L’affermazione delle “pâtes d’Italie”

 

I maccheroni di Napoli e Genova
Bisogna dire, con grande semplicità, che la produzione della pasta in gran parte proveniva da Napoli e Genova. Scarsa anche la concorrenza dagli altri pastifici nazionali od esteri, a parte i pastifici della Provenza e dell’Alsazia, dove esisteva una lunga tradizione nella produzione di pasta, in particolare in Alsazia, di quella fresca. Bisogna dire che la regione di lingua tedesca fu tra le prime a passare ad un sistema industriale.

Precedentemente, anche i pastai romani controllavano una buona fetta del mercato, tanto che, vi fu un periodo del Settecento (per la precisione nel 1752) in cui la pasta romana veniva esportata anche verso le stesse Napoli e Genova, e da lì nei paesi europei. Tuttavia, poco dopo, i vermicellari romani persero la loro supremazia, a vantaggio dei napoletani, con pasta più a buon prezzo e più buona. Addirittura, la corporazione della capitale, nel 1764, chiese alle autorità capitoline di vietare l’importazione di pasta da Napoli. Cosa che non accadde.

La parabola discendente registrata dalla pasta romana, si replicò anche per la produzione della Sicilia e della Sardegna. Le due regioni, che avevano fatto la storia della pasta nel medioevo, divennero da esportatrici ad importatrici. Persi i mercati, a causa della concorrenza napoletana, la produzione non si sviluppò adeguatamente e si bloccò a livello locale. Questo, nonostante la pasta fosse di qualità ottima (la pasta sarda è lodata allora da padre Labat).

I pastai pugliesi ressero la concorrenza di Napoli, solo perché, dal 15º secolo, avevano stipulato accordi con la Repubblica veneziana, che commercializzava la loro pasta in Europa, nell’Adriatico e verso Oriente. Questo canale si manterrà vivo fino al XIX secolo, quando la distribuzione della pasta pugliese regredì a livello regionale, come per Sicilia e Sardegna. Tuttavia, se le tre regioni persero gran parte delle esportazioni, l’aumento della domanda interna ne perdurò l’efficacia commerciale. La pasta pugliese è presente anche nel libro L’arte della cucina, di Don Felice Libera, autore del ‘700. Molto lodata la pasta di Brindisi.

Il settore della pasta in Italia durante l’Ottocento

 

Alla fine del Settecento, in periodo napoleonico, il prefetto della Liguria, Chabrol, censisce, tra Savona e Portomaurizio (Imperia), 148 piccoli pastifici, di circa 5 addetti per ognuno di media. Nel 1857, nella stessa zona, sono presenti 66 pastifici. Nel 1862 la Camera di Commercio di Portomaurizio registra 26 pastifici cittadini, che producono 5 quintali di pasta al giorno. Continuando, nel 1867, un documento d’economia, per la riviera ligure, tra Savona, Genova e Nervi, censisce 134 differenti ditte produttive di pasta, di 1000 operai, per una produzione totale di 450.000 quintali di grano lavorati.
Dai dati economici a confronto, si deduce, non tanto il numero dei pastifici, quanto un aumento della loro produttività, grazie a più operai ed attrezzature non da poco. Ad esempio, nel settore viene introdotta la gramola a molazza, simile ad un torchio per le olive, ma azionato da un motore a vapore. Generalmente, la gramola a molazza, anziché manualmente, viene azionata con forza animale, che si evolverà utilizzando forza idraulica e poi elettrica. Vi è un risparmio di fatica ed una maggiore produttività.

Tutta questa nuova tecnologia è già presente all’esposizione di Genova del 1846. Lo sviluppo tecnico è presente, ovviamente, anche nelle regioni del Sud, ma è più lento. Torre Annunziata si evidenzia sullo scenario nazionale quale la più attiva. Nel 1793 fa registrare 445 quintali circa di produzione giornaliera, mentre Portomaurizio, nel 1862, ne lavora solo un quarto.

Nel 1830, Andrea de Jorio, napoletano, descrive con grande curiosità il “paesaggio” dei pastai. I maccheroni esposti al sole per le strade e davanti ai magazzini, lungo le vie della costiera napoletana. Consiglia ai turisti, oltre alla visita alle strade, anche quella delle manifatture, dove ammirare grossi giovanotti seminudi al pesante lavoro dei torchi per la pasta, non ancora meccanizzati. Anche se, bisogna dirlo, gli stessi viaggiatori stranieri, anziché ammirarli, ridicolizzano i pastai al lavoro.
A Gragnano e a Torre Annunziata le innovazioni sono viste con grande diffidenza e tale situazione permarrà per lungo tempo, giungendo il finire dell’Ottocento. Dopo l’Unità d’Italia, a Gragnano, il numero dei torchi passa da 81 a 120, ma è ancora poco.  Nonostante l’occupazione di migliaia di persone nel settore, la produzione di pasta continua ad essere di manifattura. Si toccano però anche nuove vette produttive.

Ciononostante, a Marsiglia (e in genere al Nord), la produzione di pasta meccanizzata, produce il doppio di quella dei pastifici di Napoli. Le remore verso la modernizzazione e l’automazione, del Sud, lasciano il settore nell’arretratezza, perdendo vendite, diffusione e mercati, conquistati invece da altri. Tutto questo è presente in uno scritto di Alessandro Betocchi, molto critico e impietoso. In ballo vi era il futuro stesso delle loro fabbriche. Infatti, nel 1860, la concorrenza estera, in particolare francese, perfettamente industrializzata, fa balzi in avanti, superando la produzione italiana in generale e napoletana in particolare. Tutto il settore italiano inizia, in questo periodo, un’attenta riflessione e analisi, smuovendo dall’inerzia l’attività intera. Inizia così la modernizzazione, che porta la produzione della pasta da manifatturiera ad industriale.

Il lavoro delle donne nella produzione della pasta

 

Nel Settecento, padre Labat, nota che non tutti i formati di pasta vengono fatti a macchina. Ad esempio, i cosiddetti millefanti (pasta fine) sono fatti a mano. Ve ne sono di tutti i tipi: simili a piselli, fagioli, noccioli di arance o semi di zucca. Questo tipo di pasta è ben accetta a corte, tanto che il Venerdì Santo la famiglia reale consumava i millefanti. La tradizione, tuttavia, nel 1767, era ormai superata. Questo tipo di pasta figurata era realizzata da personale femminile. Padre Labat, ci riporta che questa pastina, a forma di pesce, veniva realizzata anche all’interno dei conventi. Facendola, le religiose in clausura potevano rompere il voto del silenzio e chiacchierare.

Anche altri formati, ma sempre dalla forma impossibile da produrre con il torchio (sferica, cilindrica, a stella, ecc.), venivano fatti a mano dalle donne. A quel tempo, ad esse era riconosciuta un’abilità particolare nell’esecuzione. Durante una fiera del settore manifatturiero a Bari, nel 1841, un giornalista loda, per l’esecuzione della pasta, le suore di clausura del monastero di Acquaviva. Descrive la loro fantasia, come per i cavatelli, cannoncetti, ritortini, e gnocchetti.

In realtà, questo tipo di attività esisteva già nel medioevo. Era, chiaramente, in aperta concorrenza con i pastai, ma ben tollerata, perché autorizzata dal governo, con facilitazioni e meno tasse sul prodotto dei monasteri. Solo nel 1665, a Napoli. Venne pubblicato un bando che vietava questo tipo di concorrenza, ma senza essere messo molto in pratica. Superato il bando, riprese la rivalità.

La vera rivalità stava nel rapporto di subordinazione delle donne agli uomini. Se nel medioevo il ruolo importante femminile nella produzione della pasta, si doveva al fatto che questa era considerata un’attività “domestica”. Quando il settore si ampliò con la meccanizzazione, le donne, pian piano, cominciarono ad essere messe in disparte. Certamente perché la nuova strumentazione era molto faticosa da usare; ma fu solo un fatto di maggiore forza fisica? No: fu un problema di specializzazione in un mestiere che andava complicandosi. Il prefetto Chabrol, funzionario napoleonico della Liguria, in un testo accenna al lavoro nei pastifici di Portomaurizio (Imperia) e di Savona. Scrive che la lavorazione era eseguita da una squadra di cinque persone: due uomini e tre donne, queste ultime pagate molto meno dei colleghi. Negli stabilimenti il personale femminile si occupava della preparazione delle materie prime, del lavaggio del grano, della stacciatura della semola, della fattura manuale di alcuni formati e della essicazione della pasta.

Lo staccio, ci riporta Lalande, era formato da maglie di varie dimensioni, con cui setacciare la semola, almeno per cinque o sei volte. Appeso al soffitto non doveva essere sostenuto con la forza. Per questo era ritenuto, come gli altri esempi citati, un compito adatto alle donne. Quando, nel napoletano, si resero conto (prima di tutti gli altri) dell’importanza dell’essicazione della pasta, il compito divenne maschile.

Sbagliata essiccazione, la pasta prende “la botta”

 

L’essiccazione non dipendeva solo dal clima o delle tre fasi descritte, ma anche dal formato della pasta. La pasta corta era meno sensibile di quella lunga, più delicata e bisognosa di particolari attenzioni. Appesa ad una canna, il locale variava di temperatura e ventilazione, aprendo o chiudendo le finestre. In particolare, l’escursione termica del giorno e della notte, poteva creare danni alla pasta in fase di essiccazione. Questo avveniva soprattutto nelle regioni del Nord, con escursioni maggiormente accentuate, rispetto al Sud.
L’essiccazione aveva una durata variabile. Più corta se in estate, di quella invernale. Dipendeva dal formato: più breve per la pasta corta che per quella lunga. Naturalmente dipendeva anche dalle usanze locali. A Torre Annunziata e Gragnano, ci riportano le fonti, poteva durare qualche giorno per il formato corto e la pastina da brodo, fino a 18 giorni circa per le zite di Napoli. Per le paste da esportazione, l’essiccazione era maggiore, perché si riteneva che sarebbe stata consumata più in là nel tempo, dopo il trasporto. Cosicché, dipendendo dalla lontananza dei mercati, questa fase si prolungava. La pasta poteva raggiungere località nella regione, ma anche, già adesso, il mercato nazionale o internazionale.
In ogni caso, se si sbagliava la fase dell’essiccazione, la pasta poteva prendere “la botta” (espressione napoletana). La superficie poteva presentare leggere incrinature, essere troppo fragile e tendente a spezzarsi. Tutti difetti di un passaggio tanto delicato, quanto misconosciuto.

La fase dell’essicazione naturale, dunque, era differente, essendo molte le variabili in gioco. E continuò ad esserlo fino all’invenzione dell’essicazione artificiale. In tutti e due i casi, comunque, si manteneva (e si mantiene) un certo grado di umidità. Oggi l’umidità della pasta è controllata da una strumentazione apposita. Per la pasta secca si tiene al 12%, mentre per la pasta all’uovo sale al 30%.
Nella fase manifatturiera, essendo l’essiccazione complessa e variabile, per il controllo si poteva contare solo sull’esperienza e l’abilità del mastro pastaio. Ad esempio, nella zona di Napoli il pastaio doveva prendere in considerazione anche il tempo e i venti che soffiavano. Se c’era tramontana, l’aria era più secca, mentre se c’era scirocco, l’ambiente era più umido. I due venti potevano alternarsi anche nel corso dello stesso giorno. Cosicché, l’abilità dei pastai napoletani ha fatto sì che il loro prodotto si affermasse ovunque, creando la cosiddetta pasta “al dente”.

Naturalmente, il sistema aveva i suoi difetti, e non da poco. Perché il metodo artigianale richiedeva una maggiore manovalanza impiegata nei vari processi e la cosa non poteva che ripercuotersi sul prezzo di vendita. Cosicché, migliore era il controllo, maggiore era il prezzo.
Per la “vincente” pasta del meridione, un altro difetto, assai logico, era rappresentato dell’esposizione stessa all’aperto, sotto il sole. Non tanto per la variazione di colore della pasta, quanto per lo “smog” di allora. Il prodotto veniva adagiato sulle terrazze, nei cortili o nelle strade della cittadina. Il prodotto era fatalmente inquinato dalla polvere sollevata dei carri, che transitavano sulle vie non asfaltate. Il difetto, dunque, stava nella stessa essiccazione all’aperto. Di questo problema se ne accorse già (e lo denunciò) Alessandro Betocchi, che lavorava per la Camera di Commercio di Napoli. La cosa però non venne presa in considerazione a quel tempo. Perché? Semplice: la pasta prodotta a Torre Annunziata o a Gragnano era troppo buona.

Le tre fasi di essiccazione della pasta


Quella che potrebbe essere considerata l’ultima delle fasi nella lavorazione della pasta, in realtà, è tutt’altro che semplice. Si parla infatti di essicazione naturale. Questo aspetto delicato, fu attenzionato subito nelle regioni meridionali, permettendo il conseguimento qualitativo, alla base del prodotto. Per questo la pasta confezionata a Napoli ha rappresentato, per lungo tempo, l’eccellenza della pasta italiana. Verrà superata solo in un secondo tempo, quando fu introdotta l’essicazione artificiale, inventata ed adottata dai pastifici dell’Italia settentrionale.

L’essicazione naturale voleva dire esposizione al sole, oppure in ambienti caldi per lungo tempo, cosa più facile in regioni più fredde. Ad esempio, a Parigi, dove si mantenevano zone della bottega a temperatura sostenuta, tramite un caminetto. In ogni caso la pasta doveva riposare per diversi mesi. La soluzione, però, non permetteva il raggiungimento della stessa qualità della pasta prodotta nel sud della nostra penisola. Espedienti vari, adottati sia in Francia che Spagna, come il distanziamento in scatoloni separati, miglioravano la validità del loro prodotto, senza però raggiungere quella del mezzogiorno italiano. Infatti, la pasta si presentava fragile e non manteneva bene la cottura. Il problema però era considerato secondario, perché il consumo principale riguardava la pasta per minestre, dove la cottura poteva non essere l’intento principale (come per le “paste fini” di Genova). Per la pastasciutta la differenza si presentava, invece, alquanto notevole.
L’esposizione naturale era adottata anche in Liguria, grazie al clima più favorevole della riviera.

Essiccazione a Gragnano

Nel sud il metodo adottato prendeva la denominazione di metodo “classico”, “naturale”, “napoletano”, e presentava tre momenti precisi.
1) In primis, la semplice esposizione al sole, che ne essiccava la superfice (l’incartamento). La pasta veniva preparata su canne o telai di canne, a volte semplici teloni, esposta sotto il forte sole del sud, in ambienti aperti, come, ad esempio, su di un terrazzo. Con questo primo step si otteneva una superfice esterna lievemente secca. Questo strato veniva chiamato “carta”. La pellicola doveva essere delle dimensioni giuste, né troppo spesse tanto da annullare la seconda fase, né troppo sottili, pena una pasta molle e fragile.
2) Il secondo step, consisteva nel riposo della pasta in ambienti riparati, ma freschi e ventilati, ad una temperatura di 15° circa (la fase del rinvenimento). Obiettivo: il rammollimento della pasta. La pasta, tuttavia, non doveva rammollirsi troppo velocemente. Se fosse accaduto, avrebbe necessitato di una seconda esposizione al sole. La temperatura e l’umidità giuste ed il tempo giusto, dipendevano dal giudizio del mastro pastaio. In genere c’era bisogno di sostare per una notte intera, perché questo era un momento essenziale. Dalla parte interna, infatti, l’umidità residua risaliva in superfice, ottenendo, così, una pasta morbida e dell’umidità perfetta, sia dentro che fuori. La fase dava alla pasta consistenza e resistenza, tanto che i pastai napoletani, erano usi chiamare questo passaggio, “fare la corda”, dimodoché la pasta teneva meglio la cottura.
3) A questo punto la pasta subiva l’essiccazione definitiva, ma lenta, protetta dal sole, in un luogo a temperatura ambiente (essiccazione conclusiva).

La lavorazione della pasta nell’Ottocento

 

Il mercato della pasta, con il giusto rapporto tra qualità e prezzo – e così convincente a livello salutistico – registra una grande richiesta, in questo periodo. Purtroppo, rispetto alla domanda crescente, i pastifici non hanno ancora la forza commerciale e industriale per una giusta risposta. Il problema rimarrà irrisolto per tutto il secolo.

La “pasta d’ingegno”, non poteva che essere frutto dell’ingegnosità umana (o della sua fantasia). Tra i testi del XIX secolo, vi è quello di Malouin, contemporaneo alla fase preindustriale della pasta. Il libro presenta l’analisi dei settori del mugnaio, del fornaio e del pastaio, illustrato con ampie incisioni. L’analisi tocca le differenze e le similitudini fra i tre mestieri. Si scopre, anche, l’uso comune di tecnologie, come la gramola a stanga e del torchio, mosso da un tornello, che è dotato di trafile sostituibili. Il libro è una vera “fotografia” del suo periodo storico, per quanto riguarda i tre mestieri, differenti ma al contempo allora simili. Vi sono descritte le fasi dell’attività. Si parte da un impasto realizzato nella madia, contenente farine più o meno pure o semole setacciate, amalgama da far riposare avvolta in un panno. Seguono una o due ore di lavorazione alla gramola a stanga.

Nell’impasto va utilizzata, naturalmente, l’acqua, dosata con l’esperienza personale. In teoria l’acqua deve essere poca, per un risultato migliore. Troppa acqua rovina l’impasto. In Liguria e nella Provenza, si preferisce un amalgama più soda, mentre nel napoletano si confeziona un impasto un po’ più morbido ed umido. A motivarlo è il differente clima, più caldo nel Sud Italia. L’acqua aggiunta deve essere, comunque, tiepida, accortezza già presente nella lavorazione del medioevo. In età industriale, verrà utilizzata acqua bollente.

A questo punto, l’impasto, perfettamente gramolato, passa alla fase del torchio, che presenta una campana ed una vite, per schiacciare un pezzo di impasto contro una trafila con il tipo di fori necessari. La trafila è sostituibile. La vite, azionata a forza umana (ma c’è chi usa un argano), comprime un pistone sul cui lato è posta la trafila. Tutta l’attrezzatura produce pasta corta se verticale, o pasta lunga, se orizzontale.
I diversi tipi di trafila, avvicendabili, in questo periodo, possono produrre, secondo Jerôme de Lalande, ben 30 diversi formati, dai più raffinati a quelli “popolari”. Tra questi ultimi: i macaroni, le trenette e le lasagnette. Per ottenere i macaroni si utilizza una trafila con buchi, al cui centro vi è una punta metallica, che crea il foro del singolo maccherone. Dall’altro lato della trafila (dove la pasta fuoriesce) una lama ruotante, mossa da una manovella, taglia la pasta nel formato necessario. La pasta prodotta viene subito raffreddata con un ventaglio da un bambino, per non farla attaccare. La pasta lunga, invece, viene tagliata con le mani, ad una lunghezza di circa 30 cm per i vermicelli.

Anche le lasagne, alla data, vengono preparate al tornio, ottenendo fasce di pasta. Non quindi un prodotto della laminazione (sul tipo del mattarello), ma direttamente dalla trafila. Se i bordi della lamina erano ondulati, si potevano ottenere quelle che oggi chiamiamo lasagne ricce. Questo lo si desume da una tavola illustrativa del libro di Malouin. L’essicazione della pasta, alla fine del lavoro, avviene nella stessa stanza di lavoro. È posta su degli scaffali a muro, atti a ricevere i telai, mentre i formati lunghi, sono sospesi su delle canne. Alla fine della formatura, la pasta lunga viene avvolta in matasse, utilizzando dei fogli di carta. In un giorno lavorativo (ma di 10 ore), si ottengono circa 125 kg di pasta.

 

La pasta: nascita della manifattura

 

Dipendenti della Barilla

All’esposizione industriale di Parma del 1863, sono premiati per la qualità della loro produzione, alcuni pastifici. Tuttavia, molti fra questi vengono apprezzati dal pubblico per la lavorazione manuale del prodotto, tant’è che per la maggior parte sono gestiti da panettieri che vendono “anche” pasta, oltre al pane.
Diversamente accade all’esposizione del 1887, quando è presente una rappresentanza reale di pastai. Tra questi l’azienda di Pietro Barilla, che dieci anni prima aveva dato origine a Parma alla sua bottega del pane, per poi allargare l’attività alla produzione della pasta. Il figlio Riccardo, successivamente, potenziò questo aspetto, portando la ditta a livello prima manifatturiero e poi industriale, nel 1911.
Si conferma nel XIX secolo, la doppia strada della pasta: quella di grano duro e quella fatta all’uovo. Infatti, le manifatture bolognesi spiccano, in concorrenza con l’Alsazia, per la fattura della pasta fatta a mano con la farina di grano tenero, soprattutto tagliatelle. Tutt’ora l’Emilia è rinomata per questi formati e per la pasta ripiena.

 

Città dell’eccellenza: Genova e altre località

 

Una storia simile a quella di Torre Annunzuata e di Gragnano si svolge in Liguria. Tra il XVII ed il XIX secolo, a Genova e Nervi (Riviera di Levante), nonché Savona, Loano e Imperia (Riviera di Ponente), cresce, esponenzialmente, il numero di pastifici presenti. Sempre tutti in concorrenza tra di loro. La medaglia del migliore viene data dai contemporanei ad Imperia (l’antica Portomaurizio). In essa sono presenti ben 40 opifici di pasta. All’inizio del XVIII secolo nascono nella regione nuove corporazioni di pastai.
Cresce il numero dei pastai anche in Puglia, che può contare per il suo prodotto sulla coltivazione del grano saragolla. A Bari, Brindisi e Foggia si evidenziano pastifici di qualità. Ascoli Saviano eccelle in provincia di Foggia.
Il catasto di Bari registra l’aumento dei pastifici, che dai cinque del 1753, passano ai 22 del 1880 (dalla Guida commerciale, dell’epoca).

In questo secolo si trovano nei documenti, tracce di pastifici che operano in tutta Italia. Nel 1788, i pastifici di Cuneo sono registrati al calmiere di Torino, per la loro pasta di qualità “alla forma di Genova”. Si evidenziano, inoltre, i vermicelli di Rivoli. Nel 1755, a Sarzana, Stefano Lucciardi ottiene l’esclusiva per la produzione di pasta per la città di Parma.

E’ nel XIX secolo, però, che vengono aperti pastifici, ancora oggi famosi, perché ancora operanti, ma in regioni non storiche, come quelle del Sud. Ad esempio, nel 1843 nasce a Pordenone il pastificio Tomadini, o ad Arezzo, nel 1860, il pastificio Fabianelli. Nel 1827, apre a Sansepolcro, il pastificio Buitoni, azienda oggi nota in tutto il mondo.

Città d’eccellenza: Torre Annunziata e Gragnano

 

Il momento di passaggio tra bottega ed industria, registra un ingrandimento produttivo dei pastifici. Si passa dalle piccole società di vermicellari con i mugnai, che ne rendono possibile l’attività, a mugnai che da soli svolgono tutte le varie attività della lavorazione, conquistando la gran parte del mercato. Capita così anche a Napoli. Sebbene la transizione risulti infausta per i vermicellari locali, si viene a potenziare in questo modo la produzione, che porterà alle industrie vere e proprie del futuro. Torre Annunziata e Gragnano, in primis. In queste zone, infatti, esistevano mulini sin dal medioevo, posti lungo il corso dei torrenti, ai piedi del versante nord-occidentale dei Monti Lattari. Con lo sfruttamento di tale sistema idraulico, breve sarà il passo dai mulini ad acqua ai pastifici. Così come breve sarà anche il passo che porterà alcuni nobili a trasformarsi in imprenditori. A Gragnano, troviamo, tra il XVII e il XVIII secolo, la famiglia Quiroga-De Antonio, che possedendo terre e canali, darà vita a circa 25 mulini, tra Gragnano e il lido di Stabia.

Ugualmente, Muzio Tuttavilla, conte di Sarno, proprietario di Torre Annunziata, crea un ampio canale, in seguito denominato il “canale del conte”. Oltre questo, il conte fa costruire diversi mulini idraulici e diventa fornitore di farina e semola per l’Annona di Napoli. Con la realizzazione di un altro canale (il bottaro), lungo il corso del fiume Sarno, verranno costruiti altri mulini, sempre con funzionamento ad acqua. La zona di Torre Annunziata, rifornita di granaglie e farine, supporta perciò la lavorazione della pasta del paese, con la consequenziale crescita del numero di pastai, tanto da originare un ordine autonomo dei pastai della zona, concorrenziale agli altri pastifici delle aree limitrofe. Fra tali aree la stessa Gragnano, che in quel periodo contava solo due pastifici, si svilupperà più lentamente. Tutto sommato, però, tale lentezza permetterà una migliore qualità del prodotto. Anche i vermicellari di Napoli tentarono di boicottare i rivali di Torre Annunziata, con tutti gli espedienti possibili. Nonostante ciò, il paese si imporrà ugualmente. Lo conferma un viaggiatore francese, di passaggio nella città partenopea e nel XIX secolo, Lorenzo Giustiniani, che loda Torre Annunziata per la ricchezza dovuta proprio al successo dei pastai del piccolo paese vesuviano.

La battaglia economica tra Torre Annunziata e Gragnano durerà a lungo. Nel 1859 la presenza produttiva di Gragnano aumenterà notevolmente, riuscendo a contare ben 81 opifici e producendo, già alla data, una pasta considerata da tutti di altissima qualità.

 

L’età d’oro per la manifattura della pasta

 

Il punto critico
Nel XVII secolo, il Consolato dell’Arte dei Pastai, con i suoi iscritti, gioca un ruolo di grande importanza a Napoli. I pastai locali, ma anche quelli provenienti da altre provincie, tendono ad associarsi tra di loro, o con i mugnai (che spesso sono i finanziatori) o con i panettieri. Appaiono pure le prime figure imprenditoriali. La bottega, di solito, non è di proprietà del pastaio, ma possiede le qualità di una prima piccola industria, con attrezzature (gramola a stanga e torchio), materie prime in grande quantità (farine e semole), operai e garzoni (anche se pochi) che vi lavorano. La produzione è elevata come la richiesta, tanto che, ai formati classici si aggiungono altri tipi, come, ad esempio, la pastina (i “millefanti”). Anche se la clientela è ancora locale, appaiono, però, le prime grandi forniture. Il pastaio Salvatore di Avossa, nel 1636, stipula un contratto con la Casa dell’Annunziata di Napoli, per una grossa quantità di pasta bianca.
Dopo un momento di crisi economica e di approvvigionamento, nel 1647, con la rivolta di Masaniello, il prezzo della pasta a Napoli, si riporterà ad un livello adeguato, tanto che il suo consumo la inserirà nella categoria degli alimenti popolari. La diffusione crescente, che prima era cittadina, oltrepassa i limiti di città come Napoli o Genova. In pratica, l’artigianato della pasta si evolve a livello industriale.

A differenza di quello che si potrebbe pensare, la meccanizzazione giova alla qualità. La “pasta d’ingegno”, realizzata con la gramola meccanica e con il torchio a trafila, supera la cosiddetta “pasta da ferro”, cioè, quella fatta a mano. I formati sono perfetti e uguali, ma, soprattutto, in maggiore quantità e in minor tempo. La “pasta d’ingegno” sviluppa la mente. Effettivamente, la trafila permette di inventare e produrre formati impossibili da realizzare a mano. Ma il vero segreto del suo successo, sta nell’utilizzo della semola di grano duro (non più farina) per le paste di qualità.
Nel XVII secolo, si afferma, così, la realtà manifatturiera in città come Napoli. Lo attestano i numerosi viaggiatori stranieri che visitano l’Italia nei secoli successivi. I vermicellari di Napoli e i fidelari liguri primeggiano, creando un successo mitico. Nasce, dall’eccellenza dei loro pastai, la reputazione dei napoletani “mangiamaccheroni”. Si crea un’immagine “tipica”: da una parte, il pastaio con la sua bottega, che realizza i maccheroni e li cucina e, dall’altra, il napoletano che mangia vorace la pasta direttamente con le mani. È una tradizione folkloristica, che i napoletani stessi diffondono, furbescamente per incuriosire i turisti.
La produzione della pasta si allarga a macchia d’olio. Nei piccoli comuni costieri liguri e del napoletano si diffonde la lavorazione della pasta. A Napoli, cittadine intere, come Torre Annunziata e Gragnano, si specializzano, tanto che il loro nome diventa icona e sinonimo dell’ottima fattura della pasta. Ma se la lavorazione interessa città come Napoli, Genova, o le regioni storiche, un po’ in tutta la penisola si diffonde invece il suo consumo. Vengono aperti pastifici anche in Italia settentrionale, dove ancora il successo è un’innovazione tutta da “gustare”.
Siamo nel periodo degli opifici, un periodo che durerà quasi due secoli. Non più botteghe, pur se non ancora vere e proprie industrie. Un tipico modello proto-industriale. All’interno della lavorazione esistono ancora sia la confezione meccanica che quella fatta a mano. Le macchine vengono azionate a forza di braccia dagli uomini (non esistono motori) mentre il confezionamento manuale tocca alle donne. Ma anche i compiti accessori e quelli ingrati, sono loro compito, compresa la pulizia dei locali. È comunque una collaborazione tra i due sessi, in un periodo che non riconosceva l’importanza femminile nel mondo del lavoro.