John J. Rawlings – Tassello a espansione, 1919

Tutti conoscono i tasselli ad espansione, ma difficilmente immaginano che il prodotto industriale oggi utilizzato sia nato alla vigilia della Prima guerra mondiale per risolvere alcuni problemi riguardanti il British Museum. L’ideatore fu John Joseph Rawlings, un ingegnere britannico, che ha inventato questo funzionale sistema di fissaggio intorno al 1910-1911, che ne ha registrato un brevetto col nome Rawlplug nel 1912, che infine gli è stato riconosciuto nel 1913. Grazie al successo ottenuto, nel 1919 l’azienda, in precedenza nota come Rawlings Brothers, è stata ribattezzata Rawlplug Ltd.

John Joseph Rawlings e una pagina del suo brevetto

Per raccontare brevemente la storia di questo particolare prodotto di design, facciamo un passo indietro, al 1887, quando la Rawlings Brothers iniziò a Londra la propria attività come una piccola ditta di impianti idraulici stabilitasi in Richmond Road, South Kensington. Man mano che l’azienda cresceva i fratelli Rawlings ampliavano la propria offerta di servizi in rapporto alle mutevoli esigenze tecnologiche e alle richieste di mercato. Gli impianti elettrici vennero eseguiti a partire dai primi anni del 1890 e nel 1910 il repertorio si ampliò. L’azienda, trasferitasi nel frattempo in Gloucester Road, si interessava ormai non solo di opere elettriche, idrauliche e sanitarie, ma anche dei lavori di ingegneria, di costruzione e di decorazione degli stabili.

La narrazione vuole che nello stesso anno 1910, uno dei fratelli, John Joseph Rawlings, ingegnere edile, fosse incaricato dal British Museum di intervenire sugli impianti elettrici del museo, ma in modo discreto. Così racconta l’azienda stessa: «Il British Museum si stava preparando per una profonda ristrutturazione dell’intero edificio. A seguito dell’innovazione contemporanea, il Museo necessitava di un impianto elettrico da installare sulla facciata, in modo tale da essere celato allo sguardo dei visitatori ed evitare di danneggiare l’estetica della muratura esistente. Uno dopo l’altro, i successivi appaltatori si ritirarono dal lavoro. Tutti tranne uno, il proprietario di una piccola impresa elettrica ed edile, The Rawlings Brothers, operante sul mercato dal 1887, specializzata in impianti idraulici, lavori di riparazione e ristrutturazione edilizia». Questo appaltatore era John Joseph Rawlings, un imprenditore, un inventore e un visionario.

I responsabili della direzione museale chiedevano di inserire le viti nelle pareti, cercando di limitare al minimo i danni alle murature. Fino ad allora, agganciare qualcosa su pareti solide – non semplici tramezzi interni di legno e gesso – era un lavoro impegnativo. Richiedeva di praticare con lo scalpello un foro quadrato, bucando intonaco e muratura, per inserire al suo interno un dado di legno su cui fissare le viti o i chiodi necessari all’opera. Il risultato era sgradevole e confuso, perché in breve tempo le superfici intonacate si riducevano ad una miriade di buchi riempiti di tappi di legno. John Rawlings pensò bene che dovesse esserci un modo migliore, più semplice e più ordinato per intervenire con minor danno alle pareti.

I cilindri ad espansione in fibra grezza di iuta o canapa

La soluzione fu un piccolo cilindro in fibra grezza di iuta o canapa tenuto insieme da colla, somigliante ad un piccolo sigaro, lungo quanto la sezione filettata della vite, che sarebbe stata inserita in un piccolo foro lasciato al centro del tassello. L’operazione di fissaggio era quanto mai semplice e pratica. Dapprima si realizzava nel muro un foro pulito e “invisibile”, dello stesso diametro del tassello, utilizzando un trapano a mano. Il tassello era poi inserito nel foro e picchiettato all’interno del muro. Dopodiché si stringeva la vite nel tassello, facendolo allargare e assicurando così una perfetta tenuta per l’attrito contro le pareti del foro. L’idea di Rawlings era che “espansione significa presa”, dal momento che il tappo era pensato per adattarsi perfettamente al contorno approssimativo del foro murario non occupato dalla vite, ammorsandola alla parete.

Disegni del brevetto del 1911

La sua idea funzionò perfettamente, benché questa sorta di zeppa tessile fosse minuscola e molto più piccola dei dadi rigidi in legno tradizionali da inserire a parete, risultò comunque il più efficace elemento di fissaggio che si fosse mai visto. Come già detto, l’affermazione dell’innovativo sistema di fissaggio indusse Rawlings a depositare il brevetto nel 1911 (22680/11) col nome di Rawlplug (dove “Rawl” faceva riferimento a Rawlings e “plug” significa spina). Era nato il “tassello a espansione”. Il brevetto fu concesso il 14 gennaio 1913. Avrebbe dovuto durare 14 anni, ovvero fino al 1927, ma venne prolungato per altri quattro, fino al 1931, probabilmente per compensare l’interruzione dovuta alla Prima guerra mondiale. Un altro brevetto, nondimeno, può essere associato a quello di Rawlings: nel 1914, infatti, a inizio della Grande Guerra, la Black and Decker brevettò il primo trapano elettrico al mondo con impugnatura a pistola. Il nuovo e funzionale strumento velocizzò e semplificò al massimo le operazioni di foratura e il tassello ad espansione giocò la sua parte nel fissaggio.

Varie confezioni del prodotto vendute nel corso degli anni

Per una migliore produzione e commercializzazione del prodotto, nel 1919 i fratelli Rawlings cambiarono l’assetto dell’azienda, che da allora prese il nome di The Rawlplug Company Ltd., che operava ora da Gloucester House in Cromwell Road, mentre la parte produttiva si svolgeva nella fabbrica di Lenthall Place. Gloucester House fu ribattezzata Rawlplug House intorno al 1925 e rimase tale fino al 1965 circa. Gran parte del successo iniziale (1922-1945) è stato attribuito a massicce campagne pubblicitarie, con inserzioni a tutta pagina sui giornali nazionali. Si aggiunsero ampie partecipazioni alle esposizioni annuali in diverse parti del mondo. Il tassello fu promosso come un elemento di fissaggio assolutamente stabile. La pubblicità decantava: un tassello di medie dimensioni conficcato nel mattone reggerà mezza tonnellata, non può allentarsi o restringersi. I tasselli più grandi possono trattenere fino a quattro tonnellate (Brochure promozionale dei prodotti Rawlplugs, 1935). Rawlplug e i prodotti associati dell’azienda sono diventati rapidamente una storia di successo globale. Altri prodotti andarono ad assommarsi al primo e assicurarono lo sviluppo successivo dell’azienda. È tuttavia per l’umile ma onnipresente tassello che si ricorda ancora oggi l’azienda fondata da John Rawlings.

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IMMAGINE DI APERTURA – Una storica confezione Rawlplug (Fonte Wikipedia)

John Spilsbury – Puzzle, 1766

Molti conoscono il puzzle, un gioco da tavolo nel quale è necessario ricomporre una figura frammentata in piccolissimi pezzi di forma irregolare. Non tutti, però, conoscono l’inventore di questo passatempo divertente: il londinese John Spilsbury, cartografo, incisore, fabbricante di mappe cittadine. La sua invenzione risale al 1766, realizzata a scopo educativo. La “Dissected Map” (mappa sezionata) è stata pensata per insegnare ai bambini la geografia. Spilsbury, infatti, decise di incollare una delle sue carte geografiche su di una tavoletta di mogano e di ridurla successivamente in piccole tessere per mezzo di un seghetto. L’idea riscosse successo ma John Spilsbury non poté goderne, poiché morì a soli 29 anni, il 3 aprile 1769. Ma altri riproposero il gioco infantile nelle proprie botteghe artigiane. I puzzle in legno per adulti furono, invece, prodotti industrialmente solo agli inizi del Novecento, realizzati tagliando un pezzo alla volta. Pertanto, erano molto costosi ed acquistati solo da un ceto abbiente per trascorrere, in solitudine o in compagnia, molte serate lunghe e noiose. Non mancava, tuttavia, chi utilizzava il gioco come intrattenimento durante le feste nelle proprie case di campagna. La passione per il gioco dilagò, quando i puzzle furono fabbricati incollando il disegno su di un supporto di cartone, successivamente ritagliato grazie ad una fustella di forma sagomata.

SPILSBURY, John (1739-1769). Europe divided into its Kingdoms. London: J. Spilsbury, [c.1766]. (Fonte Christies)

Nel 1908 viene coniato il nome che conosciamo. Il termine puzzle (enigma, rompicapo) si riferisce, infatti, ai pezzi che occorre incastrare per ricomporre la figura. Il significato inglese originario è comunque più specifico di quello italiano, perché in inglese i puzzle si chiamano “jigsaw puzzles”. L’espressione si riferisce a un gioco di pazienza, traforato con seghetto, formando un mosaico di pezzi. Il gioco divenne presto un prodotto industriale. Per la Parker Brothers i puzzle divennero il gioco più richiesto del catalogo. Fabbricati in serie, furono offerti in vari formati, in relazione del numero di pezzi. Più tesserine componevano il disegno, maggiori erano difficoltà e tempo per la risoluzione della composizione finale. Con la depressione economica degli anni Trenta il puzzle divenne un passatempo nazionale a basso costo e per tutte le tasche. Soprattutto rappresentò l’alternativa ai locali notturni, ai ristoranti, ai locali di spettacolo. Così, piuttosto che uscire, si preferiva passare le serate in famiglia. D’altra parte, le immagini offrivano di per sé una fuga fantastica dalla triste realtà del periodo: non solo carte geografiche, ma anche moderne strade ferrate, ponti vertiginosi, paesaggi nostalgici e fantasiosi. Nel 1932 nacque l’idea di regalare il rompicapo come gadget allegato ad altri prodotti, come i giornali. Esplose la mania e l’anno successivo le vendite solo negli USA raggiunsero circa dieci milioni di scatole a settimana.

Oggi i puzzle, rivolti a un pubblico adulto, sono sempre più difficili. Ce ne sono di tridimensionali, permettendo di realizzare oggetti anche molto complessi. Per esempio, i puzzle-ball sono concepiti come pezzi arrotondati, in modo che il soggetto completato prenda la forma di una palla: il mappamondo è il più peculiare fra questi. Particolari sono i puzzle double-face che propongono una doppia faccia, che potrebbe rappresentare la medesima immagine. Ci sono, al contrario, una quantità innumerevole di puzzle virtuali che si incastrano trascinando i pezzi sullo schermo di un computer.

IL PRIMO PUZZLE SUL SITO DI CHRISTIES: Europe divided into its Kingdoms

I SITI DI ALCUNE CASE PRODUTTRICI DI PUZZLE
Clementoni
Ravensburger
Hasbro
Castorland
Heye

IMMAGINE DI APERTURA – “L’Europa divisa nei suoi regni, ecc.” (1766) Si ritiene che sia il primo puzzle realizzato (Fonte Wikipedia)

Johan Vaaler – Graffetta, 1899

Sicuramente la graffetta, a filo di acciaio piegato, rafforza lo stereotipo che le idee più semplici siano le migliori. Tuttavia, come spesso accade per molte invenzioni, in particolare quelle di proporzioni minuscole e, tutto sommato, di poche pretese, le sue origini non sono del tutto certe. Secondo una comune narrazione, ripetuta senza prove valide, l’invenzione si deve a un norvegese di nome Johan Vaaler. Per conoscerlo meglio, possiamo dire che studiò fisica e matematica, laureandosi nel 1887, e dal 1892 fu impiegato nell’ufficio brevetti di Alfred Jørgen Bryn (Alfred J. Bryns Patentkontor) a Kristiania (oggi Oslo). Sviluppò l’idea della graffetta nel corso del 1899. Occorre però sapere che, all’epoca, la Norvegia non contemplava alcuna legge sui brevetti. Pertanto, il disegno di Vaaler fu accettato da una commissione governativa speciale, ma il suo inventore dovette fare affidamento su di un brevetto effettivo rilasciato in Germania. Il suo brevetto è stato il primo al mondo per una graffetta che non danneggia la carta, come è espresso nella relazione di progetto. A quei tempi, il filo di acciaio cominciava a essere disponibile grazie ai progressi tecnologici che permettevano a una macchina di piegarlo secondo una forma precisa, veloce, affidabile ed economica dal punto di vista dei costi. Il brevetto imperiale fu concesso, dunque, in Germania il 12 novembre 1899 e un altro brevetto fu rilasciato negli Stati Uniti nel 1901. Quindi, in virtù di questi atti ufficiali, Johan Vaaler risulterebbe l’inventore norvegese della graffetta. Norvegese, dunque, non mondiale. Questo perché, ad esempio, proprio in America, Matthew Schooley, in Pennsylvania, aveva depositato una domanda di brevetto nel 1896 per una “graffetta o supporto che, sebbene semplice nella sua costruzione, è facile da applicare e certo nell’esecuzione delle sue funzioni”. Un nuovo brevetto americano fu rilasciato nel 1900 a Cornelius Brosnan di Springfield, in Massachusetts.

Graffetta di Johan Vaaler

Quando Vaaler brevettò il suo progetto, disconosceva l’esistenza di una pratica graffetta, prodotta dalla società britannica Gem Manufacturing Company Ltd, ma non commercializzata in Norvegia. Era la prima graffetta a forma di doppio ovale che conosciamo ancora oggi. Era differente dagli originali brevettati da Vaaler nel 1899 e nel 1901, in quanto le due estremità arrotondate proteggono ulteriormente la carta da possibili graffi e strappi prodotti dal metallo. Altri design sono proliferati in seguito, come quello a forma di “gufo”, quello “ideale” (detto così per un numero maggiore di fogli di carta) e quello “antiscivolo”. Da tutto questo si deduce che qualsiasi tentativo di venire a capo sulle origini e sulla storia dei brevetti della graffetta può essere un esercizio del tutto inutile. Infatti, sembra che ci siano state numerosissime varianti di questo piccolo oggetto di design industriale. Una grande diversità di forme e versioni più antiche, più pratiche e forse anche più interessanti, non sono state affatto brevettate dai loro inventori. La cosa non deve sorprendere per un manufatto così semplice. Eppure, non c’è dubbio che la ricerca di forme alternative siano la risposta necessaria al fallimento di proposte non del tutto perfette.

La graffetta inventata da Johan Vaaler non ha avuto successo economico, ma ha avuto successo politico. Chi lo avrebbe mai detto! Si racconta che i norvegesi ancora oggi ricordino con orgoglio le origini dell’umile oggetto, inventato nel loro Paese, perché, durante la Seconda guerra mondiale, “fissavano graffette ai risvolti della giacca per mostrare il proprio patriottismo e irritare i tedeschi”. Infatti, dopo che la Norvegia fu occupata da Hitler nell’aprile 1940, molti norvegesi presero ad indossare una graffetta sul colletto della giacca. Era un simbolo di lealtà al re Håkon VII e al governo ritiratosi in esilio in Inghilterra. Mettere in mostra quella graffetta era proibito dagli invasori, sotto severa sanzione. Indossarla poteva portare persino all’arresto. Questo perché la funzione della graffetta di “legare insieme” dei semplici fogli di carta, ben presto assunse il significato crudamente simbolico di associare “persone unite contro le forze di occupazione”.

Francobollo commemorativo

Per concludere con un paio di curiosità, si può aggiungere che l’installazione una graffetta gigante è stata posta nella contea di Viken, in un giardino di Sandvika, nel 1989 e, dieci anni più tardi, nel 1999 è stato emesso un francobollo. Il disegno che vi appare, come la scultura, avrebbero il fine di commemorare la presunta invenzione di Vaaler. In realtà, rappresentano la comune graffetta della Gem Manufacturing Company Ltd con i due bordi arrotondati. Vatti a fidare!

Installazione a Sandvika (Norvegia)

IMMAGINE DI APERTURA  – Graffetta di Johan Vaaler

Swiss Army knife ovvero il coltellino svizzero dai molteplici usi

Chi non conosce il famoso coltello dell’esercito svizzero? La versione contemporanea porta impresso il riconoscibile motivo della croce svizzera, e quando si apre mette in vista la miriade di minuscoli utensili multifunzionali che ne hanno fatto la fortuna. Il suo inventore, Karl Elsener (1860-1918), figlio di Balthasar Elsener-Otti, apparteneva ad una lunga stirpe di mercanti di Zug, in Svizzera. Invece di continuare a vendere cappelli, Karl preferì seguire l’arte della fabbricazione di coltelli, facendo apprendistato a Parigi e Tuttlingen, in Germania, specializzandosi in strumenti chirurgici e rasoi di qualità. Dopo i primi anni come semplice artigiano, con l’aiuto economico della madre, nel 1884 aprì una sua fabbrica a Ibach, nel Cantone di Svitto, a sud di Ginevra, luogo di nascita della futura Confederazione Svizzera. Erano anni in cui la Svizzera non era ancora uno dei Paesi più ricchi d’Europa, pertanto il giovane Karl si impegnò per fare fronte alle difficoltà e alla disoccupazione della propria gente, creando posti di lavoro e contribuendo a frenare il flusso dell’emigrazione, per cercare pascoli più verdi nelle nazioni limitrofe. Per facilitare il processo produttivo, grazie alla condivisione delle risorse, fondò l’Associazione dei Maestri Coltellinai svizzeri, costituita da venticinque iscritti.

Karl Elsener non si fece sfuggire una opportunità preziosa. Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’esercito svizzero decise di preparare un bando pubblico per un nuovo coltello da tasca pieghevole. Le funzioni richieste ai produttori erano di favorire i soldati nel mangiare, per cui occorreva una lama apriscatole, e nella manutenzione del fucile in dotazione all’epoca, lo Schmidt-Rubin (Fucile da fanteria modello 1889). Occorreva dunque che il coltello, per smontare e rimontare le parti del fucile, fosse munito anche di un cacciavite a taglio e di un punteruolo. Il bando fu pubblicato a gennaio del 1891, espressamente per ricevere proposte riguardanti il modello 1890, con impugnatura in rovere annerito. Dal momento che nessuna azienda svizzera disponeva delle capacità produttive per rispettare le richieste, la prima commessa di 15.000 pezzi fu acquisita dal produttore tedesco Wester & Co. di Solingen, in Germania. I coltelli furono consegnati nell’ottobre 1891.

Modell 1890 , il primo coltellino svizzero prodotto da Wester & Co. Solingen

Nel medesimo anno anche la società di Elsener presentò la propria proposta, così come altre aziende svizzere che cominciavano ad organizzarsi in quegli anni. Tuttavia, il coltellino proposto da Elsener non riscontrò il favore auspicato, a cominciare dal prezzo, poiché l’offerta tedesca era inferiore. L’Associazione dei Maestri Coltellinai si sciolse, lasciando l’imprenditore con grosse somme da saldare. Non si diede per vinto. L’unico modo per fare fronte ai debiti era, a suo avviso, insistere, continuando a cercare di correggere i problemi riscontrati. Soprattutto il peso eccessivo per un coltello da tasca e le funzionalità limitate. L’azienda era ormai prossima alla bancarotta quando, nel 1896, Elsener ideò un nuovo prodotto di gran lunga migliorato in quanto a funzionalità e ad aspetto. Il nuovo progetto di coltellino tascabile fu registrato il 12 giugno 1897, e corrispondeva al modello attualmente conosciuto. Questa volta fu bene accolto dall’esercito svizzero ed accettato anche dal grande pubblico. Destinato inizialmente solo all’uso degli ufficiali, fu commercializzato con successo anche sul mercato internazionale, riportando presto la società di Elsener in attivo. I vantaggi del nuovo modello erano dovuti agli strumenti fissati su entrambi i lati del manico mediante uno speciale meccanismo a molla. Il nuovo modello fu diffuso col nome di Schweizer Offiziers-und Sportmesser (coltello svizzero da ufficiale e sportivo). Swiss Army knife, questo è invece il termine col quale il coltellino è conosciuto oggi, coniato dai soldati americani dopo la seconda guerra mondiale, per la difficoltà a pronunciare la parola tedesca Offiziersmesser. A partire dal 1909 Elsener utilizzò lo stemma svizzero per identificare i suoi coltelli. L’Azienda, col tempo, cambiò anche nome. Sempre nel 1909, alla morte della madre del fondatore, il marchio di fabbrica assunse la denominazione di Victoria e qualche anno più tardi, nel 1921, si chiamerà Victorinox, aggiungendo la dicitura inox con la quale già da allora si identificava, a livello internazionale, l’acciaio inossidabile. Il coltellino svizzero per il suo design è stato aggiunto alle collezioni del Museum of Modern Art di New York e del Museo statale di arte applicata di Monaco .

Strumenti e componenti 

Esistono vari modelli del coltellino svizzero con diverse combinazioni di strumenti. Di seguito sono citati quelli attuali, in continua evoluzione.

Strumenti principali:

  • Lama grande, impressa sul gambo della lama dei modelli Victorinox con “VICTORINOX SWISS MADE” per verificare l’autenticità del coltello.
  • Lama piccola
  • Lima per unghie / detergente per unghie
  • Lima per unghie / detergente per unghie / lima per metallo / sega per metallo
  • Sega per legno
  • Squama pesce / slamatore gancio / righello in cm e pollici
  • Forbici
  • Lama da elettricista / raschiafilo
  • Lama da potatura
  • Spatola farmaceutica (spingi cuticole)
  • Strumento informatico (bit driver)
  • Pinza / tronchese / pinza per fili
  • LED luce
  • Chiavetta USB
  • Lente d’ingrandimento
  • Cacciavite a stella
  • Detergente per zoccoli
  • Apri grilli / Marlinspike
  • Apriscatole / cacciavite a taglio da 3 mm
  • Apricapsule / cacciavite a taglio da 6 mm / spelafili
  • Strumento combinato contenente apricapsule / apriscatole / cacciavite a taglio da 5 mm / spelafili
  • Strumenti più piccoli:
  • Portachiavi
  • Alesatore
  • Gancio multiuso
  • Cacciavite a taglio da 2 mm
  • Scalpello
  • Cavatappi o cacciavite Phillips
  • Mini cacciavite (progettato per adattarsi all’interno del cavatappi)
  • Strumenti di scala:
  • Pinzette
  • Stuzzicadenti
  • Penna a sfera pressurizzata (con versione retrattile sui modelli più piccoli, e può essere utilizzata per impostare i DIP switch )
  • Perno inossidabile
  • Orologio digitale/sveglia/timer/altimetro/termometro/barometro

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di PublicDomainPictures da Pixabay 

Dal reggigiornale delle Kaffeehaus al digital newspaper holder

Quante volte è capitato di vedere poltrone e tavolini di un bar occupati da habitué seduti comodamente intenti a leggere il quotidiano infilato in un reggigiornale. Capita soprattutto in quei piccoli edifici immersi nel verde lussureggiante di aristocratici parchi e giardini settecenteschi, come le Kaffeehaus, sorte apposta per sorbire in tutta tranquillità caffè e cioccolata in tazza, secondo la moda dell’epoca. Per scorrere le pagine di un giornale senza sgualcirle non si poteva fare a meno di quell’asta magica che vide luce più di due secoli fa nelle sale da caffè della Germania, dell’Austria, della Svizzera. Si diffuse soprattutto sul finire del XIX secolo e dall’inizio del successivo se ne brevettarono molteplici modelli. In definitiva da allora il design non è mutato molto, consistente due lunghe aste, in legno, in vimini, in ottone, che assicurano la piega del giornale da sfogliare. Senza questo bizzarro, quanto elegante, attrezzo, leggere un quotidiano sarebbe poco maneggevole e forse anche noioso.

In un Club per gentiluomini, un gentleman legge il “Lancet” (ma senza utilizzare il reggigiornale), un amico afferma che è noioso e gli suggerisce di fare un gioco. Incisione su legno di C. Keene, 1883.

Registrato all’ufficio brevetti nel 1907, il portagiornale in legno di faggio Odenwald ha goduto sempre di una popolarità ininterrotta. Si basa su due lunghe aste di legno che scorrendo una sull’altra si aprono, svelando le bullette alle quali assicurare le pagine. Il suo meccanismo di bloccaggio è a chiusura automatica.

La versione ideata dal falegname Fritz Hahne, è in catalogo col nome di Primus, composto da due listelli di legno che aprendosi svelano dei chiodi fissati alla barra di legno superiore, utili a perforare il giornale quando è chiuso. In questo modo le pagine sono tenute saldamente da chiodi, mentre i listelli sono assicurati contro l’apertura involontaria con una vite di bloccaggio. Il portagiornale è poi munito in testa da un gancio, aperto o chiuso, per appenderlo al muro. La ditta, fondata nel 1924, è a gestione familiare e ancora oggi continua a produrre questi oggetti in legno di abete in diversi colori, venduti quasi esclusivamente agli editori di quotidiani tedeschi, svizzeri, austriaci e olandesi con su inciso il nome della testata.

Esiste però un modello di reggigiornale, realizzato in salice, legno e metallo che non necessariamente deve assomigliare ad un bastone. È quello di Thomas Poganitsch, un cestaio viennese, che ha rilevato gli strumenti e le macchine dal fornitore di portagiornali delle caffetterie locali, il quale cessato l’attività all’età di novanta anni gli ha svelato come realizzare e ripensare il modello tradizionale.

Recentemente, tuttavia, il designer Kuno Prey ha ideato un nuovo reggigiornale che a differenza dei modelli precedenti esclude che le aste possano nascondere parte del testo. Infatti, i fogli del quotidiano sono tenuti insieme da tre aste (due in legno e una in metallo) a sezione circolare in grado di ammorsare sia riviste che quotidiani. Il nuovo modello disegnato da Pray è prodotto da Alessi dal 1996.

Oggi c’è di più. Per pubblicizzare l’edizione digitale della Neue Zürcher Zeitung, sono stati realizzati dei classici portagiornali in legno dotati di pannelli LED, con schede programmate per ricevere feed RSS tramite un trasmettitore a infrarossi. Si possono trovare in caffè, bar e ristoranti, con le notizie più aggiornate rispetto ai giornali cartacei. Miracoli dell’informatica.

IMMAGINE DI APERTURA  – Il reggigiornale del designer Kuno Prey per Alessi

Sylvia Stave – Cocktail Shaker, 1930

Questa sfera perfetta con un manico fisso ad arco è un cocktail shaker, pregevole lavoro di design prodotto nell’Officina dei Metalli del Bauhaus, sotto la direzione di László Moholy-Nagy. Dopo meticolose ricerche Peter Hahn, direttore dell’Archivio della prestigiosa scuola d’arte tedesca, ha scoperto che fu realizzata di Sylvia Stave e non da Marianne Brandte, alla quale in un primo momento lo shaker fu attribuito. Sylvia Stave, nata in Svezia, a Växjö, nel 1908, espresse la propria creatività artistica progettando e realizzando una quantità di opere in metallo, fra Stoccolma e Parigi, e lavorando prevalentemente oggetti in argento, peltro, ottone, stagno, alpacca. Nel 1929 ha iniziato a collaborare come designer della CG Hallbergs Guldsmedsaktiebolag di Stoccolma. Ad appena 23 anni, nel 1931, è stata nominata direttore artistico della stessa fabbrica, una delle più grandi aziende di gioielleria della Svezia con oltre 600 dipendenti, nota per l’alta qualità e per la collaborazione dei principali designer dell’epoca. In un’intervista a Svenska Dagbladet, Sylvia Stave ha espresso il suo amore per l’argento e la sua disapprovazione per ciò che è appariscente o imitativo. Lodando le superfici lisce e le linee rette e pulite, ha sottolineato: «Pensiamo a quanto si guadagnerebbe se le persone imparassero a capire cosa significa qualità, anche in termini di argento o peltro. Un oggetto semplice può essere altrettanto bello, anche più bello, da un punto di vista artistico di uno sontuoso!». Nel 1937 Stave si è trasferita a Parigi, dove ha ricevuto un premio all’Esposizione Mondiale. Nel 1939, ha fatto un breve ritorno nel suo paese natale per disegnare la nuova collezione Hallbergs. Si è quindi trasferita definitivamente a Parigi nel 1940, per lasciare inaspettatamente il proprio lavoro e occuparsi della vita familiare. Ha però continuato ad esercitare di tanto in tanto come disegnatrice, realizzando illustrazioni di libri. Oggi Sylvia Stave è considerata dalla critica internazionale uno dei maggiori artisti che hanno contribuito in modo determinante al design svedese moderno con i suoi oggetti sobri e immacolati. I suoi progetti per articoli domestici – quali brocche, teiere, vasi, bicchieri da tavola, piatti da portata – sono caratterizzati da una purezza di forma, volumi geometrici legati ad una estetica funzionalista. Dall’inizio della carriera, fino alla sua rinuncia dieci anni dopo, Stave si è distinta in molte mostre d’arte sia in Europa che negli Stati Uniti.

Questo shaker, nato nella scuola del Bauhaus, è molto lontano dagli shaker tradizionali che siamo abituati a utilizzare. È infatti orizzontale e non verticale, ciò perché è indirizzato a sperimentare forme estetiche a carattere geometrico – come linee diritte, quadrati, circonferenze – alla base della ricerca da cui il Bauhaus ha tratto ispirazione. Lo shaker, dalla configurazione innovativa, richiamò subito l’attenzione anche perché spingeva oltre i limiti le produzioni in metallo dell’epoca. Dal 1989, su licenza dell’Archivio Bauhaus, possiamo ancora trovare questo straordinario Cocktail Shaker nel catalogo Alessi, azienda italiana produttrice di oggetti di design, fondata nel 1921 da Giovanni Alessi. La sfera, senza apparenti giunture, prodotta attualmente in acciaio inossidabile 18/10 lucidato a specchio, anziché nella versione originaria nichelata, presenta ancora oggi difficoltà per l’attenzione e la cura che non si possono demandare esclusivamente alle macchine. Si tratta infatti di produrre due emisferi separatamente da un medesimo stampo, unirli per fusione e, quindi, lucidarli a specchio manualmente. La sfera che ne risulta è un colpo d’occhio, per la sua forma essenziale che, grazie alla posizione del manico, induce in modo del tutto naturale all’atto del versare il cocktail miscelato. Questo è anche il limite del pezzo, secondo alcuni critici, poiché evocherebbe un oggetto statico, piuttosto che un oggetto da scuotere per shakerare. Dalla critica all’oggetto si passa alla critica nei confronti dell’intera scuola del Bauhaus. Ci si domanda, infatti, fino a che punto uno shaker per cocktail possa considerarsi un contributo conveniente alla produzione di massa. Tutto ciò non considerando affatto il carattere aperto e sperimentale di questa scuola di architettura, arte e design. D’altra parte, perché limitare la fantasia? Per fare piacere ai critici? Sylvia Stave ha, infatti, prodotto diversi tipi di oggetti per la casa, oltre a shaker e bicchieri da cocktail, come documentato nella collezione del Nationalmuseum di Stoccolma, dedicata ad arti, mestieri, e design. Sylvia Stave è morta a Parigi nel 1994. Il Nationalmuseum ha più di 40 oggetti da lei realizzati, la maggior parte dei quali sono stati acquisiti nel 2013 dal collezionista tedesco-svedese Rolf Walter. Molti di questi oggetti sono stati esposti nella mostra “Donne pioniere – La forma svedese durante il periodo tra le due guerre“, al Castello di Läckö nel 2015. e successivamente ripresentata al Museo Röhsska.

GUARDA LA COLLEZIONE DI SYLVIA STAVE AL NATONALMUSEUM DI STOCCOLMA (SVEZIA)

Josef Hoffmann – Posate Modello Flat, 1904

Questo particolare servizio di posale fu uno dei primi prodotti della Wiener Werkstätte (Laboratori viennesi), e fu progettato da Josef Hoffmann, il quale, insieme a Koloman Moser e Fritz Warndorfer, ha fondato questa particolare azienda che operò in modo innovativo per una trentina d’anni, a partire dal 1903 fino al 1932. Uno dei principi adottati fu quello della funzionalità, espressa con prodotti dalle linee rigorose, essenziali, prive della decorazione superflua e ridondante comunemente usata. Il design moderno delle posate Modello Flat, ossia “piatto”, è un encomiabile esempio di questo principio estetico. Le posate non avevano alcuna decorazione, salvo quattro piccole biglie all’estremità del manico. Inoltre, sull’impugnatura era inciso un duplice contrassegno. L’azienda puntava, infatti, alla valorizzazione del lavoro non del solo progettista, ma anche dell’artigiano, ispirandosi agli insegnamenti Arts and Crafts e della Secessione viennese. Di quest’ultimo movimento i fondatori rappresentavano una espressione diretta. Perciò, nel momento in cui ogni articolo lasciava l’azienda per essere esposto in uno dei suoi negozi, occorreva che il mondo venisse a conoscenza di chi aveva partecipato al suo iter produttivo e valoriale. Come a noi sono noti molti nomi delle epoche passate, così anche il pezzo di design della Wiener Werkstätte portava le iniziali sia dell’artista che aveva progettato l’opera, sia dell’artigiano che materialmente lo aveva realizzato con maestria. Nei casi in cui la stessa iniziale appariva due volte su di uno stesso oggetto, significava che l’artista e l’artigiano erano la medesima persona. L’apposizione dei monogrammi non valorizzava soltanto gli articoli in oro od argento, ma tutta la produzione, anche quella realizzata in altri metalli meno preziosi. Anche queste posate Modello Flat, dunque, sfoggiavano su ogni manico il monogramma di Hoffmann.

Principali monogrammi della Wiener Werkstatte

L’attenzione quasi maniacale di Hoffmann e Moser per le superfici ampie e lisce, nonché per le forme geometriche regolari, non risultarono del tutto apprezzate dal pubblico. Per il gusto comune, questi singolari pezzi di design erano, infatti, troppo in anticipo sui tempi. Nel recensire l’esposizione della Wiener Werkstatte del 1906, dal titolo La tavola apparecchiata (Der Gedeckter Tisch), il Deutsche Zeitung criticò Hoffmann e Moser per l’esasperato geometrismo, a detta del giornale ben lontano da qualsiasi forma d’arte. Per l’Hamburger Fremdenblatt le posate risultavano quanto mai scomode, per questo motivo piuttosto che un set da tavola, erano da considerarsi alla stregua di “strumenti chirurgici”. Nello stesso anno 1906, il critico Armin Friedmann commentò sarcastico che prima di iniziare i pasti si sarebbe dovuto rendere grazie a Dio del cibo concesso, non solo utilizzando quelle nuove posate, ma anche recitando una nuova preghiera, come questa: «Benedici le linee che stiamo per ricevere… Benedici il righello e il compasso che ci occorrono per tagliare la carne con una correttezza stilistica esemplare». E concludeva acido: «Qui la follia si sposa alla geometria». Naturalmente i due progettisti non si scomposero, poiché Moser avrebbe voluto radicalizzare ancor più l’austerità dei servizi per la cucina e per il pranzo. Arrivò infatti al punto d’inventare nuove attrezzature per la realizzazione di dolci, che però soltanto qualche pasticcere provò a utilizzare, ma senza troppa convinzione.  

Non desterà meraviglia sapere che la produzione di queste posate fu sospesa dopo appena quattro anni. Erano certamente delle forme particolari, frutto di un proto-design sperimentale tutto da scoprire. Pur tuttavia, il loro approccio stilistico venne ripreso da altri progettisti per il disegno di articoli domestici successivamente realizzati. In effetti, indipendentemente dall’accoglienza o meno del pubblico, molti di questi oggetti d’arte, creati per la produzione seriale, hanno continuato a influenzare la ricerca industriale per molto tempo a venire. Ciò valse, a più forte ragione, all’interno della stessa Wiener Werkstatte, poiché la serie di posate fu creata proprio negli anni in cui gli oggetti di metallo e di oreficeria rappresentarono il core business dell’azienda. In particolare, questo servizio composto da trentatré posate fu prodotto in argento, in silver plate e in argento dorato. Oggi è esposto nei grandi musei di arte moderna.

Gli stabilimenti Wedgwood tramandano la tradizione

 

“La Fine Bone China presto troverà posto sulle tavole dei potenti di mezzo mondo: uno dei più noti esempi è il servizio da tavola Wedgwood che Theodore Roosevelt volle per la Casa Bianca” (Wikipedia, voce “porcellana”). Traditional White è con probabilità il nome di una linea di Bone China per realizzare vasellame in porcellana privo di decorazioni, che si sviluppò parallelamente al Queen’s Ware. All’inizio del secolo XIX, sotto gli influssi dello stile neoclassico, le ceramiche erano decorate con figurazioni dai colori brillanti, con molte finiture in oro e sovente richiamavano motivi orientali. La ceramica bianca era dunque usata come base, prima di essere decorata a mano o con l’applicazione di decalcomanie.

“Vale la pena ricordare che la linea White potrebbe forse risalire a un servizio di Bone China bianca (dal design differente) caratterizzato da manici e bordi dorati, prodotto tra il 1812 circa e gli anni Venti del 1900. In mancanza di una data precisa a cui far risalire il suo design e di informazioni che ne illustrino l’evolversi, si pensa che il Tradilional White sia nato dall’evoluzione della ceramica in Bone China, e abbia raggiunto l’attuale bianco assoluto, semplice ed estremamente raffinato, attraverso la progressiva eliminazione degli elementi decorativi” (AA.VV. Design in 1000 oggetti, Phaidon Design Classics, London 2006, Roma 2008). Soltanto negli anni Trenta del Novecento il Tradilional White assunse una linea di produzione autonoma, mantenendo però lo stile iniziale della fine del Settecento. Gli stabilimenti Wedgwood continuano ancora oggi a produrre ceramiche Bone chine, studiando nuove linee di design, grazie al Dipartimento di Progettazione interno.

La porcellana Traditional White

 

Porcellana Traditional White (1796)

 

Bone China è un tipo di pasta soffice che assomiglia alla porcellana e che si compone di feldspati, caolino ma soprattutto per un buon 50% da cenere di ossa. Il materiale prodotto risulta bianco, molto trasparente, resistente all’usura e alla scheggiatura. La prima tecnica ad essere sviluppata e successivamente diventata nota con questo nome è stata inventata da Thomas Frye, nello stabilimento di porcellane a Bow alla periferia est di Londra nel 1748. La particolarità era che l’edificio industriale si trovava nelle vicinanze dei mercati di bestiame e dei macelli di Essex. Era molto facile, quindi, recuperare ossa di animali. Provò a combinare le ossa con i materiali di base per la costituzione della porcellana. Ma ottenne un risultato che non riscosse grande successo.

La formula fu sviluppata da Josiah Spode, il quale tra il 1789 e il 1793. Abbandonò la procedura di calcinare le ossa contemporaneamente alle materie prime lapidee. Sottopose al trattamento di calcinatura esclusivamente le ossa. Il prodotto risultò ottimo e la produzione fu accolta da un grande successo di pubblico, tanto da spingere anche altri produttori di ceramiche inglesi ad adottare lo stesso sistema.

È il caso di Josiah Wedgwood, oggi considerato uno dei principali esponenti della prima rivoluzione industriale. La sua famiglia lavorava nel settore della ceramica fin dal 17º secolo. Nella fabbrica familiare operò fin dall’età di nove anni, e qui apprese le tecniche più moderne sulla modellazione delle forme e sulla miscelazione dei colori. Nel 1759 si mise in proprio, fondando una sua nuova fabbrica a Burslem una delle sei cittadine che formano la città di Stoke-on-Trent, nello Staffordshire. Cominciò a produrre un particolare tipo di ceramica molto durevole dal caratteristico color crema. Apprezzata a corte, questo tipo di ceramica prese il nome di Queen’s Ware (articolo della Regina). Il tipo di ceramiche e la particolarità dell’assortimento valse alla fabbrica di Wedgwood la nomina, da parte della regina Carlotta, di fornitore ufficiale della Casa Reale.

La fama che ne derivò fece scegliere questo prodotto sia dalle famiglie inglesi che all’estero. Nel 1812 la Wedgwood mise in produzione anche la Bone China, in un’altra sua fabbrica sempre nei pressi di Stoke-on-Trent. Tuttavia tra il 1828 il 1875 la produzione venne interrotta per un momento di grave difficoltà economica e soltanto a partire dal 1876 la Bone China cominciò ad essere richiesta dal mercato. Tanto da divenire la parte più considerevole della produzione Wedgwood, realizzata in una grande varietà di stili secondo le richieste del mercato eclettico. La Wedgwood completò così la messa a punto della Bone China, sviluppando un prodotto di qualità superiore.


Sedia Thonet: immutata da oltre 150 anni?

 

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“Chi non conosce le sedie di Vienna, che per eleganza …” Così scriveva la Corriere di Catania l’8 maggio 1882. Già, chi non le conosce oggi quasi 140 anni dopo.

La “Sedia di Vienna”, “sedia alla viennese”, “sedia con la paglia di Vienna” o semplicemente “sedia in stile Thonet”. Ci sembrano tutte uguali, tutt’al più con qualche modifica nei riccioli o nella paglia dello schienale. Quando si pensa a questi prodotti l’immagine che ci viene in mente è subito quella della famosa nr. 14.

Un prodotto è costruito in soli 6 pezzi   che viaggia smontato e con una dozzina di viti e che viene assemblato nei negozi dislocati nei vari paesi. Il prezzo originario a listino era talmente basso che era l’equivalente del costo di tre dozzine di uova o di un litro e mezzo di “buon vino della casa”. Un successo è planetario. Intorno al 1930 si calcola che di quel modello ne sono stati venduti oltre 50 milioni di esemplari.  Si capisce perché allora pensiamo a quel modello!

‘Al Moulin Rouge’ di Henri Toulouse-Lautrec, con la sedia Thonet N. 14

Le sedie erano prodotte in varie tinte: noce, faggio, mogano particolarmente apprezzato il color ebano; Le tinte venivano date a pennello con aniline ad acqua. Il cliente poteva costruirsi la propria sedia non solo per il colore ma per il materiale del sedile (paglia, compensato o imbottito) con rinforzi aggiuntivi tra sedile e schienale (i famosi arcanti) e con viti di rinforzo al sedile.

Le sedie Thonet si adattavano poi benissimo ai locali pubblici; le sedie erano leggere e resistenti, facili da spostare, da pulire, da aggiustare; la grande scelta di gamma permetteva di non confondersi con altri locali concorrenti ma permetteva anche qualità (e prezzi) diverse; l’azienda Thonet introdusse già negli anni ottanta  i sedili e gli schienali di compensato che abbassarono ancora di più i costi ed eliminarono le problematiche legate alla paglia e al costo di impagliatura nel caso di rotture. Non solo: il compensato permise di personalizzare gli schienali e i sedili non solo con decori floreali o geometrici ma con scritte e i nomi dei Cafè stessi.

Testimonianza di ciò ne sono le fotografie dell’epoca (Paul Verleine nel 1892 o, sempre a Parigi, Ernst Hemingway al Cafè La Rotonde, Sthendal a Padova al Cafè Pedrocchi) e le varie pubblicità (in Francia la Mokaine, in Italia i magazzini Mele, o la birra Metzger illustrata da Dudovich ad esempio) o i quadri (Toulousse Lutrec, Steinlen, Völkel, Irolli, Evenpoel) che raffigurano sempre gli avventori dei bar di un tempo seduti su delle sedie in legno curvato.

 

[Ringraziamo l’arch. Giovanni Renzi per l’attenzione che ci ha riservato, contribuendo ad eliminare le inesattezze ravvisate in questa pagina. l’arch. Renzi è un esperto che si occupa professionalmente di consulenza e formazione sulla storia del marchio Thonet, datazione pezzi storici, organizzazione di mostre (Friedberg, Udine, Milano), valutazione del materiale storico. Molti articoli sull’attività di questa storica azienda si possono trovare sul suo Blog www.legnocurvatodesign.it ].