Gli alchimisti – 2/8

 

L’alchimista medievale era un uomo “dotto”, un po’ defilato, che aveva conoscenze di molte tematiche, sia chimiche, che spirituali ed astrologiche, magia ed esoterismo. L’alchimista era considerato un serio studioso.
Tra le eminenti personalità che si interessarono all’alchimia, spicca Isac Newton, il grande scopritore della forza di gravità. Mantenne sempre il riserbo sulle sue ricerche in tale campo, ma non diede mai alle stampe né testi filosofici né alchemici. Tali studi vennero pubblicati solo nel 1936 dall’economista John Maynard Keynes, entrato in possesso dei manoscritti originali di Newton.
Tra il XVI e il XVII secolo, molte altre personalità, insospettabili e non, operarono da alchimisti, come, tra gli altri, Ruggero Bacone, Thomas Browne, Giordano Bruno, ma anche San Tommaso d’Aquino.

Il pensiero illuminista ed il materialismo razionale, nel Settecento, incentivarono la ricerca scientifica nei settori dell’astronomia, della fisica, chimica e botanica, che iniziarono e approfondirono la ricerca sulle trasmutazioni della materia, facendo perdere di credibilità all’alchimia, che in tale secolo scomparve del tutto.
La recente riscoperta della tematica dell’alchimia, ha permesso di decifrare i complessi rapporti con la cultura di quei secoli. L’alchimia, oggi, viene collegata, non solo al pensiero eretico e para-filosofico, ma anche alla stregoneria e alle sette mistiche, quali quella dei Rosa Croce.

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La misteriosa Alchimia – 1/8

 

L’alchimia è una filosofia esoterica, che alcuni studiosi fanno risalire addirittura alla civiltà egizia. Si tratta di una specie di chimica, ma pure di fisica, astrologia e medicina, anche se la famosa ricerca della pietra filosofale l’applicò molto alla  metallurgia (la trasformazione dei metalli in oro).
Alcuni studiosi ritengono l’alchimia, soprattutto, il precursore della chimica moderna, nata nel XVII secolo, con l’applicazione del metodo galileiano alla ricerca scientifica.
La ricerca alchemica, essendo una filosofia, anche se pratica, mirava all’ottenimento di obiettivi enormi, come conquistare l’onniscienza; creare una medicina universale per curare tutte le malattie; estrarre un elisir che prolungasse la vita all’infinito e la trasmutazione delle sostanze, in particolare, i metalli in oro. Alla sommità di tutte le ricerche quella della pietra filosofale.

In realtà, tutte queste ricerche erano probabilmente più metaforiche che reali. Questo perché l’applicazione ad una simile “professione” doveva ottenere il raggiungimento di uno stato filosofico e metafisico della conoscenza. L’alchimista segue un percorso immateriale che lo liberi interiormente, cioè uno sviluppo spirituale. Ad esempio il rapporto con i metalli, da un lato il piombo e dall’altro l’oro, sono da considerarsi categorie simboliche dell’essere.

L’alchimia, scienza esoterica, ha sempre goduto di un aura di mistero. Nel medioevo, infatti, non poteva che essere un’attività occulta, per non scontrarsi con i canoni della Chiesa. Il suo fine principale era il cammino spirituale che andava dal piombo (lo stato più negativo) all’oro (lo stato massimamente positivo). La piena consapevolezza personale comportava il raggiungimento di un proprio Dio. Fine che non poteva essere condiviso proprio dalla religione cristiana.
Ciononostante, il cammino verso la verità e la somma perfezione, simboleggiata dall’oro, metallo incorruttibile, erano il fine ultimo dell’umanità, verso cui era diretta. La scoperta dell’elisir che guariva ogni male e la pietra filosofale che trasformava i metalli, erano l’obiettivo da perseguire, perché già implicito e prefissato.
Inoltre, finché non nacque la scienza sperimentale, nel secolo XVII, non potendo avere un rapporto con dati reali di fisica e chimica, la ricerca alchemica era costretta a poggiare sulla magia, ma anche sulla metafisica e la filosofia. La realtà materica, quindi, conviveva, necessariamente, con la metafisica ed il pensiero speculativo. Se nell’antichità si era conformata come una specie di religione parallela metallurgico-medicinale, col tempo acquisì una sorta di misticismo “superiore”, portatore di conoscenze empiriche e di significati filosofici.

L’opus alchemicum o processo alchemico, era alquanto complesso, diviso tra chimica, filosofia e magia. La pietra filosofale veniva cercata attraverso sette procedimenti, divisi in quattro operazioni. Si partiva dalla “materia prima”, che, con l’aggiunta di zolfo e mercurio, veniva riscaldata, in vari momenti e metodi, nel tentativo di ottenere gradualmente la trasmutazione della sostanza in stadi più “elevati” della materia. Le fasi erano variabili da un minimo di tre ed un massimo di dodici. Nel processo avevano importanza i colori, che denotavano il livello raggiunto (nero, bianco e rosso) ed i numeri, sempre ritenuti magici ed essenziali.
Essendo l’alchimia una pratica magica e mistica, possedeva un gran numero di simboli e significati esoterici, che naturalmente, rientravano nella creazione alchemica.

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Il ruolo della pasta nella struttura del menù italiano

 

Oggi la pasta è servita come primo, dopo l’antipasto. Ma non è stato sempre così. Il menù era profondamente diverso. Comincia a variare nella seconda metà nell’Ottocento. Precedentemente, nei pranzi nobiliari la pasta non aveva un ruolo fisso. Il pranzo era suddiviso in quattro portate principali: antipasti, lessi, fritti e frutta. A loro volta queste portate comprendevano 4 o 5 piatti differenti. Così troviamo, con Romoli, le pappardelle alla romana servite con la frutta, che di per sé conteneva piatti dolci (i moderni dessert). Ma troviamo anche i maccheroni risolati alla fiorentina nella sezione del fritto.
La pasta inizia ad acquisire maggiore importanza verso la fine del Settecento, conquistando il ruolo di entrée (l’apertura del pranzo) con la fine dell’Ottocento. Ce lo riporta il libro di anonimo il Cuoco piemontese. Nelle famiglie napoletane benestanti, viene servita almeno tre volte a settimana. Quando non vi è la portata della pasta il suo ruolo trova sostituzione con altre ricette (da uno o due piatti).
Artusi testimonierà questa nuova importanza con uno schema di menù, dove il primo piatto consiste in una minestra di pasta. Anche se non è denominata pastasciutta, la posizione predominante è comunque conquistata.

 

La pasta nel menù alimentare del povero e del ricco

 

La pasta era servita sia sulla tavola del ricco, sia su quella del povero. Tuttavia, diverso era il consumo e diverso il punto di vista. Mentre gli aristocratici e i ricchi in genere, consumavano la pasta come una delle portate, a volte considerata di contorno, i poveri si dovevano accontentare di quella e basta, un vero piatto unico. Ciononostante, la pasta come piatto completo ha attraversato i secoli, lasciando innumerevoli esempi.

LA PASTA DEL POVERO
Sin dall’inizio il consumo della pasta fra il popolo non è passato inosservato. Nei libri e nelle cronache storiche troviamo accenni. Possiamo cominciare dal cronista Salimbene da Parma che ci parla del goloso di pasta fra’ Giovanni da Ravenna, per poi passare alle novelle del Boccaccio (in primis quella del paese di Bengodi). Franco Sacchetti ci narra del piatto di pasta condiviso dai suoi due eroi. Nel 1617, invece, le cronache ci riferiscono del pranzo, a base di pasta, offerto a tutto il popolo dal duca di Ossuna, viceré del regno spagnolo. Ben 10.000 i suoi commensali, che affollano allegramente i giardini di Poggioreale. Gorani, ci riporta, in uno dei suoi scritti, dell’abitudine del popolo di consumare un solo piatto di maccheroni, accompagnato da un bicchiere di acqua e zucchero. Nel 1872, ne fa accenno anche David Silvagni, nel testo Scene di vita napoletana. In esso ci descrive un operaio che, durante la giornata, mangia una volta sola, un unico piatto di maccheroni, di circa 300 grammi, condita da caciocavallo e basta.
Ma col trascorrere dei secoli, nell’Ottocento, la pasta divenne Il piatto quotidiano di tutte le famiglie napoletane, quelle povere e quelle benestanti.

LA PASTA DEL RICCO
Sulla tavola del ricco, a differenza di quello del povero, regna l’abbondanza. Tanto che la pasta viene servita, nel Cinquecento, come copertura, soprattutto del pollame, ma troviamo anche la lepre unita a pappardelle (nel testo di Romoli).  Nel 1517, Folengo nel Baldus ci descrive un piatto di teneri anatroccoli intinti in un brodetto e ricoperti da lasagne.
L’abitudine si manterrà fino al XVIII secolo, soprattutto in Spagna. Sino alla fine del Seicento, nelle corti e nelle grandi case nobiliari italiane, gli chef del servizio di bocca mischiano la pasta con la carne, in varie ricette, in particolare a pollami lessati, ma ve ne sono anche con il manzo.

Adolfo, continua a raccontare della Sunday law

 

2/2

Sono nel salotto buono di Adolfo Rossi, che pochi conosceranno come giornalista del Corriere della Sera e ancor meno come direttore del Progresso italo-americano, quotidiano statunitense in lingua italiana pubblicato a New York che nei tempi d’oro ha raggiunto la tiratura di ben centomila copie giornaliere. Detto in una parola, il suo quotidiano avrebbe potuto riportare la testata Italians, come la rubrica di Beppe Severgnini, perché non c’era un italiano residente nella grande mela che non lo leggesse. Nei suoi libri ha descritto l’America, come quella delle famiglie arricchitesi con le ferrovie, come da noi oggi possono essersi arricchite con le autostrade. Ma non è di questo che stavamo discorrendo prima della nostra pausa caffè.

Nella pagina precedente raccontavi storie semplici, scaturite dalla vita quotidiana dei tuoi tempi, soggetta a certe leggi astruse. Hai parlato in particolare delle leggi domenicali così come erano applicate a New York, nulla in confronto a come erano applicate New-Haven nel Connecticut.

Quello Stato era già famoso da un pezzo per le sue blue laws. Eccone una pagina: – Nessuno potrà dare il suo voto se non è iscritto in una chiesa di questo dominio. Nessuno camminerà in giorno festivo o passeggerà nel suo giardino o altrove, eccetto che, con compunzione, dalla sua casa alla chiesa e viceversa. Nessuno viaggerà, cuocerà cibi, rifarà letti, spazzerà case, si taglierà i capelli o si farà la barba in giorno festivo. Nessuna donna bacerà i suoi figliuoli nei giorni consacrati dalla Chiesa a pregare il Signore.

Leggi terribilmente restrittive, tanto da sembrare delle imposizioni inquisitoriali. Ci si può giungere anche all’improvviso, quando la società sembrerebbe indirizzata in tutt’altro verso. Anche oggi. Basterebbe leggere certe esternazioni dei “castigatori della tastiera”, che sui Social puntualizzano su tutto, dall’alto della propria ignoranza. Così come basterebbe che qualche Gran manipolatore sapesse usare il clangore delle buccine per cantare una nuova messa.

Senti un po’ quello che toccò a Sara Tuttle e a Jacob Newton per aver osato di trasgredire al “codice blue”. Sara era una buona ragazza, nella primavera della vita, che aveva una gran voglia di prendere marito ed era innamorata di Jacob, un povero e bravo giovinetto del vicinato. Avrebbe voluto fare all’amore con lui, ma il pudore le impediva di essere la prima a parlare, e, da parte sua, il giovinotto non ardiva di farsi avanti perché Sara era troppo ricca per lui. Ma in questi casi, ove manca il coraggio dell’uomo, supplisce l’astuzia della donna.

Una domenica mattina Sara incontrò Jacob per la strada, e, per trovar modo d’attaccar discorso, lasciò cadere i guanti fingendo di non avvedersene. Jacob li raccolse e disse sorridendo a Sara: —Se li volete, desidero una ricompensa. —Ma io non ho denaro con me —rispose la biricchina.— Che cosa posso fare per voi? Jacob mise insieme tutto il suo coraggio e disse: —Vorrei un bacio!

Sara non se lo fece dire due volte e lo baciò. Una pinzochera ingiallita e invecchiata nel desiderio di baci che non aveva mai ottenuti, osservò e denunziò il fatto. E i due colpevoli furono citati davanti al competente magistrato, il quale li condannò a pagare la multa.

Può essere assurdo, ma questa è realtà storica. È vero, fa parte di un tempo tanto distante che parrebbe inverosimile che si ripetesse. Questo, però, è il timore costante. Potrei fare un lungo elenco di film o romanzi sul tema di un futuro distopico; tuttavia il tuo resoconto dei fatti è la testimonianza diretta che l’irrazionale è sempre in agguato. Ma torniamo alla capitale del Connecticut.

Una domenica di novembre del 1883 mi recai a New-Haven a trovare un amico. Da New-York si andava a New-Haven in un paio d’ore, attraversando, fra gli altri paesi, Bridgeport, la patria di Barnum, dove il famoso showman teneva i suoi quartieri d’inverno pieni di cavalli e di bestie feroci. Da quelle stalle, per far parlare di sé, di tanto in tanto Barnum lasciava scappare qualche elefante che scorrazzava per i campi circostanti e rovesciava parecchie siepi, affinché non languisse la cronaca dei giornali locali.

New-Haven, a quei tempi, contava più di sessantamila abitanti, ma era tranquilla come un villaggio; strade belle e larghe, fiancheggiate da filari d’alberi, quasi tutte di legno, piccole, eleganti e simpatiche come tante palazzine di villeggiatura. È rinomata per la Yale University … e per la severità con cui si osserva il riposo della domenica.

Il Yale Colege è oggigiorno uno dei più rinomati e importanti degli Stati Uniti, la terza istituzione universitaria più antica, fondata nel 1701. Quindi la città dovrebbe essere un centro nevralgico di cultura superiore. All’epoca c’era anche una colonia italiana che contava circa un migliaio e mezzo di pacifici e laboriosi operai, assai ben visti dalla popolazione.

Quasi tutti lavoravano nelle numerose fabbriche di carrozze e di oggetti di gomma. Per provare il buon conto, il Municipio aprì per essi una scuola nella quale si davano lezioni gratuite serali d’inglese. Straordinario è il numero di chiese d’ogni culto. Nel solo centro della città ne sorgono cinque, a pochi passi l’una dall’altra. Uno dei punti più belli di New-Haven è dove la città finisce sulla riva del Sound. A levante sorgono alcune collinette e a ponente si stendono fino a perdita d’occhio le acque calme del fiume, popolate di barche e di qualche schooner. Mentre io e l’amico tornavamo in città, facemmo quella domenica uno strano incontro. Ventun persone, fra uomini e donne, elegantemente vestiti, venivano condotti a New-Haven prigionieri, scortati da alcuni policemen. Gli arrestati appartenevano alla miglior società.

Di che cosa si erano resi colpevoli?

Ignorando che le autorità avevano deciso di rimettere in vigore le puritane blue laws, quei signori erano usciti a passeggiare come il solito di tutte le feste. Giunti a un certo punto vennero arrestati come contravventori alla legge sulla domenica, rinchiusi in una masseria come un branco di montoni, e condotti quindi tutti insieme a New-Haven. Tradotti davanti al giudice, alcuni furono rilasciati pagando una cauzione, altri trattenuti in prigione. Quella inattesa risurrezione di leggi cadute in disuso era dovuta alla richiesta degli abitanti della borgata di Foxon. Costoro si lagnavano che «quelli di New-Haven violavano costantemente la domenica passando in vettura a Foxon, con grande disappunto e scandalo dei buoni cittadini».

Anche riunirsi in comitiva e visitare i dintorni della città di domenica era da considerarsi vietato? Queste blue laws erano l’espressione di una visione locale e certamente trincerata verso il prossimo. Comico, ma vero!

È comico, piuttosto, il modo usato per fermare quelli che passavano. Il signor Thompson (che svolgeva il compito di constabile, un dirigente di polizia) aveva imboscato i suoi uomini in un punto in cui la strada era tutta coperta dalle noci che il vento aveva fatto cadere dalle piante circostanti. Come il malizioso constabile aveva preveduto, tutti quelli che arrivarono in carrozza a quel punto, vedendo le belle noci, scesero per riempirsene le saccocce. In quella sbucarono i policemen e li dichiararono in arresto.

E dire che oggi lamentiamo gli appostamenti degli autovelox!

 

Dimmi Adolfo: che cosa pensi della Sunday law?

 

1/2

Spesso faccio qualche passeggiata e vado a trovare i miei amici. Alcuni sono giovani e con figli. Buona parte sono persone anziane. Ho sempre amato conversare con quest’ultime, perché custodiscono memoria di un mondo così distante da quello che solitamente viviamo con trepidazione, perché dal mondo di oggi dipende il mondo di domani. Con le persone “d’altri tempi”, nel vero senso della parola, ragiono sul fatto che all’epoca le vicende da loro vissute lasciavano interdetti né più né meno delle vicende che viviamo noi oggi. Ho deciso di fermarmi a parlare con un giornalista famoso, richiesto all’epoca persino dal Corriere della Sera, dove ha svolto anche il ruolo di redattore capo, per lasciarlo, in seguito, e diventare un diplomatico, e chiudere in modo definitivo con il giornalismo. Non aveva alcun titolo di studio accademico per fare il diplomatico, tanto è vero che alcuni suoi colleghi si sono spinti a presentare un ricorso contro la nomina: ricorso rigettato dal ministero. Non è, però, di questo che vorrei parlare con Adolfo Rossi, nativo di Valdentro, oggi frazione di Lendinara in Veneto. Dopo aver letto alcune sue pagine, casualmente, sono rimasto colpito dello stile secco e moderno, quasi telegrafico. Lui sorride del mio apprezzamento e mi invita a mettermi comodo in poltrona. Iniziamo così la nostra conversazione, ricca di note gustose, perché a me sono sempre interessate “le storie”, quelle che ogni persona, anche la più comune, è capace di raccontare, facendo riemergere gli accadimenti di una vita. Parto da un fatto di cronaca, per capire se esiste un possibile parallelo con il nostro passato; questo perché i fatti quotidiani che leggiamo sui giornali, quando riaffiorano dalle esperienze raccontate direttamente dai protagonisti perdono la dimensione della cronaca per diventare “storia”. Alcuni fatti potrebbero rimanere noterelle, per l’appunto, ma servono se non altro a farne tesoro, a cogliere le costanti e le differenze con quanto noi stessi stiamo vivendo.

Parto, come ti dicevo, da un fatto di cronaca, quello dei lavoratori della domenica, tema delicato che riguarda milioni di persone, quelle che lavorano e quelle che solo di domenica hanno tempo e spirito giusto per andare a fare acquisti. Adolfo, ti chiedo di dirmi qualcosa sul riposo festivo: se ne parlava ai tuoi tempi? Ne hai scritto? 

Una delle cose che mi sorprese di più nell’America del Nord, paese che è considerato il più libero e più pratico del mondo, fu di veder conservate ancora negli statuti di alcuni Stati certe leggi puritane, quacchere, ridicole, odiose, medievali, che fanno a pugni con le idee e con le consuetudini moderne.

Alcuni articoli di quegli statuti di origine inglese, erano assolutamente contrari ad ogni principio di libertà, allo spirito medesimo della costituzione americana; eppure non furono aboliti. La maggior parte delle leggi più assurde caddero in disuso, ma non in tutti gli Stati. Gli articoli più strani erano quelli sul riposo della domenica. Gli articoli di questo codice erano a poco a poco caduti in disuso. Verso la fine del 1882, vi fu un risveglio di puritanismo, e col primo dicembre di quell’anno il codice penale di New-York venne rimesso in vigore in tutta la sua forza. Ciò significava che, alla festa, non si poteva comperar un sigaro, né un caffè; che tutte le botteghe dovevano esser chiuse; che qualunque lavoro era proibito; che per le strade non si vedevano né vetture, né omnibus, né carri dei tramways, né vagoni dell’Elevated.

L’Elevated è l’iconica High Line di Manhattan, la ferrovia sopraelevata nel Lower West Side di New York. Quindi erano sospesi persino i mezzi pubblici? Che esagerazione! Lontana da me, comunque, l’idea di contrapporre presente e passato, soprattutto laddove il passato sembra emergere sempre come migliore rispetto al presente. Non esiste contrapposizione, né paragone, perché cambiano i contesti e un discorso, in questi termini, è inammissibile. A me interessa soltanto ascoltare la tua esperienza: mi permette di conoscere qualcosa in più di cui prima non sapevo nulla. Parlami dell’esperienza che hai fatto in America, i ricordi di quell’ultimo triennio passato nell’isola di Manhattan su cui sorge New York.

Non dimenticherò mai la prima domenica che passai sotto la restaurazione di quel codice. Uscito di casa alle otto di mattina, secondo il solito, cercai coll’occhio, nelle vie deserte, un lustrascarpe. Soltanto dopo una mezz’ora scoprii, sulla soglia di una porta, un povero ragazzo irlandese col viso paonazzo, che, in attitudine sospetta, celava sotto la giacca la sua scatola di lustrascarpe. Mi accostai a quel povero ribelle e gli chiesi se aveva il coraggio di violare la legge. Si guardò intorno e non vedendo alcun policeman, s’inginocchiò mormorando: – Hurry up, boss! (Facciamo presto, principale!). – Che cosa pensi della nuova Sunday law? (la legge della domenica) – gli domandai. – Penso – rispose – che io sono un povero orfano e che devo mangiare anche alla domenica. Uno stivale era già lucidato alla bell’e meglio e il ragazzo s’accingeva a lustrare anche il secondo, quando comparve improvvisamente sulla cantonata un policeman, col suo bravo club (manganello corto) in mano. Io non potei trattenere una risata, ma il policeman si accostò con aria minacciosa e disse al ragazzo spaventato: – È la seconda volta che stamane ti colgo in contravvenzione. A casa subito: se ti vedo ancora, ti conduco alla Station House (stazione di polizia). – Lascerete almeno che finisca le mie scarpe! – osservai io. – No – interruppe severamente l’ufficiale di polizia. – Ringraziatemi se vi lascio andare per la vostra strada; osservate la legge!

La legge va sempre osservata, anche quando non è condivisa!

Con uno stivale lucido e l’altro no, andai verso la bottega del mio barbiere: era chiusa e sulla porta stava scritto tanto di closed. Mi avvicinai alle porte di parecchie altre; tutte chiuse egualmente. Mi rassegnavo a passar la festa con la barba da fare, quando bussando per l’ultima volta all’uscio della bottega di un barbiere tedesco vidi un occhio al buco di una tendina abbassata. Quando quell’occhio si convinse che non ero né un policeman, né un detective, una voce mormorò: – Entrate per la porticina laterale. Tre barbieri stavano radendo tre persone, cogli usci chiusi a chiave, silenziosamente. Parevano malfattori in atto di commettere qualche brutto delitto. Di lì a qualche minuto un policeman bussò, ma nessuno gli rispose. Soltanto il padrone bestemmiava fra i denti e diceva: – Ho cinque figli da mantenere, io. Senza il guadagno della domenica mattina, potrei chiudere durante il resto della settimana. Quella mattina un cittadino veniva arrestato ai Five Points mentre si faceva radere e condotto in questura con mezza barba fatta e l’altra guancia insaponata, insieme col barbiere.

Non credo che tutta la città fosse bloccata! Non mi dire: era bloccata!

Il direttore della sala dei concerti «Koster and Bial’s» che volle provare a dare una rappresentazione con un programma sul quale era scritto: – A beneficio dell’Ospedale tedesco – dovette pagare una cauzione di cinquecento dollari per non essere arrestato, e lo spettacolo venne interrotto. Lo stesso accadde all’Alcazar. Prima di mezzogiorno una cinquantina di persone si trovavano alla Corte di Polizia, accusate di violazione della legge domenicale. Nel sedicesimo distretto erano stati arrestati due lustrascarpe neri. Quattro barbieri sorpresi mentre lavoravano segretamente e condotti subito davanti al giudice, ebbero un bel dire che se non sgobbavano alla festa perdevano la maggior parte dei loro guadagni, e invano protestarono ricordando che perfino ai tempi della Santa Inquisizione fu fatta un’eccezione per il lavoro dei barbieri: dovettero pagare quattro dollari di multa per ciascuno.

Quattro dollari all’epoca erano una cifra. Sembra il soggetto di film comico. Se non me le raccontassi tu, queste storie, potrei pensarle come il prodotto della fantasia di uno sceneggiatore.

Un episodio buffo. A mezzogiorno un tedesco usciva con un canestro coperto sotto il braccio dalla porta laterale di una birreria di Houston Street. Essendo proibito di comperare alla domenica qualunque cosa, anche il pane, un policeman lo fermò e gli chiese: – Che cosa avete in quella cesta? Il tedesco, che aveva un boccale di birra, rispose prontamente: – Un gatto arrabbiato che vado ad annegare nel fiume. È anche questo un lavoro proibito dal codice?

Oggi sarebbe certamente proibito maltrattare un animale, altro che ucciderlo! Questa situazione si è protratta nel tempo?

Alla domenica successiva si rinnovarono le medesime scene. Non solo i saloons grandi e piccoli, ma anche i principali alberghi della metropoli vennero attentamente sorvegliati e alcuni di essi, come l’Astor House, sospesero totalmente la vendita delle bevande alcoliche, rifiutandole perfino agli ospiti dell’albergo. Nei vari quartieri della città si eseguirono più di cento arresti, per lo più di uomini e di ragazzi colti mentre uscivano dalle porte di servizio dei Lager Beer Saloons con qualche pinta di birra. Quelli fra i contravventori che vennero arrestati al mattino poterono pagare una cauzione e tornare a casa nello stesso giorno; ma coloro che si lasciarono prendere ad ora tarda dovettero passare la notte nelle Station Houses in attesa che la Corte di polizia si riunisse il giorno appresso. La terza domenica si ebbe un omicidio. Il policeman John W. Smith era stato mandato in giro, vestito in borghese, alla scoperta di qualche violatore della legge domenicale. Per la solita porticina laterale entrò nella birraria di un certo Patrick Reagan in Madison Street e, senza farsi conoscere, domandò un bicchiere di salsa pariglia che gli fu servito dal padrone stesso.

Scusami, se ti interrompo. La salsa pariglia è quella bevanda gassata che oggi chiamiamo “root beer”, cioè “birra di radice”? Era di bassa gradazione alcolica, per questo tanto in voga negli Stati Uniti ai tempi del proibizionismo. Nell’Ottocento era anche usata nella terapia della sifilide (il “mal francese”); più comunemente come diuretico o come rimedio anti-artritico. Prego, continua.

Poco dopo entrarono tre avventori i quali chiesero tre schooners (grandi boccali). Mentre Reagan spillava la birra da un barile, il policeman travestito si bagnò un dito sotto il rubinetto del barile stesso, e, portatolo alla bocca e assicuratosi che la bevanda versata era realmente birra dichiarò senz’altro il birraio in arresto. In prova della sua autorità gettò sul banco la placca metallica che è il distintivo degli addetti alla polizia. Reagan prese la placca e gliela scagliò sulla testa, dicendo che non si curava di tutte le spie della città: quindi, levando di sotto al banco una vecchia sciabola (il birraio apparteneva ad una di quelle associazioni militari che costituivano la guardia nazionale), si avventò contro il policeman. Questi lo prese di mira col revolver, fece fuoco e lo ferì mortalmente al petto. Reagan spirò poco dopo. Questo omicidio, accaduto per causa di una legge la cui applicazione richiedeva un odioso spionaggio, provocò un grido di protesta da parte del pubblico, e i giornali si misero alla testa dell’agitazione.

Assurdo! Come reagì la stampa?

– Invece della statua di Bartholdi nella baia – diceva il Puck – invece della Libertà che illumina il mondo, gli americani dovrebbero eternare la memoria del codice penale di New-York col seguente monumento. E disegnava il progetto di una statua della libertà incatenata, che sorgeva in mezzo a una strada, la quale, essendo domenica, era tutta deserta: soltanto davanti a ogni albergo, teatro, bottega di qualsiasi genere, stava ritto, col bastone in mano, un policeman. –

Dopo il clamore delle cronache l’opinione pubblica sollevò polemiche, tanto da modificare la legge?

Vennero i meetings e si formarono delle associazioni, le quali si proponevano di ottenere la abrogazione di tutti quegli articoli del codice che, col pretesto del rispetto della domenica, violano la libertà del commercio e sono una vera rovina. La questione fu portata alla Camera dei rappresentanti di Albany – la capitale dello Stato di New-York – e suscitò una vivace discussione, specialmente a proposito dell’articolo che proibisce le corse dei cavalli e gli esercizi ginnastici. Il signor Murphy suscitò una grande ilarità chiedendo che fosse eccettuata dalla proscrizione domenicale almeno la pesca alla canna. Ma tutto fu inutile: la maggior parte degli oratori fecero dei discorsi da predicatori, sulla utilità morale e igienica dell’assoluto riposo festivo, ed espressero una profonda indignazione contro qualunque tentativo di europeizzare la domenica nord-americana. Così il codice dello Stato di New-York rimase invariato: si tollera solo che, alla domenica, i cittadini si facciano lustrare le scarpe e radere la barba. Le porte principali delle birrerie e delle botteghe di liquori sono chiuse, ma si può entrare per la porticina di dietro. Ipocrisie grottesche. Quello che vidi a New-York in fatto di leggi domenicali è nulla in confronto di ciò che osservai a New-Haven nel Connecticut.

Dopo il caffè, Adolfo. Facciamo una pausa, prima di raccontarmi altre storie.

 

I mille condimenti della pasta: basilico o pomodoro

 

Il BASILICO

Nel libro Vera cucina genovese, pubblicato nel 1863, non poteva mancare un piatto di pesto. In esso è presente un piatto di pesto d’aglio e di basilico. La lavorazione è molto simile al pesto attuale: vi è una maggiore presenza di aglio e mancano i pinoli. Ma la presenza del pesto risale ad epoca medievale. Infatti, nel testo di Martino, già si ritrova una salsa verde per i maccheroni. Tra gli ingredienti base troviamo formaggio parmigiano, provola morbida e rucola tritata. Al tempo, questo piatto genovese serviva per condire “al magro le lasagne, i taglierini ed i gnocchi”. L’uso della salsa di pesto è fortemente regionale, quasi non si trovava fuori della Liguria. Tant’è che non è presente né nel libro di Artusi, né nel Diario della massaia, che lo segue. Pochi altri esempi in Italia, dove viene, però, denominato in altra maniera. Con il nome di pistou, era aggiunto ad una minestra francese.

IL POMODORO
La salsa di pomodoro è un’invenzione pressoché meridionale. Il pomodoro fu importato dalle Americhe (dal 1592), ma rimase misconosciuto ai cuochi italiani e spagnoli per lungo tempo, nonostante un botanico spagnolo avesse suggerito, da subito, il pomodoro proprio per i sughi. Essendo il meridione sotto il dominio spagnolo, fu da questi portato nel Sud italiano.
Il suo uso gastronomico è sottolineato, nel 1692, da Antonio latini, cuoco molto legato a Napoli. Latini stesso denomina le sue ricette al pomodoro come “alla spagnuola”. Nella sua opera, in due volumi, Latini propone, un’insalata di pomodori, appena grigliati sulla brace, unita ad un battuto di cipolla, timo e peperoncino, con l’aggiunta di un filo d’olio, aceto e sale.
A lui seguono, nel 1773, il libro del Cuoco galante e poi quello di Vincenzo Corrado, che prepara una dozzina di ricette a base di pomodoro. Praticamente di tutto: frittelle, crocchette, pomodori farciti con riso, tartufi o acciughe. Tuttavia, non è ancora lo sposalizio tra pasta e pomodoro. Questo almeno si desume dalla tradizione della cucina aristocratica.
A menzionare, per primo, l’abbinamento tra pasta e pomodoro è il francese Grimod de la Reynière nel libro Almanach des gourmands, pubblicato nel 1807, a cui, però, si preferisce quello tra riso e pomodoro. Più tardi ecco la prima ricetta di un timpano di vermicelli, riportata da Ippolito Cavalcanti, che tratta del sugo fatto con i pomodori.
Nel successivo Manuale del Cuoco e del Pasticcere, del 1832, di Vincenzo Agnoletti di Parma, si parla delle conserve di pomodoro, tanto in voga in quel periodo.
Nella Vera cuciniera genovese, si cita un sugo semplice di pomodoro. Nel Cuoco milanese, edito nel 1863, si parla di una salsa di tomates, mentre nella Vera cucina lombarda, finalmente, ecco la salsa di pomodoro per minestre. Siamo nel 1890.
Da Napoli, quindi, la pasta col pomodoro si diffonderà un po’ dovunque, in maniera radicale, nella seconda metà del XIX secolo. Ma sarà con Artusi che la pasta col pomodoro arriverà alla sua ufficialità. Artusi la cita, infatti, come variante dei maccheroni alla napoletana. Così, da quel momento, Napoli ed il sugo di pomodori saranno coppia di bontà e tradizione. Oggi ovunque nel mondo.

 

I mille condimenti della pasta: agrodolce o sughi in bianco

 

PASTA IN AGRODOLCE
Se attualmente la distinzione tra dolce e salato è molta, così non lo era nel Cinquecento, quando non esisteva il concetto stesso di dessert. Infatti, piatti dolci e salati venivano offerti indistintamente, spesso con abbinamenti agrodolci. Ad esempio, era utilizzata molto la cannella. In ogni caso, il Rinascimento, a livello gastronomico, si segnala per il grande uso dello zucchero. Cosa che si rileva anche nelle preparazioni di cuochi del periodo, come Scappi e Romoli.

SALSE E SUGHI IN BIANCO
Per creare delle salse per la pastasciutta non si è aspettato l’arrivo del pomodoro. Esisteva, ad esempio, la salsa di noci, presente in diverse regioni. Nel parmense, in particolare, per il pranzo di Natale, era tradizione offrire pasta condita con ricotta e noci. Ad essa si accoppiava una pasta, i pegai, sul tipo dei Maltagliati fatti a mano, con un impasto preparato con farina di grano e di castagne. Esisteva, nel XVI secolo, una agliata fatta una miscela di noci, pane ammollato nell’acqua tiepida, aglio e pepe, con un’ulteriore aggiunta di salsa di erbe aromatiche e mollica di pane. Nel testo di Guglielmino da Prato sono presentate parecchie ricette di pasta. Tra queste se ne evidenziano alcune, proprie della cucina piemontese. Infatti, la salsa per il condimento delle lasagne è realizzata con sangue fresco di lepre. Nel corso dei secoli, le ricette regionali si moltiplicano. Da testi del XIX secolo, si apprende il grande numero di salse, sughi e intingoli vari, assommatisi. Tra questi il Pesto ed i sughi di pomodoro, affollano il menù, caratterizzandolo.

 

I mille condimenti della pasta: il formaggio

 

Le modalità di preparazione di un buon piatto di pasta sono infinite come i condimenti con cui è presentata. Dal sugo di pomodoro, alle verdure, pesce e carne di vario tipo, spezie e tant’altro. Le varianti regionali, dai gusti più delicati, al nero di seppia, ai gusti più decisi o raffinati della preparazione dei migliori chef. Tutto concorre a dare alla pasta quell’originalità sempre nuova e diversa, che la contraddistingue.
La sua storia è anche quella dei suoi condimenti, popolari o aristocratici che siano. Si comincia con il formaggio, per passare ai sapori agrodolci, con zucchero e cannella aggiunti, la delicatezza del burro e della panna, poi la freschezza del basilico, per arrivare, infine, al gusto aspro del pomodoro, tanto disprezzato e così popolare. Mille sono le ricette come mille sono i suoi colori.

IL FORMAGGIO
Il primo dei condimenti della pasta nel medioevo fu il formaggio. L’abbinamento era talmente scontato, che nell’immaginario paese di Bengodi vi era una montagna fatta tutta da maccheroni e ravioli, appena scolati, ricoperti da abbondante parmigiano grattugiato. La coppia pasta e formaggio, appare, comunque, per la prima volta, nel 1284, in uno scritto di Salimbene da Parma, che narra di un certo Giovanni da Ravenna, mangiatore di lasagne spruzzate di formaggio grattugiato. Il piatto rientra pure tra le ricette presenti nel primo celebre libro di cucina del medioevo, intitolato “Liber de coquina”. La portata, inoltre, veniva ulteriormente insaporita dall’aggiunta di varie spezie, secondo i gusti, com’era uso nel medioevo.
Nel Cinquecento, l’insieme, pasta e formaggio, viene nelle Corti reso più dolce con lo zucchero. Contemporaneamente nelle locande si serve la pasta con formaggio, cannella e pepe (da una descrizione di padre Labat). Successivamente, a Casanova, prigioniero nel carcere di Venezia, viene servito un piatto di pasta, formaggio e burro. La stessa ricetta veniva servita, nel ‘700, a Napoli, dove, però, il burro veniva sostituito con strutto di maiale, sotto forma di minestra. L’abbinamento è lodato, inoltre, da Grimod de la Reynière, che scrive: ”Da questa attrazione risulta una Minestra davvero gradevole”.
Spesso, al parmigiano veniva sostituito il caciocavallo grattugiato. Nel secolo seguente, poco dopo l’Unità d’Italia, nel mezzogiorno, è confermato l’utilizzo di caciocavallo, per la popolazione più umile (riportato da David Silvagni). Con l’apparire, invece, delle classi piccolo borghesi, sulle tavole delle famiglie benestanti, vengono introdotte salse nel consumo della pasta. Le nuove abitudini differiscono da quelle delle classi aristocratiche.

 

Si afferma in Italia la cottura “al dente” della pasta

 

Fino alla metà del XIX secolo, per la pasta si prosegue con una cottura in acqua e una stufatura. Cambiando, però, gli stili, si ottengono più pareri. I francesi iniziano a criticare la cottura all’italiana, ritenuta insufficiente, mentre in Francia la pasta continua ad essere stracotta. Dall’altro lato vi è la cottura alla napoletana, più “vierd”, cioè non eccessiva. A Napoli, infatti, prevale il gusto dei “maccaronari”, cioè di quei popolani che vendevano per le strade pasta calda e fumante, per poche lire. A qualsiasi ora del giorno poteva essere chiesto un piatto di pasta. In ore particolari, affollate di molta gente, per servire tutti, la cottura doveva essere la più veloce possibile. Il maccaronaro tendeva, quindi, ad abbreviare i tempi di cottura e di servizio. Ne usciva una pasta in tutta la sua freschezza, soda e con nerbo.
Il gusto di questi maccheronari viene assunto dalle classi borghesi. A fare la differenza è la qualità del prodotto, preparato con semola di grano duro e ben lavorato ed essiccato.

Le classi nobili erano abituate alla consumazione di pasta fresca, dal gusto morbido e raffinato, fatto di minestre, creme e salse speciali. Il popolo, invece, guardava alla sostanza. La società napoletana mutuò l’uso delle cotture brevi. Difatti, se da una parte Latini non approfondisce la problematica della cottura, più tardi, al contrario nel 1839 Ippolito Cavalcanti sul suo testo de Cucina teorico-pratica, consiglierà una cottura veloce della pasta. All’unificazione italiana, la maniera napoletana si diffuse in tutto il paese, finché, in una pubblicazione divenuta la Bibbia della gastronomia, Artusi editerà il suo famoso libro di cucina, dove confermerà la maniera di cuocere la pasta in tempi brevi, lasciandola “crudetta”.