Lungo i binari della cultura

 

FERROVIE DELLO STATO. Se dovete oltrepassare lo Stretto non ci contate, prendete un Pullman. Ma se volete vedere i luoghi della cultura siciliana affidatevi alla Fondazione FS, che in collaborazione con Trenitalia e Regione Siciliana, vara il progetto “I binari della Cultura. Sicilia Estate 2016, itinerari turistici in treno storico”. Treno storico significa: come riciclare quanto giaceva in magazzino. Diciotto treni d’epoca consentiranno di visitare i fiori all’occhiello della Sicilia Orientale. Con la “Centoporte”, carrozze degli anni ‘30, trainate da una locomotiva diesel d’epoca D445 si scoprirà il Val di Noto, culla del Patrimonio Unesco. Con le vecchie automotrici ALn 668.1600 raggiungerete la Valle dei Templi, il Giardino della Kolymbethra, Porto Empedocle. Con le carrozze tipo 1959 trainate dalla locomotiva storica E646, costeggiando lo Jonio tra mare ed Etna sarete a Taormina. Viaggi volutamente lenti, per apprezzare incantevoli paesaggi che i secoli hanno lasciato. Ecco come organizzare un’estate solamente riciclando. “Absit iniuria verbo”, sia detto cioè senza offesa, se uso il termine riciclare. Perché oltre ai treni si potrebbero riciclare anche le idee. In questi stessi mesi, dalla stazione parigina di Saint-Lazare potete prendere il “Treno degli impressionisti”. La sede di partenza ricorda i dipinti di Monet e da qui si può raggiungere Giverny-Vernon, oppure Rouen o Le Havre. All’interno delle carrozze sono collocati pannelli descrittivi, viaggiando verso la Normandia di Pissarro, Degas, Renoir. Se avete tablet o smartphone, grazie a hotspot Wi-Fi e codici QR, accedete ai siti web, per arricchire le conoscenze prima di visitare i luoghi dal vivo. «Nous sommes ici. Bon voyage».

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Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 2/3

di Sergio Bertolami

Dovremmo utilizzare il tempo come una vera risorsa; ma a differenza di altre, il tempo è la risorsa che sappiamo meno gestire. Proverò a chiarirlo, ricorrendo ad una serie di insegnamenti che teorici contemporanei hanno elaborato. Non sono risolutivi, soprattutto se non siamo inclini a condividerne i principi di fondo, per poi applicarli ai contesti più vari e articolati.

Una risorsa, nei momenti di necessità, fornisce un aiuto. Il tempo è indubbiamente una risorsa “preziosa”, ne abbiamo coscienza quando ci manca. È anche una risorsa “diffusa e democratica”: per tutti, ricchi o poveri, una giornata vale sempre 24 ore del nostro tempo. Per questo motivo è anche una risorsa “necessaria”, lo è sempre, qualunque cosa si faccia. Ma occorre fare attenzione: il tempo va usufruito subito, non possiamo immagazzinarlo, perché è una risorsa “deperibile”; risparmialo oggi non significa poterlo accumulare per adoperarlo domani. Ed è “infungibile”, perché non è una risorsa intercambiabile con altre risorse: può essere sostituito solo da altro tempo. Possiamo utilizzare tecnologie per risparmiare tempo o ricorrere al tempo degli altri per farci aiutare; ma non possiamo acquisire esperienze e saperi se non impegnando il nostro tempo personale in modo diretto. Allora, ci accorgiamo che il tempo è anche una risorsa “limitata”, non basta mai.

Tuttavia, per quanto il tempo sia ristretto, riusciamo a consumarlo senza accorgerci. La legge di Parkinson postula che «il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo a disposizione per completarlo… più tempo a disposizione si avrà, più se ne sprecherà». Un esempio? Un vecchio proverbio diceva: «L’uomo più occupato è quello che ha tempo da perdere». Da questo è possibile comprendere come la gestione del tempo quotidiano sia anzitutto una questione di cultura più che di tecnica. Un’agenda elettronica che notifica un appuntamento va programmata: ciò significa prendere coscienza di come si è deciso d’impiegare il tempo. Quando, poi, l’avviso compare sul monitor, spesso ci rendiamo conto di essere “fuori tempo” e dovere rinviare l’impegno. Ecco allora che siamo portati a giustificare di essere sommersi da mille cose, magari insorte in modo inaspettato, magari da adempiere per una parola data, magari sapendo che sono cose perfettamente inutili ma non abbiamo saputo rispondere di no.

La città ideale del Rinascimento

 

PROSPETTIVE.

Di solito gli ideali non vanno d’accordo con la realtà, anche se molti ci hanno provato. Si dice: è solo un’utopia. Questo valeva anche per il concetto di “Città ideale” ideato nel Cinquecento. Nelle Corti, infatti, fu molto discusso, disegnato e dipinto, ma poco fu realizzato. Pura e semplice fantasia? Se pensiamo, però, che la realtà che viviamo oggi, sarebbe stata considerata un’utopia in epoca rinascimentale, nasce spontanea una riflessione: con il tempo, anche le utopie si potrebbero realizzare davvero. È solo una questione di perseveranza storica (di fantasia e creatività).

 

Il Tema
Il vero dibattito sul rapporto tra urbanistica del tempo e l’utopia di una città ideale, lo registriamo in periodo umanistico e rinascimentale. Molte furono le realizzazioni architettoniche ispirate al concetto teorico da parte degli architetti ed artisti dell’epoca, ma pochissime furono le realizzazioni concrete. In linea teorica l’utopia della città ideale si legò ad altre tematiche molto dibattute: la centralità dell’uomo nella natura, la riscoperta della cultura e dell’arte greco-romana, l’imitazione dell’arte classica. Ritroviamo quest’ultima negli studi di Vitruvio (nel famoso De architectura) e nelle ricerche dell’Accademia della Virtù (a cui partecipò anche il Vignola e Claudio Tolomei). Nell’Accademia si svilupparono tematiche rilevanti, come l’organizzazione prospettica, che trattava i fondamenti della teoria delle proporzioni e della misura architettonica.

Il rilancio umanistico della città, come ambiente distinto dalla natura, in diretto rapporto con la dignità e l’agire dell’uomo, messo quest’ultimo al centro dell’indagine filosofica, apre tutta la stagione rinascimentale. L’artificialità dello spazio urbano (ben diverso dalla natura), inteso come spazio dell’opera e dell’esperienza umana, lo rese passibile d’astrazione idealistica, fino ad oggettualizzarlo in una visione utopistica. Le città-stato dell’Umanesimo, che poi sono le “città del principe”, contengono in sé funzionalità ed estetica. Le diverse arti e l’immagine del signore coincidono complessivamente nell’immagine cittadina. Non come somma di interventi singoli dei cittadini, ma in un unico rapporto urbano.

Il concetto di  città-stato corrisponde con quello di comunità civica, quindi simbolo della vita associata che vi si svolge. Da qui l’astrattezza dell’architettura diviene ideale o idealizzabile. Perciò, amministrate politicamente da signorie cittadine (e dalla comunità locale) tali città possedevano tutta la novità e la rappresentatività di un unico concetto di città idealizzabile. Per rappresentare la propria immagine, il sogno dei principi passò, quindi, dal castello o dal palazzo, a quello di una intera città, tale da divenire funzionalmente ed esteticamente perfetta. Così la città ideale aveva come finalità architettonica l’equilibrio, l’ordine, la funzionalità e la razionalità formale, che potesse essere rappresentazione e traduzione concreta della perfezione della guida politica del principe.

Tali aspirazioni, nel XV secolo, portarono, oltre alla progettazione di nuove città, anche all’apertura di nuove prospettive nella città, al suo ampliamento, alla sua trasformazione, e nella maggior parte dei casi al semplice abbellimento. Nel XVI secolo le forti tensioni politiche e militari in tutta Europa, portarono ad irrobustire le proprie difese. Nacquero castelli dalla geometria perfetta (come quella idealizzata), che finirono per trasformare i centri urbani secondo linee e direttrici più regolari. Tuttavia, nell’urgenza militare, alcuni signori diedero vita a città o cittadelle militari. Ne è un esempio la città-fortezza di Terra del Sole, costruita al termine del Cinquecento, per decisione di Cosimo I de’ Medici. In particolare, tra le città-fortezza ben si colloca il castello a forma di stella e l’abitato di Palmanova.

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Eravamo a cavallo… ora siamo a mare

 

L’ARCHEOLOGIA NAVALE fa “nuove scoperte” e mette a tacere persino Virgilio, il quale, nel II libro dell’Eneide, narra dell’esule Enea, che descrive alla regina Didone lo stratagemma messo in atto dagli Achei per concludere i dieci anni di guerra con Troia. Fingendo di tornare in patria, lasciano sulla spiaggia, quale dono agli dei, un colossale cavallo di legno costruito da Epeo con l’aiuto di Atena, e si nascondono nella vicina isola di Tenedo. È pura leggenda, legata a un mito tramandato attraverso resoconti orali. Ma una disputa di lunga durata asserisce che tale versione dei fatti, nata intorno al VII secolo a.C., sarebbe errata. L’ultimo a intervenire, in ordine di tempo, è l’archeologo Francesco Tiboni, ricercatore dell’Università di Aix-en-Provence e Marsiglia. Sostiene che sarebbe frutto della traduzione inesatta del termine “hippos” con “equus” (cavallo). In realtà, l’epica macchina, adoperata dai greci per espugnare Troia, era una particolare nave di origine fenicia con la polena a testa di cavallo e per questo denominata “hippos”. «Che quello realizzato da Epeo fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi un’assoluta dabbenaggine. Tuttavia, la leggenda ci dice che è un cavallo» (Pausania). Ce lo siamo domandati un po’ tutti come mai questi troiani si siano portati dentro casa il nemico. Ora il dubbio si accresce. Perché Tiboni dovrebbe spiegare, per quale ragione una nave dovesse essere trascinata a braccia oltre la cinta muraria, anziché i cittadini riversarsi a mare per festeggiare il dono rinvenuto. L’archeologia navale non dovrebbe esibire reperti ripescati, anziché ripescare libere interpretazioni lessicali?

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Il tempo. Come guadagnarlo piuttosto che sprecarlo – 1/3

Kairòs, copia ispirata al bronzo di Lisippo
e conservata nel Museo di Antichità di Torino

di Sergio Bertolami

In queste poche righe proverò a parlare del tempo, non certo per dare una risposta ad un tema filosofico universale, quanto piuttosto per riflettere su come più opportunamente potremmo impiegarlo nel quotidiano. Per questo comincerei con la fatidica domanda: «Che cos’è il tempo?». Nelle Confessioni, Agostino d’Ippona così risponde «Quando nessuno me lo chiede, lo so, ma, se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so più». Agostino concentra le sue considerazioni proprio sul vivere una realtà di per se dinamica, perché, dice, «tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell’animo, né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l’attesa». Il tempo è, dunque, un’estensione del tutto umana; concepibile solo all’interno della volontà creatrice di Dio, che a differenza nostra non ha né un “prima” né un “dopo”, ma è eterno. Mentre il tempo che ha principio e fine è una sua creatura ma sta a noi gestirlo. A noi che è dato da vivere, dall’alfa all’omega.

In questi passaggi di riflessione è racchiusa una concezione del tempo che la classicità grecoromana aveva già esplorato, legandola oltretutto alla divinità, come indica Agostino. Per meglio dire, a una poliedricità del divino. Per i greci, Aion rappresenta il tempo infinito dell’eternità; Kronos il tempo sequenziale del passato/presente/futuro. I romani doppiano i greci con Eone e Saturno. Ciò che dell’antichità meraviglia è la profondità che non riusciamo più a percepire, indotti a intendere i protagonisti della mitologia come figurine distanti da noi e spesso risibili. Sono in realtà allegorie, attraverso cui rendere tangibili concetti spesso oscuri. Concetti che al contrario andrebbero approfonditi e spiegati. Se ci riferiamo, per esempio, a un famoso epigramma di Posidippo, ci accorgeremmo che un terzo dio soprassedeva il tempo, oltre ad Aion e Kronos. Lo rappresenta Lisippo nel IV secolo in un bassorilievo in bronzo [nell’immagine una copia in marmo]. Si tratta di Kairòs, divinizzazione  di un concetto centrale nel pensiero greco: il tempo  opportuno e conveniente, il momento propizio. La personificazione romana è declinata al femminile: Occasio, e la divinità antitetica si chiama Pœnitentia, poiché persa la buona occasione, l’opportunità favorevole, non rimane che subirne la conseguente penitenza.

Kairòs ed Occasio sono ambedue numi difficili da riconoscere. Hanno piedi alati, il volto coperto da un folto ciuffo sulla fronte e il capo così raso da rendere impossibile afferrarli dal retro per i capelli una volta sfuggiti. L’immagine allegorica dimostra che, perso il momento propizio, non potremo che rammaricarci. È possibile, però, rimediare, sapendone trarre un’esperienza e capacitarci che le opportunità vanno colte immediatamente. Per farlo occorre riflettere che, se nel passato il tempo era considerato influente in quanto scandito dai ritmi naturali (la notte e il giorno, l’estate e l’inverno, la semina e il raccolto), nel vivere odierno è divenuto imprescindibile.

La Casa d’Arte di Depero

 

PROSPETTIVE.

Alla fine dell’Ottocento i musei, le gallerie e i collezionisti americani iniziarono ad acquistare opere in Europa, mettendo fine a quello che era stato il vecchio rapporto artista-committente. Era nato il moderno mercato dell’arte. Gli artisti del futurismo, corrente modernista, cavalcarono il rinnovamento nel corso del Novecento. Arte, pubblicità e design industriale erano il loro pane quotidiano, inseriti a tutti gli effetti in un mondo nuovo che si annunciava. Depero, artista futurista, diede vita ad una personale casa d’arte a Rovereto, museo e portfolio insieme delle sue opere. Ma non si fermò qui: diede vita ad una seconda casa d’arte, stavolta a New York, dimostrando d’essere perfettamente inserito nello spirito dei tempi, ma soprattutto in un nuovo mercato globale. Era all’avanguardia anche sotto questo aspetto. Perciò, onore al merito!

Il Tema

Possiamo trovare un museo sul futurismo a Rovereto (Trento), grazie ad una fortunata intuizione dell’artista stesso: il laboratorio di Fortunato Depero. Egli ideò la sua “Casa” laddove abitava. Vi lavorava con la sua famiglia. Era nel contempo ufficio e piccolo museo, dove esporre le opere che via via andava creando. La Casa museo, venne ideata da Depero nel 1919, ma si completò realmente solo nel 1959 a Rovereto, quando venne inaugurata come “Galleria Museo Fortunato Depero”. La sede è un palazzo storico del medioevo, già banco dei pegni. La Casa fa parte di un’ampia progettazione curata dallo stesso artista, che comprende schizzi su arredamenti, decorazioni e rivestimenti. Dopo la sua morte (avvenuta nel 1960), la struttura venne ultimata grazie alla raccolta di opere documentarie e d’arte in essa conservate .

La Casa d’Arte di Depero, come unico museo futurista in Italia, fa parte del polo museale del Mart di Trento e Rovereto dal 1969, anno di apertura di questo museo progettato dall’architetto ticinese Mario Botta. Successivamente la Casa Depero è stata oggetto di un attento restauro, su progetto dell’architetto Renato Rizzi, All’inizio del 2009, in occasione del centenario della nascita del futurismo, il museo ha riaperto al pubblico. Da allora nella struttura si sono svolte diverse mostre, sempre incentrate sul futurismo. Ad esempio, essendo Depero attento innovatore in diversi settori dell’attività produttiva, si è svolta nella Casa una manifestazione che partendo dal “cane a sei zampe”, da sempre logo dell’Eni, ha sviluppato temi incentrati sul design, le arti applicate e la grafica pubblicitaria futurista. Nella stessa struttura molteplici sono le mostre allestite sui variegati aspetti della corrente artistica futurista.

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Christo cammina sulle acque

 

LA PASSERELLA di tessuto giallo sul lago d’Iseo, serve alla “full immersion” degli iniziati, coinvolti emotivamente nell’installazione temporanea di Land Art ideata da Christo. Ma non solo. “The floating piers”, cioè i pontili galleggianti, servono anche come “passerella” alle rockstar della critica d’arte nostrana, perché basta dire il contrario per tenere viva l’attenzione anche su di loro. Philippe D’Averio paragona l’opera all’attrazione della donna cannone, dal momento che in questa sagra di paese «avranno successo solo gli ambulanti di bibite e panini». Vittorio Sgargi, “vox clamantis in deserto”, la definisce come «il desiderio solipsistico di un artista, una passerella verso il nulla». Al contrario, avrebbe potuto stabilire un collegamento con i centri vicini, che preservano monumenti, chiese, siti archeologici, mete di un percorso delle meraviglie, del tutto immersi nel disinteresse e nell’oblio. Christo, isolato dal rumore molesto, risponde con distacco: «Non faccio questi interventi site-specific per essere popolare. Questa è arte non necessaria, che spesso importuna gli amanti dell’arte che preferiscono luoghi asettici o protettivi come le gallerie o i musei. Prendo in prestito uno spazio, creando un “disturbo gentile” e intrecciando la vita delle persone all’opera d’arte». Le rockstar non hanno compreso che gestire la promozione dei luoghi spetta agli organizzatori. Non all’artista. Lui, invece, stimola il desiderio di camminare – quasi involontariamente, meglio se a piedi scalzi – per abbandonarsi al sole, all’umidità del lago, alla pioggia o al vento. «Qui non si è persi dentro una realtà virtuale, non c’è la riproduzione di un’immagine appiattita». Silenzio, “please”.

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Depero e l’espressione futurista

 

PROSPETTIVE.

Il simbolo del genio e della creatività è, senz’altro, Leonardo da Vinci. Ma vi sono stati altri esempi di straripante genialità, anche abbastanza recentemente. Tra questi, a modo suo, possiamo citare Fortunato Depero, artista futurista. Creò di tutto e fu un esempio del moderno designer.

L’approccio futurista ci ha sempre colpito per la somiglianza col rinnovamento tecnologico, che andiamo vivendo oggi. L’invenzione dell’ascensore, ad esempio, permise la creazione dei grattacieli, che rendevano possibile, a loro volta, la visione di una nuova città, sia architettonicamente, che urbanisticamente. Cambiava la città con il contemporaneo arrivo di una nuova società e nuove abitudini di vita. Vi sembra poco?

 

Il Tema

Fortunato Depero, fu un artista futurista tra gli altri, che pure furono numerosi, come Boccioni, Giacomo Balla, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici, Gino Severini. Tuttavia, Depero emerge storicamente, per aver lasciato ai posteri due Case d’arte, a Rovereto (Trento) e a New York, in cui ritroviamo composizioni varie, investendo espressioni artistiche che variano dagli oggetti, alla pubblicità e ai manifesti. L’opera di Depero, infatti, si svolse con un’ottica a 360 gradi, investendo campi diversissimi tra loro, nell’aspirazione visionaria di immaginare (e creare) il mondo del futuro, appunto futurista. Come per oggi, il loro riferimento era la nuova tecnologia di allora, quale l’invenzione della macchina, la motocicletta, l’aereo o l’ascensore.

Fortunato Depero fu definito “pittore, scultore e pubblicitario”, ma si dedicò a creare l’impensabile, con una vera visione totale. Ebbe come committenti molte aziende produttive leader italiane. Questa grande esuberanza artistica dava vita a disegni, manufatti, stoffe e occasioni pubblicitarie. Tant’è che, nel 1957, Depero stesso creò la Casa d’arte a Rovereto, denominata “la Casa del mago”, dove erano esposte le sue composizioni, come in un museo, ma che conteneva, contemporaneamente, il proprio laboratorio, dove lavorava l’intera famiglia. Desiderio dell’artista non era solo quello di esprimersi, ma di creare oggetti d’impatto sulla società: sia belli, ma soprattutto utili. Un vero designer moderno.

In seguito, nel 1928, lui e la moglie replicarono la Casa di Rovereto, aprendo, a New York, la “Deperòs Futurist House”, una specie di filiale, che operava sul mercato americano.

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Di capre ce ne sono tante

 

LA COSTITUZIONE E LA BELLEZZA. Non è solo il titolo di un libro, ma l’intrinseco programma della nostra Carta Costituzionale. I due autori, Michele Ainis e Vittorio Sgarbi, hanno il merito di averlo messo in evidenza in sedici capitoli: dodici per quanti sono i princìpi fondamentali e quattro correlati ai titoli in cui si articola la prima parte della Costituzione. «La Carta italiana è una sorgente di bellezza, oltre che la prima fonte del diritto», dichiara Ainis. «L’Italia è il paese più bello del mondo. Non può non avere la bellezza come elemento costituzionale», fa eco Sgarbi. Occorrerebbe chiedersi quanto gli italiani siano consapevoli della bellezza di un paesaggio antropizzato da secoli di cultura. Non il FAI o la Lega Ambiente, perché è scontata una risposta positiva. Mi piacerebbe credere che le folle alle presentazioni del libro ne siano consapevoli, ma la foto postata dallo stesso Sgarbi su Facebook, del “Grande Cretto” di Burri a Gibellina sormontato da pale eoliche, pone il dubbio. I libri servono, però, a chiarire ciò che prima non aveva neppure sfiorato l’intelletto di qualche amministratore sprovveduto. Non credo ai libri edificanti e questo non lo è senz’altro, perché permetterà a molti di rapportare articoli costituzionali e riferimenti d’Arte. Come l’art. 1, «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», associato al Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, espressione di un popolo che, tramite il lavoro, «acquisisce cittadinanza e diventa portatore di democrazia». Ha ragione Ainis: occorre far capire quanto il nostro destino futuro sia legato a quel passato che ci ha resi ricchi di genialità, arte e gusto estetico. Ma di “capre” ce ne sono tante, potrebbe dire Sgarbi.

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L’Art Nouveau e Mucha

PROSPETTIVE.

All’inizio del secolo scorso, erano già esistenti alcune correnti artistiche, diverse tra loro per contenuti ed ispirazione, quali il Futurismo e l’Art Nouveau. Ma mentre il Futurismo non è sempre bene accetto a tutti, non abbiamo mai incontrato qualcuno a cui non piaccia l’Art Nouveau. Fu, tuttavia, presente nel panorama dell’arte nuova come una cometa veloce, intensa ma temporanea. Si spense nel giro di un paio di decenni.

Il Tema
La Belle Époque fu incoronata dall’Art Nouveau. Dolce e sensuale. I disegni pubblicitari dell’artista ceco Alfons Mucha (1860-1939), protagonista tra i massimi della corrente di inizio Novecento, sono stati in passato anche oggetto di varie mostre, attestazione dei contenuti artistici di questo stile “moderno”.

Le grandi città europee, tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento, tra macchine e fiori, s’ingentiliscono. Le linee diventano flessuose e morbide, appaiono dolci e luminosi volti di fanciulle, la decorazione prende forma vegetale. Compaiono rose, narcisi, ninfee, pavoni e farfalle. Il tutto fluttuante nello spazio pubblicitario, nei manifesti e nelle riviste. In Italia lo stile Art Nouveau prende il nome di Stile Floreale o Liberty. Quest’ultimo termine ha origine da Arthur Liberty, commerciante britannico, che tra i prodotti dei suoi Grandi Magazzini di Londra vende oggetti d’arte di questa nuova corrente, così diversa da tutte le altre.

Contemporaneo del Liberty è anche il Movimento futurista, che anziché ispirarsi alla natura, si rifà al concetto di macchina e di velocità. È uno stile forte, duro e “maschile”, mentre il Liberty potrebbe essere definito “femminile”. Sono quindi stili contrapposti. Ambedue, però, utilizzano l’asimmetria della composizione grafica. È il segno dei nuovi tempi che si annunciano.

Alfons Mucha, artista Art Nouveau, viaggia in Italia, prima a Milano, poi a Genova. Nel suo passaggio lascia traccia di sé. Natura, trasparenze, presenze femminili botticelliane, sono alla base dell’arte di Mucha; sono il “marchio di fabbrica” che caratterizza ogni sua opera. Ma non è solo grande intelligenza grafica. Unitamente, ecco la malinconia, il lirismo di una interpretazione poetica. Se il Futurismo è forza, velocità, la macchina su tutto che apre nuovi scenari, Mucha si rifà, invece, alla Danza, alla Musica e alla Pittura, forse ispirato dalle composizioni dei Preraffaelliti.

Le ragazze di Mucha sono ben vestite, ma spesso anche velate e sensuali. Angeli e contemporaneamente “femmes fatales”. Moderne ninfe, licenziose ed ammiccanti, trasformano un prodotto nel desiderio di comprarlo e provarlo. Pubblicizzano lo Champagne Ruinart, le Bières de la Meuse, i biscotti Lefèvre-Utile e le sigarette Job. Questi sono soli alcuni dei prodotti presentati servendosi della sua opera geniale e raffinata. I suoi disegni sono così originali da oscurare lo stesso prodotto offerto.

Le numerosissime composizioni e applicazioni di Mucha, tra disegni, realizzazioni grafiche, litografie a colori, poster e illustrazioni, ma anche maioliche, gioielli e oggetti d’ogni tipo, fino ai Vasi Daum e Gallé, declinano ampiamente tutta la sua creatività, in vari temi e utilizzi.

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