Socrate – Vivere o morire, quale sia migliore è cosa oscura a tutti

 

Nel FLIP di oggi poniamo in evidenza il giudizio di una delle grandi firme del “Corriere della Sera”, come Paolo Mieli, che recensisce il saggio di un’altra grande firma del “Corriere” e de “la Lettura” qual è Mauro Bonazzi autore di “Processo a Socrate”, pubblicato da Laterza. Bonazzi, che insegna Storia della filosofia antica presso l’Università di Utrecht e l’Università Statale di Milano, pone la domanda delle domande, ovvero quella che ogni studente di filosofia di liceo, interessato al grande filosofo greco, in cuore suo si è posto: E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire? A sentire Platone e Senofonte, due degli allievi del filosofo, se fosse stato un tantino più conciliante avrebbe potuto ottenere l’assoluzione. Il fatto è che il settantenne Socrate – secondo Aristofane, che ne tratteggia figura e pensiero nella sua celebre commedia «Le Nuvole» (423 a.C.) – non solo era strambo, come poteva essere un “sofista”, ma rappresentava «il peggio della nuova cultura», soprattutto per due motivi. Il primo: era sospetto di ateismo, poiché negava l’idea stessa di divinità. Il secondo: corrompeva i giovani, sovvertendo in loro lo schema tradizionale riguardante l’autorità, da quella familiare all’intera organizzazione sociale. Bonazzi nel suo libro spiega quello che sarebbe da interpretare come «uno scontro tra la filosofia e la democrazia». Da una parte c’è Socrate, che rivendica autonomia e indipendenza contro conformismo e pregiudizi; dall’altra c’è Atene, che lo accusa di cospirare contro le istituzioni democratiche. Socrate rifiuta la difesa offerta da Lisia, preferendo l’autodifesa. Rispetto a coloro che sostengono la tesi politica, Bonazzi suggerisce cautela poiché mancano consistenti indizi in tal senso e la figura di Socrate è «difficilmente riducibile negli schemi tutti politici dell’opposizione tra oligarchi e democratici».

Riassumiamo i momenti salienti del processo come li sintetizza Mieli: «L’uditorio era composto da 501 giudici e da un folto pubblico. Socrate scelse di preparare da solo i suoi due (forse tre) discorsi di difesa, rifiutando l’aiuto del già citato Lisia, uno dei più celebri oratori dell’Atene dell’epoca. Il processo poi aveva norme garantiste: se, ad esempio, un imputato fosse stato assolto, gli accusatori rischiavano di essere puniti. “A ulteriore conferma”, nota Bonazzi, “del fatto che non mancavano strumenti per impedire che si intentassero processi con troppa disinvoltura”. Ciò che in quel frangente il filosofo temeva di più era il boato del pubblico, che effettivamente fu usato contro di lui (ne parla Platone per stigmatizzarlo). Comunque la prima votazione si risolse in favore sì dell’accusa, ma con uno scarto tutto sommato ridotto: 280 voti contro 221, e Socrate si lasciò persino andare a qualche dileggio nei confronti di chi lo aveva trascinato in giudizio. Ma la seconda votazione, quella in cui si doveva decidere tra una sentenza di morte e il pagamento di un’ammenda, si concluse con una maggioranza a favore della pena capitale. Una maggioranza netta».

Cosa dettò l’andamento sfavorevole di questo processo che portava in tribunale l’intera esistenza del filosofo? La risposta di Bonazzi è inequivocabile: un «doppio fallimento». Quello della democrazia ateniese «incapace di ascoltare il tafano che cercava di risvegliarla dal torpore dei suoi pregiudizi», ma anche il fallimento dello stesso Socrate, incapace di trovare «le parole giuste per far capire le sue ragioni». In realtà la linea di difesa adottata dal filosofo fu alquanto incomprensibile, preferendo la provocazione alla pacificazione. Socrate propose come soluzione del processo (quasi a mo’ di sberleffo) «di essere mantenuto a vita nel Pritaneo a spese dello Stato, un privilegio normalmente riservato agli orfani di guerra e ai vincitori delle gare olimpiche». In alternativa il pagamento di una cifra irrisoria. Non è irritando giudici che si può evitare una punizione dura ed esemplare, come la pena capitale. È vero, oggi possiamo condividere le parole di Mauro Bonazzi, piene di grandi idealità, quando sostiene che in qual senso Socrate è il vincitore morale del processo, in quanto «è riuscito nell’impresa di far finire sul banco degli imputati Atene, la città che non aveva saputo accettare la sua sfida e per questo aveva scelto di ripiegarsi su sé stessa e sui propri pregiudizi». Pur condannato a morte dal Tribunale di Atene, Socrate è stato «assolto e premiato da quello della storia». Vale domandarsi, però, se ne è valsa la pena e se un’assoluzione, scaturita da un chiarimento fra le parti, non avrebbe ugualmente premiato le ragioni della ragione. Che Aristofane avesse per caso un pizzico di ragione?

LEGGI PER INTERO IL LIBRO DI PLATONE “APOLOGIA DI SOCRATE”

SOCRATE, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (Atene, 470 a.C./469 a.C. – Atene, 399 a.C.), è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d’indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell’elenchos (ἔλεγχος, “confutazione”) applicandolo prevalentemente all’esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell’etica o filosofia morale. Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d’investigazione». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Socrate provocò la giuria del processo Quasi cercando la condanna a morte

Umberto Eco e la sua Biblioteca semiologica curiosa, lunatica, magica e pneumatica

 

La notizia risale a oltre un mese fa, ma lo scrittore Paolo di Paolo torna oggi a parlarne in apertura delle pagine culturali di Repubblica, con un articolo intitolato “Biblioteche d’autore Maneggiare con cura”. La sua preoccupazione riguarda il destino della biblioteca di Umberto Eco, scomparso a febbraio del 2016. Eco definiva la preziosa sezione antiquaria come la «Biblioteca semiologica curiosa, lunatica, magica e pneumatica»: quasi un autoritratto commenta Paolo di Paolo. In questi ultimi giorni anche la città di Alessandria, sua città natale, ha espresso il convincimento di chiedere a sindaco e giunta di «contattare la famiglia in modo da dimostrare interesse». In verità la bella biblioteca privata del grande umanista è diventata oggetto di una gara tra biblioteche pubbliche per ottenere il prestigioso Fondo librario. Questo è un bene, tutto sommato, perché spesso il patrimonio lasciato in mano agli eredi da parte di autori di fama eccelsa ha visto prendere la via dell’estero. Basti pensare alla vicenda legata alla biblioteca di Giuseppe Pontiggia, e al suo archivio, che avrebbero potuto essere trasferiti in Svizzera ed oggi finalmente acquisiti dalla BEIC (Biblioteca europea di informazione e cultura) di Milano. La famiglia di Umberto Eco ritiene giusto che la collezione di libri rimanga in Italia, precisando che «le ipotesi di cessioni a università estere o vendite all’estero non sono mai state prese in considerazione, né la vendita all’asta o il frazionamento dei singoli fondi librari». Questo evidenzia grande sensibilità e rispetto culturale nei confronti, anzitutto, del loro famigliare. Per questo motivo, gli eredi di Eco – di fronte alle richieste da una parte del Comune di Bologna e della sua Università dove il grande intellettuale ha insegnato per molti anni, dall’altra della milanese Biblioteca Braidense – la famiglia ha dichiarato che i testi di lavoro di Eco saranno donati, piuttosto che venduti, invitando le due città ad un accordo fruttuoso. Per ottenere il Fondo, composto da oltre 35 mila volumi, occorrerebbe prospettare quale potrebbero essere le modalità di valorizzazione e di fruizione pubblica dei libri in donazione. Se questo fosse confermato con certezza, perché si continua a parlare di cifre milionarie? Occorrono idee progettuali riguardanti spazi e allestimento di una biblioteca adeguata e questo sembra che sia il minimo per essere credibili.

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UMBERTO ECO (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016[1][2]) è stato un semiologo, filosofo, scrittore, traduttore, accademico e bibliofilo italiano. Saggista prolifico, ha scritto numerosi saggi di semiotica, estetica medievale, linguistica e filosofia, oltre a romanzi di successo. Nel 1971 è stato tra i fondatori del primo corso del DAMS all’Università di Bologna. Sempre nello stesso ateneo, negli anni Ottanta ha fondato il corso di laurea in Scienze della comunicazione. Nel 1988 ha fondato il Dipartimento della Comunicazione dell’Università di San Marino. Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Dal 12 novembre 2010 Umberto Eco era socio dell’Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Alessandria partecipa all’asta per la biblioteca di Umberto Eco

Vivian Maier – Da Mary Poppins con la Rollei a fenomeno cult

 

Vivian Maier

 

Qualcuno domanderà notizie sull’identità della misteriosa Vivian Maier. Altri risponderanno che la conoscono come una bambinaia di Chicago che portava a spasso i frugoletti che le erano stati affidati e, mentre vagava per la città, scattava in continuazione fotografie. Qualche volta uno scatto la ritraeva riflessa in una vetrina, qualche altra volta i soggetti erano gli stessi bambini, ma solitamente erano scene di vita cittadina, riprodotte in bianco e nero. Immagini che nessuno conosceva fino al momento della loro scoperta in un armadio, apparentemente abbandonato. Immagini che neppure lei osservato, se non attraverso il suo obiettivo fotografico al momento dello scatto, visto che da quell’armadio sono emersi centinaia di rullini fotografici mai sviluppati e stampati. Ma quando finalmente le immagini videro la luce rivelarono una eccezionale e (forse) inconsapevole “fotografa di strada” che aveva ritratto l’America del XX° secolo. Michele Smargiassi sul Venerdì di Repubblica riassume la storia della scoperta in poche righe: «Nel 2007 un agente immobiliare di nome John Maloof si imbatte casualmente nella vendita all’asta del contenuto di un magazzino, acquista scatoloni pieni di fotografie, trova che siano capolavori, scopre su Google che l’autrice, una tata di Chicago con l’hobby della fotografia, è morta qualche giorno prima, pubblica degli esempi sul web, e il mondo s’inchina commosso e stupefatto a un genio sconosciuto».

Il nome di Vivian Maier da un giorno all’altro, grazie ad internet, è diventato famoso in tutto il mondo; molti apprezzarono così il suo lavoro meticoloso di ripresa fotografica, che la portò alla celebrità. Lei, al contrario, non se lo sarebbe mai immaginato. Pamela Bannos, docente di fotografia alla Northwestern University, trasformatasi nella sua biografa americana, l’ha ritratta in modo scrupoloso, raccogliendo le poche notizie possibili ed esaminando gli scatti. Il libro si intitola “A Photographer’s Life and Afterlife”, come dire la vita conosciuta – raccontata dai suoi stessi frugoletti divenuti oggi giovanotti e signorine in carriera – e quella dell’aldilà, cioè quel limbo di misteriosa ed oscura esistenza che la stessa Maier, consapevolmente, ha voluto occultare. La cosa più importante, sostiene la professoressa  Bannos, è che la Maier non era una babysitter che studiava per diventare fotografa, ma una vera fotografa che si manteneva come babysitter per vivere. Per cui la tesi del libro è smontare tutta quella mitologia creata dai Social Network e dimostrare il lavoro coscienzioso che nessuno ha potuto esaltare quando la Maier era in vita. Questo per il fatto che la stessa Maier ha scelto di non mostrare il proprio lavoro. Il motivo? Probabilmente perché pensava che negli ambienti della fotografia d’arte (e non commerciale) i giochi fossero già fatti.

 

VIVIAN MAIER (New York, 1º febbraio 1926 – Chicago, 26 aprile 2009) è stata una fotografa statunitense, della cui attività artistica si sapeva ben poco fino a pochi anni prima della sua scomparsa. Vivian Maier e, soprattutto, la sua vasta quantità di negativi è stata scoperta nel 2007, grazie alla tenacia di John Maloof, anche lui americano, giovane figlio di un rigattiere. Nel 2007 il ragazzo, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, ad un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL VENERDÌ (LA REPUBBLICA)

Cercando la vera Vivian Maier, al di là delle leggende

Massimo Fini – Quando, su Photo, mise a confronto 20 sederi femminili

 

Dice bene Massimo Fini, al quale divertiti dedichiamo il FLIP di oggi, giorno di riposo: «Scrivere di eros è difficilissimo. Anche grandi autori che si sono cimentati nel romanzo erotico hanno dato esiti deludenti. Forse il migliore lo ha scritto una donna, Violette Leduc Teresa e Isabella: è la storia omosessuale di due ragazze adolescenti, non c’è una sola parola cruda ma, forse proprio per questo, la tensione è altissima». Violette Leduc, meno conosciuta in Italia che in Francia, è scrittrice di spicco, amica di Maurice Sachs e di Simone de Beauvoir, che la sostennero con tutti i mezzi affinché scrivesse, incidendo sul conformismo dei suoi anni. Anche Fini spezza il conformismo, quando, a modo suo, si presenta come «il più polemico dei polemisti italiani». L’estratto, che presentiamo, pubblicato da Cinquantamila.it, è spassoso ed “erotico” nel modo giusto. Parla di un articolo nato per caso e che ha reso famoso il suo autore, almeno fra le sue amiche alle quale piace fargli analizzare le proprie piacevolezze anatomiche. Lo rammentiamo pure noi, quell’articolo, ma a differenza, noi ricordavamo solo le parti anatomiche e non l’autore che le descriveva. Massimo Fini lo conosciamo meglio come giornalista e scrittore, a cominciare dal suo saggio più recente: La modernità di un antimoderno. Ora Marsilio ha raccolto i suoi libri più autobiografici in Confesso che ho vissuto, dal quale prendiamo spunto. Sono settantaquattro anni densi di esperienze ed anche eccessi: whisky, sigarette, sesso e querelle. Così compare nella intervista rilasciata al Corriere della Sera e che riportiamo di seguito. Buona lettura domenicale.

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MASSIMO FINI (Cremeno, 19 novembre 1943) è un giornalista, saggista e attivista italiano. È stato una delle firme più note de L’Europeo negli anni 1970-1990, de Il Giorno negli anni 1980 e de L’Indipendente negli anni 1990, ritenuto un profondo conoscitore dello scenario internazionale. È nato a Cremeno, in provincia di Lecco. Il padre, Benso Fini, pisano, era giornalista della «Nazione». La madre, Zinaide Tubiasz, era nata nella Russia zarista in una ricca famiglia di religione ebraica (Fini ha affermato di essere “tecnicamente” ebreo, anche se non si sente tale) che, dopo aver perso tutto con l’avvento del regime comunista, aveva scelto l’esilio in Lituania. Dal Paese baltico la famiglia aveva mandato Zinaide a studiare all’Università di Parigi. A Parigi si era rifugiato Benso Fini dopo l’avvento del regime fascista in Italia, e i due si erano conosciuti nella capitale francese. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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MARSILIO EDITORI

Confesso che ho vissuto

Sofocle – Rispettiamo le leggi dello Stato per evitare un campo di conflitti

 

Il libro che FLIP presenta oggi è l’opera congiunta di due fra i maggiori esponenti del Diritto costituzionale italiano, Marta Cartabia e Luciano Violante, scritto come dice il sottotitolo “per indagare i dilemmi del diritto continuamente riaffioranti nelle nostre società”.  Il libro si intitola “Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone, Creonte”, laddove Edipo, Antigone, Creonte, sono i personaggi concepiti da Sofocle, capaci evidentemente ancora oggi di mettere in luce delle verità. Leggiamo a questo proposito la scheda curata dalla casa editrice “Il Mulino”: «Antigone, ovvero il conflitto tra coscienza individuale e ragion di stato, tra legge morale e legge positiva. Edipo, ovvero la tensione tra verità storica e oggettiva e verità soggettiva, tra domanda di giustizia e intransigenza nell’amministrarla, tra colpa, errore e responsabilità. Creonte, ovvero il contrasto tra la legge e la sua opposizione. Altrettanti dilemmi del diritto che riaffiorano continuamente nelle nostre società. Per quanto emancipata dal suo primitivo nucleo vendicativo, e oggi amministrata con molte garanzie, sancite soprattutto dalle costituzioni contemporanee, la giustizia infatti non risana mai del tutto i conti, né per le vittime né per i carnefici».

Tematiche di certo non semplici, ma di sostanziale interesse. Vale conoscere di più sui contenuti del libro, leggendo l’articolo di Sabino Cassese sul Corriere della Sera, giurista e accademico, giudice emerito della Corte costituzionale. Per chi volesse aggiornarsi anche sugli autori del libro, la scheda de “Il Mulino”, ce ne offre l’opportunità: «Marta Cartabia, professore ordinario di Diritto costituzionale, è attualmente Vice Presidente della Corte costituzionale. Per il Mulino ha pubblicato «L’Italia in Europa» (con J.H.H. Weiler, 2000) e curato «I diritti in azione» (2007), «Dieci casi sui diritti in Europa» (2011) e «La sostenibilità della democrazia nel XXI secolo» (con A. Simoncini, 2010); per Oxford University Press è coautrice di «Italian Constitutional Justice in Global Context». Luciano Violante, già professore ordinario di Diritto e Procedura penale, magistrato e parlamentare, presidente della Camera dei deputati dal 1996 al 2001, è presidente di italiadecide, associazione per la qualità delle politiche pubbliche. Fra i suoi libri «Politica e menzogna» (2013), «Il dovere di avere doveri» (2014) e «Democrazie senza memoria» (2017), tutti pubblicati da Einaudi».

 

SOFOCLE figlio di Sofilo del demo di Colono (496 a.C. – Atene, 406 a.C.) è stato un drammaturgo greco antico. È considerato, insieme ad Eschilo ed Euripide, uno dei maggiori poeti tragici dell’antica Grecia. Sofocle nacque nel 496 a.C. nel demo di Colono, che era un sobborgo di Atene. Figlio di Sofillo, ricco ateniese proprietario di schiavi, ricevette la migliore formazione culturale e sportiva, cosa che gli permise a 15 anni di cantare da solista il coro per la vittoria di Salamina. La sua carriera di autore tragico è coronata dal successo: a 27 anni conquista il suo primo trionfo gareggiando con Eschilo. Plutarco, nella Vita di Cimone, racconta il primo trionfo del giovane talentuoso Sofocle contro il celebre e fino a quel momento incontrastato Eschilo, conclusasi in modo insolito senza il consueto sorteggio degli arbitri: Eschilo, in seguito a questa sconfitta, scelse il volontario esilio in Sicilia. In tutto Sofocle conquistò 24 vittorie, arrivando secondo in tutte le altre occasioni.  (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Il diritto nello specchio di Sofocle

Desmond John Morris – I surrealisti? Scoprii subito che erano diversi l’uno dall’altro

Foto di gruppo degli artisti surrealisti. «Un gruppo di figli di papà», così li definiva Giorgio De Chirico che vi aveva fatto parte.

L’etologo Desmond Morris è diventato famoso in tutto il mondo nel 1967, col suo bestseller La scimmia nuda. Vi chiederete: come mai uno studioso è riuscito a trasformare un libro scientifico in un bestseller? Lo spiega lui stesso, da maestro o meglio da presentatore televisivo: «Quando ero un giovane scienziato dell’Università di Oxford, usavo il gergo tecnico. Come tutti i miei colleghi. Quello che scrivevamo era difficile da comprendere: volevamo apparire il più possibile accademici. Poi, mi è accaduto qualcosa di inaspettato. Sono andato a Londra e ho cominciato a parlare di animali in tv. Ho curato un programma televisivo ogni settimana. Per undici anni. È allora che ho imparato a servirmi di un linguaggio più diretto».  Dopo una vita di studi dedicata a esaminare gli aspetti che accomunano l’uomo agli altri esseri appartenenti al mondo animale, nella ricerca di un denominatore comune, oggi fa invece seguito la sua volontà di analizzare criticamente i “numeri primi” della natura, che dovremmo essere noi umani. Quale è la «caratteristica più appassionante che ci rende unici»? Si è domandato Morris. La risposta è stata: l’arte. Perché l’arte, sostiene riferendosi ad Aristotele, può «rendere straordinario l’ordinario». Lo fa proponendo un nuovo libro, questa volta dedicato a Le vite dei surrealisti (edito da Johan&Levi). Racconta una storiella su Dalì, forse il più famoso fra i pittori surrealisti, che un giorno si spinse perfino a dichiarare: «Il Surrealismo sono io». Quando un suo amico mostrò a Dalí la prestazione pittorica compiuta dallo scimpanzé Congo, l’artista la osservò con interesse e poi sentenziò: «La mano dello scimpanzé è quasi umana; la mano di Jackson Pollock è in tutto e per tutto quella di un animale». Non è semplicemente una battuta di spirito, se Morris riesce a leggervi quello che noi non vi abbiamo per nulla colto. Interpreta Morris: «Il commento di Dalí la dice lunga sul modo in cui si era sviluppato il Surrealismo dalla sua nascita nel 1924. Nel primo manifesto Breton lo definì come “automatismo psichico puro”, un concetto che si addice perfettamente a ciò che faceva Pollock quando picchiettava il colore sulla tela. Secondo questa definizione il pittore americano sarebbe il surrealista per antonomasia mentre Dalí, in confronto, apparirebbe più che altro come un grande maestro del passato».

A novant’anni Morris ha deciso di leggere il mondo che ha conosciuto, utilizzando l’ottica dello studioso e nel contempo quella dell’artista che era da giovane, quando dipingeva quadri surrealisti con i quali nel 1950 esponeva a fianco di Joan Mirò. Oggi, da anziano signore, non trasforma la memoria in nostalgia fine a sé stessa, ma attraverso la ricerca riesce a mantenere il gusto della conoscenza. «Ho sempre condotto una doppia vita. Il cervello umano ha due emisferi: mentre uno è specializzato nell’analisi fattuale, l’altro si occupa prevalentemente dell’intuizione e della fantasia. Sono uno scienziato analitico, che studia il comportamento animale e umano. Ma sono anche un artista surrealista, interessato al funzionamento della mente inconscia. Quando lavoro come scienziato, rendo semplice ciò che è complesso. Quando lavoro come artista, rendo complesso ciò che è semplice. A novant’anni dipingo ancora nel mio atelier ogni sera fino alle 4 del mattino». Dal 1947 fino a oggi ha realizzato circa tremila dipinti e seimila disegni, una produzione da fare invidia ad un professionista dell’arte, e dal 1987 ha preso anche a vendere le sue opere. È straordinario e semplice, quanto la sua spiegazione sulla nascita dell’arte: «Nelle prime tribù di cacciatori-raccoglitori, l’uccisione di un grosso animale era motivo di gioia. Per rendere speciale quell’evento, le tribù decoravano il loro volto con colori vivaci, indossavano costumi speciali, facevano musica e ballavano. Così sono nate le arti. Da allora abbiamo sempre apprezzato coloro che sono riusciti a rendere le cose “straordinarie”». È la forza dei maestri: staresti ore a sentirli parlare; non recitano brani a memoria ma esperienze di una vita. Oppure le scrivono nei libri, come ha fatto Desmond Morris.

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DESMOND JOHN MORRIS (Purton, 24 gennaio 1928) è uno zoologo ed etologo britannico, divulgatore scientifico e autore di libri sulla sociobiologia umana. Dopo aver studiato alla Dauntsey’s School di West Lavington, in Wiltshire, e aver prestato il servizio militare, ha frequentato l’Università di Birmingham, laureandosi brillantemente nel 1951 in zoologia. Nel 1954, grazie alla sua tesi sul comportamento riproduttivo dello spinarello, curata dal Premio Nobel Nikolaas Tinbergen, ha conseguito il dottorato presso l’Università di Oxford. In seguito, iniziò a lavorare per la Società Zoologica di Londra come curatore dei mammiferi dello Zoo di Londra, ma nel 1966 lascia l’incarico dopo contrasti interni. Si pose inizialmente all’attenzione del pubblico negli anni sessanta come presentatore del programma televisivo Zoo Time della Independent Television (ITV). La fama mondiale arrivò però nel 1967 con la pubblicazione del saggio La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE

Pare surreale, ma questi artisti erano tutti figli di papà…

Tom Wolfe – Lo scrittore che ha fatto un falò di certa finta cultura americana

 

 

Tom Wolfe è stato uno dei personaggi simbolo di questi ultimi trent’anni. Giornalista statunitense di primo piano, autorevole e noto in tutto il mondo, quando decise di mettersi a scrivere libri, pure nel settore letterario è immancabilmente diventato autore di primo piano. Per denotare la sua scrittura tutta particolare inventò il “New Journalism”, usando uno stile narrativo del tutto letterario anche quando si trattava di articoli giornalistici. Pubblicava su riviste come Esquire, New York, Rolling Stone e da sempre era giornalista del New York Herald Tribune. L’articolo che abbiamo scelto nel FLIP di oggi, curato da Matteo Persivale per il Corriere della Sera, lo ritrae in modo efficace a tutto tondo, perché nel caso di Tom Wolfe è facile trovare tanti estimatori quanti detrattori, come capita a chi ha una personalità carismatica e niente affatto anodina nei confronti di vizi e virtù della contemporaneità. Il primo tratto identitario era il suo abbigliamento elegantissimo, da dandy ottocentesco, con i completi immancabilmente di colore bianco, portati d’estate e d’inverno: giacca e panciotto, fazzoletto nel taschino, ghette, scarpe lucide e bastone da passeggio.

Nato a Richmond, in Virginia, il 2 marzo 1930 aveva studiato a Yale per dedicarsi da subito alla carriera giornalistica, dando vita a reportage straordinari, col suo cocktail dal carattere tutto particolare fatto di giornalismo e letteratura shakerati: periodi interminabili ma comprensibilissimi, uso di neologismi, parole in corsivo o in maiuscolo, punti esclamativi e poi ancora punti esclamativi, dettagli curiosi, descrizioni introspettive. Soprattutto lo distingueva la capacità di evidenziare il conformismo diffuso ed era altrettanto capace di attirarsi addosso gli strali di quelle categorie prese di mira dai suoi caustici testi. Rimarrà famoso per aver inventato l’appellativo di «radical chic», col quale si irrideva di quella moltitudine di rivoluzionari da salotto che riempivano all’epoca circoli politici, aule universitarie, ritrovi mondani. L’espressione apparve per la prima volta a giugno del 1970 sul New York Magazine, in un articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Il party descritto era quello dato da Felicia, consorte del compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein. L’ambiente di un attico sfarzoso, personalità della cultura e dello spettacolo newyorchese, camerieri esclusivamente bianchi (e non i neri esibiti dalla “noblesse” razzista). Il ricevimento era stato organizzato come raccolta fondi a sostegno delle “Pantere nere”, gruppo rivoluzionario di estrema sinistra.

Fra tutti i romanzi di Wolfe ricorderemo “Il falò delle vanità” (1987). Perché, in fin dei conti, è la vanità, declinata in mille sfaccettature, che lui colpiva con le sue parole ricercate. La vanità espressa nel mondo della finanza di Wall Street o nel mondo apparentemente antitetico dell’arte o dell’architettura contemporanee. Il suo website ufficiale informa: «Il suo nuovo romanzo I Am Charlotte Simmons , è ora disponibile in edizione economica da Picador. Wolfe vive a New York con sua moglie, Sheila; sua figlia, Alexandra; e suo figlio, Tommy». Qualcuno potrebbe dire che il sito non è aggiornato, dal momento che “Io sono Charlotte Simmons” è uscito nel 2004, seguito nel 2012 da “Le ragioni del sangue” (Back to Blood). Ma spicca soprattutto che “Wolfe vive a New York”. La qualcosa è in un certo senso vera; perché gli autori che hanno descritto e animato le polemiche di un’epoca non muoiono mai, almeno fintanto che non muoiono tutti coloro che ne hanno goduto o sofferto.

 

TOM WOLFE, all’anagrafe Thomas Kennerly Wolfe Jr. (Richmond, 2 marzo 1930 – New York, 14 maggio 2018), è stato un saggista, giornalista, scrittore e critico d’arte statunitense. Wolfe studiò presso l’Università Yale ottenendo un PhD in American Studies. Il suo primo impiego come reporter fu presso lo Springfield Union (Massachusetts) nel 1957. Tre anni dopo fu assunto presso il The Washington Post e vi resta fino al 1962; successivamente si trasferisce al New York Herald Tribune. Scrive articoli anche per la rivista Esquire. È considerato un padre del New Journalism, quella scuola di scrittura sbocciata negli anni Sessanta che adotta e adatta gli stili ed espedienti della narrativa propri della letteratura nel giornalismo, aderendo a una scrittura più consona alle riviste che ai quotidiani per la sua lunghezza. L’innovativo stile, grazie a Wolfe, Truman Capote, Gay Talese, conobbe un’eccezionale fioritura e molti emulatori. Nel 1965 pubblica il libro The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, composta dalla raccolta di alcuni suoi articoli. Anche il successivo The Pump House Gang è una raccolta di articoli. Nel 1970 pubblica Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers, un libro composto da due articoli già pubblicati sul New York Magazine, dove per la prima volta conia il termine radical chic. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Morto Tom Wolfe, il cronista delle vanità. Inventò il termine radical chic

David Rockefeller – Venduta da Christie’s la sua prestigiosa collezione

 

L’ANSA-AP ha battuto la notizia sulla vendita clamorosa dell’imponente collezione di arte e altri tesori di Peggy e David Rockefeller. Tutti i giornali hanno, quindi, annunciato l’evento riguardante la casa d’aste Christie’s a New York. Alla ricerca dei record che fanno notizia, ecco tutti esultare per il nuovo record mondiale: 828 milioni di dollari contro i circa 500 milioni di dollari iniziali garantiti. «Si attesta come la più costosa asta di oggetti appartenuti a un singolo proprietario di sempre. Il precedente record era di ‘soli’ 484 milioni, raccolti con la vendita a Parigi della tenuta dello stilista Yves Saint Laurent, avvenuta nel 2009. L’oggetto venduto alla cifra più alta è un dipinto di Picasso, una ragazza con un cesto di fiori, battuto a 115 milioni di dollari. Subito dietro, con 84 milioni, una tela di Monet raffigurante le sue famose ninfee. Christie’s, che ha curato la vendita, ha piazzato tutti gli 893 lotti che componevano il tesoro dei Rockefeller». L’asta non è ancora finita, dal momento che online ognuno di noi è ancora in tempo per acquistare gli articoli meno costosi: un’idea regalo, come gemelli e ferma-soldi. Le attese non sono state tradite, dunque, perché autori come Monet, Matisse, Corot, Delacroix, Seguin, Morandi, Redon, hanno stabilito nuovi record di vendita e alcuni di loro hanno superato i 30 milioni di dollari ad opera. È il caso di Claude Monet, con le “Nymphéas en fleur“, serie di ninfee dipinte nel suo stesso giardino a Giverny, tra il 1914 e il 1917, è stata battuta per 84.687.500 di dollari. Le quotazioni delle varie opere le trovate su internet se avete la pazienza, la curiosità o l’interesse di cercarle. Noi di FLIP poniamo attenzione sul fatto che l’asta è formata da oltre 1600 pezzi. Sono opere d’importanza museale, nate dal dibattito artistico all’interno delle molteplici correnti dell’arte moderna e contemporanea, a partire dagli Impressionisti e passando per le Avanguardie Storiche di fine Ottocento e primo Novecento. Ma in vendita ci sono anche gioielli, argenterie e porcellane orientali, tappetti e mobili, oggetti di design.

Ciò che fa più impressione sono, comunque, le opere d’arte. Abbiamo citato, come esempio, “Fillette à la corbeille fleurie”, un olio su tela di Pablo Picasso, battuto per 115 milioni di dollari. Il dipinto del 1905, risalente al cosiddetto periodo rosa, apparteneva in precedenza alla scrittrice Gertrude Stein; il grande Ernest Hemingway l’aveva descritto nel romanzo Festa mobile. Una particolarità: l’unica opera italiana in catalogo, dipinta nel 1940 da Giorgio Morandi, “Natura morta“, uno dei due lavori su un supporto ovale che si conoscano del maestro, ha più che raddoppiato il proprio valore iniziale di 2 milioni di dollari. In poche parole, questa collezione rappresenta le attrazioni artistiche di una vita. Noi, le sfogliamo sui libri che conserviamo sugli scaffali di casa nostra; David Rockefeller e sua moglie ammiravano le opere appese ai muri di casa loro. David era il più giovane e ultimo nipote del fondatore della “Standard Oil”, quel John D. Rockefeller che molti ricordano come il primo miliardario degli Stati Uniti. David Rockefeller è conosciuto per le sue attività di filantropo che si spera siano continuate anche dai figli, eredi della gran parte del suo patrimonio, dei quali diceva: «Se avranno imparato le cose importanti sulla vita e come viverla, questo potrebbe essere il mio più grande contributo». Una cosa è certa: a quanto è stato annunciato, il ricavato della vendita della collezione, battuta all’asta da Christie’s a New York, andrà in beneficenza.

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DAVID ROCKEFELLER (New York, 12 giugno 1915 – Pocantico Hills, 20 marzo 2017) è stato un banchiere statunitense nonché uno dei fondatori del gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale. David è stato il più giovane dei figli di John Davison Rockefeller Jr., il patriarca della famiglia. La sua ricchezza è stata stimata da Forbes in circa 3,3 miliardi di dollari, e per questo è sempre stato presente nelle classifiche delle persone più ricche del mondo. Tra le attività non imprenditoriali ha figurato la presidenza del Museum of Modern Art di New York nel periodo 1962-1972 e poi nuovamente 1987-1993. Nel corso della sua lunga carriera dirigenziale ha ricoperto ruoli di rilievo in alcune delle più grandi aziende del mondo (di cui ha detenuto anche quote azionarie) come la Exxon Mobil (figlia della Standard Oil fondata dal nonno John Davison Rockefeller) o la General Electric.

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IL SOLE 24 ORE

Dalla Collezione Rockefeller 832 milioni di dollari: un record per Christie’s New York

Quirico Filopanti – L’italiano che inventò il concetto di “fuso orario”

Il FLIP di oggi è dedicato alla “politica dei fusi orari”. Non è un concetto recente perché, come spiega Franco Farinelli su LA LETTURA, già nel 1884 la comunità internazionale, dopo infuocatissimi confronti, aveva raggiunto la consonanza di idee sulla maniera di accordare i tempi dei singoli stati. Scelto il meridiano di Greenwich come meridiano di base, si pensò di suddividere l’intera superficie terrestre in 24 fusi orari, ognuno di ampiezza di 15° equivalente a un’ora, dal momento che ogni 24 ore la Terra ruota di 360° sul proprio asse.

E qui cominciarono le prime contestazioni, visto che Greenwich si trova in Inghilterra e quindi proprio l’Inghilterra diventava il punto di riferimento politico dell’intero globo terraqueo. I fusi orari, spiega sempre Farinelli nel suo interessante articolo, servirono anche in seguito per evidenziare differenze politiche. Il Nepal, ad esempio, ha deciso di adottare un fuso orario diverso da quello dell’India, per appena un quarto d’ora. Mentre l’India ha scelto un fuso orario uguale per tutti. Molti altri possono essere gli esempi, vale però ricordare di quando la Spagna, ubicata sul meridiano di Greenwich, ha mantenuto il medesimo fuso orario della Gran Bretagna fino al 1942 quando Franco preferì fissare le lancette sull’ora della Berlino di Hitler.

La domanda che, però, noi di FLIP vorremmo porre è: chi ha inventato l’idea di fuso orario? La risposta la troviamo a Bologna, dove nella Sala della Cultura di Palazzo Pepoli, il Museo della Storia di Bologna ha celebrato nel 2012 i “Duecento anni dalla nascita di Quirico Filopanti”, il cui vero nome era Giuseppe Barilli, autore nel 1858 di una proposta innovativa: i fusi orari. Fino ad allora si utilizzava l’ora solare locale, differente per ogni città. Tuttavia, con le prime linee ferrate per il trasporto passeggeri (la prima si inaugurò in Inghilterra nel 1830) occorreva mettere a punto gli orari ferroviari di arrivi e partenze. E questo valeva a maggior ragione per i contatti fra i differenti Stati. Manco a dirlo, Filopanti non trovò alcun aiuto né da parte degli stati nazionali, né da parte delle istituzioni economiche. Oggi, finalmente, anche su Wikipedia troverete che l’introduzione dei fusi orari, prima attribuita a Sanford Fleming, è riconosciuta al nostro Filopanti. È testualmente scritto: «Sanford Fleming fu ingegnere di molte ferrovie intercoloniali e della Canadian Pacific Railway. Sandford Fleming comunque non è stato il primo a proporre il tempo universale e fusi orari standard per tutto il mondo: i fusi orari sono stati infatti concepiti 21 anni prima dal matematico italiano Quirico Filopanti nel suo libro Miranda pubblicato nel 1858». Filopanti, in ogni caso, morì in povertà nel 1894. Per approfondire questo spunto di FLIP e conoscere la storia di Quirico Filopanti potere ricorrere al link posto di seguito sull’inventore dei fusi orari.

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QUIRICO FILOPANTI, pseudonimo di Giuseppe Barilli (Budrio, 20 aprile 1812 – Bologna, 18 dicembre 1894), è stato un politico, astronomo e matematico italiano. Giuseppe Barilli nasce il 20 aprile da Francesco Barilli, modesto falegname e Camilla Borghi, in località Riccardina, nei pressi di Budrio. Il padre, per guadagnare un poco di più, lavora ad ore nel vicino mulino della Riccardina, di proprietà dei Bolognesi, ricchissimi possidenti locali. Il Barilli si distingue subito alla scuola parrocchiale per l’attitudine agli studi di matematica. Date le scarse risorse della famiglia, il sacerdote Don Vittorio Viglienghi, vicepresidente delle scuole di Budrio, membro influente del Consiglio di Partecipanza e l’arciprete Don Gaetano Maria Baldini, si interessano del ragazzo che viene accolto a frequentare gratuitamente la scuola di latinità budriese. Dopo un’iniziale frequentazione dell’Università di Teologia il 3 luglio 1834 Giuseppe Barilli si laurea brillantemente in Matematica e Filosofia presso l’Università di Bologna, grazie al sostegno economico del Consiglio delle Comunità che, in seguito a una deliberazione straordinaria mai prima adottata, decide di fargli continuare gli studi a spese del Comune di Budrio. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA)

La geopolitica dell’orologio

Pietro Bembo – Con le sue Prose ritrovate fondò la lingua italiana

 

 

Il suo nome sfugge a chi non ha dimestichezza con i Classici. Pietro Bembo era un grande umanista, per l’appunto conoscitore dei classici latini, la cui figura è delineata nel nuovo libro della Collana “Scritture e libri del Medioevo” edita da Viella. Titolo: “Bembo ritrovato: il postillato autografo delle prose”. Autore: A. Bertolo. A riprendere il titolo vero del libro ritrovato, leggiamo: «Prose di messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al cardinale de’ Medici che poi è stato creato a sommo pontefice e detto papa Clemente VII divise in tre libri». Chissà, dunque, chi avrà il coraggio di continuare il nostro pur breve articolo per scoprire, come abbiamo fatto noi, questo lavoro realizzato su di un testo fondamentale da tre brillanti studiosi: un bibliologo, un paleografo e un filologo. Si tratta della prima edizione (stampata a Venezia nel 1525) delle Prose riguardanti la “volgar lingua”, ovverosia l’Italiano, quella lingua che stiamo usando per scrivere. Su quell’opera fu fondato l’italiano letterario e il modello che Pietro Bembo propose fu quello delle cosiddette «tre corone» (d’alloro naturalmente), meglio sarebbe dire «due corone + una». Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Il terzo, Dante, usava secondo il cardinale Bembo un linguaggio un po’ troppo popolare. Tre toscani, comunque, ecco perché la lingua fiorentina del trecento si affermò come lingua condivisa in Italia a scapito dell’altra lingua parlata alla corte di Federico II nel Sud d’Italia.

L’originale dell’opera giunto ai nostri giorni, è stato ben conservato nella biblioteca di un collezionista privato di testi antichi, e riporta in copertina, inciso in oro sulla rilegatura in marocchino rosso, lo stemma araldico di Bembo. Il bibliofilo aveva acquistato il volume negli anni Cinquanta presso un libraio antiquario la cui copia era pervenuta dagli eredi Foscarini, costretti a vendere nell’Ottocento il loro patrimonio librario. Era il prezioso acquisto fatto due secoli prima da Marco Foscarini, ambasciatore a Roma e futuro doge di Venezia. Ecco dunque ricostruito a ritroso il percorso del libro che Bembo aveva stampato, come s’è detto, a Venezia nel 1525 e che aveva lasciato in eredità al «suo fedele discepolo ed esecutore testamentario», Carlo Gualteruzzi. La scoperta più importante sono oggi le postille autografe di Bembo, poste ai margini del testo, perché i bibliofili i libri li custodiscono amorevolmente, ma sono gli studiosi che li esaminano e li riportano a nuova vita. Attraverso la ricostruzione filologica è possibile capire anche il metodo di lavoro dell’autore. Si comprende perciò che il grande umanista Bembo continuò ad annotare considerazioni per vent’anni dopo l’uscita del famoso libro, fino alla sua morte avvenuta a Roma nel 1547. In una seconda edizione delle Prose, parte di tali annotazioni furono inglobate nel testo a stampa, ma nell’originale si vedono quelle altre cancellate con un tratto di penna oppure ripetutamente corrette. Oggi anche le note non trascritte sono tornate alla luce grazie a quel testo, con chiose autografe, che permette di leggere le Prose come l’autore avrebbe pubblicato in una nuova edizione che non avvenne mai per mano sua, bensì di altri.

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PIETRO BEMBO (Venezia, 20 maggio 1470 – Roma, 18 gennaio 1547) è stato un cardinale, scrittore, grammatico, traduttore e umanista italiano. Contribuì potentemente alla diffusione in Italia e all’estero del modello poetico petrarchista. Le sue idee furono inoltre decisive nella formazione musicale dello stile madrigale nel XVI secolo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA)

Stelline a cinque punte e mezzelune: i segreti di Bembo