Anna Giraldo – Blu Natale

“Non è facile, Eli. Essere straniero in ogni terra e cercare ciò che non esiste… Cosa non esiste, papà? L’onda perfetta, Eli. L’onda perfetta non esiste, credimi. Se esistesse io l’avrei trovata, ma non c’è. Eppure non so fare altro che cercarla, considerò guardando un punto lontano all’orizzonte, tra i tetti delle case, un punto di mare confuso nella foschia, troppo lontano per essere raggiunto”. ‘Blu Natale’ è un racconto breve, spin off del romanzo ‘Meet you on the other side’.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Pierre-Auguste Muysson – L’uomo che una volta sconfisse la Morte

di Pierre-Auguste Muysson

Al freddo pungente della neve, che da qualche ora aveva ricoperto il paese, si aggiungeva l’umido della cripta, rischiarata da una lama di luce che dal lampione filtrava attraverso un’asola sotto la crociera. Lo sguardo perso di Georges incrociò quello del vescovo, che sembrava fissarlo serafico. Se ne stava supino, con il capo reclinato su di una mano e i panneggi della veste perfettamente ordinati. Troppo ordinati, innaturali. Il suo viso tondo, lunare, messo ancor più in evidenza dalla tiara, appariva quasi sorridente. A secondo dello stato d’animo – quando, sin da ragazzino, veniva a fargli visita – quel viso assumeva un paterno sguardo di esortazione o di dubbio o di rimprovero. Questa sera era inspiegabilmente sereno, nonostante lui fosse venuto a manifestargli lo stato d’infermità di sua madre, che lasciava presagire per lei una notte troppo lunga da non farle rivedere la luce del mattino. Cercava parole di conforto, ammesso che il vescovo avesse potuto parlare, ma questa sera, così gelida, gli appariva più marmoreo che mai.

Ogni volta che ne sentiva il bisogno veniva a passarci qualche ora, con quel vescovo di pietra. Scavalcava i tetti delle case abbarbicate alla matrice, si calava lungo un pluviale, sempre più instabile, raggiungeva l’apertura di una finestra dai fregi barocchi e s’immetteva nella cripta. Senza che il parroco se ne accorgesse; perché l’abate Olivier si opponeva tenacemente all’accesso di estranei e attendeva con ansia un restauro che non si realizzava mai e che avrebbe, di fatto, valorizzato il monumento più pregevole della chiesa. Con l’occasione avrebbe fatto collocare una grata per impedire intrusioni.

Ma questa sera, ancora una volta, Georges era lì. Da sempre, o almeno da quando se ne ricordava – e un suo ricordo d’infanzia coincideva con la scomparsa del padre – si era dovuto comportare con la stessa saggezza di un vecchio. Studiare e lavorare. Coltivare la ricchezza dello spirito e badare, nonostante le avversità, all’orto di famiglia che permetteva il sostentamento suo e di sua madre. E ora anche lei sarebbe andata via, come uno dopo l’altro vanno via gli anziani, percorrendo la strada che divide in due l’abitato. Verso nord, per raggiungere il Campo Santo. Verso sud, invece, vanno via i giovani del paese, in direzione della città. Per studiare, per lavorare, per prendere il treno e andare ancora più lontano a cercare chissà quale fortuna.

A leggere un libro che aveva trovato in un cassone sembra che nei primi anni del secolo – inizio Novecento per intenderci – il paese contasse oltre diecimila anime, forse anche di più. Ora a transitare per certe sue strade ci si poteva chiedere se le case fossero mai state abitate. Il libro lo aveva scritto il parroco; quello che c’era prima dell’abate Olivier, prima cioè che se ne andasse pure lui, verso nord. Il vescovo di pietra, invece, era rimasto nella chiesa, perché era qui che si raccoglievano le spoglie mortali dei personaggi illustri. C’era anche il barone, ma la sua tomba faceva bella mostra lungo la navata laterale, perché nella cripta c’era solo il vescovo. Che fosse davvero un vescovo, a memoria, non avrebbe potuto confermarlo; ma cosa importava il suo lignaggio, se ugualmente poteva parlargli e in virtù del suo sguardo, ottenere una risposta? Ma che risposta era mai quell’ammiccare di sottecchi che aveva assunto questa sera.

Come anelli di fumo, le immagini di una vita si intrecciavano nella sua mente. Avevano tutte un denominatore comune: prodigare ogni sforzo nel tentativo di dare a sua madre una vita migliore di quella che la malattia le aveva riservato. Georges avrebbe potuto enumerare i giorni trascorsi accanto al suo letto o le notti sveglio a contare le ore prima del levare del sole. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Avrebbe usato le sue parole migliori e l’avrebbe convinta a fermare il tempo.

Quando mise la testa fuori dalla cripta, il cielo s’era liberato delle nubi ed era scesa la sera. Il paese, illuminato a singhiozzo, gli sembrò di cartone, come quello di un presepe. Fu solo allora che rammentò che era la vigilia di Natale; ma non c’erano pastori nelle strade, né comete nel cielo. 

Si arrampicò di nuovo sul pluviale, passò da un tetto all’altro, si calò nella strada che costeggia l’abside della chiesa, rischiarata dalla luce pallida della luna. Neppure due passi e si sentì chiamare. Era l’abate Olivier, nella penombra, che si apprestava alla canonica con andatura spedita. Cercò di defilarsi, per timore di un rimprovero. Ma si sentì chiamare ancora. Allora Georges si voltò. Il parroco teneva in mano un pacco e glielo porgeva. Nell’avviarsi a casa, lo pregò di fermarsi a palazzo e di consegnarlo al barone, tanto più che aveva chiesto di lui e manifestato l’urgenza di parlargli. Dal canto suo l’abate Olivier espresse, con spiccia cortesia, la sua premura per via dei preparativi necessari alla celebrazione della messa grande di mezzanotte. Sarà stato per la luce fioca o per quel movimento rigido della veste, che si scorgeva sotto il cappotto pesante, ma il volto del parroco gli parve tondo e lunare. Per la prima volta, Georges ravvisò una somiglianza con la statua del vescovo.

Quando fu nello studio del barone – o meglio del nipote del barone, o meglio ancora del signor sindaco – Georges in cuor suo cominciò a scalpitare per il tempo ch’era trascorso da quando aveva lasciato la stanza di sua madre. L’uomo mostrava un portamento lento e altero. Si accostò alla scrivania, cercò il tagliacarte tra i fascicoli che ricoprivano il piano di lavoro e con fare puntiglioso aprì attentamente il pacchetto. Quel che ne cavò fuori sembrò, nel barlume della lampada da tavolo, un antico stendardo; anzi, era proprio l’antico stendardo della confraternita dei Nobili, che il sindaco, cioè il barone, aveva voluto fosse inviato ad abili ricamatrici perché ne riparassero le scuciture. Nel corso della celebrazione della messa di quella mezzanotte sarebbe tornato a figurare fra gli stendardi della confraternita dell’Arte e Mestieri e quella della Misericordia. Il nobile fu colto da un moto di orgoglio e la sua espressione si fece trionfante, perché credeva convintamene che occorresse rinsaldare, nel paese desolato, un’identità estenuata.

Intento ad ammirare i preziosi ricami dorati, s’era però dimenticato del ragazzo, quasi che ogni cosa del mondo girasse intorno allo stendardo. Ricordando che lui stesso lo aveva mandato a chiamare, frugò fra le carte ed aprì una busta. Le cattive notizie non vengono mai sole, pensò ansioso Georges. Il sindaco sottolineò, con aria sussiegosa, che stava parlando in qualità di pubblico amministratore. Si complimentò con il giovane e gli confermò il finanziamento del Circolo da lui presieduto a sostegno dell’iniziativa che aveva intenzione di assumere. Per annunciargli la notizia non aveva voluto attendere di riceverlo nella sede comunale, ma incontrarlo subito, giacché – disse – i giovani capaci e volenterosi come lui rappresentavano la speranza del paese.

Il più bel regalo di Natale che Georges avesse potuto sperare. In altri momenti. Ci aveva confidato, lavorato, fantasticato. Era lo strumento per realizzare il futuro vagheggiato, per superare la stretta dipendenza dalle quotidiane contingenze. Aveva scommesso con sé stesso, e con i suoi scettici compaesani, che avrebbe potuto utilizzare il suo diploma di agrario a beneficio di tutti. Aveva l’avvenire nelle mani. Mentre a passi svelti percorreva la via del ritorno, le botteghe che si affacciavano sulla strada ripresero via via a popolarsi, nella sua fantasia: il salone da barbiere, il negozio di generi alimentari e la dolceria all’angolo del Collegio di Maria. Il paese questa sera assomigliava davvero a un presepe, in cui entravano a far parte, tra le figurine di terracotta, l’asino con le bertole stracolme e persino la sfasciata berlina di cui monsieur Victor andava ancora fiero. Questo pensava Georges, risalendo gli sconnessi gradini che lo separavano da casa. In altri momenti sarebbe stato felice, ma le condizioni di salute di sua madre gli davano il tormento.

La casa di un morente ha un silenzio tutto suo. Sembrò persino che il rumore del portone su strada, nel richiudersi, rintronasse oltremisura. Georges entrò in camera e, appena lo scorse, sua cugina Mathilde gli lasciò il posto a sedere accanto al capezzale ed uscì. L’ammalata stava adagiata su due ampi cuscini bianchi appoggiati alla spalliera del letto di metallo. Il respiro rantolante, lo sguardo assente. Di tanto in tanto prendeva a scuotere la coperta e delirava di aiutarla a liberarsi da nugoli di formiche che la stavano assalendo. Poi tornava tranquilla e ancora assente. Chi veglia un infermo rimane immobile come l’infermo stesso. Così Georges. Unico movimento era quel suo sguardo che lo portava ad osservare particolari mai degnati d’attenzione: il punto con cui era tessuta la coperta, il merletto del lenzuolo sgualcito, i gigli di madreperla che ornavano la testiera del letto in metallo brunito. Si alzò di scatto per richiudere le persiane di castagno che avevano preso all’improvviso a battere per il vento, e si sorprese a riflettersi nello specchio dell’armoire alle spalle. Fu in quell’attimo che Georges si accorse di non essere solo con sua madre nella stanza.

Accanto alla testiera del letto – non ebbe dubbi – eretta e silente era la Morte. Quando la si vede accanto alla testiera, dicevano le storie di paese, era segno evidente che fosse l’ultima ora. Fissava la donna come se ne gestisse il respiro agonizzante. Dio! Se avesse potuto, avrebbe chiesto di parlare persino con la Morte. Non era questo che aveva desiderato nella cripta del vescovo? Non avrebbe voluto esprimerle i sentimenti più intensi per convincerla a fermare il tempo? Ora, al contrario, si sentiva impietrito, ma con il coraggio della disperazione si scosse. Cominciò a formulare parole senza neppure badare a grammatica e sintassi. Avrebbe potuto offrire uno scambio, avrebbe rinunciato al suo regalo di Natale, al suo avvenire, alle sue aspirazioni… La Morte rimase indifferente e lui sentì inutile ogni sforzo. Fu allora, che gli balenò in mente una tradizione medievale che raccontava di un uomo che una volta sconfisse la Morte. Fu un tutt’uno. Georges spinse con forza la sponda e il traballante letto metallico di sua madre ruotò su sé stesso. Abbatté il comodino, frantumò la lampada, volarono in aria gli oggetti.

La Morte, sbigottita, si trovò inaspettatamente ai piedi del letto, svuotata di ogni potere. Lo trafisse con lo sguardo, ma non proferì parola. Era solo questione di tempo – anche su questo il giovane non ebbe dubbi – perché sarebbe tornata di nuovo in quella casa e non solo per sua madre. Un tepore lieve sembrò diffondersi nella stanza, perché il caminetto riattivò spontaneamente la fiamma. Fu allora che Georges trasalì a sentirsi stringere la mano. Sua madre, con voce flebile, gli raccomandava di far presto a cenare, perché le campane già annunciavano la messa di mezzanotte.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay  

Grazia Deledda – Il dono di Natale

di Grazia Deledda

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.

Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiaccioli, appariva come uno di quegli edifici fantastici che disegnano le nuvole.

Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro. Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.

Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

— Ben tornato, Felle.

— Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

— Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!

Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con bucce di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.

Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato. Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

— Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico. Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca1.

Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava. Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista.

E rimasero tutti scambievolmente contenti.

Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare. La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.

Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.

L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.

Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.

Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.

Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.

Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

— La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.

Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile.

La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.

All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano. Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

— La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

— Oh, ragazzi, su, in fila.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.

Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba. Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino.

In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.

Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.

Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

— Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare.
E il popolo rispondeva: — Gloria a Dio nel più alto dei cieli.
E pace in terra agli uomini di buona volontà.
Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.

All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava. Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena. Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena.

In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolio della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.

Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?

Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto, la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?

— Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.

Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.

E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

— È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

1 È una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Laura Beltrame da Pixabay 

Milano: Un presepe con 60 personaggi dipinti su carta da Francesco Londonio

Fino al 6 febbraio 2022, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano presenta uno dei capolavori d’arte sacra del XVIII secolo milanese: il Presepe del Gernetto,così chiamato dal luogo di provenienza, Villa del Gernetto a Lesmo in Brianza, composto da circa 60 personaggi, dipinti su carta o cartoncino sagomati alti dai 35 ai 60 cm.

La maggior parte di essi sono stati dipinti da Francesco Londonio (1723-1783), uno dei più importanti artisti lombardi del Settecento, specializzato proprio in presepi, in scene campestri e raffigurazioni di animali.

MILANO
DAL 25 NOVEMBRE 2021 AL 6 FEBBRAIO 2022
AL MUSEO DIOCESANO CARLO MARIA MARTINI

IL PRESEPE DI CARTA
DI FRANCESCO LONDONIO (1723-1783)

Il presepe di carta di Francesco Londonio

L’opera, entrata nelle collezioni del museo nel 2018, grazie alla donazione di Anna Maria Bagatti Valsecchi, proviene dalla collezione Cavazzi della Somaglia, ed è uno dei pochi presepi settecenteschi lombardi di questo tipo.

L’iniziativa, curata da Nadia Righi e Alessia Devitini, rispettivamente direttrice e conservatrice del Museo Diocesano di Milano, si tiene in occasione delle celebrazioni per il ventesimo anniversario di storia del Museo Diocesano di Milano.

Lo scenografico presepe era destinato, in origine, a essere allestito durante il periodo natalizio occupando un intero salone di Villa del Gernetto, acquistata nel 1772 dal Conte Giacomo Mellerio (1711-1782), presso la quale il Londonio era solito passare lunghi periodi di villeggiatura.

Nel corso dell’Ottocento, gli eredi Mellerio, quando fu chiara l’importanza e la rarità del complesso, fecero montare le sagome entro cornici ovali o rettangolari che furono usate come decoro stabile per i saloni della residenza brianzola.

Il Presepe del Gernetto, noto alla critica, è citato nella storiografia e in tutte le pubblicazioni dedicate a Francesco Londonio e al presepe in Lombardia.

La mostra è anche lo spunto per riflettere sulle origini del presepe e sulla sua storia e su una tradizione diventata così popolare e, in particolare, sui cosiddetti “presepi di carta”, che si diffondono a partire dal XVII secolo, con figure dipinte a tempera o a olio su carta, cartone e su tavole di legno, e più tardi anche stampate. Queste sagome, di per sé bidimensionali, una volta collocate nello spazio in un contesto realizzato ad hoc acquistavano una teatralità e una sorta di tridimensionalità, anche grazie alla presenza di un’ambientazione, di uno sfondo, di un sistema di quinte teatrali, divenendo di fatto un vero e proprio presepe. A Francesco Londonio spetta un ruolo d’indubbio primo piano tra i maggior artefici e promotori di questa tradizione in Italia. Più tardi la tipologia dei “presepi di carta” si diffonde anche a mezzo stampa raggiungendo una diffusione molto ampia.

Le scene principali del presepe sono state restaurate nell’ambito della XIX edizione del programma Restituzioni di Intesa Sanpaolo.

Altre figure sono state restaurate grazie alla generosità dell’Associazione Volontari del Museo Diocesano.

Accompagna la mostra un catalogo Silvana Editoriale.


IL PRESEPE DI CARTA DI FRANCESCO LONDONIO (1723-1783)
Milano, Museo Diocesano Carlo Maria Martini (p.zza Sant’Eustorgio, 3)
25 novembre 2021 – 6 febbraio 2022

Orari:
martedì- domenica, 10-18
Chiuso lunedì

Biglietti:
intero, € 8,00
Ridotto e gruppi, € 6,00
Scuole e oratori, € 4,00

Informazioni: T. +39 02 89420019; www.chiostrisanteustorgio.it

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche | Anna Defrancesco | T. +39 02 36755700 | M. +39 349 6107625  anna.defrancesco@clp1968.it | www.clp1968.it

IMMAGINE DI APERTURA – Il presepe di carta di Francesco Londonio, Re magio

Zitti, zitti presto a letto la Befana è qui sul tetto

Questa sera è la più magica dell’anno per i bambini che attendono l’arrivo di quella vecchina che viaggia su di una scopa. Ve le ricordate le filastrocche sulla Befana? Ne abbiamo impastate un po’ di quelle filastrocche. Su internet ne troverete a iosa, per farlo anche voi. Noi abbiamo continuato ad impastare, e preparare, anche la ricetta del carbone, che non si trova in miniera, ma in cucina. Quello dolce naturalmente! Ve lo proponiamo per inserirlo in una calza di dolci, trastulli e giocherelli. Perché vale ricordare dove stanno in gran scompiglio cavallucci e pupazzetti, palle bambole e confetti. Lei li pone tra gli alari degli spenti focolari…
La Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, ha un cappello alla romana e anche le toppe alla sottana. La Befana di Torino ha due buchi nel calzino, mentre quella di Milano ha le toppe nel pastrano. La Befana è una vecchietta, linda arzilla e piccoletta; va discinta e in man la sacca, porta scarpe alla polacca. Lo sciallino ha sulla vesta e la cuffia porta in testa…

Zitti, zitti presto a letto
la Befana è qui sul tetto,
sta guardando dai camini
se già dormono i bambini,
se la calza è già appesa,
se la luce è ancora accesa!

Quando scende è sola-sola,
svelti, sotto le lenzuola!
Li chiudete o no quegli occhi?
Altrimenti… che balocchi?
Se non fate presto i buoni
solo cenere e carboni.

I fanciulli in sul mattino,
tutti corrono al camino
e a quei doni misteriosi
restan timidi e pensosi,
esclamando: “Cosa strana!
Chi sarà questa Befana?”.

Carbone dolce della Befana – Come prepararlo

INGREDIENTI:
1 Albume
500 gr. di Zucchero semolato
100 gr. di Zucchero a velo
1 Cucchiaio di Alcool puro o Vodka
Colorante alimentare a piacere
Acqua Q.B.

Consigli:
– Usate uno stampo piccolo e alto come quello per plumcake
– Siate rapidi dopo aver unito i due composti
– Preferibilmente usate coloranti in polvere, non renderanno liquida la glassa
– Fate attenzione con la cottura del caramello, potrebbe bruciare in pochi istanti

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di GraphicMama-team da Pixabay 

Gianni Morandi – La Befana trullallà

La Befana trullallà è una canzone natalizia incisa nel 1978 da Gianni Morandi ed inserita negli album Gianni Morandi II e Abbracciamoci. La canzone, i cui autori sono Paolo Dossena, Sergio Rendine e Roberto Viscarelli, era la sigla del programma 10 Hertz, andato in onda su RAI 1 dal 18 ottobre 1978 al 5 marzo 1979 e condotto dallo stesso Morandi.
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La Befana, corruzione lessicale di Epifania (dal greco ἐπιφάνεια, epifáneia) attraverso bifanìa e befanìa, è una figura folcloristica legata alle festività natalizie, tipica di alcune regioni italiane e diffusasi poi in tutta la penisola italiana, meno conosciuta nel resto del mondo. Secondo la tradizione, si tratta di una donna molto anziana che vola su una logora scopa, per fare visita ai bambini nella notte tra il 5 e il 6 gennaio (la notte dell’Epifania) e riempire le calze lasciate da essi, appositamente appese sul camino o vicino a una finestra; generalmente, i bambini che durante l’anno si sono comportati bene riceveranno dolciumi, caramelle, frutta secca o piccoli giocattoli. Al contrario, coloro che si sono comportati male troveranno le calze riempite con del carbone o dell’aglio.
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Buon Anno a tutti noi

Ogni volta pensiamo (ci auguriamo l’un l’altro) che questo Anno Nuovo possa essere migliore di quelli passati. Come se la vita non fosse legata a una continuità mutevole. Permanenza e cambiamento, questi sono i due elementi a fondamento dell’idea di tempo. Allora, oggi che è il primo giorno dell’anno (e abbiamo tutto il tempo per approfondire concetti pregnanti) esprimiamo un semplice proposito: lasciamo immutato tutto ciò che ci soddisfa e gettiamo via tutto il resto.

Auguri

Buon Natale

Le renne di Babbo Natale stanno volando. Per fare gli Auguri a tutte le famiglie stanno portando ritardo. Gli auguri ve li facciamo direttamente noi, ma senza renne!

Auguri

IMMAGINI DI APERTURA E DI PAGINA: Foto di Jill Wellington da Pixabay 

Per i piccini: Francesco e la vera storia del Presepe

Una storia tenera, rivolta ai più piccoli e alle loro famiglie, per spiegare il senso originario della prima rappresentazione del presepe realizzata da San Francesco a Greccio. Un viaggio emozionante e tutto da scoprire!

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Jerzy Górecki da Pixabay