse, dalle quali traevano degli specchi colossali che deponevano al suolo, uno sull’altro, con infinite precauzioni.

Entrambi erano attempati, quasi calvi e portavano occhiali. Avevano più l’aspetto di scienziati o di professori che di gente di mare.

Vedendo Faja, uno dei due che aveva una lunga barba bianca e che pareva il più anziano, aprì il cancello e salutò cortesemente l’ex marinaio con un:

— Buon giorno, mio caro isolano.

Faja, un po’ sconcertato da quell’accoglienza e dall’aspetto grave di quei due personaggi, era rimasto qualche istante muto, poi fattosi animo rispose:

— Perdonate, signori, se noi siamo venuti a disturbarvi, ma…

— Niente affatto — rispose lo sconosciuto.

— Comprenderete… un po’ di curiosità… e poi l’isola appartiene al Governo spagnuolo, che mi ha nominato alcade, e…

— Vi capisco — disse lo sconosciuto, sorridendo. — Voi desiderate sapere, signor alcade, perchè noi siamo sbarcati senza chiedere il permesso e che cosa siamo venuti a fare qui. Rassicuratevi: non abbiamo alcuna intenzione di disputare al Governo spagnuolo la proprietà dell’isola, nè di recare danno alcuno ai suoi sudditi.

«Noi siamo due tranquilli scienziati brasiliani, incaricati di tentare un grande esperimento che farà epoca nel mondo: andiamo a tentare la conquista della luna.

— Oh! — esclamarono i pescatori, guardandosi uno con l’altro, con uno stupore impossibile a descrivere.

— Intanto — proseguì lo scienziato — siccome noi abbiamo occupato un terreno che appartiene al Governo spagnuolo, accettate, signor alcade, queste cento piastre.

Consegnò a Faja una borsa, poi con un gesto lo congedò, dicendo:

— Abbiamo molto da fare e vi prego di lasciarci tranquilli.

Faja, contento di quel tesoretto, se ne andò coi suoi pescatori, più che mai convinto di aver da fare con due pazzi.

La conquista della luna! Decisamente quei due stranieri, malgrado la loro serietà, dovevano avere il cervello sconvolto.

Comunque fosse, Faja diede ordine ai suoi compagni di non importunare in modo alcuno i due stranieri e di lasciarli fare il loro comodo.

La curiosità degl’isolani era diventata però così intensa che passavano delle giornate intere sulle rupi, che dominavano la spiaggia, e di conseguenza anche il recinto che era riparato da una piccola tela, la quale non impediva che si potesse comodamente scorgere ciò che facevano là dentro i due scienziati.

Questi passavano i loro giorni ora facendo delle lunghe osservazioni sul sole e sulla potenza del suo calore, ora a levare continuamente oggetti dalle casse.

Avevano già fabbricato una macchina strana, che rassomigliava ad una cupola, con la parte superiore formata da lastre solidamente incastrate in telai che parevano d’alluminio, e la inferiore coperta di specchi immensi e di una serie di doppie eliche, che si vedevano funzionare senza posa, anche dopo il tramonto dell’astro diurno.

Avevano già fabbricato una macchina strana...

Che cosa fosse, nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Anche Faja che, avendo girato il mondo, doveva sapere tante cose e anche averne vedute molte, invano si lambiccava il cervello.

Solo cominciava a credere che quei due scienziati non fossero così pazzi come li aveva dapprima giudicati.

Erano trascorsi dieci giorni dalla partenza del misterioso piroscafo, quando un dopopranzo gl’isolani videro i due scienziati intenti ad abbattere il recinto.

Faja, avvertito che i due stranieri desideravano parlargli, si era affrettato a scendere sulla riva.

Lo scienziato dalla barba bianca lo ricevette e lo condusse dinanzi a quella strana macchina, i cui specchi percossi dal sole irradiavano un calore così intenso da non poter resistere.

— Noi stiamo per tentare il grande esperimento — gli disse.

— Quale? — chiese Faja.

— Di conquistare la luna.

— Ne siete ben certi? — chiese l’ex-marinaio, con tono di dubbio.

— Abbiamo, se non la certezza, almeno molta speranza — disse il vecchio. — Voi vedete questa macchina?

— Anche un cieco la vedrebbe, ma non so a che cosa potrebbe servire, specialmente con tutti quegli specchi.

— Chiamateli riflettori, signor alcade, o meglio ancora, insolatori.

«Basta orientarli a seconda della direzione dei raggi solari per ottenere uno sviluppo di calore così considerevole da mettere in movimento qualunque macchina.

«Essi danno a noi la forza necessaria per far funzionare gli apparecchi che si trovano sotto la cupola di cristallo, i quali dovranno mettere in moto tutte le ali ad elica, destinate a trasportarci in alto.

«Noi vogliamo tentare, con l’aiuto di quella novella forza, d’innalzarci a tale altezza non mai neppur sognata, fino ad uscire dall’orbita della terra e cadere sulla luna o su qualche altro astro, ciò che io ed il mio amico, dopo lunghi studi, crediamo possibile.

«Non sappiamo se il nostro tentativo, che può sembrarvi una pazzia, possa avere un esito felice o se finirà in un’orrenda catastrofe.

«Comunque sia, noi lasceremo alla scienza la nostra invenzione.

Prese un tubo di metallo, accuratamente chiuso, e lo consegnò all’ex marinaio, dicendo:

— Qui vi sono dei documenti riguardanti la nostra scoperta. Se un giorno una nave approderà alla vostra isola ed il suo comandante li reclamerà, voi non dovete esitare a consegnarli. Datemi la vostra parola, signor alcade.

— Ve lo prometto — rispose Faja.

— Datemi la vostra parola signor alcade. — Ve lo prometto — rispose Faja.

— Prendete ora queste cinquecento piastre che dividerete coi vostri pescatori, ed ora addio. Se non torneremo più sulla terra, avremo dimostrato la possibilità di conquistare gli altri mondi.

Strinse la mano all’alcade, salutò gli isolani, che erano accorsi in buon numero sulla spiaggia, poi raggiunse il suo compagno, chiudendo la porta della cupola.

Faja ed i pescatori si erano allontanati di parecchi metri, chiedendosi ansiosamente che cosa stava per succedere; d’altronde l’irradiazione proiettata da tutti quegli specchi era così ardente che le vesti degl’isolani minacciavano di prender fuoco.

I due scienziati, che si scorgevano benissimo attraverso la cupola di cristallo, eseguivano delle manovre misteriose attorno a certi apparecchi che rassomigliavano a piccole macchine a vapore, prive di camini.

Ad un tratto, gl’isolani videro le ali che si trovavano intorno alla cupola, un po’ sotto gli specchi, girare vertiginosamente e la macchina intera inalzarsi con la rapidità d’un uccello marino.

Scintillava come una massa di fuoco, lanciando in tutte le direzioni fasci di luce accecanti che impedivano quasi di osservarla, s’alzava sempre sopra l’isola, mantenendo una verticale quasi perfetta.

Per parecchi minuti Faja ed i suoi compagni poterono seguirla con gli sguardi, riparandosi gli occhi con le mani, poi scomparve fra la luce solare come se si fosse fusa.

Indarno essi l’attesero, credendo di vederla da un momento all’altro precipitare sull’isola o sul mare.

La notte scese e la cupola non fu più veduta tornare.

Viaggiava fra gli spazi sconfinati del cielo, oppure era caduta sull’oceano ad una grande distanza? Mistero!

Trascorse una settimana, poi un’altra, infine molte altre senza che alcuna nuova pervenisse a Faja. A poco a poco i due scienziati furono dimenticati e più nessuno ne parlò. D’altronde tutti erano convinti che essi fossero caduti in mare e che fossero già morti.

Tre mesi erano passati, quando un giorno gl’isolani videro accostarsi all’isola, a tutto vapore, una piccola nave da guerra della Marina spagnuola, che pareva provenisse da Lanzarote, una delle più importanti isole del gruppo delle Canarie.

Faja, che si trovava sulle rive occidentali dell’isola, occupato a pescare, subito avvertito, era accorso alla baia per ricevere il comandante della nave che rappresentava per lui la patria lontana.

Era appena giunto, quando una scialuppa montata da dieci marinai e dal capitano del bastimento prese terra.

— Chi è l’alcade? — chiese il comandante.

— Sono io, signore — rispose Faja.

— Siete possessore d’un documento consegnatovi tre mesi or sono dai signori Carvalho e Souza?

— Due scienziati brasiliani?

— Sì — rispose il comandante.

— L’ho io.

— Mandatelo a prendere e raggiungetemi sulla mia nave.

Un quarto d’ora dopo Faja saliva sulla piccola nave da guerra, portando il cilindro di metallo che non aveva mai osato aprire, quantunque più volte ne avesse provato il desiderio, vinto da una curiosità del resto perdonabile.

Il comandante lo aspettava nella sua cabina, tenendo in mano un lungo cilindro di metallo, accuratamente chiuso ed eguale in tutto e per tutto a quello che aveva ricevuto Faja dai due scienziati brasiliani.

— Ascoltatemi — disse il capitano, dopo d’averlo pregato di sedere. — Un mese fa, una nave francese, che veniva dai porti dell’America del Sud, rinveniva a quattrocento miglia dalle coste del Portogallo questo cilindro galleggiante sull’Oceano e contenente un documento benissimo conservato. Sapete leggere il portoghese?

— Sì, signore — rispose Faja.

— Leggete — disse.

Faja, con uno stupore facile ad immaginarsi, lesse le seguenti parole:

«Lanciato sulla terra a novemilacinquecento metri. La nostra macchina funziona sempre perfettamente, mercè il calore proiettato dai nostri specchi e condensato nei nostri motori.

«Se nulla accade di contrario, noi fra tre ore avremo lasciato la zona d’aria respirabile e continueremo la nostra ascensione verso la luna o verso un astro qualsiasi.

«Se non potremo mai più tornare sulla terra o se il freddo ci assidererà, come temiamo, chi vorrà sapere chi noi siamo e con quale macchina ci siamo alzati, si rivolga all’alcade di Allegranza (isole Canarie), a cui abbiamo rimesso i nostri documenti prima di lasciare definitivamente la terra.

«Carvalho e Souza»

«Membri dell’Accademia Scientifica di Rio de Janeiro».

— Che cosa ne dite? — chiese il comandante.

— Che ciò che hanno scritto quei due scienziati è perfettamente vero — rispose Faja.

— Questo documento — riprese il comandante — è stato rimesso al Governo spagnuolo, perchè cercasse spiegare questo mistero, e per ordine del Ministero della Marina sono qui venuto per accertare se questi documenti realmente esistono.

— Quei due scienziati sono partiti tre mesi or sono, su una macchina in forma di cupola, munita di specchi immensi e di certe ali in forma di eliche, e tutti gl’isolani hanno assistito all’innalzamento di quei due uomini.

— Vediamo questo documento.

Il comandante prese il cilindro e lo svitò senza fatica, dopo d’aver spezzato quattro suggelli in piombo che portavano le iniziali di Carvalho e di Souza. Dentro vi erano quattro fogli in pergamena, accuratamente arrotolati e coperti da una calligrafia eguale a quella che si scorgeva sul documento raccolto in mare dalla nave francese. Un quinto, invece, conteneva un disegno ben dettagliato d’una macchina che Faja riconobbe subito: era precisamente di quella di cui si erano serviti i due scienziati per inalzarsi.

Il capitano spiegò i fogli e cominciò a leggere:


«Rio de Janeiro, 24 luglio 1887.


«La notizia della fondazione della Società solare, costituitasi a Parigi, e la scoperta degl’insolatori, fatta dall’americano Calver, ha suggerito a noi l’idea di costruire una macchina che potesse funzionare senz’altro bisogno che del calore del sole e permettere di tentare un’esplorazione nello sconfinato firmamento.

Le splendide prove date dagl’insolatori, che ora funzionano così magnificamente in varie città africane, mettendo in moto delle macchine che vengono usate per la distillazione dell’acqua, ci hanno convinti della possibilità della cosa.

Dopo lunghi studi e lunghe esperienze, noi siamo riusciti a costruire degl’insolatori di tale potenza, da poter accumulare tanto calore da fondere perfino il ferro. Portare l’acqua allo stato d’ebollizione anche la più intensa, e mettere in moto delle macchine poderose senza aver bisogno del carbone; era dunque un gioco per noi.

«Ottenuta la forza, abbiamo costruito dei motori e quindi una macchina volante, munita di eliche sufficienti per l’inalzamento.

«La riuscita è stata così completa da tentare un grandioso progetto che da lunghi anni turbava il nostro cervello: di muovere, cioè, alla conquista della luna, o per lo meno di tentare un’esplorazione fuori dei confini dell’aria respirabile.

«A tale uopo e per poter resistere senza esporci ai freddi intensi che supponiamo, a ragione, di dover sfidare nel nostro inalzamento, abbiamo munito la nostra macchina volante di una cupola di cristallo, assolutamente chiusa, portando con noi cilindri di ossigeno per rinnovare l’aria interna.

«Riusciremo nella nostra temeraria impresa? Noi ne siamo fermamente convinti.

«I nostri insolatori ci forniranno abbastanza calore per poter far funzionare le nostre macchine anche di notte e per poter resistere ai grandi freddi, per quanto intensi possano essere. Quindi non possiamo temere di morire assiderati, nè di vedere le nostre macchine arrestarsi, il che accadendo, il nostro viaggio terminerebbe in una spaventevole caduta.

Noi speriamo un giorno di ridiscendere sulla terra. Se ciò non dovesse avvenire, considerateci pure come morti.

«Carvalho e Souza»

Il capitano, terminata la lettura, si era alzato, fermandosi dinanzi a Faja.

— Che cosa ne dite voi di tutto ciò? — gli chiese.

— Io nulla posso dire, signore, fuorchè d’aver veduto quei due scienziati inalzarsi dinanzi i miei occhi. È a voi, signor comandante, che volevo chiedere se credete che essi possano essere riusciti nel loro intento.

— Io sono convinto che non abbiano potuto attraversare la massa d’aria che circonda la nostra terra e che abbiano finito per ricadere, ammenochè continuino a girare intorno al globo. Si faranno delle ricerche e vedremo se si potrà sapere qualche cosa di quei due audaci.

La sera stessa la piccola nave da guerra lasciava Allegranza, conducendo con sè l’alcade, e faceva rotta per Cadice.

Il Governo spagnuolo e gli scienziati d’Europa si erano già vivamente preoccupati per fare delle indagini a fine di chiarire la sorte toccata ai due brasiliani, tanto più che due altri documenti, affatto simili al primo, erano stati pescati, uno nell’Atlantico meridionale e l’altro nell’Oceano Pacifico a duecentocinquanta miglia dalle coste del Chilì.

Furono mandati ordini in tutte le colonie e furono pregati i capitani delle navi di fare ricerche negli oceani, con la speranza di trovare almeno qualche frammento di quella macchina straordinaria, ma senza risultato.

Fu solo quattordici mesi dopo che si potè sapere qualche cosa dell’esito di quel viaggio che aveva tanto commosso il mondo scientifico.

Una nave inglese, proveniente dai porti della Cina, aveva raccolto un uomo che aveva trovato su un’isoletta disabitata delle isole Condor, a sud della penisola indomalese.

Era un vecchio di sessanta e più anni, che aveva il volto coperto da una lunga barba e non aveva indosso alcun indumento.

Dapprima era stato preso per un naufrago, poi da alcune frasi sconnesse il comandante della nave aveva potuto capire che quell’uomo, che doveva essere diventato pazzo, non era approdato su quell’isolotto con una nave, nè con una scialuppa.

Asseriva di essere caduto dal cielo dopo una lunga corsa attraverso gli spazi celesti, e di essere di nazionalità brasiliana e di chiamarsi Souza.

Asseriva di essere caduto dal cielo dopo una lunga corsa...

Condotto a Calcutta ed interrogato lungamente, aveva confermato, dopo lunghe esitazioni, quanto aveva narrato al capitano che lo aveva trovato nell’isolotto deserto.

Disgraziatamente quell’uomo era pazzo e non riusciva a dare chiare spiegazioni sul modo con cui era giunto su quella terra. La sola frase che ripeteva, era sempre la medesima

— Sono caduto dal cielo.

Condotto a Rio de Janeiro, non fu possibile stabilire se si trattava veramente del membro dell’Accademia scientifica che quindici mesi prima era partito assieme a Carvalho per tentare quel viaggio meraviglioso. Alcuni suoi vecchi amici avevano affermato di riconoscerlo per Souza, altri lo avevano negato; era bensì vero però che il viso del povero pazzo era coperto di cicatrici che parevano prodotte da profonde bruciature; e che dovevano renderlo irriconoscibile, anche ai suoi stessi amici.

Ad ogni modo vani furono tutti i tentativi per identificarlo.

Fu rinchiuso in una casa di salute dove visse alcuni anni, ripetendo sempre, a chi lo interrogava — Sono caduto dal cielo.

Si trattava del vero Souza o di un altro? Mistero.

Il fatto sta che, per quante ricerche fossero fatte, più nulla si potè sapere della macchina innalzatasi sull’isolotto di Allegranza.

È probabile che per qualche causa fosse caduta e che dei due scienziati il solo Souza – chi sa per quale miracolo – fosse sfuggito alla morte, salvandosi su quell’isolotto sperduto nell’Oceano Indiano.

LEGGI L’ORIGINALE SU WIKISOURCE: Alla conquista della luna / Emilio Salgari. – Milano : Sonzogno, 1936.

IMMAGINE DI APERTURA di Karen Nadine da Pixabay 

I viaggi del futuro? Così li raccontavano a fine Ottocento

Siete curiosi di sapere come se la immaginavano la vita quotidiana a fine Ottocento? Ad esempio, come sarebbe stato viaggiare? Magari alla pazzesca velocità di 150 chilometri orari? Leggiamo una parte del primo capitolo di un libro nato dalla fantasia di Paolo Mantegazza, scrittore, ma anche medico fisiologo e igienista. È uno dei precursori della fantascienza italiana, che nel 1897 descrisse una utopica società del futuro. Il suo viaggio immaginario avviene nell’anno 3000. Ogni problema è stato risolto da una tecnologia meccanica che ha fatto superare anche le vecchie ideologie. Nel suo romanzo ci si imbatte nei temi che nel corso del Novecento diventeranno nodi da sciogliere, come pacifismo, internazionalismo, eugenetica, controllo demografico, libertà sessuale per entrambi i sessi, sperimentazione farmacologica umana e animale. Se vi interessa potete andare a leggerlo per intero.

Paolo e Maria partono per l’Andropoli

«Paolo e Maria lasciarono Roma, capitale degli Stati Uniti d’Europa, montando nel più grande dei loro aerotachi, quello destinato ai lunghi viaggi.

È una navicella mossa dall’elettricità. Due comode poltrone stanno nel mezzo e con uno scattar di molla si convertono in comodissimi letti. Davanti ad esse una bussola, un tavolino e un quadrante colle tre parole: moto, calore, luce.

Toccando un tasto l’aerotaco si mette in moto e si gradua la velocità, che può giungere a 150 chilometri all’ora. Toccando un altro tasto si riscalda l’ambiente alla temperatura che si desidera, e premendo un terzo si illumina la navicella. Un semplice commutatore trasforma l’elettricità in calore, in luce, in movimento; come vi piace.

Nelle pareti dell’aerotaco eran condensate tante provviste, che bastavano per dieci giorni. Succhi condensati di albuminoidi e di idruri di carbonio, che rappresentano chilogrammi di carne e di verdura; eteri coobatissimi, che rifanno i profumi di tutti i fiori più odorosi, di tutte le frutta più squisite. Una piccola cantina conteneva una lauta provvista di tre elisiri, che eccitano i centri cerebrali, che presiedono alle massime forze della vita; il pensiero, il movimento e l’amore.

Nessun bisogno nell’aerotaco di macchinisti o di servi, perchè ognuno impara fin dalle prime scuole a maneggiarlo, a innalzare o ad abbassare secondo il bisogno e a dirigerlo dove volete andare. In un quadrante si leggono i chilometri percorsi, la temperatura dell’ambiente e la direzione dei venti.

Paolo e Maria avevano portato seco pochi libri e fra questi L’anno 3000, scritto da un medico, che dieci secoli prima con bizzarra fantasia aveva tentato di indovinare come sarebbe il mondo umano dieci secoli dopo.

Paolo aveva detto a Maria:

— Nel nostro lungo viaggio ti farò passar la noia, traducendoti dall’italiano le strane fantasie di questo antichissimo scrittore. Son curioso davvero fin dove questo profeta abbia indovinato il futuro. Ne leggeremo certamente delle belle e ne rideremo di cuore.

È bene a sapersi che nell’anno 3000 da più di cinque secoli non si parla nel mondo che la lingua cosmica. Tutte le lingue europee son morte e per non parlare che dell’Italia, in ordine di tempo l’osco, l’etrusco, il celtico, il latino e per ultimo l’italiano.

Il viaggio, che stanno per intraprendere Paolo e Maria, è lunghissimo. Partiti da Roma vogliono recarsi ad Andropoli, capitale degli Stati Uniti Planetarii, dove vogliono celebrare il loro matrimonio fecondo, essendo già uniti da cinque anni col matrimonio d’amore. Essi devono presentarsi al Senato biologico di Andropoli, perché sia giudicato da quel supremo Consesso delle scienze, se abbiano o no il diritto di trasmettere la vita ad altri uomini.

Prima però di attraversare l’Europa e l’Asia per recarsi alla capitale del mondo, posta ai piedi dell’Imalaia, dove un tempo era Darjeeling, Paolo voleva che la sua fidanzata vedesse la grande Necropoli di Spezia, dove gli Italiani dell’anno 3000 hanno come in un Museo raccolte tutte le memorie del passato.

Maria fino allora aveva viaggiato pochissimo. Non conosceva che Roma e Napoli e il pensiero dell’ignoto la inebriava. Non aveva che vent’anni, avendo data la mano d’amore a Paolo da cinque anni.

Il volo da Roma a Spezia fu di poche ore e senza accidenti. Vi giunsero verso sera, e dopo una breve sosta in uno dei migliori alberghi della città, cavarono fuori dall’aerotaco una specie di mantello di caucciù, che si chiama idrotaco e che gonfiato da uno stantuffo in pochi momenti si converte in un barchetto comodo e sicuro. Anche qui nessun bisogno di barcaiuolo e di servi. Una macchinetta elettrica, non più grande di un orologio da caminetto, muove l’idrotaco sulle onde, colla velocità che si desidera».

LEGGI L’ORIGINALE SU WIKISOURCE: Paolo Mantegazza – L’anno 3000 (1897)

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Arsenio Lupin – L’arresto di Arsène Lupin

Dopo la prima fortunata raccolta, Tre avventure di Arsène Lupin, si trovano riuniti in questo volume altri tre dei migliori racconti con protagonista il celebre ladro gentiluomo scaturiti dalla fantasia di Maurice Leblanc: L’arresto di Arsène Lupin, Arsène Lupin in prigione e L’evasione di Arsène Lupin. La successione dei tre racconti compone una sorta di breve romanzo che terrà i lettori con il fiato sospeso, dalla prima pagina fino all’inaspettato colpo di scena finale. (Acquista)

Le avventura su You Tube

L’arresto di Arsène Lupin

Arsenio Lupin

Arsenio Lupin è il geniale ladro inventato dalla penna di Maurice Leblanc nel 1905. In questi giorni il personaggio letterario è tornato alla ribalta su Netflix, nella cui serie è stato riadattato in chiave contemporanea: non più Lupin, ma un suo emulo. Il protagonista odierno è il simpatico attore francese Omar Sy, (lo ricorderete nel film Quasi Amici). La prima parte di cinque episodi, intitolata “Nell’ombra di Arsenio” è disponibile dall’8 gennaio 2021. Noi di Experiences, tuttavia, vi proponiamo l’Arsenio Lupin delle serie trasmesse fra il 1971 e il 1974. L’interprete principale fu Georges Descrières.

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Arsenio Lupin – Il tappo di cristallo da Maurice Leblanc

Arsenio Lupin è il geniale ladro inventato dalla penna di Maurice Leblanc nel 1905. In questi giorni il personaggio letterario è tornato alla ribalta su Netflix, nella cui serie è stato riadattato in chiave contemporanea: non più Lupin, ma un suo emulo. Il protagonista odierno è il simpatico attore francese Omar Sy, (lo ricorderete nel film Quasi Amici). La prima parte di cinque episodi, intitolata “Nell’ombra di Arsenio” è disponibile dall’8 gennaio 2021. Noi di Experiences, tuttavia, vorremmo proporvi l’Arsenio Lupin nelle serie trasmesse fra il 1971 e il 1974. L’interprete principale fu Georges Descrières.

La sigla

Arsenio Lupin – Il tappo di cristallo

Lupin e la sua banda rapinano un ricco imprenditore odiato da molti e temuto da tutti, ma uno dei sottoposti cerca di prendere più di ciò che era stato stabilito da Lupin; il giovane vuole un tappo di cristallo, credendo che contenga informazioni utili per riscattare la sua famiglia da un debito con il riccone; arrestato, viene condannato alla ghigliottina per complicità con il ladro gentiluomo, che decide di intervenire personalmente aiutando la madre vedova ed il fratellino. L’imprenditore era uno spasimante della donna, e non vuole rinunciare a lei, al punto di ricattarla con la vita del figlio in cambio della sua sottomissione; ma Arsenio Lupin scoprirà che il tappo nascondeva informazioni usate a scopo di ricatto contro potenti membri del governo, informazioni che il ricattatore ha trasferito nel suo occhio di vetro; ottenutele, le consegnerà alla madre che se ne servirà per ottenere la grazia per il figlio. (Fonte Wikipedia)

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Nella città del XX secolo un’architettura nuova sostituirà quella senza qualità

Interno del Crystal Palace

In un periodo di Covid molti architetti e ingegneri stanno immaginando quale possa essere la città del futuro. Ci siamo chiesti come se la immaginavano, a metà Ottocento, la città che stiamo vivendo oggi, quella realizzata nel ventesimo secolo e che ora dovremmo trasformare. Così siamo ricorsi al Giornale dell’ingegnere, architetto ed agronomo edito a Milano. In un numero del 1857 troviamo un brillante articolo, non firmato, tradotto dalla Presse «ove si fa una rassegna delle principali mutazioni che debbono prodursi nell’industria e nella vita sociale del ventesimo secolo in grazia della piena attivazione di molti ritrovati moderni che trovansi tuttora in uno stato embrionale». Ne abbiamo fatto una riduzione, espressa in un linguaggio più vicino al nostro, questo perché chi volesse può sempre andare a leggere le pagine del libro originale.

Una città al ventesimo secolo

«Le importanti scoperte, che rendono il Diciannovesimo secolo uno dei più grandi nella storia, non avrebbero significato alcuno, se non dovessero condurre gli uomini ad uno stato sociale ben superiore a quello di oggi. La produzione industriale, coll’aiuto del vapore, è già capace, da sola, di realizzare un tale risultato. Basterà confrontare le nuove e grandi città moderne – quali New York, Filadelfia, una parte di Londra o di Parigi – con quelle città di origine medievale, caratterizzate da infette stradicciole, con vicoli ove difficilmente penetrano aria e luce. In queste strade piccoli industriali esercitano, fra pericoli e vessazioni, la loro penosa attività. Eppure pensate quale profondo cambiamento hanno realizzato pochi miglioramenti come la pavimentazione delle strade, la pubblica illuminazione, una polizia urbana bene organizzata, i perfezionati mezzi di trasporto! E non siamo che all’alba di questa nuova era, e ciò che oggi esiste è ben poca cosa in paragone a ciò che dovrà realizzarsi ancora. Si sono forse sfruttate al massimo le opportunità del vapore? No: non si sono che sfiorate le principali sue applicazioni. Dove sono i pubblici riscaldamenti che dovrebbero esistere in tutte le nostre città, in inverno? Dove le lavanderie economiche? Dove in quartieri operai forniti di acqua ben distribuita in ogni stabile e di gas? Dove i forni, i macelli e le farmacie comunali; e tutti i grandi mezzi di produzione, per i quali avremmo tante nuove istituzioni attualmente appena abbozzate in alcune località, ma che sono inevitabili e prossime?

Supponiamo, per un attimo, che tutto ciò sia stato realizzato. Immaginiamo una città del ventesimo secolo, ben ordinata in tutte le sue zone; le strade trasformate come viali alberati, non ingombre da una moltitudine di vetture, diverse e fragorose; percorse dai tram, con eleganti vagoni agganciati a piccole locomotive; niente fango, polvere, rumore. Tutto si agita e si muove come una immensa macchina, le cui rotelle sono state lubricate. Un’architettura nuova sostituisce l’architettura rabberciata, dimessa, e senza qualità della nostra epoca. Il vetro, il ferro, le fonderie potrebbero essere esclusivamente impiegate in queste gigantesche ed ardite costruzioni, i cui tetti riflettono splendidamente i raggi solari. Il palazzo di Sydenham può solo darci una debolissima idea di quest’ordine architettonico. [Si sta parlando del Crystal Palace, elevato a Londra nel 1851 per ospitare la prima Esposizione Universale. Inizialmente la grande costruzione in acciaio e vetro fu installata a Hyde Park, ma l’anno successivo fu smontata e ricostruita a Sydenham Hill, altra area della città].

Nella città del ventesimo secolo ogni via sarà fiancheggiata da immensi palazzi; getti d’acqua si lanceranno graziosamente all’interno dei deliziosi giardinetti o dei laghi artificiali che abbelliranno e varieranno la monotonia delle grandi piazze. Non vi sarà più notte; a breve distanza l’uno dall’altro i fanali elettrici ci inonderanno di una luce splendida al di cui paragone i lampioni a gas sembreranno bui. Questa luce elettrica sarà quasi gratuita, perché creata coll’aiuto di motori idraulici, i quali attingeranno le loro potenza dai fiumi che lambiscono quasi tutti i centri urbani. L’aria della città diverrà salubre quanto quella della campagna; per la ragione che gli escrementi che ingenerano tante malattie, e che scorrono a cielo aperto in strada infettando i nostri quartieri, saranno raccolti in tubazioni, da dove apposite macchine le aspireranno incessantemente per trasformarle ad uso agricolo.

Il movimento continuo sostituirà la stagnazione attuale. Movimento delle acque pure e salubri che raggiungeranno qualunque piano degli edifici; movimento sotterraneo che respingerà incessantemente i liquami mefitici dai grandi centri popolati; movimento rotatorio dei fari elettrici. Singoli punti vendita, dagli alti soffitti, soppianteranno gli smisurati bazar. Tutto, proprio tutto, sarà ordinato, tutto sarà grandioso. Di distanza in distanza, saranno posti apparecchi elettrici [cioè telefonici], grazie ai quali si potrà comunicare col mondo intero. Dai luoghi più lontani dell’India o dell’Australia, si contatteranno direttamente Parigi o Sydney, si parlerà come se la distanza non fosse che di due passi.

Ogni settore dell’arte acquisirà meravigliosi mezzi di popolarità e di espressione. Il teatro si trasformerà; non sarà più riservato ai privilegiati della fortuna, ma aperto ad pubblico più ampio. L’arte del futuro prenderà a prestito dall’arte antica i vasti anfiteatri, dove le persone siederanno comodamente; mezzi potenti di riscaldamento, di ventilazione, e appropriati sistemi acustici, assicureranno a ciascun spettatore posti comodissimi. Né l’arte, né l’ispirazione poetica, perderanno nulla da questa materiale trasformazione. No, anzi, esse vi guadagneranno immensamente: il dramma, la commedia, l’opera intraprenderanno nuove strade. Si rivolgeranno ad una folla immensa; scomporranno e ricomporranno insieme le umane passioni, come l’ingegnere e l’architetto ricompongono e controllano la materia. Nel nuovo stato di cose, per essere applaudito, sarà necessario mettere a nudo il sentimento popolare, studiarne i bisogni, le tendenze, le aspirazioni del presente e dell’avvenire. L’anima del poeta si allargherà come il cerchio del suo uditorio.

Le biblioteche, i musei, le collezioni d’ogni sorta non saranno più rette da quei regolamenti attualmente in vigore. Che cosa sono ancora oggi le nostre biblioteche, se non risibili raccolte, senza mezzi per la ricerca, senza facilità d’uso? Vi si gela d’inverno; vi si soffoca d’estate. Quasi sempre chiuse, appena vi entrate, venite invitati ad uscirne. Zelanti osservatrici di tutte le feste del Calendario, delle vacanze di Pasqua, di quelle vendemmiali.

Chi prende in considerazione le città del medioevo, è colpito dalla individualità, dalla varietà, dalla molteplicità delle forme. Comignoli eleganti, svelte e graziose scale, finestre originali, nelle quali il circolo, l’ellissi, o il sesto-acuto si coniugano con nuovissime fogge. Nelle città moderne l’individualità sarà eliminata. L’occhio rimarrà attonito davanti all’imponenza delle grandi linee, all’associazione delle forze, ai miracoli dell’industria del secolo, che hanno una propria poesia.

Ogni secolo non ha forse la sua missione, la sua fede? L’umanità non considera l’idea del movimento e del progresso? Di secolo in secolo questa idea si manifesta in modo diverso e produce frutti diversi. Conchiudiamo col dire che non siamo nella cerchia di coloro che disperano perché nel presente ci troviamo in un’epoca assolutamente materialista, dove qualunque aspirazione è offuscata dalla ricchezza. Abbiate pazienza, il passato non è ancora del tutto dimenticato, l’avvenire non è ancora maturo. Aspettate che le nuove piantagioni abbiano messo germogli dal grembo di una terra di lumi e di libertà. Vedrete allora il mondo sotto un nuovo aspetto. Noi non dubitiamo di ciò, ma la nostra persuasione non giunge fino al punto di asserire che l’uomo, raggiunta quell’era, sarà migliore o più contento».

LEGGI L’ORIGINALE SU WIKISOURCE: Anonimo. Una città al ventesimo secolo. Milano, Giornale dell’ingegnere, architetto ed agronomo, 1857.

IMMAGINE DI APERTURA: Il Crystal Palace ricostruito in versione ingrandita dopo il trasferimento a Sydenham Hill (Fonte Wikipedia)

Messina: quando si spedivano saluti e baci con le cartoline

Chi ricorda le cartoline? Acquistate dai tabaccai della città, a Messina per esempio, lungo la via Garibaldi parallela al Porto con le sue navi ormeggiate e allora interamente praticabile. Si potevano vedere i turisti scegliere le vedute più belle, scriverle e indirizzarle seduti al tavolo di un bar mentre sorbivano una granita con panna e brioche, imbucarle nella cassetta rossa delle lettere… Nessuna nostalgia, solo la consapevolezza del tempo che passa.

Le “Grida di Parigi”, una delle più famose serie di acqueforti dell’epoca

Le “Grida di Parigi” sono espressioni caratteristiche dei mestieri del passato, utilizzate in particolare dai vari venditori ambulanti, che operavano nelle strade della capitale, dal Medioevo alla Prima guerra mondiale. Segnalavano la presenza dei venditori e le merci che proponevano di acquistare, animando le strade e le piazze di “questa grande città così bella, ma così rumorosa” ( Boileau ).
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