Le fonti originali sono come monumenti

 

Grandi istrioni televisivi. È facile vederli anche su YouTube. Partono spiegando, che so io, le meraviglie del barocco e sembrano scommettitori intenti al gioco delle tre carte. Entrano ed escono dall’argomento alludendo a conoscenze che spesso chi ascolta non possiede. Eppure gli spettatori si mostrano incuriositi, ma a chieder loro cosa abbiano inteso i più risponderebbero come quel personaggio di Squarzina che ammetteva di non avere capito niente, ma assicurava che l’oratore doveva aver detto cose interessanti. Sembra che questi opinionisti studino di essere più intelligenti che intelligibili. Da qualche anno, invece, penso occorra proporre di tornare a scoprire le fonti, come se potessimo, per qualche incantamento, ascoltare mentre parlano coloro che le hanno scritte. Ne sono così convinto che stento a riconoscere la bontà di un brano se non leggo l’originale nella pagina in cui è riportato. Persino certe traduzioni mi pare travisino la vera essenza di un testo. Purtroppo non posso trascendere il limite imposto dalle consuete conoscenze linguistiche e se il brano è in cinese, mi devo fidare. Tornare alle fonti, questo è un consigliabile approccio, cosicché un libro ne richiami un altro in un concatenarsi di relazioni capaci di destar meraviglie. È come avvertire il respiro veritiero del tempo, senza che nessuno vi si debba necessariamente interporre. Perché, in fin dei conti, abbiamo conosciuto più storie e critiche che letteratura autentica. E poiché i libri sono come monumenti, mi tornano in mente le parole di un mio inesorabile professore che a conclusione di un esame mi disse: hai studiato, ma di queste chiese di Roma non ne hai veduta dal vivo neppure una. Scalfì la mia media d’eccezione, ma in quell’istante ho imparato da lui più che da quant’altri mai.

Pubblicato su 100NOVE n. 21 – 25 maggio 2017

Interazione digitale? C’è ancora molto da fare

 

Un po’ di numeri sul patrimonio culturale italiano. Sono dati ISTAT: 4.158 musei, gallerie o collezioni, 282 aree e parchi archeologici, 536 monumenti e complessi monumentali. Una ricchezza straordinaria, ma il 70% degli italiani non sa cosa sia. Oltre metà delle aree archeologiche è al Sud e un terzo si trova in Sicilia e Sardegna. La maggior parte dei musei espone collezioni di etnografia e antropologia, a ruota vengono arte antica, archeologia, storia. Ancora numeri? A differenza di altri Paesi, l’offerta museale italiana è costituita da un considerevole numero di strutture di piccole e piccolissime dimensioni. Tre istituti museali su quattro non registrano più di 10 mila ingressi l’anno e quelli con meno di 1.000 visitatori sono logicamente dotati di modeste risorse finanziarie e organizzative. La visibilità online riguarda il 57,4% delle istituzioni nazionali con un sito web dedicato. Solo il 40,5% ha un account su social media come Facebook, Twitter o Instragram. Eppure sono gratuiti. Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, in una indagine su 476 musei, dicono che c’è un netto ritardo sui servizi digitali per la fruizione delle opere online come cataloghi e visite virtuali. L’utilizzo onsite di QR-Code e sistemi di prossimità è a terra. La maggior parte di informazioni diffuse è di natura pubblicitaria: riguarda eventi, orari d’apertura e promozioni sugli ingressi. Al contrario ciò che tutti apprezzano sono più notizie sulle opere esposte o i racconti che ruotano intorno ad esse, sugli autori o sulle vicende storiche. Questa è la via più adeguata per riuscire a creare coinvolgimento. Non basta attrarre visitatori, ma occorre trovare la maniera per evidenziare in modo nuovo le opere in possesso. Come? diventando interpreti digitali del nostro patrimonio.

Pubblicato su Centonove-Press n. 20 – 18 maggio 2017

Quando c’è in mostra l’anima della lettura

 

“Viaggi e viaggiatori”, espone libri che puoi osservare o sfogliare, raccoglie emozioni, sollecita passioni. «Nessun alito di vento; solo il movimento della nave turba l’aria calma, dormiente sopra il mare. Le rive della Sicilia della Calabria esalano un odore così forte di aranci fioriti, che l’intero Stretto ne è profumato come una camera di donna» (Guy de Maupassant). Il senso della letteratura di viaggio è tutto qui: nel modo in cui gli altri vedono te o nel modo in cui tu che scrivi li hai guardati. Diary, Journal, Tagebuch, raccontano esperienze irripetibili, perché anche a tornarci, in quei luoghi, non sarebbe più la prima volta. Ma se tu leggi, se spazi su paesaggi di carta e di parole, quando riprendi certe pagine trovi i giorni in cui sei stato – ogni volta nella tua mutevole continuità – con Chatwin in Patagonia o con Goethe in Sicilia dove l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra «chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita». Sensazioni da riaccendere alla Biblioteca Regionale di Messina, sostando in questa mostra elegante curata da Maria Teresa Rodriquez, con Stefania De Gaetano e Patrizia Maiorana. L’intento è contribuire al palinsesto di eventi che di Goethe celebrano il bicentenario di “Viaggio in Italia” e, nel contempo, candidarsi al progetto nazionale che propone i percorsi dello scrittore tedesco tra gli Itinerari Culturali Europei riconosciuti dal Consiglio d’Europa. Negli anni la Biblioteca ha più volte proposto, con visuali diverse, queste «interazioni tra viaggio, narrazioni, paesaggio, arti visive, musica». Basta scorrere “Negli occhi del viandante, Messina negli appunti di viaggio”, dal quale son tratti i brani in mostra e i vibranti disegni del compianto Mario Manganaro. Si può attraversare il mondo anche fantasticando.

Pubblicato su Centonove-Press n. 19 – 11 maggio 2017

Coi suoi scatti realisti a caccia d’immagini

 

Filippo Cianciàfara Tasca di Cutò, era il maggiore dei famosi cugini. Dopo di lui, in ordine d’età, c’era l’esoterico acquarellista Casimiro Piccolo di Calanovella, quindi Giuseppe Tomasi di Lampedusa che richiama alla mente un romanzo celeberrimo come “Il Gattopardo” e infine Lucio Piccolo di Calanovella, il poeta dei “Canti barocchi”. Una famiglia di artisti, che ha solcato il Novecento siciliano con lievissima raffinatezza d’animo, pervasa dall’aristocrazia delle origini familiari. L’arte di Filippo era la fotografia, che elaborava con alchemiche tecniche di stampa, come quelle resinotipiche o quelle alla gelatina bromuro d’argento, che lo hanno indotto ad esporre nelle principali mostre internazionali ed essere più volte premiato. Nel 1932 con il “Gran Prix d’Honneur” a Cannes o nel 1933 dalla rivista «American Photography». Dario Reteuna, nel 2008, gli ha dedicato il poderoso volume fotografico “L’occhio del Gattopardo” e oggi Amedeo Mallandrino con “L’attimo della vita” ha voluto ricordare come tutta l’esistenza del nonno «fu, forse in buona parte inconsapevolmente, plasmata da quei pochi secondi che all’alba del 28 dicembre del 1908 videro la morte di Messina». Una tragedia fissata con realismo attraverso l’obiettivo della macchina ricevuta in dono per i suoi sedici anni, compiuti appena a metà novembre. Quando nella notte fatidica, dovette calarsi dalla finestra annodando un lenzuolo, lasciò al di là della porta della stanza, bloccata dai detriti, i genitori morenti. Poté salvare solo quella macchina fotografica, da cui nulla lo separò più. Fotografò il cumolo di macerie del suo palazzo e dei suoi affetti. Quelle istantanee colte vagando per la città silenziosa, priva di un alito di vita, rendono tracce di una memoria individuale che il libro ha reso collettiva.

Come prefigurare il cambiamento

 

Progettare è un’operazione estremamente complessa, che molti pensano di sapere fare in maniera istintiva. La realtà che ci attornia è la riprova che non è così, per questo ci troviamo a tallonare emergenze, spesso ricorrendo all’ausilio degli “uomini idea” che con uno schiocco di dita dovrebbero risolvere un problema. Le cose potrebbero, invece, esser fatte meglio. Basterebbe soltanto prendere la decisione di “fermarsi a pensare”, ma questa peculiarità del progetto, che sta nel suo carattere esplorativo, è ciò che incute maggiore riluttanza. È da notare che esiste un preciso rapporto fra “problem solving” e “problem finding”. Il primo indica la soluzione di un problema, il secondo denota la scoperta del problema, preferibilmente prima che si verifichi. Un’idea che mi pare più apprezzabile. Ciò richiede conoscenze; ma da sole non bastano, per questo motivo oggi si avverte la necessità di passare, ad esempio, da una «scuola delle conoscenze» a una «scuola delle competenze». C’è una quantità di giovani che hanno raggiunto conoscenze, ma non sanno cosa fare del proprio sapere. Nella quantità di conoscenze teoriche non sanno leggere alcun risvolto pratico. Eppure hanno studiato come si è costruito il mondo. In realtà, sviluppata una certa competenza, occorre interessarsi al passo successivo, perché ogni soluzione porta sempre alla comparsa di nuovi problemi. È un processo circolare che non si conclude mai, lasciando margini di indeterminatezza. Quindi non basta concentrarsi esclusivamente a risolvere problemi, ma occorre gestire un percorso di pensiero, che alle conoscenze assommi capacità intuitive e creative. Progettare, a ben considerare, è prefigurare il cambiamento possibile. Ecco perché immaginare il futuro è meno facile che tentare di aggiustare il presente.

C’era anche Messina nella vita di Parigi

 

Quando leggo o scrivo, attraverso mondi, respiro situazioni inusitate. Le può condividere per intero solo chi prende cuore a spulciare archivi e biblioteche, alla ricerca di libri, manoscritti, cartoline e lettere. Possono saltare agli occhi aspetti poco noti del passato. Prendete “La Revue des jeux, des arts et du sport”. La copertina del settimanale illustrato, datata 7 giugno 1879, diffonde una “gravure” dello Stretto di Messina, disegnata da M. Sutter e incisa da H. Linton. È lo spettacolo di chi sta oltrepassando per mare la rupe di Scilla e presto incontrerà i gorghi di Cariddi. La meta è la Falce del porto e sullo sfondo campeggia l’Etna fumante. L’ho trovata per caso, mentre scrivo sulla modernità, parlo con Zola durante “Les soirées de Médan” o incontro Courbet nella cella di Sainte-Pélagie. Perfino in una rivista di parole crociate, rebus, giochi di carte e di scacchi, ma anche d’arte e di sport, leggi l’ombra lunga della guerra del 1870, «année maudite», e della disfatta di Sedan. Dopo lo sconquasso, per una Parigi che comincia «à se retrouver un peu», lo Stretto di Messina è il luogo del sogno e del mito. È giunto il tempo di tornare di nuovo ad incontrarsi, viaggiare od ospitare, perché prima dell’invasione non c’era posto che per gli stranieri a Parigi: «nelle sale dei cabaret alla moda, all’orchestra, nelle prime logge dei teatri eleganti o nei balconi d’onice degli scaloni dell’Opera». Il teatro di Società, ad esempio, è uno dei passatempi da considerare e, “sabato scorso”, una piece d’Alphonse de Jalin, – pseudonimo d’Alexandre Dumas – ha debuttato al “Théâtre de Messine”, nel bell’hôtel “italien par l’aspect” e grandioso per la distribuzione intelligente… Concorderete che è un leggere diverso su Messina che continuare a sorbire la solita minestra riscaldata.

Il senso di un museo di tutti e di tutto

 

Myseum.co è un progetto smart. Dove smart non significa solo intelligente, ma un modo al passo con i tempi per riallacciare la triade passato/presente/futuro. È un museo virtuale, ideato da quattro giovani siciliani. Si rivolge ai collezionisti di tutto il mondo, ma anche ai musei che del territorio rievocano la storia, attraverso oggetti desueti, reperti di vecchia fattura, memorie di tempi andati. Ecco così che la formula attrattiva dei social network, con i loro tweet, post, like, è resa disponibile anche per coloro che raccolgono ricordi, affinché non rimangano isolati sui piani di uno scaffale, ma riescano ad essere oggetto di condivisione in rete. “Il mio museo” ha da pochi giorni aperto le porte e tocca agli estimatori riempirlo, costruirlo, migliorarlo. Come funziona? Ce lo dicono Livio Lombardo, catanese, Danilo Garro, siracusano, Sebastiano Cataudo e Alberto Mangione, ragusani: «Myseum è una raccolta organizzata di immagini, contenuti multimediali e descrizioni relative agli oggetti posseduti dagli utenti registrati. Ciascuno ha un proprio spazio. Raccogliere in tutto il mondo immagini e descrizioni degli oggetti è il primo passo per la creazione di un archivio, organizzato per categorie, anni di fabbricazione, provenienza, stili, marche, eventi collegati». Raccolte analoghe non sono nuove sul web, in Europa e fuori; ma poco importa. Ciò che conta è l’interesse verso il nostro passato crepuscolare, quello tanto recente da ritenersi inutile. Così distante da quel passato troppo ingombrante che ha caratterizzato lo scontro tra classicisti e innovatori romantici. Chi ricorda la voce di Byron? «We have too much memory», abbiamo troppa memoria. Oggi la memoria rischia, invece, di annullarsi. I giovani di Myseum propongono di conservarne il senso.

Appunti sulla storia del comprensorio

 

Gaetano La Corte Cailler non era un gitante della domenica. Durante le escursioni per la conoscenza del territorio raccolse annotazioni attente: una ricca documentazione composta da pagine manoscritte e dattiloscritte, sulle quali ha incollato ritagli di giornali e fotografie, schizzato disegni a matita, indicato sommarie note bibliografiche. Materiale di lavoro, che lo storico messinese ha sistemato tra il 1899 e il 1908 con certosina accuratezza a vantaggio delle ricerche storico-artistiche. Giovanni Molonia – che di La Corte Cailler è il maggiore studioso e da lui ha mutuato la passione a guardare e a valutare le attestazioni del passato – ha dato alle stampe il 1° Quaderno dell’Archivio Storico “N. Scaglione” e della Biblioteca Comunale “T. Cannizzaro” di Messina. Portando alla luce uno dei fascicoli del Fondo comunale, acquistato negli anni ’40 dal direttore Nitto Scaglione curatore memorabile degli atti della nostra identità, il Quaderno diffonde fra il pubblico notizie preziose, spesso di prima mano. La Corte Cailler le ha assemblate con mirate ricognizioni del circondario, approfittando dei giorni festivi, accompagnando storici dell’arte, colloquiando con i cultori locali. Osserva con occhio esperto, appunta e fotografa la realtà dei luoghi monumentali che di lì a poco sarebbero stati squassati dall’evento tellurico. Segna tutto, non solo opere insigni: registra persino tempi e mezzi dei tragitti, chi paga il biglietto del treno, la locanda in cui alloggia. Notizie uniche per chi sa leggerle. Eppure, dopo tanto impegno di studi, «deluso, amareggiato, gravemente ammalato, negli ultimi anni della sua vita Gaetano La Corte Cailler sceglie l’isolamento e dirada gli interventi sulla stampa». Il Quaderno di Molonia riscatta la triste verità delle attese.

Se il disegno non è ancora cominciato

 

L’elogio della lentezza. Mi sono trovato a farlo presente a Paolo Portoghesi che lamentava la lentezza con cui s’è costruita la sua Moschea a Roma. Gli ho ricordato Calvino delle lezioni Americane, quando racconta di quell’imperatore che richiese a Chuang-Tzu il più bel disegno di un granchio. Per questo gli accordò cinque anni e una villa con dodici servitori. Allo scadere del tempo Chuang-Tzu chiese altri cinque anni, poiché il disegno non era ancora cominciato. Quando l’imperatore tornò alla villa, davanti a lui Chuang-Tzu con un gesto rapido di pennello disegnò finalmente «il più perfetto granchio che si fosse mai visto». La storia dimostra che nella interiorizzazione di un concetto, nell’apprendimento di competenze, non conta la rapidità bensì il processo. Richard Sennett dice di aver scoperto la “regola delle diecimila ore”. Sono cinque o sei anni trascorsi ad esercitarsi «sul come affrontare un problema secondo modalità differenti». Chuang-Tzu di anni ne ha impiegati dieci, nel corso dei quali ha maturato il suo granchio, con l’esperienza e il tempo. L’idea comune è, invece, che occorra agire con sollecitudine alle richieste altrui; mentre basilare è accrescere il patrimonio delle conoscenze acquisite. Fra le molteplici virtù del mistico Chuang-Tzu, era infatti la concezione che è infinito il sapere in rapporto alla limitatezza della vita. Al contrario di ciò, l’ordinario sistema d’istruzione (e dei suoi crediti formativi) si basa sulla rapidità dello studio. Ai giovani s’impone d’imparare subito qualcosa per passare alla fase successiva, e quel che è peggio, indicando un’unica via per risolvere il problema. La realtà è che occorrerebbe insegnare alle persone a pensare: le soluzioni sono molteplici e con lentezza si mette a punto la qualità.

Fonte dell’immagine: Scienza sacra

Non la doppia cultura ma un unico pensiero

 

Boncinelli e Sabatini, con saggezza antica, hanno saputo mettere di nuovo in ordine quanto la nostra epoca ha saputo invece scompigliare. In loro, attraverso un’infinità di letture – come Leopardi nella biblioteca paterna – hanno raccolto “tutte le frasi del mondo”. Tutte le domande, le curiosità, che spingono alla conoscenza. Sul tema esposto alla BRUM, Lingua Tecnologia Umanesimo, propongono la centralità in un unico pensiero. L’idea che per natura gli scienziati siano rivolti al futuro e gli umanisti al passato, che esista la schizofrenia di una duplice cultura, non abitava neppure il mondo antico, poiché il sapere si è sempre proiettato ad un’azione volta a cogliere gli aspetti dell’esistenza e a comunicarli. Per questo il linguaggio rappresenta il pensiero. Oggi, al contrario, del linguaggio si va perdendo il valore culturale: il vero significato delle parole e l’importanza del loro costrutto grammaticale e sintattico, cioè quell’impalcatura organica per applicare con metodo i principi stessi del pensiero. Ricorrere all’etimologia è ritrovarne la storia, come nel termine grammatica, che deriva da “gráphein”, scrivere “graffiando” tavolette d’argilla con segni cuneiformi, la cui rappresentazione visiva riconduceva al ricordo, che la lettura ad alta voce consentiva di esprimere. Graffiare era un’azione manuale, come oggi si può digitare una tastiera: importante è utilizzare la mente. Nondimeno vale soffermarsi sulla disgregazione dei valori semantici. Sempre più si usano parole senza coglierne il senso, precipitando nel marasma culturale. Accade, ad esempio, quando senza necessità prediligiamo l’uso di termini stranieri ai corrispettivi italiani; dimenticando che una lingua serve per comunicare significati a qualcuno che dovrà comprenderli.