Art Nouveau il primo vero stile internazionale dell’età moderna

di Sergio Bertolami

18 – Un movimento dalle poliedriche manifestazioni.

Tchudi Madsen in Sources of Art Nouveau del 1956 elencava una serie di nomi utilizzati, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, per identificare il nuovo fenomeno artistico. Alcuni di questi nomi li abbiamo già incontrati, ma ne vorrei aggiungere altri, per chiarire qualche importante concetto. Cominciamo dai nomi. Troviamo un sintetico Style 1900 e appellativi che alludono agli aspetti puramente formali: Stile anguilla (Paling Sijl), Lombrico arrabbiato (Gereitzer Regenwurm), Stile onda (Wellenstil), Stile giglio (Lilienstil), Stile spaghetti (Style Nouille), Stile a spirale (Schnörkestil), Linea giarrettiera moderna (Moderne Strumpfbandlinien). Con riferimento agli ambiti geografici, oltre a quelli già detti, in Inghilterra a Modern Style si affianca Glasgow Style, Style Morris, dal nome del critico William Morris; in Francia oltre ad Art Nouveau, scopriamo Style Jules Verne, oppure Style Guimard o Style Métro, associato al disegno particolare degli ingressi alle stazioni della metropolitana parigina progettati appunto dall’architetto Hector Guimard. In Germania, oltre a Stile nuovo (Neustil) e Nuova arte tedesca (Neudeutche Kunst), si parla anche di Tenia belga (Belgoscher Bandwurm). Per contro in Belgio si usa Belgische Stil, Style des Vingt dal gruppo artistico dei Venti, e ancora Veldesche Stil o Stil van de Velde e Style Horta, in relazione all’arte innovativa dei noti architetti Henry van de Velde e Victor Horta. 

Si potrebbe continuare nell’elencazione, ma dovremmo domandarci piuttosto: perché tante e così varie denominazioni? L’idea che restituiscono questi nomi è sicuramente meno “generica” di Arte nuova, declinata nelle differenti lingue nazionali. Generica, perché è “nuova” qualsiasi cosa «avvenuta o manifestatasi da poco, spesso in contrapposizione diretta a vecchio, antico, e quindi con significato prossimo a recente, attuale, moderno» (Treccani). Basterà ricordare il titolo del libro già citato di Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894). Ai tempi, si voleva, dunque, generare un’arte “nuova e moderna”, quale espressione di tutte le forme peculiari ancorate al progresso e all’evoluzione che caratterizzavano l’età che si stava vivendo. Tutto ciò in contrapposizione a quanto era vecchio e antiquato, o quantomeno convenzionale, accademico, canonico. Lo attestavano gli stessi protagonisti del cambiamento, come ad esempio Henry van de Velde ed Hermann Muthesius. Van de Velde contestava l’idea che si dovesse raccordare l’arte con l’industria. Idea sostenuta da Muthesius, che aveva fondato la Deutscher Werkbund, un’associazione orientata ad aumentare la qualità dei prodotti artigianali e industriali. Non era una semplice polemica fra architetti di diverse nazionalità, il primo belga, il secondo tedesco. Era il cuore del problema. Affermava Van de Velde: «Finché ci saranno nel Werkbund degli artisti […] essi contesteranno ogni tipo di standardizzazione. L’artista è essenzialmente un appassionato individualista, un creatore spontaneo. Non si sottoporrà mai ad un canone». Affronteremo questa tematica nello specifico, perché aprirà un importante ragionamento su “Arte e Industria”. Per ora cerchiamo di comprendere meglio questa “Arte nuova” che pervade l’orizzonte europeo.

Dalla molteplicità delle denominazioni si ravvisa che l’Art Nouveau è l’insieme di esperienze individuali influenzate dalla cultura di Paesi differenti. Per cui è comprensibile la contrapposizione fra il belga van de Velde e il tedesco Muthesius, l’uno interessato alla libertà creativa dell’artista, l’altro precursore dell’Industrial design. Così come è evidente un’altra contrapposizione, tra le aspirazioni dello stesso Muthesius, indirizzato alla “progettazione industriale”, e le aspirazioni dell’austriaca Wiener Werkstätte attratta dal prodotto di “alto artigianato”, seguendo la lezione inglese delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri). In pratica l’Art Nouveau si presentava come un movimento rivoluzionario dalle mille sfaccettature e dalle mille contraddizioni, tanto da poter essere recepito per alcuni aspetti estremi quasi come un movimento reazionario. Rifiutava lo storicismo, ma assecondava i revival ; anticipava sorprendentemente gli sviluppi futuri, ma elogiava il pezzo unico frutto del lavoro artigianale di qualità e per questo avversava la meccanizzazione. Alcuni celebravano le scoperte della tecnica, mentre altri segnalavano i pericoli della produzione seriale nel livellamento dei gusti di massa. Il dibattito culturale si presentava, dunque, sfaccettato. Da tutto ciò conseguiva l’impossibilità, a tutti gli effetti, di definire nell’Art Nouveau un’estetica modernista univoca. Nonostante questo, il fenomeno si riverberò di nazione in nazione investendo tutta l’Europa e, oltrepassando l’Oceano, approdò anche in America.

Le tre Gorgoni all’ingresso al Palazzo della Secessione a Vienna progettato da Joseph Olbrich nel 1898
Alfons Mucha, Le quattro stagioni, 1897

Tutte quelle differenti denominazioni rappresentavano la prova tangibile che l’Art Nouveau, pur costituendo il primo vero stile internazionale dalla diffusione globale, era sfaccettato in poliedriche manifestazioni non riunite da un comune programma. Si moltiplicava in area europea la frammentarietà già riscontrata nelle stesse Secessioni, dove quella di maggior vigore fu l’austriaca, perché s’identificò almeno inizialmente con le idee del “gruppo Klimt”. Per comprendere queste contrapposizioni, basterebbe limitarsi a confrontare, in massima sintesi, proprio i caratteri della Secessione viennese con quelli della più ampia Art Nouveau europea: senso della decadenza – senso della modernità; solennità – vitalismo; staticità – dinamismo; forme geometriche – forme naturalistiche; linea spezzata – linea sinuosa; donna idolatrata – donna floreale. Quale era, al contrario, la linea comune che legava insieme questa tavolozza dalle tinte variegate? Direi l’opposizione all’Accademia e la volontà di portare avanti, comunque, la ricerca estetica verso sempre nuove sperimentazioni. Ma un altro aspetto pare non trascurabile e davvero unificante. Lo evidenziava bene Theodor Adorno, quando sottolineava che l’emancipazione dell’arte fu possibile solo sviluppando una sorta di “ideologia della citazione a domicilio dell’arte nella vita” attraverso l’assimilazione del “carattere di merce” quale preludio dell’industria culturale: «Il progredire di una differenziazione soggettiva, la crescita e l’ampliamento della sfera degli stimoli estetici, rese questi ultimi disponibili; essi poterono essere prodotti per il mercato culturale. L’accordo dell’arte con le reazioni individuali più fuggevoli si alleò con la reificazione dell’arte, la sua crescente somiglianza col soggettivamente fisico la allontanò, nella ampiezza della produzione, dalla sua obiettività e si raccomandò al pubblico; pertanto, la parola d’ordine l’art pour l’art fu la copertura del contrario».

Copertina del libro Wren’s City Churches di Mackmurdo, una stampa da The Hobby Horse (Inghilterra), pubblicata da G. Allen nel 1883

Il dibattito artistico, di per sé astratto, dunque, secondo Adorno trovò la propria concretezza in un’ampia produzione merceologica da offrire al pubblico. Ad avvalorare questo pregnante concetto è il fatto che in genere i maggiori esponenti dell’Art Nouveau, più che dall’architettura o dalla pittura, furono attratti dalle arti decorative, dal nascente design e dall’arredamento d’interni, dalla grafica e dall’editoria. Certo non mancarono architetti innovatori, come vedremo, né scarseggiarono pittori, ma quest’ultimi per esempio continuarono i temi simbolisti, rileggendoli in chiave personale e originale attraverso una notevole varietà di soggetti che influiranno su molti dei movimenti futuri. A ben guardare fra i primi esempi di questa nuova sensibilità “floreale” vanno citati i lavori di Arthur Heygate Mackmurdo. Ad esempio, la copertina di un libro del 1883 sulle chiese londinesi di Wren (Wren’s city churches) oppure i suoi disegni di stoffe, arazzi o lavori in metallo e mobili degli anni Novanta dell’Ottocento. Sicuramente è il pioniere di un linguaggio che si svilupperà nei decenni successivi, partendo dall’Inghilterra. Non va dimenticato, infatti, che Mackmurdo aveva studiato alla Ruskin School of Drawing and Fine Art di Oxford e nel 1874 aveva accompagnato lo stesso John Ruskin in Italia. In questo contesto culturale non è possibile non riferirsi anche a William Morris. Il primo effetto – osservava Nikolaus Pevsner – fu che sotto l’influsso degli insegnamenti di Ruskin e di Morris «molti giovani artisti, architetti e dilettanti, decisero di dedicarsi all’arte applicata. Ciò che per oltre mezzo secolo era stata considerata una occupazione inferiore, diventò nuovamente un compito nobile e degno». Sono questi gli anni in cui cominciò l’importazione degli oggetti orientali grazie all’apertura di una politica di scambi col Giappone. Probabilmente si deve proprio a questi scambi l’humus dell’innovazione; in modo particolare all’opera degli importatori di quei manufatti, tra i quali si distinsero Arthur Lasenby Liberty – il cognome del quale indicò in Italia quello che al momento era chiamato Stile floreale – o Sigfriend Bing, la cui bottega d’arte orientale a Parigi dette alla nuova produzione artistica la denominazione di Art Nouveau. Su Liberty e Bing ci soffermeremo ampiamente nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Laboratori d’arte per dare vita ad oggetti, di cui l’utilità è il primo principio

di Sergio Bertolami

17 – Nasce la Wiener Werkstätte di Hoffmann e Moser.

L’azienda Wiener Werkstätte (vale a dire Laboratori viennesi) nacque con l’intento di rinnovare le arti applicate sulla base di un artigianato di alta qualità. Per farlo occorreva produrre soltanto oggetti unici, di straordinaria bellezza e di esclusiva fattura. Il motto ricorrente era: «Meglio lavorare su di un oggetto per dieci giorni che produrre dieci oggetti in un giorno». Perciò fa un certo effetto cogliere una nota ironica su di una rivista del tempo: «Per giudicare le esigenze comuni osservate il modo in cui si acquistano i regali. La folla compra chiedendo: “Vorrei qualcosa di veramente economico, ma molto appariscente!” Ovviamente non c’è niente per loro nella Wiener Werkstätte». Non a caso, nel corso del primo anno di esistenza furono realizzati soltanto gioielli. Rimasero sempre i pezzi artistici preferiti, ma ben presto furono affiancati da una miriade di oggetti di uso quotidiano, preziosi però quanto gli stessi gioielli: mobili, tessuti, ceramiche, vetri, complementi d’arredo. La Wiener Werkstätte – indicata anche come Wiener Werkstatte, Vienna Workshop, Wiener Werkstaetten o Wiener Werkstätten – mirava ad unire tutti gli aspetti della vita sociale in un’opera d’arte totale, quella Gesamtkunstwerk da considerarsi come il denominatore comune per chi s’identificava con la Secessione viennese. I promotori, e gli artisti moderni più importanti che operarono per l’azienda, facevano parte del cosiddetto “Gruppo Klimt”, stretti intorno al celebre pittore. Sebbene, senza troppo rumore, fosse stata fondata nel 1903 come una semplice impresa commerciale, due anni dopo la Wiener Werkstätte s’identificò con le prerogative di uno specifico programma artistico, indirizzato principalmente all’emergente classe medio-alta della monarchia. Era strutturata, infatti, come una società produttiva formata da artisti e artigiani. Nel 1905 già contava un centinaio di dipendenti – fra i quali 37 erano i maestri artigiani – che avevano diritto, oltre al loro guadagno settimanale, ad acquistare una quota dei profitti realizzati; la quota costava duecento corone, pagabili in dieci rate mensili uguali. Con il consenso dell’esecutivo, si potevano acquisire ancora più quote, ma occorreva pagarle per intero al momento dell’acquisto. Gli ideatori di una simile azienda, che innovava persino lo status giuridico del lavoratore austriaco, erano impegnati in prima persona nella conduzione dell’impresa che avevano fondato: l’architetto e designer Josef Hoffmann, il pittore e grafico Koloman Moser, e Fritz Waerndorfer, un imprenditore con la propensione per l’arte moderna. Ai tre si aggiungerà Carl Otto Czeschka, forse meno conosciuto, ma sicuramente il più notevole fra i vari progettisti interni all’azienda. In un articolo del 1911, la prestigiosa rivista The Studio (Illustrated Magazine of Fine and Applied Art) anche di quest’ultimo, oltre che dei fondatori, esaltava le qualità: «Solo un oggetto in mostra assicurerà il suo nome fino ai posteri: un magnifico armadietto d’argento, acquistato per oltre 50.000 corone il giorno dell’inaugurazione da Herr von Wittgenstein, uno dei principali mecenati austriaci dell’arte moderna».

Il logo dell’azienda

Dal canto suo, anche l’imprenditore Fritz Waerndorfer fu, a tutti gli effetti, il cuore e l’anima della Wiener Werkstätte, giacché ritagliandosi il ruolo di direttore commerciale trasformò quello che avrebbe potuto essere un semplice laboratorio d’arte in un vero e proprio marchio, una maison d’alta classe. Investendo i capitali necessari per avviare l’attività, permise ai due promotori artistici di realizzare la loro ambizione. Hoffmann e Moser – entrambi membri chiave della secessione viennese – costituivano un vero e proprio binomio: si completavano a vicenda talmente bene che spesso era difficile distinguere i rispettivi progetti. Gli obiettivi d’altronde erano chiari ed univoci. Precisamente, per citare le parole di Hoffmann, erano quelli di «creare uno stretto contatto tra il pubblico, i designer e gli artigiani, dando vita a buoni e semplici oggetti d’interni, di cui l’utilità è il primo principio, ma con altri evidenti punti di forza basati sulle giuste proporzioni e nel giusto trattamento dei materiali, introducendo la decorazione soltanto quando possibile, mai forzandola o sovraccaricandola». È evidente come Hoffmann e Moser cercassero di promuovere una sapiente artigianalità negli oggetti domestici di uso comune, sul modello Arts and Crafts, escludendo però le decorazioni ridondanti della tradizione eclettica, che a loro avviso ne rendevano poco chiare le funzioni. Josef Hoffmann, occupato già da cinque anni nell’insegnamento alla Scuola di Arti applicate (Kunstgewerbeschule), all’interno dell’azienda assunse la responsabilità di direttore artistico. Intorno a lui raccolse alcuni fra i migliori creativi austriaci: oltre a Kolo Moser e a C. O. Czeschka, è bene citare Otto Prutscher, Adolf Bohm, Berthold Loffler, R. von Larisch, Edward Wimmer, Paul Roller, Michael Powolny, Leopold Forstner e Alfred Roller (direttore della Kunstgewerbeschule), mentre tra gli amici e simpatizzanti dell’istituzione erano Gustav Klimt, il prof. Otto Wagner, Carl Moll, i professori Metzner e F. Lederer , W.F. Jager, Anton Kling, Moritz Jung, il prof. Emil Orlik, Rosa Rothansel, Richard Taschner. Come si nota, tutti austriaci, i quali per ragioni professionali operarono anche in Germania.

Sala reception della Wiener Werkstätte

L’azienda prese sede nel quartiere urbano di Neubau, al 32–34 della Neustiftgasse, dove fu ristrutturato un edificio commerciale già esistente. I piani spaziosi ospitarono gli uffici e l’intero complesso delle attività produttive. L’igiene era alla base di una bellezza invitante, si leggeva sui giornali. Gli ambienti interni erano luminosi e salubri – a differenza delle solite fabbriche, sporche e tristi come caserme – le pareti e le parti in legno erano dipinte di bianco, quelle in ferro erano blu o rosse; inoltre, per caratterizzare ogni laboratorio vi dominava un colore specifico. All’entrata era posta una sala reception, che permetteva la collocazione a vista dei prodotti realizzati. La sala era dotata di vari salottini per le contrattazioni; in aggiunta, nel 1907, fu aperto un negozio nel centro della città, così anche il pubblicò poté ammirare direttamente le creazioni. Nelle vetrine della sala espositiva, incassate a muro, era presentata una panoramica delle numerose opere d’arte in metallo prezioso, legno, cuoio, vetro e pietre dure, gioielli e oggetti d’uso quotidiano. Tutte in forme rigorosamente coerenti alla propria funzione e al materiale. Spingendosi avanti, si incontravano gli uffici di progettazione per l’architettura e le arti applicate; nonché una buona biblioteca per istruirsi o aggiornarsi. La gran parte dello spazio dell’edificio era chiaramente destinata ai vari laboratori, dedicati alle lavorazioni di oreficeria, argenteria, gioielleria con incastonati avori cesellati e pietre preziose, officine per tutti i tipi di metalli o per l’intaglio del legno. C’era persino la legatoria per i libri e non mancavano la pelletteria, la sartoria e la modisteria, dove venivano foggiati con stile nuovi modelli di abiti, accessori e cappelli.

Alcuni dei laboratori

Piuttosto che il rumore della fabbrica, questo era il luogo dell’artigianato più silenzioso, seppure anche qui fossero installate attrezzature meccaniche. La Wiener Werkstätte, infatti, era al passo con tutte le innovazioni tecniche del momento, con una differenza sostanziale, come le cronache dell’epoca evidenziavano: «È completamente attrezzata, ma qui la macchina non è sovrana e tiranna, è invece al servizio degli artigiani, e i prodotti non ne presentano la fisionomia industriale, ma esprimono lo spirito dei loro creatori all’insegna dell’arte». La Wiener Werkstatte si articolava, dunque, in numerose manifatture, e per altre operazioni, che non poteva svolgere direttamente, si appoggiava ad una rete di fabbriche specializzate di alto pregio.

Servizio da tè di Josef Hoffmann, 1903 – © MAK/Georg Mayer
L’archivio della Wiener Werkstätte è oggi conservato al MAK – Museo di Arti applicate di Vienna ed è costituito da 16.000 bozzetti e 20.000 pezzi fra corrispondenza commerciale, cataloghi, campionature, manifesti pubblicitari, album fotografici. Inoltre, il museo espone una raccolta dei prodotti per documentare tutte le fasi creative dell’azienda.

Josef Hoffmann, ad esempio, intrattenne con la viennese J&L Lobmeyr, produttrice di lampadari e cristallerie, un lungo rapporto di collaborazione, reso più intenso dall’amicizia con Stefan Rath, che aveva ereditato la società dal nonno. Gli articoli in ceramica furono invece prodotti nella Wiener Keramic-Werkstatte condotta da Michael Powolny e dal prof. Berthold Loffler, le lavorazioni a mosaico furono eseguite nella Wiener Mosaic-Werkstatte guidata da Leopold Forstner, i tessuti stampati a macchina od operati a mano furono realizzati da Backhausen and Sons, così molte altre attività furono compiute sempre in stretto contatto con la WAV, come familiarmente era chiamata la Wiener Werkstätte fra gli addetti ai lavori.

Sale da pranzo del Sanatorio Purkersdorf

Il settore di architettura era uno dei più importanti all’interno della Wiener Werkstätte. L’architetto responsabile, Paul Roller, aveva studiato col prof. Otto Wagner all’Accademia di Belle Arti, come d’altronde aveva fatto lo stesso Hoffmann. Paul Roller era più di un architetto, informa sempre The Studio: «Pratico come un muratore, avendo attraversato tutte le fasi del suo mestiere, è un operaio completo nel miglior senso della parola, oltre ad essere un uomo della più alta intelligenza. Ha diversi giovani architetti che lavorano sotto di lui, come Karl Brauer, Emil Gerzabek, Wilhelm Martens, Johann Schloss e Rudolf Auswald, tutti ex studenti della Kunstgewerbeschule di Vienna, un fatto che la dice lunga sulla qualità del lavoro svolto alla Werkstatte». Questa attenzione all’architettura era sostanziale nella conduzione dell’azienda. Per capire come una iniziativa, sia pure artistica, possa imporsi (o al contrario declinare) non si possono tralasciare le strategie economiche e finanziarie. L’amicizia fra Josef Hoffmann e Berta Zuckerkandl portò, ad esempio, al primo grande incarico per la Wiener Werkstätte, il sanatorio di Purkersdorf, ad ovest di Vienna, edificato negli anni 1904-05 per conto del cognato di Berta, l’industriale Victor Zuckerkandl.

Sala da pranzo di Palazzo Stoclet, alle pareti il Fregio di Klimt

L’altro incarico di notevole risonanza fu palazzo Stoclet, il più famoso progetto di Josef Hoffmann, realizzato tra il 1905 e il 1911 nell’hinterland di Bruxelles. A Vienna e in altre città dell’Austria la Wiener Werkstätte costruì o ristrutturò ville, arredandole e decorandole di tutto punto. Si realizzarono negozi e uffici in molte località ed anche il governo austriaco richiese l’intervento dell’azienda. Per eseguire le opere di falegnameria, inizialmente nel 1904, s’impiantò un laboratorio interno, ma ben presto fu necessario commissionare la produzione di mobili ad eccellenti falegnami ed ebanisti come Portois & Fix, Johann Soulek (Palais Stoclet, Haus Ast), Anton Ziprosch e Franz Gloser (Purkersdorf), Anton Herrgesell, Anton Pospisil, Friedrich Otto Schmidt e Johann Niedermoser. In ogni caso, tutti i lavori affidati ai maestri artigiani dovevano rispondere a requisiti di qualità estremamente severi, affinché i prodotti si potessero esporre e commercializzare nei punti vendita della capitale o nelle filiali all’estero: Karlsbad (1909), Marienbad e Zurigo (1916/17), New York (1922), Berlino (1929).

Architetture, arredo e complementi, erano solo una parte della produzione diretta o indiretta della Wiener Werkstatte. Al suo interno, per fare ancora un esempio, non si stampavano libri, ma si graficizzavano e si seguivano nel loro percorso editoriale e finalmente, quando erano pronti, i sedicesimi venivano rilegati in marocchino con la massima cura. Era utilizzato soltanto il cuoio migliore, dando vita a creazioni eleganti e resistenti, ma dal costo elevato. Erano libri per bibliofili, dalle copertine pregiate, trattate o intarsiate con oro, eseguite su disegni personalizzati da Hoffmann, da Moser, da Czeschka o da qualche altro artista specificamente richiesto dai committenti. A dirigere la legatoria era un maestro rilegatore di nome Beitel. In un differente laboratorio, altri maestri artigiani erano invece indaffarati nella realizzazione di borse da donna in pelle o astucci per oggetti di valore, anche questi fatti esclusivamente a mano. L’ultimo ideato fu il reparto in cui foggiare le “mode”, così erano chiamate tutte quelle creazioni di lusso con ruolo sempre crescente nei gusti raffinati dell’alta società, come nel caso di abiti femminili e cappelli. Il settore – affidato a Edward Wimmer, originale artista dalla fervida fantasia, assistito dalla sarta Marianne Zeis – produsse creazioni moderne in seta e nei migliori tessuti, su modelli ideati dagli stilisti. La Wiener Werkstätte s’impose, dunque, come sinonimo di eleganza e raffinatezza. Una infinità di prodotti che esprimevano un savoir-faire unico. Un patrimonio di composizioni innovative, realizzate con dedizione. Un impegno dinamico, per dare spazio alla modernità.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Gustav Klimt – “Uno stile nuovo conquistato combattendo”

di Sergio Bertolami

16 – Dopo la Künstler-Compagnie il “periodo d’oro”.

Klimt non amava viaggiare, racconta il suo biografo Christian M. Nebehay. Gli bastava allontanarsi da casa per essere colto da un’eccessiva nostalgia. Adorava, però, l’Italia e ci venne ripetutamente, ma, per esempio, una volta rifiutò un lungo soggiorno a Firenze, proposto dallo scultore Max Klinger, che l’anno precedente aveva acquistato Villa Romana, immersa in 15.000 mq di parco. Su iniziativa del mecenate Harry Graf Kessler, Klinger aveva costituito nel 1903 – insieme ad Alfred Lichtwark , Max Liebermann , Lovis Corinth , Max Slevogt, Walter Leistikow – la Deutsche Künstlerbund, un’associazione di artisti tedeschi, con lo scopo di raggruppare le varie correnti sovranazionali in cui erano sfaccettate le Secessioni, così da promuoverne l’attività. Con i fondi messi a disposizione, fu acquistata questa bella villa neoclassica di 40 stanze, alla periferia di Firenze, per renderla disponibile come residenza ed atelier. Permetteva agli artisti vincitori dell’omonimo Premio Villa Romana (tutt’ora esistente) di soggiornare a Firenze, fruendo altresì di una borsa di studio. Da allora, ogni anno la villa ospitò, fra gli altri, Georg Kolbe (1905), Max Beckmann (1906), Käthe Kollwitz (1906) e Ernst Barlach (1908). Quattro vincitori del Premio l’anno, per un periodo di dieci mesi. Gustav Klimt, nel 1906, nonostante tutto rifiutò. Probabilmente non fu solo la nostalgia a pesare sull’animo dell’artista. Forse lo condizionò anche lo scioglimento della Künstler-Compagnie – lo studio di arti decorative aperto col fratello Ernst e Franz Matsch – e la malattia nervosa che seguì alle violente critiche che sfociarono nel rifiuto dei suoi dipinti allegorici per il soffitto dell’aula magna dell’Università di Vienna. Dipinti giudicati troppo carichi di pessimismo e di simbolismo erotico, per non dire addirittura pornografici. Klimt non parlava molto, ma era solito rispondere alle domande: «Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio». Tanti putiferi portarono comunque il pittore ad una reazione estrema: non accettare più commissioni pubbliche e lavorare soltanto per una ricca élite di committenti privati. Questa decisione incise sulla sua espressività artistica, perché i successivi dipinti murali furono caratterizzati da un disegno lineare e dall’uso audace di motivi decorativi, piatti nel colore. Il fregio di Beethoven (1902) e i mosaici per la sala da pranzo di palazzo Stoclet a Bruxelles (1905-1909), furono l’espressione diretta di questa nuova tendenza dell’artista.

L’ingresso a Villa Romana, 1914 (Studio Lois Held)

Incurante delle critiche al suo lavoro per l’Università, Klimt portò a termine in contemporanea anche il Fregio di Beethoven, realizzato per la 14ª mostra della Secessione viennese, che si svolse dal 15 aprile al 27 giugno del 1902. Fu allestita negli spazi espositivi del Palazzo della Secessione, trasformato in un tempio laico dedicato al grande compositore tedesco. Qui ebbe modo di lavorare con Max Klinger, che per il centro della grande sala espositiva aveva effigiato Beethoven, componendo una scultura in marmi policromi, alabastro, bronzo e avorio. Il fregio dipinto da Klimt, che adornava il fondo della sala adiacente, dal momento che era destinato soltanto alla mostra, fu realizzato direttamente sulle pareti. In fatto di allestimenti, l’artista aveva fatto esperienza con la Künstler-Compagnie, avendo decorato tramezzi, soffitti, sipari, con le tecniche artigianali che la tradizione consentiva. Per ottenere gli effetti visivi desiderati, sulla superficie pittorica a fresco, ricoperta da colori alla caseina, inserì frammenti di specchi, vetri policromi, pietre dure, madreperla, e persino chiodi da tappezziere. Stese, perciò, un intonaco su di un cannucciato di due metri d’altezza e ben ventiquattro di lunghezza. Una fortuna, perché dopo la mostra, il dipinto suddiviso in sette pannelli poté essere staccato, per entrare a far parte prima della collezione dell’industriale della birra Carl Reininghaus, quindi dal 1915 in quella di August Lederer, la seconda famiglia più ricca di Vienna, dopo i Rothschild, con un patrimonio accresciuto grazie a distillerie e amido. L’opera di Klimt rileggeva l’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven e, con una visione simbolista, svolgeva a nastro il tema dell’eterna lotta tra bene e male alla ricerca della felicità. Le tre scene allegoriche rappresentavano il trionfo dell’arte sulle avversità – perché solo le arti conducono in un regno ideale – ma in modo del tutto differente, perché la tridimensionalità della pittura realizzata per i tre dipinti di Filosofia, Medicina e Giurisprudenza, non esisteva più. Klimt l’aveva sostituita con una pittura lineare e bidimensionale, un astratto richiamo all’arte vascolare greca e alla pittura egizia.

L’Omaggio a Beethoven, nell’angolo alto il Fregio di Gustav Klimt. Nella sala attigua la scultura di Max Klinger
Josef Hoffmann, pianta dell’allestimento dell’Omaggio a Beethoven (1902). Nella sala centrale la statua di Max Klinger, in quella di sinistra il Fregio di Gustav Klimt.

Klimt si richiamò al tema del fregio di Beethoven anche per le tre scene dipinte nella sala da pranzo di palazzo Stoclet. Nel 1904 l’architetto Joseph Hoffmann era stato incaricato dal ricco industriale Adolphe Stoclet di erigere l’imponente e sontuoso palazzo dell’Avenue de Tervueren a Bruxelles (dal 2009 inserito nel patrimonio mondiale dell’UNESCO). Stoclet, ingegnere, finanziere, collezionista d’arte, aveva dato a Hoffmann ampio mandato di edificare la propria villa di famiglia. Senza limiti di spesa. Dimostrazione questa, che spesso è l’apertura mentale e la disponibilità economica della committenza a far mettere in luce le qualità degli artefici; anche se vale il caso contrario, perché una ricca committenza (quella illuminata) non si rivolgerebbe mai a dei mediocri. Nel progetto Hoffmann interessò molti artisti e artigiani viennesi, con l’obiettivo di realizzare quella Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, tanto teorizzata e divenuta, con questa opportunità unica nel suo genere, finalmente possibile a realizzarsi. Un’opera in cui arti applicate e figurative si fondevano con la spazialità propria dell’architettura vera, connessa al binomio invaso-involucro. Hoffmann eseguì il progetto in accordo con il committente. Alla Wiener Werkstätte fu affidata la progettazione artistica e Fritz Waerndorfer convenne con i soci fondatori dell’importante laboratorio d’arte – Koloman Moser e lo stesso Josef Hoffmann – di affidare a Gustav Klimt, il disegno di un fregio spettacolare che avrebbe decorato la sala da pranzo del palazzo. L’intervento previde l’apporto di molti artigiani e artisti qualificati come Michael Powolny, Franz Metzner, Bertold Löffler. In particolar modo, il laboratorio di mosaico della Wiener Mosaic-Werkstatte, diretto a Leopold Forstner, mise in opera gli esecutivi di Klimt, impegnando specialisti in metallo e oreficeria, ceramica e smalto. È probabile che Klimt abbia redatto nel 1905 il primo progetto, immaginando una scena paradisiaca con viticci d’oro, fiori, uccelli e personaggi. Ma è altrettanto probabile che, nel 1908, l’artista abbia richiesto significative modifiche di progetto prima dell’esecuzione del mosaico definitivo. L’opera realizzata a Vienna fu installata a Bruxelles nel 1911 alla presenza di Klimt. Il fregio si trova nella grande sala da pranzo di 6×12 metri, quindi un perfetto rapporto dimensionale di uno a due. Qui nulla è lasciato al caso e ancora oggi tutto è conservato com’era allora. Si accede da due porte contrapposte sui lati lunghi, sia dalla hall che dalla sala colazioni. Al centro c’è un tavolo da pranzo allungato e scuro, contornato da rigide sedie rivestite in pelle nera e oro goffrato. Il pavimento è concepito con piastrelle nere, bianche e giallastre, a scacchiera. Un grande tappeto decorato con ornamenti color oro copre l’area sotto il tavolo. Nei due lati lunghi sono disposti i buffet in marmo nero Portovenere e, sopra di questi, sono incastonati i due fregi musivi di Klimt. Ciascuno, alto due metri e lungo sette, è caratterizzato da una rappresentazione figurativa: da un lato una donna sola, dall’altro una coppia stretta in un abbraccio. Sebbene in molte pubblicazioni siano denominate Aspettativa e Realizzazione, lo stesso Gustav Klimt ha definito le due scene come Ballerina e Abbraccio. Il motivo fondamentale del fregio è un grande albero stilizzato con ramificazioni a spirale. Simboli della ciclicità della vita, di una coscienza che si evolve, progredisce, matura, ma riprodotta al contrario di una coscienza che degenera fino a fermarsi.

Fregio di palazzo Stoclet, pannello di sinistra, L’aspettativa (La ballerina) da Wikipedia
Fregio di palazzo Stoclet, pannello di destra, La realizzazione (L’abbraccio) da Wikipedia

Nell’agosto 1903, Klimt descriveva, in una lettera indirizzata a una sua amica, il programma delle sue giornate estive che ogni anno trascorreva all’Attersee, l’incantevole specchio d’acqua in Alta Austria: «È molto semplice e piuttosto regolare. Alla mattina presto, in genere alle 6, poco prima o poco dopo, mi alzo; se il tempo è bello, vado nel bosco vicino, lì dipingo un boschetto di faggi (al sole) mescolati a qualche conifera, vado avanti così fino alle 8, poi si fa colazione, e poi si fa un bagno nel lago, con ogni cautela; poi dipingo ancora un po’, un paesaggio lacustre col sole, oppure se il tempo è brutto un paesaggio ripreso dalla finestra della mia camera. A volte al mattino, anziché dipingere, studio i miei libri giapponesi all’aria aperta. Si fa mezzogiorno, dopo mangiato un pisolino o una lettura fino all’ora della merenda, e prima o dopo la merenda un secondo bagno nel lago, non sempre ma spesso. Dopo la merenda nuovamente dipingo (un grande pioppo al tramonto sotto l’infuriare di un temporale); oppure, a volte, faccio una partita a bocce in un posticino nelle vicinanze, ma di rado; cala il tramonto, si cena, e poi a letto presto, e poi di nuovo il giorno dopo giù dal letto di buon’ora. Qualche volta in questo programma riesco a infilare anche una rematina, per rinvigorire un po’ i muscoli». Qualche volta invece riesce ad “infilare” anche qualche viaggio all’estero. In Italia ad esempio. Proprio nella primavera del 1903 Klimt e compie un viaggio a Venezia, Firenze e Ravenna. Visitò due volte Ravenna, nello stesso anno, perché a primavera rimase fortemente colpito dai mosaici bizantini osservati in San Vitale. Rimase impressionato dall’uso semplificato dello spazio bidimensionale, da quegli sfondi dietro maestosi personaggi come Teodora, Giustiniano e la loro corte. Immagini rarefatte, irreali, restituite dalle superfici brillanti e dorate. Ecco perché a dicembre decise di tornare: voleva studiare in modo approfondito la tecnica musiva, e soprattutto le potenzialità espressive dell’oro. Prendono vita, così, alcuni dei capolavori noti a tutti, quando si parla di Klimt. Si identificano col cosiddetto “periodo d’oro”. Si era già servito di questo prezioso materiale in opere precedenti, d’altra parte per un’artista, figlio di un orafo incisore, l’oro è il ricordo dell’infanzia. Aveva adoperato l’oro, ad esempio nelle due versioni dell’Allegoria della musica (1895 e 1898) o in Pallade Athena (1898), in Nuda Veritas (1899) e in Giuditta I meglio noto col titolo di Salomè (1901), e nuovamente nel Fregio di Beethoven (1902). Dopo il viaggio in Italia Klimt, tuttavia, utilizzò l’oro in maniera sistematica, non solo applicato in foglia, ma anche nella struttura compositiva a incastro di tessere preziose, cha tanto ricordano i mosaici di San Marco a Venezia. Hanno lo scopo di separare i personaggi rappresentati da qualsiasi legame con il contesto oggettivo e proiettarli nella dimensione poetica.

Scrive Ludwig Hevesi: «Ero tornato dalla Sicilia solo da quattro giorni e avevo ancora addosso tutta l’ebbrezza dei mosaici […] questo mi venne in mente mentre ero davanti al dipinto di Klimt. Questo mi illuminò con il suo oro […] Uno stile nuovo conquistato combattendo, dopo tutte le orge pittoriche dell’ultimo decennio. Una forma e un colore più solenni e religiosi». In verità, di religioso i ritratti di Klimt hanno poco. Non di certo Pesci d’oro (1901-1902) che, per lo scalpore suscitato, Klimt sarcasticamente pensò di dedicare quelle nudità Ai miei critici. Neppure le due versioni di Giuditta: la prima con la testa di Oloferne (1901) esaltazione della femme fatale, ammaliatrice e vendicativa; la seconda (1909) dove più che la testa del decapitato sono messi in mostra i seni nudi della seduttrice. Non certamente Il bacio (1907-1908) dove i due innamorati sono ricoperti di simboli allusivi al sesso. Né tantomeno in Danae (1907-1908) fecondata nel sonno dalla pioggia d’oro di Zeus. Si capirà che la libertà provocatoria con la quale Klimt trattava i suoi soggetti non poteva che accendere polemiche. Il suo messaggio anticonformista era affidato all’eros, rappresentato da una immagine femminile depositaria della vita e della bellezza. Basti guardare alle Tre età della vita (1905). In primo piano, l’artista raffigurò una delicatissima scena di maternità: la bambina assopita serena tra le braccia della mamma, anche lei con un’espressione di felicità interiore. Ma è la terza figura della nonna, con il corpo marcato dagli anni, a restituire la sensazione del tempo che trascorre. Il dipinto vinse il premio all’Esposizione d’Arte Internazionale di Roma del 1911 e dall’anno successivo è ammirato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Manco a dirlo, anche questo dipinto destò clamore.

Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, 1907, 138×138 cm, Neue Galerie, New York

Non fu esente da critiche neppure un altro dipinto mirabile, Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer (1907). È oggi uno dei quadri più preziosi al mondo, alla stregua di una moderna Monna Lisa. La donna, figlia di un ricco banchiere e moglie del proprietario di uno zuccherificio, è completamente immersa in uno sfondo decorativo, bidimensionale. Un quadro tutto giocato sul geometrismo, a cominciare dal perfetto formato quadrato della tela. Il contrasto fra eros e thanatos, che ne emana, è espresso simbolisticamente dalle mani intrecciate della protagonista, quasi a tentare di fermare la caducità della vita. Quanti occhi hanno guardato lo splendore giovanile di questa donna? Occhi rappresentati nel tessuto della veste, che si trasforma in uno spettacolare turbinio di forme geometriche, in combinazione fra loro, sullo sfondo dorato, nel quale, ancora una volta, campeggia la spirale dell’albero della vita. Beffarde furono le recensioni di stampa. L’avere impiegato, da parte di Klimt, quella profusione di lamine d’oro e argento, portò a coniare un graffiante calembour: «Mehr Blech als Bloch», come dire “Più lamiera che donna”, gioco di parole tra Blech (foglio di lamiera) e Bloch, il cognome dell’eterea Adele nel dipinto raffigurata.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Gustav Klimt – “Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte”

di Sergio Bertolami

15 – Le polemiche sulle opere di Klimt.

«Come il comitato direttivo non può ignorare, un gruppo di artisti figurativi sta cercando da anni, all’interno dell’Associazione, di trovare riconoscimenti per le proprie concezioni artistiche. Queste concezioni culminano nell’affermazione della necessità di stabilire un rapporto più vivace tra la vita artistica viennese e l’evoluzione dell’arte all’estero e di organizzare il sistema espositivo su una base puramente artistica, libera da caratteristiche di mercato, risvegliando così in circoli più ampi concezioni artistiche più chiare e moderne e, in ultima analisi, stimolando i circoli ufficiali a una maggiore cura dell’arte». Con queste parole Gustav Klimt, il protagonista indiscusso della scena artistica viennese tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si rivolgeva alla Casa degli artisti (Künstlerhausgenossenschaft) per annunciare ufficialmente la volontà di creare un organismo maggiormente rappresentativo delle nuove istanze. Nasceva la Wiener Sezession e i concetti espressi nella lettera non mancarono di essere ripresi nello Statuto. Gustav Klimt, al tempo trentacinquenne, fu nominato presidente e si avviò a diventare l’astro dell’arte nuova. Le sue affermazioni artistiche, tuttavia, non combaciavano con gli eventi della vita personale. Era appena uscito da una profonda crisi esistenziale che lo aveva portato ad anni di scarsa attività. Causa principale un duplice lutto in famiglia nel giro di qualche mese. Suo padre era morto a luglio del 1892, ed ecco che a dicembre veniva a mancare anche Ernst, uno dei suoi due fratelli minori. Insieme a Ernst e a Franz Matsch, compagno di studi, Gustav Klimt aveva dato vita a un atelier, con sede a Vienna, per la decorazione di pareti e soffitti in edifici privati, come quelli nascenti sulla Ringstrasse, e in edifici pubblici, specialmente teatri. Con il nome di Künstler-Compagnie (la Compagnia degli Artisti) i tre soci operarono per quasi dodici anni, a partire dal 1881. Insieme realizzarono, dal 1886 al 1888, gli incantevoli dipinti per il soffitto della scalinata del Burgtheater. Raffiguravano l’antico teatro di Taormina, il Globe Theatre di Londra e la scena finale del dramma “Romeo e Giulietta” di Shakespeare. Nel 1890 la fama riscossa valse ai tre giovani artisti la Croce d’oro al merito (Goldene Verdienstkreuz), un riconoscimento civile istituito dall’imperatore Francesco Giuseppe I. Per il suo talento, Gustav Klimt era già considerato come il continuatore del grande Hans Makart, che aveva contrassegnato la bella époque come originale e riconosciuto maestro. La morte di Ernst provocò, invece, una grave crisi nella Künstler-Compagnie. Gustav fu colto da una forte depressione, che bloccò in gran parte la sua creatività, al contrario di Franz Matsch, che raccolse i frutti di un successo finanziariamente vantaggioso, tanto da essere elevato a pittore di corte. La crisi di Klimt, però, interessava anche, e soprattutto, il piano espressivo, perché sentiva di dover prendere strade diverse dal classicismo di maniera che i lavori di studio gli permettevano.

Gustav Klimt con Ernst Klimt e Franz Matsch, Il Teatro di Taormina,
dipinto sul soffitto del Burgtheater di Vienna, 1886-1888

Ora, coinvolto nella Secessione viennese, tornava a considerare un nuovo senso della vita. Non poteva di certo immaginare che nel giro di poco tempo le considerazioni scandalizzate intorno ai suoi dipinti di sconcertante realismo lo avrebbero spinto, una volta di più, a cambiare rotta. A documentare le polemiche su Klimt fu il drammaturgo e critico Hermann Bahr. Il suo libro Contro Klimt (Gegen Klimt, Vienna 1903) a detta dell’autore, avrebbe dovuto essere la testimonianza di «un marchio d’infamia da consegnare ai posteri, per far loro sapere di che cosa si fosse capaci in Austria intorno al Millenovecento». Klimt e Bahr, legati da una forte amicizia, condivisero la causa della modernizzazione dell’arte a Vienna, spingendo verso una precisa coscienza di quanto si stesse producendo in altre nazioni europee. «Quando a Parigi, allora, parlavo di Vienna, – ricordava Bahr – la risposta era sempre la stessa: “Là-bas? C’est en Roumanie, n’est-ce pas?” (Vienna? È là, in Romania, o no?); insomma, eravamo una provincia asiatica». Da allora, con la Secessione le cose erano cambiate in meglio.

L’articolo di Hermann Bahr, Secession, sul primo numero di Ver Sacrum (Vienna, gennaio 1898)

Klimt aveva conosciuto Bahr a proposito dell’uscita della rivista ufficiale della Secessione: «Stimatissimo signore! – scriveva il pittore al prestigioso letterato – In nome dell’Unione degli artisti figurativi d’Austria sono qui a ricordarLe la gentilissima promessa, che a suo tempo fece ai nostri rappresentanti, e cioè di scrivere un articolo per Ver Sacrum, l’organo della nostra Unione, che è in procinto di iniziare le sue pubblicazioni; considerando inoltre che il primo numero dovrà essere il più raffinato possibile e che l’Unione considera di vitale importanza inserire l’articolo promesso proprio nel primo numero, mi permetto di chiederLe di comporre questo articolo. Alcuni delegati dell’Unione si prenderanno la libertà di venire a ritirarlo tra qualche giorno». Bahr inviò un suo intervento intitolato “Secessione”, che immancabilmente apparve nelle pagine 8-13 dell’elegante numero iniziale.

Gustav Klimt, Nuda Veritas, 1899,
olio su tela (252×56,2 cm)
Österreichisches Theatermuseum, Vienna

L’opera di cui Hermann Bahr s’innamorò fu, in modo particolare, Nuda veritas (Wahrheit) che Klimt dipinse nel 1898. Una donna dai capelli rossi completamente nuda tiene in mano lo specchio della verità, mentre sopra di lei una citazione di Friedrich Schiller avverte: «Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte. Rendi giustizia a pochi. Accontentare molti è sbagliato». È una figura longilinea e ieratica, vicina all’estetica simbolista e in sintonia perfetta con la donna fatale e peccaminosa di Franz von Stuck. Fra i pochi a sostenere l’opera fu Hermann Bahr, che l’acquistò. Al confine tra Ober-St. Veits zum Lainzer Tiergarten, Bahr si stava facendo costruire da Joseph Maria Olbrich una villa, per sé e sua moglie, simile a una fattoria della Germania meridionale. Pregò, quindi, Olbrich di fare della Nuda veritas il punto focale del suo studio. Nell’ambiente volle soltanto questo quadro, assieme ad altri tre disegni, sempre di Klimt, e a una fotografia dell’artista.

La villa di Hermann Bahr, costruita su progetto di Joseph Maria Olbrich

Nel più tranquillo isolamento, la casa divenne un luogo d’incontro per la Vienna artistica negli anni fra il 1900 e il 1912. I padroni di casa accoglievano ospiti della levatura di Gustav Klimt, Kolo Moser, Otto Wagner, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Richard Beer-Hofmann, e dopo il secondo matrimonio di Bahr nel 1909 – con la cantante d’opera di corte e interprete di Richard Wagner Anna von Mildenburg – Richard Strauss e Gustav Mahler. Nel 1918 Bahr annotò che, nei giorni in cui la stanchezza degli anni si faceva più sentire, per rinfrancarsi gli era sufficiente contemplare quelle opere di Klimt. A lui era riconoscente, perché proprio alla sua sensibilità doveva «le ore più sublimi che un artista mi abbia mai donato in vita mia».

Sistemazione esterna della villa Bahr, su progetto di Joseph Maria Olbrich

Le controversie nei confronti di Klimt, alle quali accennavo, iniziarono a proposito dei dipinti commissionati dal Ministero della Cultura e dell’Istruzione (Ministerium für Kultur und Unterricht), al quale spettava delineare la politica austriaca in ambito religioso, didattico e culturale. Il contratto fu stipulato nel 1898. Klimt e Franz Matsch – fino a cinque anni prima soci dello stesso atelier – avrebbero dovuto decorare il ​​soffitto dell’Aula magna dell’Università di Vienna, nell’edificio di recente costruzione. Era stato scelto il tema del progetto, incentrato sulla Vittoria della luce contro le tenebre. Delle quattro facoltà, Klimt ebbe mandato di rappresentare Filosofia, Medicina e Giurisprudenza. Non Teologia, affidata soltanto a Matsch, insieme alla scena centrale riferita al tema, tutt’oggi presente all’Università di Vienna. Diversamente accadde per i lavori di Klimt. Il primo dei pannelli da ancorare a soffitto, riguardante La Filosofia, s’ispirava alle Porte dell’Inferno di Auguste Rodin. Nonostante fosse stato premiato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 – ottenendo il prestigioso “Grand Prix” come migliore opera straniera – quando fu proposto alla settima mostra della Secessione viennese, sulla stampa vicina al governo furono sollevate aspre polemiche. Erano partite all’interno della stessa Università, provocate da ottantasette docenti, guidati dallo stesso rettore Wilhelm Neumann, i quali firmarono una petizione al ministro dell’Istruzione per chiedere di respingere il dipinto di Klimt. Parte dei firmatari non conosceva neppure l’opera, ma condivideva le aspettative della committenza che avrebbe voluto una rappresentazione solenne ed edificante.

Da principio, Bahr non si espresse, d’alta parte l’anno precedente aveva lasciato Die Zeit, che aveva fondato nel 1894, e quindi non aveva neppure a disposizione le colonne di un giornale di rilievo per intervenire. Quando, però, le discussioni si accrebbero e le critiche si esacerbarono, Bahr si schierò subito a fianco dell’amico. Klimt il 15 marzo dell’anno successivo consegnò anche la seconda delle tre allegorie in contratto, La Medicina, che provocò persino discussioni in parlamento e le dimissioni del ministro in carica. Si gridava all’oltraggio delle istituzioni. Questo clamore inconsulto minacciava i progressi ottenuti finora con la Secessione. In una conferenza alla Bösendorfersaal, Bahr manifestò la sua preoccupazione, non certo per Klimt: «Il consenso non può dargli nulla, il dileggio non può togliergli nulla […] No, qui non si tratta di lui, ma di noi. Non è lui a essere in pericolo, ma noi. A lui non può capitare nulla, siamo noi che rischiamo di diventare lo zimbello di tutta l’Europa […] Nell’ambito delle arti decorative si è addirittura creato uno stile particolare ormai chiamato semplicemente austriaco. Se è così, lo dobbiamo a uno sparuto gruppo di uomini, dodici o al massimo quindici in tutto. Per nessuno di loro restare qui è una necessità; nessuno è legato all’Austria da un qualche interesse materiale, ciascuno di loro può decidere di andarsene anche domani e il giovane arciduca d’Assia, che ha la bell’ambizione di fare della sua piccola Darmstadt una moderna Atene, non potrebbe esserne più contento». L’avvocatura di Stato chiese il sequestro della rivista Ver Sacrum sulla quale comparivano i disegni preparatori per La Medicina, e gli esagitati chiedevano persino la distruzione degli originali. Ancora più scandalo provocò l’ultimo pannello, La Giurisprudenza, realizzato fra il 1903 e il 1907. Una ventina di deputati chiesero espressamente al ministro dell’Istruzione di rimuovere i tre pannelli. Le polemiche non ammorbidirono affatto le posizioni di Klimt, che per tutta risposta rese l’opera ancora più aggressiva rispetto agli schizzi preparatori. Inoltre i contrasti finirono anche per logorare i rapporti fra i due stessi ex soci. Il 24 marzo 1905, in una seduta della Commissione artistica dell’Università, Franz Matsch prese le distanze da Klimt. Fra i due fronti avversi, a questo punto, un accordo non sembrava più possibile. Quando la Commissione decise, infatti, che le tele dipinte per l’aula magna fossero collocate nella Galleria di Stato per l’Arte Moderna (Moderne Staatsgalerie) Klimt rifiutò, offeso dal ripiego suggerito. Al punto in cui si era giunti, forte di quella «mirabile sicurezza dei grandi spiriti», che l’amico Bahr gli attribuiva, il pittore prese una convinta decisione: «Attraverso ripetute allusioni – dichiarò – il ministero mi ha fatto capire che sono diventato motivo d’imbarazzo. Ma per un artista, nel senso più elevato del termine, non c’è niente di più penoso di creare delle opere, e per questo ricevere un compenso, da un committente che non gli offra col cuore e con la ragione il suo pieno appoggio». Non sorprende quindi che il 3 aprile Klimt si sia ritirato dall’incarico, mentre Matsch cercò di terminare i lavori iniziati, ma ci riuscì solo nel caso del tema centrale. Klimt restituì la somma che gli era stata anticipata e pretese di avere indietro i dipinti eseguiti. Questa fu l’ultima commessa pubblica accettata dall’artista, che da questo momento in poi lavorò solo per i privati. Le tre allegorie entrarono a far parte della collezione di August Lederer. Nel 1945, le tele confiscate dai nazisti furono trasferite nel castello di Immendorf, con altre opere d’arte e mobili di pregio. L’ultimo giorno di guerra (8 maggio 1945) sono andate distrutte da un incendio appiccato dalle truppe tedesche in ritirata. Sono scomparsi così dei capolavori destinati a influenzare come pochi l’arte moderna.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Con lo “Stile Secessione” in tre mosse Vienna fa scacco all’Europa

di Sergio Bertolami

14 – L’arte nuova della Secessione viennese.

La Wiener Secession fu istituita il 3 aprile del 1897. Il nome di Secessione viennese sintetizza quello ufficiale di Vereinigung bildender Künstler Österreichs (V. b. K. Ö.), ovvero Associazione degli artisti figurativi austriaci. La rivoluzione culturale della Secessione varcò, dunque, i confini tedeschi e si estese in Austria. In quest’epoca a Vienna, capitale dell’impero austro-ungarico, era presente un’impressionante concentrazione di geni. Stavano già dando vita al cambiamento un medico come Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, scrittori come Robert Musil o Karl Kraus, un filosofo della scienza come Ernst Mach, un compositore come Gustav Mahler, che bene sintetizzava la varietà di popoli ed etnie dell’Impero, quando di sé diceva «Sono un boemo tra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi e un ebreo tra i popoli di tutto il mondo». Pare scontato ripetere che anche qui artisti e architetti – come Gustav Klimt, Kolomon Moser, Otto Wagner, Josef Hoffman, Joseph Maria Olbrich – manifestarono il loro rifiuto contro l’accademismo, il gusto storicista, il naturalismo borghese. Si potrebbe aggiungere che i rapporti tra i giovani artisti e le pubbliche istituzioni s’inasprirono quando Eugen Felix, difensore accanito del classicismo, fu eletto presidente della Künstlerhaus (la Casa degli artisti). Fu allora che Gustav Klimt e un gruppo di altri progressisti lasciarono la Genossenschaft der bildenden Künstler Wiens, la Cooperativa di artisti visivi interna alla Künstlerhaus. Si mossero, come una marea, per riunire intorno a loro simbolisti, modernisti, naturalisti, stilisti. L’affermato maestro Rudolf Alt, ottantacinquenne, fu eletto presidente onorario e Gustav Klimt presidente operativo. Anche molti accademici componevano la schiera: Myslbek, Hellmer, Julian Falat, Hynais. Tra i giovani si distinguevano Engelhart e Moll in particolare, Bernatzik, Bacher, Krämer, Knüpfer, Mayreder, Ottenfeld, Stöhr, Jettel, Delug e tanti altri. Non solo viennesi, perché fra gli oltre quaranta fondatori troviamo i componenti della Nuova Monaco e della Nuova Berlino: Stuck, Marr, Herterich, Dettmann, Kuehl, Dill. E non solo tedeschi, perché fra i “membri corrispondenti stranieri”, troviamo il belga Fernand Khnopff, l’olandese Jan Toorop, lo svizzero Ferdinand Hodler, il tedesco Max Klinger.

Gustav Klimt a 25 anni, in una foto del 1887

Dire che l’interesse centrale della Secessione viennese puntava alla Gesamtkunstwerk può far capire quale fosse l’elemento artistico attraverso cui promuovere il rinnovamento. Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, era un termine non del tutto nuovo per l’epoca. Lo aveva usato nel 1827 il filosofo K. F. E. Trahndorff e poi ancora lo aveva inserito nel suo saggio Arte e rivoluzione, del 1849, anche Richard Wagner. Ora, tuttavia, la fusione idealizzata delle varie arti (pittura+scultura+architettura+musica+letteratura) sembrava la via assoluta. Era la risposta, attraverso l’esperienza estetica, alle mille sfaccettature sociali, era il sogno di una unitarietà più teorica che reale. Ma non tutti i partecipanti alla Secessione condivisero la medesima utopia, cosicché la contrapposizione tra gli stilisten (sostenitori dell’unione tra arte e arti applicate) e i naturalisten (solo pittori) divenne presto la causa di una disputa che giunse al culmine nel 1905, quando il gruppo di Klimt lascerà la Secessione, che tuttavia continuerà a operare, ma senza più la giusta spinta innovativa. La storia di queste contese su questioni artistiche, sollevate giorno dopo giorno – attacchi e difese, trattative diplomatiche, accordi e ancora dissensi – mette in luce che l’arte non è fatta (come qualcuno sembra credere) solamente di eventi sociali e recensioni aspre o idilliache. Chi racconta questa storia dal vivo, e in modo dettagliato, è Ludwig Hevesi, critico d’arte ungherese ed anche lui tra i fondatori del movimento. Raccolse in un libro i saggi scritti durante gli anni di lotta e li espose in un ordine così selettivo e cronologico da farne una cronaca completa della Secessione di Vienna. Il libro s’intitola Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906). È bene soffermarsi almeno sui capitoli iniziali, che restituiscono distintamente come l’organizzazione rigorosa del movimento sia stata capace di capovolgere le concezioni stantie che impregnavano la cultura austriaca del tempo, per avviare una innovativa visione dell’arte nell’intera Europa. Hevesi su Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894) aveva già prefigurato e definito per la prima volta il movimento con il termine Neukunst. Termine che presto s’imporrà nei paesi di lingua francese come Art nouveau.

Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894)

Scriveva il critico d’arte a favore dei secessionisti: «Era un gruppo di giovani artisti dal sangue forte e moderno, le cui energie hanno portato a far fluire questo movimento, il più radicale di Vienna […] Avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa come l’Associazione degli undici a Berlino, con le sue mostre nella galleria Schulte, o una cosiddetta Secessione come a Monaco, Parigi e altre città d’arte». Mettendo in risalto il vero spirito del gruppo, aggiungeva: «Questi coraggiosi giovani viennesi sono allo stesso tempo dei combattenti equilibrati. Non vogliono essere dei frondeurs (ribelli), né Wassergeusen (pirati a fianco dei poveri), e non vogliono intraprendere una guerriglia contro l’Accademia e la Casa degli artisti. Non sono stati solleticati dalla voglia d’ingannare il “vecchio”. Non vogliono infastidire nessuno, nemmeno strimpellare sé stessi, vogliono soltanto provare a portare la decrepita arte austriaca (e non solo viennese) a livello internazionale». Hevesi faceva emergere a chiare lettere l’insoddisfazione dei giovani verso il conservatorismo, non verso l’arte vera, e la loro fermezza nell’attuare le proprie aspirazioni. «Il V. b. K. Ö. è, invece, una società che lotta, perché vuole combattere la confusione nell’arte. Ma non lo farà attraverso polemiche spettacolari, ma attraverso il perseguimento di scopi puramente artistici, educando gli occhi delle masse a comprendere il vivace sviluppo progressivo dell’arte».

Ludwig Hevesi, Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906)

Sostenuto da un numero notevole di patrocinatori, morali e finanziari, il movimento prese avvio e in sole tre mosse fece scacco all’Europa, imponendo il Sezessionstil (lo Stile Secessione) in Austria e non solo. Da ora in poi tutti (ma proprio tutti) lo riconosceranno e ciascuno gli attribuirà un proprio nome: Art nouveau in Francia e Belgio, Nieuwe Kunst nei Paesi Bassi, Jugendstil in Germania, Modern style o Studio Style in Gran Bretagna, Modern in Russia, Arte jóven o più spesso Modernismo in Spagna, Style sapin in Svizzera, Secesja in Polonia, Serbia e Croazia, Liberty in Italia. Ma i nomi non finiscono qui, perché sarà possibile imbattersi in appellativi attinenti ai caratteri formali come Wellen-stil (stile onda) Lilienstil (stile giglio), Schnörkestil (stile spirale) Style coup de fouet (stile colpo di frusta) Paling styl (stile anguilla).

La scritta all’ingresso del Palazzo della Secessione dice: “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà

Quali furono le tre mosse portate con perizia sulla scacchiera dell’arte? In ordine cronologico: prima mossa, edificare una sede per le esposizioni che avrebbe accolto a Vienna protagonisti e movimenti artistici europei; seconda mossa, pubblicare una rivista rivoluzionaria nella grafica e nei contenuti; terza mossa, allestire la prima mostra ufficiale del gruppo come una rassegna internazionale.

Il Palazzo della Secessione a Vienna.

Il Palazzo della Secessione fu il manifesto architettonico della Secessione viennese. La rivista Ver Sacrum fu il manifesto scritto. La mostra fu l’abbrivo del rinnovamento delle arti figurative. Al centro c’era sempre Gustav Klimt. È lui che schizzò il volume di un cubo bianchissimo, partendo dal quale il giovane architetto Joseph Maria Olbrich avrebbe realizzato il progetto del Wiener Lokalnachricht (Messaggio viennese). Un’architettura che esprimeva di per sé stessa il messaggio della nuova arte. «È una parola magica che spezzerà le catene e animerà i morti. Si prospetta un’espansione della città nel campo delle belle arti; Vienna città dell’arte, questa immensa città dovrebbe finalmente diventare una Grande Vienna, una vera Nuova Vienna […] Il focolare, dalla fiamma appena accesa, ovviamente dovrà essere, come a Monaco, un edificio espositivo separato. Una nuova casa d’artista, libera. Da lì si potrà conquistare l’Accademia stessa, sempre come a Monaco, e lì ci si potrà finalmente riunire in una galleria d’arte moderna, un “Musée du Luxembourg” viennese». Sull’area di oltre 1200 mq, approvata dal Comune, la Secessione realizzò un palazzo d’arte di circa 650 mq. Progettato su di un maestoso piano rialzato, con uno spettacolare lucernario a cupola, simile alla chioma di un albero, un perimetro murario senza finestre, in modo tale che le pareti esterne, ricoperte di affreschi e decorazioni, facessero guadagnare a Vienna un nuovo ornamento architettonico. Il motto posto sulla trabeazione dell’ingresso, che affermava “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà” (Der Zeit ihre Kunst / der Kunst ihre Freiheit), fu suggerito proprio da Ludwig Hevesi.

Julius Victor Berger, Giovane donna al mercato Nasch, 1901. Sullo sfondo il Palazzo della Secessione

La rivista Ver Sacrum. Sulla copertina nel primo numero venne riproposta la figura dell’albero. La traduzione dal latino di Ver Sacrum è Primavera sacra e fa riferimento a un antichissimo rito, che nell’antica Roma si faceva in onore degli Dei. Consacrava a loro tutti i nati della nuova primavera: vegetali, animali e persino esseri umani. I neonati non erano sacrificati, ma solo promessi alla divinità. Una volta divenuti adulti, erano banditi dai confini della comunità, con lo scopo di fondare nuove città in nuove terre. Il nome scelto dalla Secessione per la testata della rivista, faceva probabilmente riferimento all’omonima poesia di Ludwig Uhland, nella quale si decantava la “sorgente della consacrazione” romana e si concludeva con la strofa: «Hai sentito ciò che piace a Dio. Vai lì, preparati, obbedisci in silenzio / Sei il seme di un nuovo mondo, questa è la consacrazione che Lui vuole».

Nel dare uno sguardo al primo numero della nuova rivista d’arte, Ludwig Hevesi commentava: «Alfred Roller, che ha ideato una specie di busta, ha fatto un ottimo lavoro per i suoi compagni. Anche la sua immagine simbolica in copertina è piuttosto impressionante: questo forte albero da frutto, le cui radici spezzano le doghe del vaso e lottano tra di loro attraverso la terra creata dal buon Dio». Hevesi sottolineava come l’artista grafico avesse realizzato il proprio lavoro editoriale con una concezione all’avanguardia del layout. Lo si capiva già dal formato quadrato, dalla carta telata della copertina, che la faceva assomigliare proprio ad una busta da lettere con la quale indirizzare un “messaggio”. Lo si capiva dal tono ocra chiaro del fondo, dalla stessa stampa rossa e nera, decisa e vitale, e dai caratteri utilizzati. E all’interno, lo si capiva dai pieni e vuoti di ogni singola pagina che, riproponendo i cosiddetti “blocchi giapponesi”, tanto influenzeranno lo stile bidimensionale della Secessione. Nel panorama della stampa dell’epoca il design di Ver Sacrum divenne un eccellente modello di arte grafica da riprendere e riproporre. Sfogliando le pagine, nell’articolo di presentazione si commentavano le motivazioni dei contenuti. “Perché pubblichiamo una rivista”. Risposta lineare: «Questa rivista dovrebbe […] essere un appello al senso dell’arte delle persone, per stimolare, promuovere e diffondere la vita e l’indipendenza artistica». L’arte doveva essere, dunque, una parte indispensabile della vita; per questo motivo la rivista stessa era concepita come un’opera d’arte totale, attraverso l’interazione fra letteratura, arti visive e musica, i cui temi erano toccati da articoli teorici o esplicativi, corredati da opere d’arte, grafiche originali e decorazioni, disegnate dai membri della Secessione.

Planimetria della Prima mostra della Secessione viennese nei locali della Gartenbaugesellschaft

La prima mostra della Secessione. È su Ver Sacrum che si poterono leggere le idee guida. Non fu certo l’ennesima esposizione che raccoglieva le mediocrità di massa, ma «un’esibizione d’élite di opere d’arte specificamente moderne». Aveva richiesto oltre un anno d’intensa programmazione. Gli organizzatori, da subito, si erano posti l’obiettivo di portare a Vienna per la mostra d’apertura la produzione migliore del panorama artistico internazionale. Il giovane pittore Josef Engelhart rimandò largamente i propri impegni di lavoro per apprestare con grande energia l’evento. Viaggiò in mezza Europa – Inghilterra, Francia, Belgio, Germania – sviluppando contatti diretti con i maggiori artisti e galleristi, così da convincerli ad inviare le proprie opere alla mostra in allestimento.

Per l’occasione Klimt disegnò la copertina del catalogo e il manifesto, ma dovette fare un passo indietro e censurare il disegno proposto. Come molte correnti del tempo, anche la Wiener Secession avvertiva l’ascendente del Simbolismo. Il manifesto raffigurava Teseo che uccide il Minotauro, sotto lo sguardo tutelare della dea Atena. Gli Dei reclamavano che la “consacrata primavera” degli artisti mettesse fine al tradizionalismo. Tuttavia, la nudità esplicita dell’eroe mitologico venne giudicata oscena e Klimt fu costretto a censurarla, ponendo in primo piano una serie di tronchi e rami stilizzati. Un sacrificio, tutto sommato compensato dal trionfo della manifestazione, che, nel giorno inaugurale, poté contare sul sostegno morale rappresentato dalla visita dell’imperatore Francesco Giuseppe e del sindaco Karl Lueger. La rassegna fu aperta a Vienna il 26 marzo 1898 nei locali della Gartenbaugesellschaft, la Società orticola. Il prestigioso palazzo della Secessione non era ancora stato iniziato: superate le pratiche di rito, la costruzione fu avviata dopo appena un mese, il 28 aprile. La prima edizione si chiuse a giugno con risultati più che soddisfacenti. L’esposizione fu visitata da 57.000 persone, furono vendute ben 218 opere e la stampa si mostrò, nella maggior parte dei casi, favorevole. A partire dalla seconda edizione, aperta solo cinque mesi dopo, il 12 novembre, le manifestazioni saranno ospitate nella sede ufficiale appena ultimata. Riguardo all’esposizione iniziale, Hevesi annotava entusiasta: «Non c’è mai stata una mostra come questa a Vienna. Una rassegna che esibisce effettivamente la vita artistica di oggi, il grande sviluppo internazionale dell’arte moderna con una lunga serie dei suoi capolavori più particolari. Non prestiti dei musei, per metà antiquati , ma frutti del presente, raccolti ogni anno nelle città d’arte occidentali, mentre ne leggiamo sui giornali».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

A Berlino ci sono i soldi e la città si espande, mentre la storia di Parigi e Londra è dietro di loro

di Sergio Bertolami

13 – Dal Gruppo degli XI alla Secessione di Berlino.

La Secessione di Monaco sollevava un vento trascinatore nell’intera Germania: appassionava, esaltava, persuadeva. Specialmente le giovani generazioni. Esattamente come era avvenuto un secolo prima con lo Sturm und Drang, contraddistinto dalla esaltazione, nella vita e nell’arte, dell’irrazionale e del sentimento romantico in opposizione all’intellettualismo illuministico e al classicismo delle corti. Non poteva essere altrimenti: persino il Kaiser Guglielmo II manifestava la propria insofferenza, sostenendo che «l’arte che contravviene alle leggi e ai limiti che ho imposto non è arte». L’imperatore non mancava occasione per contribuire ad infuocare gli animi con esternazioni stridenti e fuori luogo. Accadde anche il 18 dicembre 1901, all’inaugurazione del Viale della Vittoria (Siegesallee). Dal 1895 finanziava la sistemazione e l’ampliamento di questo importante boulevard di Berlino. Aveva preteso un progetto magniloquente, con angoli decorati da un centinaio di statue e busti marmorei dal forte impatto retorico. Alla cerimonia d’apertura, ancora una volta, le sue parole suscitarono clamore quando sottolineò che il compito dell’artista era quello di elevare i berlinesi con grandi ideali, non certo insudiciarli con «un’arte da fogna» (Rinnsteinkunst), rendendo «la miseria ancora più orribile di quella che è». Max Liebermann scriveva a Hugo van Habermann il 31 dicembre 1901: «L’imperatore può al massimo rallentare il movimento; se le secessioni – cui appartengono più o meno gli artisti con il talento maggiore – rimangono coese, allora non vi è nulla da temere». Questa spaccatura evidente, in verità, scatenava aspre discussioni sia fra i politici che nell’opinione pubblica. Alla mostra mondiale del 1904 a St. Louis, negli Stati Uniti, sebbene alcuni artisti tedeschi fossero stati espressamente invitati, la rappresentanza ufficiale non previde la partecipazione di alcun aderente alla Secessione. La scelta fu disapprovata apertamente nel corso di un dibattito al Reichstag, il 15 e 16 febbraio di quell’anno. Uno dei membri del parlamento tuonò: «Un grande e moderno movimento internazionale non può essere comandato come un reggimento di guardie». Nel padiglione tedesco di St. Louis, una replica del castello di Charlottenburg, si attestò la breccia profonda in fatto di arte e cultura.

La Siegesallee in una cartolina del 1902. In primo piano è la statua di Alberto I di Brandeburgo 

Molti degli artisti tedeschi che formavano il primo nucleo della Secessione di Berlino, dopotutto volevano soltanto esprimere il loro lato raggiante dell’esistenza, piuttosto che temi storicizzanti e moralmente educativi, ormai tanto retrivi da risultare a volte patetici. Emozionati dai successi dell’impressionismo francese, i secessionisti desideravano mostrare le semplici gioie della vita: una passeggiata in campagna o in riva al mare, una stanza pervasa di luce, l’incontro conviviale in una birreria all’aperto. Luce, colore, attenzione per la natura, erano impressioni spontanee, espresse con una tavolozza leggera e pennellate libere e spedite. Eppure, sembrava che tutto ciò non potesse essere possibile. La misura fu colma quando nel 1898, la giuria della Grande Esposizione d’Arte di Berlino decise di respingere un paesaggio di Walter Leistikow, dimostrando che l’arte innovativa degli artisti emergenti non poteva contare sul favore dell’Accademia. Chi sta seguendo con attenzione questo iter narrativo ricorderà gli antefatti. Nella primavera del 1892, Max Liebermann e Walter Leistikow – rispettivamente presidente e segretario – avevano organizzato una mostra d’arte come Gruppe der Elf (Gruppo degli undici) senza, tuttavia, lasciare l’Associazione degli artisti di Berlino o evitare di presentare i propri lavori al salone annuale, la Grande Esposizione d’Arte. Il Caso Munch, scoppiato al Verein Bildender Künstler nell’inverno dello stesso anno, rese esplicita l’avversione verso un’arte differente e moderna. La risposta fu che nel 1893, il gruppo di artisti si ritirò dal Verein, per fondare la Secessione di Berlino, sulla scia di quella di Monaco. Si ebbero così due organizzazioni parallele: la Grande Esposizione d’arte di Berlino (Großen Berliner Kunstausstellung), e la Libera esposizione d’arte di Berlino 1893 (Freien Berliner Kunstausstellung 1893), quest’ultima con lo scopo di svecchiare le manifestazioni con ridotte esposizioni indipendenti. Convissero per qualche anno, fin quando nel 1898 la giuria della Grande Esposizione d’Arte di Berlino respinse, per l’appunto, il dipinto di Leistikow. Alla testa di 65 artisti, Max Liebermann chiese che al gruppo secessionista fosse accordato uno spazio adeguato di non meno 8 sale, una giuria e un comitato indipendenti. Le condizioni sembrarono eccessive per un gruppo così ridotto e furono respinte. Era giunto il momento di lasciare definitivamente l’Associazione degli artisti di Berlino e consolidare la struttura organizzativa.
All’epoca Liebermann era convinto – così almeno compare sulle sue lettere private – che Parigi e Monaco fossero in crisi e che Berlino potesse svolgere al meglio la sua parte. La Secessione a Berlino gli sembrava inevitabile e all’amico Max Linde confessava: «Berlino ha un enorme vantaggio: Monaco è morta, come dimostrato dalla loro ultima esibizione e dalla mostra qui a Berlino della scuola di Dachau. Lo stesso per Parigi. Qui ci sono i soldi e la città si espande, mentre Parigi e Londra hanno la parte migliore della loro storia dietro di loro».

Prima sede ufficiale della Secessione berlinese nell’edificio di Hans Griesbach e August Dinklage in Kantstrasse 12.  
Fonte: Die Kunst für Alle, Numero 20 del 15 luglio 1899, pagina 314.

 

I problemi immediati furono i medesimi incontrati dai secessionisti di Monaco: gli esigui spazi espositivi e la promozione adeguata delle opere. Nello stesso modo furono risolti. Liebermann si rivolse subito ai mercanti d’arte Bruno e Paul Cassirer, che si unirono al gruppo nel 1899 e acquisirono una carica nel consiglio dell’Associazione, pur senza diritto di voto. Fra i compiti, si assunsero la responsabilità di seguire la costruzione del nuovo edificio per le esposizioni. Il palazzo ufficiale della Secessione di Berlino fu progettato e costruito secondo i piani esecutivi dello studio “Griesebach & Dinklage”. Nel 1889 August Dinklage si era, infatti, dimesso dal suo impiego statale con il proposito di perseguire a Berlino la carriera di architetto libero professionista insieme ad Hans Grisebach. Come si vede, il movimento alimentava le aspirazioni personali e ciascuno offriva al gruppo il proprio contributo. L’edificio, elevato in tempi strettissimi sulla Kantstraße 12 (angolo Fasanenstraße) dalla società edile August Krauss, venne completato il 19 maggio 1899. Senza indugio furono disponibili a fornire gli allestimenti interni l’architetto van de Velde da Bruxelles, mentre a Berlino le società Keller, Reiner e B. Burchardt offrirono alcuni mobili per sedersi e l’azienda N. Ehrenhaus i tappeti. A questo si aggiunga che, in quello stesso anno 1898, i cugini Bruno e Paul Cassirer avevano aperto una galleria d’arte moderna e una casa editrice, al secondo piano di Viktoriastraße n.35. Immancabilmente editarono, perciò, il catalogo della prima mostra secessionista e per tre anni – il tempo che durò il loro sodalizio – misero in luce la rinnovata scena artistica e letteraria tedesca, ma anche le ultime novità della cultura francese, belga, inglese e russa. Nel catalogo ufficiale della prima mostra, nel 1899, troviamo tutte le indicazioni per comprendere il fervore dell’esposizione: 330 fra dipinti e grafiche ed inoltre 50 sculture. Rispetto agli anni successivi, la prima mostra si limitò all’arte nazionale: dei 187 espositori, 46 risiedevano a Berlino e 57 a Monaco. Mancavano del tutto i contributi dall’estero. Problema superato con la seconda mostra, in cui furono esposte opere di Pissarro, Renoir, Segantini e Whistler.

Distribuzione interna della sede ufficiale della Secessione berlinese

La distribuzione interna del palazzo espositivo evidenziava la ripartizione delle sale. Dall’ingesso sotto un arco trionfale si accedeva alla sala delle sculture e da questa, a sinistra, iniziava il percorso di visita alle opere di pittura, suddivise in quattro sale, e nell’ambiente a destra erano presentati i lavori di grafica col titolo “Mostre in bianco e nero”. Il corpo circolare era invece riservato alla Segreteria e rappresentava, a tutti gli effetti, il cuore della manifestazione. Infatti, il catalogo evidenziava, in modo preciso, le modalità di acquisto. «Le opere d’arte contrassegnate con * alla fine del titolo sono in vendita. I prezzi possono essere richiesti alla Segreteria. Tutte le vendite devono essere effettuate esclusivamente dalla stessa; pertanto, la conclusione della contrattazione dovrà segnalarsi alla Segreteria sia da parte dell’acquirente che del venditore. Un terzo del prezzo di acquisto deve essere pagato immediatamente in contanti, il resto depositato in Segreteria prima della fine della mostra. I reclami dopo un acquisto andato a buon fine non possono essere considerati. L’invio delle opere d’arte vendute può avvenire solo dopo la fine della mostra ed è fatto per conto e a rischio dell’acquirente. La Segreteria sarà lieta di fornire informazioni su tutte le richieste». I libri di storia dell’arte non parlano mai, se non di sfuggita, degli aspetti economici, come se gli artisti vivessero nel cielo empireo. Il proposito era chiaramente dichiarato nella prefazione del catalogo dove si leggeva: «Per noi non c’è solo un modo d’intendere ciò che soddisfa l’arte, ma ogni segno ci appare come un’opera d’arte – qualunque arte possa essere espressa – selezionata per la sua motivazione sincera. Sono state sostanzialmente escluse soltanto le opere commerciali di routine e quelle superficiali e dilettantistiche di chi nell’arte vede solo milk pub».

Lovis Corinth, La vita di Walter Leisitkow. Un frammento della storia della cultura a Berlino (edito da Paul Cassirer, Berlino, 1910)

Era stato Leistikow, per primo, a comprendere che occorreva dare vita ad un nuovo spazio espressivo svincolato da dipendenze amministrative e finanziarie rispetto all’ufficialità accademica. La formula vincente fu quella dell’accordo mutualistico nella gestione delle entrate provenienti dalle vendite. Scrisse Lovis Corinth, nel suo libro dedicato a La vita di Walter Leistikow, che l’atelier del pittore divenne la sala dei ricevimenti della Secessione, in cui si poteva incontrare l’intellighenzia della capitale: il nuovo direttore della Galleria Nazionale Tschudi, l’editore Sameul Fischer, i grandi letterati Halbe, Hauptmann e Wolff, e gli ospiti scandinavi: Munch, Ibsen, Strindberg, Zorn e molti altri ancora. «Leistikow era fra tutti il più operoso, quando si trattava di agire per il meglio della Secessione. Sapeva come rivolgersi al Presidente Max Liebermann, era abile nell’interessare i facoltosi, una capacità assai rara, e a convincerli ad investire denaro per l’impresa della Secessione. Egli incoraggiava gli artisti, prendendosi la briga di convincerli a vendere i loro quadri a mecenati suoi amici. Il destino lo aveva baciato in quell’epoca con il massimo della fortuna. I suoi quadri piacevano ovunque; le gallerie li acquistavano. Era rappresentato alla Galleria Nazionale di Berlino, nei musei di Dresda, Lipsia, Magdeburgo e Krefeld. Anche i proprietari di gallerie private comprarono molti dei suoi quadri. Queste gallerie private erano creazioni di ricchi commercianti. Quando l’industria portò a Berlino ricchezze che mai si erano viste, parte di quei profitti fu utilizzata dai fortunati proprietari per fondare iniziative artistiche».

Il consiglio di amministrazione della Secessione di Berlino nella Mostra della Seconda Secessione, 1900.
Da sinistra a destra: Oskar Frenzel, Franz Skarbina, Otto Heinrich Engel, Max Liebermann, Bruno Cassirer.

A partire dal 1901, i pittori Max Slevogt e Lovis Corinth, trasferitisi da Monaco, rafforzarono l’Associazione degli artisti e l’importanza di Berlino come principale città d’arte tedesca. Questo fino al 1911, quando Max Liebermann non presiedette l’esposizione di quell’anno per lasciare spazio alle giovani leve espressioniste. La sua motivazione ufficiale fu questa: «La Secessione di Berlino è ormai così saldamente stabile che altri possono continuare il lavoro e prosperare. Quest’anno è uno dei più decisivi per la storia dello sviluppo della Secessione. In effetti, i fondatori dell’Associazione – Liebermann, Leistikow e Paul Cassirer – hanno consolidato così bene l’edificio, durante il lungo periodo di tempo in cui hanno lavorato insieme, e l’hanno collegato così saldamente nelle singole parti, che la Secessione ha spianato tempeste esterne e confusione interna». In realtà, nonostante i buoni propositi, la motivazione era un’altra. Nel 1910 si era formata la Neue Sezession, costituita da 27 artisti esclusi dalla selezione della XX Secessione berlinese, i quali in alternativa esposero da Maximilian Macht, in Rankestrasse, più un negozio di cornici che una vera galleria d’arte. La Neue Sezession fissò la sede al n.232 del Kurfürstendamm, il grande viale, nel medesimo edificio che ospitava il Graphisches Kabinett di I.B. Neumann, mercante d’arte che si dimostrerà attivo nel divulgare l’avanguardia dadaista. Neppure la Neue Sezession fu esente da controversie e a sua volta subì una spaccatura all’inizio del primo conflitto mondiale. Sono comprensibili mutazioni di un’arte in movimento. A questo punto, dopo tutti gli anni trascorsi dalla Secessione di Berlino del 1898, le istanze erano ovunque conosciute e il movimento, contrario al passatismo, appariva ormai superfluo.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Franz von Stuck – Intensa gioia di vivere e desiderio di passione

di Sergio Bertolami

12 – La ricerca d’inconsueti traguardi espressivi.

Uno striscione sventolava: “Spianare la strada ai giovani talenti!”. Era il 1889, l’anno in cui fu istituito il primo Salone di Monaco al Glaspalast. Non era importante che desse vita a una nuova serie di mostre, quanto che fossero d’arte moderna. Un giovane pittore, fiducioso, inviò per la prima volta i suoi lavori a un evento pubblico. Fra i visitatori i soliti parrucconi accademici scuotevano la testa per disapprovazione. Stavolta, però, Bruno Piglhein, direttore della giuria faceva la differenza e la mostra rivelò, immancabilmente, come quel giovane 26enne, sconosciuto ai più, avesse intravisto una direzione del tutto nuova col suo Guardiano del Paradiso. Grazie a questo dipinto Franz von Stuck assurse a gloria, vinse la medaglia d’oro del Münchener Jahresausstellung 1889 ed anche la notevole somma di 6000 marchi. Non da poco, soprattutto per il figlio di un modesto mugnaio, che si era mantenuto all’accademia disegnando vignette per la rivista umoristica Fliegende Blätter. Sparuti lettori lo conoscevano come disegnatore e come illustratore. Come pittore, però, attirò l’ammirazione di tutti, e più che altro l’attenzione dei critici. La sua opera imponente – 250×167 cm – suscitò meraviglia per l’abilità artistica e la tecnica insolita. L’impasto, simile a smalto dietro la spada infuocata dell’angelo, restituiva lo splendore sensoriale di un paradiso scintillante di rosa, azzurro e giallo. L’opera suscitò scalpore, perché da una parte rompeva con la tradizione – con la pittura allegorica, con la pittura storica, con la popolare pittura Lederhosen di genere contadino – dall’altra non poteva neppure considerarsi aderente ai nuovi movimenti tanto vituperati dall’accademia e lodati dall’avanguardia monacense: il naturalismo o l’impressionismo. Piuttosto, Franz von Stuck sembrava essere più vicino a Böcklin, il maestro di Zurigo, il “pittore dell’anima e della mente”, mentre con un occhio guardava ai preraffaelliti inglesi e ai simbolisti francesi. In effetti, con Arnold Böcklin condivideva affinità interiori: gli aveva schiuso le porte di una bellezza mai immaginata, gli aveva arricchito il mondo di nuovi valori.

Un anno dopo il fortunato debutto, nella seconda mostra di Monaco, quella del 1890, fu ancora un angelo a sconcertare il pubblico. Un angelo caduto. Stuck nel grande Palazzo di vetro delle esposizioni che lo aveva consacrato presentò, infatti, il suo Lucifero. Il demone incarnava il pathos dell’odio. Seduto, con le ali ripiegate, piantava sugli spettatori due occhi verdi, brillanti, vendicativi. Re Ferdinando di Bulgaria, impressionato, nel 1891 acquistò il dipinto per il suo palazzo, e una volta raccontò a Stuck che a corte si facevano il segno della croce quando ci passavano accanto. Raggomitolato Lucifero simboleggiava l’esatto opposto dell’autorevole angelo a guardia delle porte del paradiso. Livido di rancore per il senso di colpa, era ritratto come il genio del male, non certo come il consueto diavolo caprone della tradizione ecclesiastica. Commentava Nietzsche, a ragione, che la figura seduta, con le gambe unite e la mano a coppa sul mento, rammentava indubbiamente uno dei Dannati nel Giudizio Universale di Michelangelo o Il pensatore di Rodin del 1880. Nonostante i consensi unanimi, Stuck aderì alla Secessione di Monaco del 1892, di cui Bruno Piglhein, il suo scopritore al Glaspalast, fu il primo presidente. Il successivo 1893 fu cruciale per la carriera del giovane pittore. Gli fu concesso il titolo di professore e la prima Mostra della Secessione, sostenuta persino dal Principe reggente Luitpold di Baviera, lo rese partecipe di un clamoroso successo. Ora Stuck credeva che fosse finalmente maturato il tempo per ricevere, col dipinto esposto, il riconoscimento decisivo al quale aspirava. Non si sbagliava affatto, perché è il suo capolavoro assoluto. Da quel momento in poi le porte del successo furono definitivamente aperte. A suo merito, occorre aggiungere che sebbene Stuck abbia aderito alla Secessione, rimase sempre in buoni rapporti con i colleghi del Künstlergenossenschaft.

Franz von Stuck, Il peccato (Die Sünde), 1893 olio su tela, 95×60 cm, Neue Pinakothek, Monaco di Baviera

Dopo un angelo paradisiaco e uno caduto, ora non poteva che rappresentare la caduta dell’uomo di fronte alla figura di una donna fatale, dipinta «per farti impazzire». È questo sotteso erotismo, che Thomas Mann descrive nella novella Gladius Dei quando i passanti di Monaco di Baviera rimanevano attratti da una singolare fotografia esposta in una delle vetrine. Inquadrata in una cornice dorata, riproduceva la tela di uno straordinario artista, capace di fondere erotismo e religione. Nell’idea dello scrittore era una Madonna, moderna e priva di convenzioni, dalla femminilità inebriante. Nell’interpretazione di Stuck erano invece Eva e il serpente, che in un tutt’uno incarnavano il senso del peccato. E, infatti, il Peccato s’intitola questo quadro che ha trascinato folle di ammiratori alla Neue Pinakothek, dove l’opera fu installata subito dopo essere stata acquistata. In uno dei suoi libri migliori, L’anno dei bellissimi inganni, il poeta Hans Carossa descrisse così la profonda impressione che questo famoso lavoro produceva sugli spettatori del tempo, come lui. «La fama del dipinto ci ha spinto attraverso le gallerie; non ci fermammo da nessuna parte e aprimmo gli occhi solo quando finalmente ce lo trovammo di fronte. Era esposto su di uno speciale cavalletto nella sua ampia e monumentale cornice d’oro, […] e ora fissavamo la notte dei capelli e del serpente, che non lasciavano scorgere troppo il pallido corpo femminile. Il viso in ombra con il bianco-bluastro degli occhi scuri inizialmente mi parve passare in second’ordine rispetto alla lucentezza metallica del serpente attorcigliato, con la sua testa malvagia e ben delineata e l’opaca orditura a scacchi del dorso, su cui una delicata linea blu correva come una cucitura. […] Ci sono opere d’arte che rafforzano il nostro senso di comunità, e ce ne sono altre che ci seducono nell’isolamento. La pittura di Stuck apparteneva a quest’ultimo gruppo».

Il dipinto “Il Peccato” nello studio di Franz von Stuck (photograph Stadtmuseum, Munich)

Non stiamo parlando solo di un quadro dalla cornice dorata, ma di una vera e propria installazione imponente, con due colonne doriche che conferiscono sacralità. Quest’aura di venerabilità fu ulteriormente riproposta da Stuck nel suo atelier, quando montò una seconda versione del Peccato come un “altare dell’arte”, dove nell’ordine sottostante pose a sinistra la scultura di una Ballerina (l’eternamente femminile) e a destra un Atleta (la virile mascolinità). Tra le due, la testa di un bambino, a personificare l’innocenza. In seguito, scrive Edwin Becker, Stuck inserì alcune conchiglie Nautilus, che in quanto a simboli erotici non lasciavano nulla all’immaginazione. Il dettaglio piccante era che l’altare stava proprio di fronte alla camera delle modelle, che amava fotografare nella loro nudità.

Amazzone ferita, 1904, firmato in basso a destra: Franz Stuck 1904
Van Gogh Museum, Amsterdam
Voss 264/201, Mendgen p. 44-47, fig. p. 47, battaglia dei sessi n. 36

L’atelier storico di Stuck si trovava all’interno della sontuosa villa che, a soli trentacinque anni, poté edificare al n. 60 della Prinzregentenstraße. Questo dà la misura dell’enorme successo dell’artista. Stuck concepì personalmente la villa nel 1897/98 e, sempre su suo disegno, nel 1914/15 fece aggiungere un nuovo edificio-studio prospiciente il giardino interno, una combinazione di modelli pompeiani con opere d’arte moderna. Nel 1928, poco prima della sua scomparsa, già reputato il “principe pittore degli artisti”, fu insignito honoris causa anche del titolo di architetto dall’Università Tecnica di Monaco. Stuck ideò l’immagine architettonica della villa, ispirandosi al quadro di Böcklin La villa sul mare, e per le decorazioni interne, per i mobili che disegnò appositamente, per le opere d’arte che la impreziosivano, ricevette una medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Così come era stato premiato, sempre con una medaglia d’oro, alla Esposizione Mondiale di Chicago nel 1893, quando aveva fatto conoscere il nuovo corso artistico della Secessione di Monaco. Non erano formali questi premi, ma il riconoscimento di una svolta vera. Basti pensare che il principio fondamentale di questa villa d’artista è l’opera d’arte totale nella quale trovano accordo fra loro l’esistenza, la natura, le arti e l’architettura, la musica e il teatro. Dal 1992 Villa Stuck è diventata il terzo museo della città di Monaco: luogo aperto a tutti i visitatori, con una collezione permanente di opere di Franz von Stuck ed esposizioni temporanee sulle arti applicate del XX secolo, fonte d’ispirazione artistica e opportunità di scambio museale.

Prospetto principale di Villa Stuck

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

L’Associazione degli artisti visivi della Secessione di Monaco – 1892

di Sergio Bertolami

11 – Le Secessioni di Monaco e Dresda.

Come è vero che il 1892 in Germania è segnato dal cosiddetto “Caso Munch”, che porterà sei anni dopo a un movimento berlinese orientato al rinnovamento del gusto estetico, così è altrettanto vero che la prima secessione ebbe luogo a Monaco nel medesimo anno. Dall’inizio del secolo, Monaco era diventata una delle principali metropoli d’arte in Germania e nel mondo. Questo grazie alla edificazione della Glyptothek, con la sua collezione di sculture antiche, e all’attrazione dei suoi più importanti musei, l’Alte Pinakothek e la Neue Pinakothek. Nell’Accademia di Belle Arti, ricoprivano cattedre prestigiose professori come Karl Theodor Piloty, Wilhelm Lindenschmit e Wilhelm Diez, e questo rappresentava un grande richiamo non solo per gli artisti tedeschi, ma anche per numerosi giovani stranieri. Sei imponenti Saloni per esposizioni erano stati predisposti, tra il 1858 e il 1888, nella sede del Glaspalast, di cui ben quattro a carattere internazionale. Questo spettacolare Palazzo di vetro era stato eretto nel 1854 da Massimiliano II re di Baviera sul modello del Crystal Palace di Londra. Dal 1889 il palazzo fu destinato quasi esclusivamente alle mostre d’arte, anche a fini commerciali, costituendo così un importante centro della vita sociale, artistica e culturale della città. In altre parole, Monaco splendeva. La definizione è di Thomas Mann in Gladius Dei, novella ambientata in una luminosa giornata di giugno a Monaco di Baviera: «Il cielo è di seta azzurra, l’arte è in fiore, l’arte ha il controllo, l’arte stende sulla città il suo scettro cinto di rose e sorride».

Planimetria del Palazzo di vetro (Glaspalast) per le Esposizioni ufficiali di Monaco

Nonostante tutto questo, il panorama artistico era dominato dalla cultura conservatrice della Munich Artists’ Cooperative (MKG) e dei suoi patrocinatori nel governo bavarese. La situazione divenne problematica quando nel 1891 il principe reggente Luitpold di Baviera istituì la Fondazione Prinzregent-Luitpold per la promozione dell’arte, delle arti applicate e dei mestieri, indirizzata all’impulso della pittura storica tradizionale sotto l’egida ufficiale. Se da una parte la Fondazione portava a un maggiore livello qualitativo i lavori dell’Accademia di Belle Arti, dall’altra creava contrarietà la rigida posizione contro le tendenze che avevano come riferimento l’Impressionismo e le sue evoluzioni artistiche. Tale politica conformista, considerata da molti ormai arretrata, determinò una serie di polemiche interne all’associazione degli artisti, alle quali si aggiunse un ulteriore fattore destabilizzante: il completo fallimento finanziario della mostra annuale del 1888 al Glaspalast. L’aspro dibattito che ne scaturì, su responsabilità e contenuti, attrasse persino l’attenzione del Ministero per la Scienza e l’Arte. In opposizione alle concezioni conservatrici dell’associazione ufficiale, 96 membri annunciarono, pertanto, di dissociarsi per fondare, il 4 aprile 1892, la Verein bildender Künstler Münchens A.V. associazione indipendente di “artisti visivi”. Non era un caso del tutto nuovo. In Renania, nel corso dell’anno precedente, era stata costituita la Libera Associazione degli artisti di Düsseldorf, formata da una cinquantina di componenti alla ricerca di un proprio spazio espositivo: durò poco meno di una decina d’anni. In Baviera, al contrario, grazie all’efficiente organizzazione monacense l’evento suscitò una vera e propria rivoluzione.

Catalogo della Esposizione di Monaco del 1893
CLICCA QUI PER SFOGLIARE IL CATALOGO

A testimoniarlo fu il fatto che dopo appena qualche mese si pensò bene di modificare il nome in Verein bildender Künstler Münchens A.V. Secession. L’aggiunta del termine Secessione, in verità, rese ancora più evidente che la decisione separatista era irreversibile. La denominazione completa comparve l’anno successivo quale intestazione del catalogo della prima mostra ufficiale e presto il movimento divenne popolare sotto la forma abbreviata di Munich Secession ossia Secessione di Monaco. La nuova associazione operò da subito come una cooperativa, costituita per garantire gli interessi economici e gli obiettivi artistici dei propri componenti. Non potendo più contare sugli aiuti del governo, per allargare il raggio d’influenza si interessò a promuovere contatti sociali, che fin dall’inizio riscossero grande favore fra gli investitori, galvanizzati dalle idee audaci e innovative, così come ottennero l’appoggio dei galleristi. Sulle pagine dei principali quotidiani le recensioni furono subito favorevoli. D’altra parte, i nomi dei partecipanti non mancavano di richiamare l’attenzione. I principali portavoce di questo nuovo movimento d’avanguardia furono l’editore Georg Hirth e lo scrittore Fritz von Ostini. Quando nel 1896 Hirth fondò la rivista d’arte e letteratura Jugend, Ostini ne divenne il capo redattore. Tra i membri più attivi del movimento spiccarono il critico d’arte e collezionista Wilhelm Uhde e il pittore Franz von Stuck, ai quali si unirono artisti come Bruno Piglhein, Lovis Corinth, Peter Hahn, Hugo von Habermann, Peter Behrens, Adolph Hölzl, Max Liebermann, Hans Olde, Leo Samberger, Tony Stadler.

Ingresso al Palazzo delle Esposizioni

In breve, la Secessione di Monaco si oppose al provincialismo e alle opere d’arte concepite per compiacere le masse. Aveva lo scopo di allestire mostre più piccole, ma di qualità superiore, con un ampio spazio riservato agli artisti stranieri. Il primo grande evento internazionale fu la partecipazione l’anno successivo, il 1893, alla Fiera Mondiale di Chicago, la World’s Columbian Exposition, in occasione delle celebrazioni per i 400° anni di Cristoforo Colombo, scopritore del Nuovo Mondo nel 1492. Sin dall’inizio, tuttavia, si comprese che l’indipendenza dalla cultura ufficiale comportava una serie di complicazioni. Ad esempio, era difficile trovare un edificio adatto ad ospitare mostre, non avendo più disponibili le ampie sale del Glaspalast. Al contrario, molte città erano propense a concedere i propri spazi espositivi e persino un appropriato sostegno finanziario. Fra queste Francoforte, pronta a versare 500.000 marchi d’oro se la nuova associazione avesse deciso di trasferirvisi. Nel 1893 si preferì, invece, allestire una mostra nella galleria d’arte della Stazione Lehrter a Berlino. La stampa commentò: «Qui puoi vedere l’arte fresca, vitale e moderna…Si può sperare che la situazione artistica di Berlino subisca un miglioramento radicale… I secessionisti di Monaco sono una grande risorsa per Berlino». Con il sostegno finanziario dell’editore Hirth e di altri apprezzabili imprenditori come sponsor, la prima mostra d’arte internazionale della Secessione vide luce il 16 luglio 1893 a Monaco di Baviera: 297 artisti esposero più di 876 opere.

Planimetria dell’esposizione di Monaco del 1893

L’eccezionalità fu che la manifestazione inaugurava anche l’edificio appositamente costruito su Prinzregentenstrasse e all’angolo con Pilotystrasse. La risposta del pubblico fu ottimale. Raccontano le cronache che la prima domenica l’affluenza fu di oltre 4000 visitatori. Il gradimento confermava la qualità dell’esposizione e le giuste ragioni degli organizzatori, che avevano raccolto opere di artisti di varie correnti e di varie nazionalità. La manifestazione fu così indicativa che nel 1898 Pablo Picasso esaltò con entusiasmo questa diversità della mostra di Monaco e si rammaricò, al contrario, della disputa tra i parigini sulla varietà degli stili non conformi alla visione unica dell’accademia.

Manifesto di Franz von Stuck per la Settima Esposizione Internazionale d’Arte a Monaco di Baviera, 1897

Il termine Secession fu ripreso ben presto anche da parte di altri gruppi progressisti, fuori dalla città di Monaco. Secession divenne rapidamente sinonimo di affrancazione dell’arte, a tutti gli effetti, attraverso una rivoluzione culturale che contemplava non solo pittura, scultura, architettura, ma in uguale misura arti applicate, musica e letteratura. In brevissimo tempo seguì una nuova separazione, la Secessione di Dresda. All’opposto di quella di Monaco non fu, però, una decisione irreversibile. Il gruppo di artisti della Dresdner Secession fu costituito nel 1893 da alcuni membri della colonia di Goppeln, uno stuolo di pittori che si erano dedicati alla pittura all’aperto. A influenzarli fu Carl Bantzer, che ne assunse la guida. Anche questi secessionisti erano concordi in critiche negative nei confronti dell’accademismo. Il loro orientamento era chiaramente rivolto verso la pittura en plein air praticata dagli impressionisti francesi. Non durò più di tre anni. Quando Bantzer nel 1896 assunse una cattedra all’Accademia (Hochschule für Bildende Künste) di Dresda, la Secessione perse il suo spirito critico e si sciolse. Gotthardt Kuehl, che ne aveva fatto parte, nel 1905 – esattamente vent’anni dopo il suo incarico d’insegnamento – tentò di nuovo l’esperienza, fondando il circolo Die Elbier (L’Elba), insieme ad un nutrito gruppo di studenti del corso di pittura di genere all’Accademia d’arte di Dresda. In quanto pioniere dell’impressionismo in Germania, arrivò tuttavia in ritardo. Nel 1905 proprio a Dresda nascerà Die Brücke (Il Ponte) e con questo gruppo di artisti dell’avanguardia tedesca da quel momento in poi si parlerà ormai di Espressionismo tedesco.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Secessioni – “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà”

di Sergio Bertolami

10 – L’opposizione alle concezioni conservatrici.

Il termine, scelto per definire la volontà di separarsi dai canoni tradizionali e conservatori, fu quello di Secessione. Termine che rimase circoscritto principalmente ai paesi di lingua tedesca e che identificò uno strappo insanabile. Sembra che sia stato usato per la prima volta da Georg Hirth, giornalista ed editore di Jugend (Gioventù), la rivista che darà nome alla nuova corrente artistica Jugendstil. Il “settimanale illustrato di arte e vita” Jugend nacque a Monaco di Baviera nel 1896. Non fu, però, l’unica rivista pubblicata con lo scopo di favorire l’arte moderna. In Inghilterra si cominciò con The Studio (Londra 1893), in Germania oltre a Jugend si pubblicarono anche Pan (Berlino 1894) Simplicissimus (Monaco 1896), Dekorative Kunst (Stoccarda 1897); in Austria Ver sacrum (Vienna 1898). Tutto ciò, a dimostrazione che non si potevano sostenere nuove idee senza specifici mezzi di informazione e diffusione. Soprattutto perché occorreva far comprendere che tali scissioni artistiche non erano il frutto di uno stile omogeneo, né di un programma estetico definito, quanto l’effetto di una opposizione da parte degli artisti più giovani, culturalmente schiacciati dal pensiero corrente.

Otto Eckmann, Jugend n. 14, 4 aprile 1896

Esempi evidenti provenivano, come s’è detto, da Parigi dove era stata istituita la Société nationale des Beaux arts (tutt’ora operante) e da Bruxelles dove le nuove idee erano sostenute da Les XX. Negli ultimi anni dell’Ottocento, in Francia l’impressionismo era stato finalmente accettato da pubblico e stampa e non creava più occasione di scandalo, anche se chi patrocinava e difendeva l’Arte accademica continuava a sollevare le sue critiche. Come accadde nel 1884, quando all’Ecole des Beaux-Arts vennero esposte le tele di Manet, ad un anno dalla morte, per interessamento di Antonin Proust, già ministro della Cultura nel governo di Léon Gambetta. Manet, che dell’Impressionismo era stato un precursore, morto prematuramente non passerà il secolo, come invece accadrà per i più longevi Pissarro, Renoir, Degas, che proseguiranno il proprio impegno artistico anche nel nuovo secolo. Cézanne compirà la sua ricerca solitaria nel ritiro di Aix-en-Provence, documentata al Salon d’Automne di Parigi nel 1907 con una retrospettiva a lui dedicata a qualche mese dalla scomparsa. Monet trascorrerà gli ultimi quarant’anni a Giverny, fino al 1926, dipingendo ninfee d’acqua anticipatrici di soluzioni pittoriche al tempo inimmaginabili.

Manifesto del Salon d’Automne 1907

Pur tuttavia, in molte parti d’Europa, architettura, pittura, scultura – identificate ancora come le tre principali arti del disegno – continuavano a legarsi ai modelli passatisti eternati dalle accademie. Con la conseguenza che a tali modelli si atteneva espressamente anche l’estetica ufficiale di Stato. «L’arte – commentava Edgar Degas – non è ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri». Questa arte, appositamente orientata ad esaltare gli ideali del sistema di governo, valeva specialmente nei paesi di cultura tedesca. Nel 1893 il Kaiser Guglielmo II – salito al trono cinque anni prima a soli 29 anni, quindi un giovane, ma dalle idee conservatrici – riferendosi alle poetiche impressioniste, affermava: «I pittori en plein air avranno, da me, vita difficile: li terrò sotto la mia frusta». La cultura ufficiale dell’epoca, difatti, era ancorata a un naturalismo di maniera, enfatico e monumentalistico, che rimarrà insito nella cultura germanica anche a seguire, almeno fino alla metà degli anni Trenta del Novecento quando rifiorirà l’ideologia encomiastica e nazionalista, che si scaglierà contro la nuova arte “degenerata” (entartete Kunst), la medesima arte di cui a larghi tratti sto delineando le fasi iniziali. In modo netto e deciso le libere associazioni di artisti dettero, perciò, vita a movimenti secessionisti, che in verità non potevano contare di proporre un nuovo stile, e non ne avevano neppure l’intenzione. Piuttosto miravano a un dibattito intorno ad espressioni artistiche che fossero al passo coi tempi, nel tentativo di schiudere un panorama culturale restio alle novità che in quegli anni stavano investendo l’intera Europa: dall’Impressionismo alle sue molteplici evoluzioni, fino al Simbolismo. Tali idee rapidamente andavano conquistando il favore di molti critici e oltretutto di sostenitori finanziari. Questo perché ciò che spesso si dimentica è che il concetto di arte non può ridursi soltanto agli artisti, ma va allargato, considerando la sua intera filiera: dai mecenati (pubblici o privati) agli investitori, dai galleristi ai collezionisti.

Joseph Maria Olbrich, Palazzo della Secessione, Vienna

Nei paesi di lingua latina il secessionismo non ebbe alcun riscontro, salvo certuni esperimenti per trapiantarlo in Francia. Fu il caso della galleria L’Art Nouveau aperta nel 1895 a Parigi da Samuel Bing, mercante di Amburgo naturalizzato francese. Grazie a questa iniziativa, e alla sua rivista Le Japon artistique, lo Jugendstil ispirò il nome al movimento che in Francia sarà appunto chiamato Art Nouveau. Ciò vale anche per una simile attività commerciale, La Maison Moderne, introdotta dal critico Julius Meier-Grafe. Al contrario riscossero maggiore successo gli esperimenti che gli esponenti ragguardevoli della nuova tendenza fecero in Germania e Austria. Sono artisti come Otto Eckmann, ricordato per l’invenzione di un nuovo carattere tipografico o come disegnatore di apprezzate copertine di riviste; oppure Hans Christiansen, che aprì un atelier per la progettazione di mobili e oggetti d’arte; o ancora l’architetto Bernhard Pankok, fondatore dei Laboratori uniti per l’arte nell’artigianato. Laboratori che ritroveremo in Austria con l’attività di Koloman Moser, designer e decoratore, che insieme all’architetto Josef Hoffmann costituirà a Vienna la Wiener Werkstätte, l’officina per l’arte e il design, le cui progettazioni rimangono esemplari nella storia dell’arte del primo Novecento. Senza dimenticare un altro architetto, Josef Olbrich, che nel 1898 edificò proprio la casa d’esposizione della secessione viennese. Sull’entrata principale fu inciso il motto: Der Zeit ihre Kunst, Der kunst ihre Freiheit (A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà). Destava stupore il coronamento dell’edificio per una singolare cupola intrecciata da foglie d’alloro in bronzo dorato, appellata dai detrattori Krauthappell ossia “Testa di cavolo”. E dire che la costruzione del palazzo stesso è testimonianza della partecipazione viscerale degli intellettuali dell’epoca, giacché il lotto edificabile fu donato dall’industriale e mecenate Carl Wittgenstein, padre del filosofo Ludwing Wittgenstein.

Koloman Moser, progetto originale per l’apertura dello showroom Wiener Werkstätte (1905)

Il primo gruppo di artisti tedeschi che si riunirono sotto la denominazione di Secessione fu costituito a Monaco nel 1892, e si distinse soprattutto per l’opera di Franz von Stuck. Fu seguito dal movimento di Berlino del 1899, composto da artisti come Max Liebermann, Lovis Corinth e Walter Leistikow. Il più famoso dei gruppi si formò, tuttavia, a Vienna nel 1897, sotto la spinta di Gustav Klimt, il quale preferì uno stile altamente ornamentale che si riverberò per tutta l’Europa. Anche nel suo caso, i dipinti proposti al tempo per il soffitto dell’Auditorium dell’Università di Vienna furono respinti come scandalosi a causa del loro simbolismo erotico. Di tutto questo avremo modo di parlare nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

In Böcklin e Bracht dei luoghi tranquilli dove ricordare o dimenticare

di Sergio Bertolami

9 – Il simbolismo in Germania: Böcklin e Bracht.

Le associazioni culturali di questo periodo affondano le proprie radici nelle esperienze trascorse. Ovverosia, da una parte, nei valori e negli ideali del Movimento romantico, che aveva come punto nodale la vita e i sentimenti dell’umanità. Dall’altra, a più forte ragione, nel Simbolismo, incentrato su tutti quegli elementi immateriali, irrazionali ed emozionali che indiscutibilmente coinvolgono l’esistenza. Ecco allora che non poteva essere dimenticata la lezione di autori importanti, come lo svizzero Heinrich Füssli, l’inglese William Blake, il tedesco Caspar David Friedrich, il francese Jean-Auguste-Dominique Ingres. Le nuove manifestazioni dell’arte non rigettavano, infatti, il passato romantico nelle sue diverse estrazioni nazionali, ma lo modificavano. Così come John Ruskin è testimone dell’insegnamento dei Preraffaelliti, che non rimane affatto circoscritto alla cultura vittoriana, ma è alla base di molte manifestazioni del Simbolismo e dell’Art Nouveau, reali movimenti di transizione dal Tardo romanticismo al nascente Decadentismo.
Anche gli artisti tedeschi continuavano la tradizione del Grand Tour; viaggiavano cioè per portare a perfezione il proprio sapere non solo artistico, ma anche culturale e politico, per maturare esperienze dirette e non soltanto teoriche. Venivano soprattutto in Italia, lo vedremo prossimamente con l’austriaco Gustav Klimt, ma per ora soffermiamoci sullo svizzero Arnold Böcklin.

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872, Alte Nationalgalerie, Berlino

Inizialmente interessato alla mitologia, negli ultimi vent’anni della sua vita riesce a cogliere le atmosfere del Simbolismo, e le sa combinare sapientemente con gli aneliti classici e con la tradizione romantica tedesca. La maggiore eredità trasmessa è tutta nel suo dipinto più noto, quello che nella prima versione del 1880 (conservato nella collezione d’arte pubblica del Kunstmuseum di Basilea dal 1920) aveva denominato Un luogo tranquillo, ma che presto tutti impareranno a conoscere come Die Toteninsel ovvero L’isola dei morti. Lo ha battezzato così il suo mercante d’arte berlinese Fritz Gurlitt, che fece la fortuna economica del pittore. Böcklin utilizzò subito questo nuovo titolo, annunciando al proprio mecenate Alexander Günther di avere completato l’opera: «L’isola dei morti è pronta, finalmente, e sono convinto che susciterà l’impressione che desidero». Nonostante fosse un quadro fortemente autobiografico, il dipinto divenne una delle opere più famose e indicative del Simbolismo tedesco.

Arnold Böcklin, L’isola dei morti, Versione originale, 1880, Museo d’arte di Basilea

Il quadro fu elaborato dal pittore, tra il 1880 e il 1886, in cinque versioni, tutte diverse per gradazioni di luce e toni di colori. I cinque dipinti mostrano un’isola rocciosa che si erge a picco sul mare, al centro caratterizzata da un gruppo incombente di cipressi neri. Incastonate nelle rocce si scorgono le camere funerarie. Su di una barca, che si accinge ad approdare sull’isola, una figura in piedi accompagna una bara velata e un vogatore, rappresentato inspiegabilmente da una figura femminile. Secondo i critici l’immagine sarebbe frutto di fantasticherie funebri per aver perso un gran numero di figli – chi dice sei, chi dice otto – e per aver temuto lui stesso di morire di tifo o a causa di un ictus. È certo però che il tema romantico (e simbolico) della morte è sempre stato presente nelle sue composizioni. Basti ricordare Autoritratto con la Morte che suona il violino (1872) oppure La peste (1898), che mostra la “Cavalcata della Morte” su di una creatura simile a un pipistrello, divenuto in questi nostri tempi di pandemia fra i dipinti più evocati. Secondo l’autore, l’immagine avrebbe dovuto produrre un tale silenzio che il semplice bussare alla porta dovrebbe ancora oggi fare sussultare lo spettatore. Il silenzio è percepibile nell’immobilità del contesto, rotto solo dallo sciabordio dell’acqua rimossa dalla rematrice. In verità, nelle prime due versioni non erano presenti né bara e né figura ammantata di bianco. Furono aggiunte successivamente. Propose, per l’appunto, la seconda versione del quadro alla vedova Marie Berna che gli chiedeva un’opera “per sognare”. Nell’aprile del 1880 Böcklin in una lettera a lei indirizzata tratteggiava le suggestioni di Un luogo tranquillo dove avrebbe «sognato nel buio mondo delle ombre». Qui si sarebbe potuto percepire leggero «il tiepido alito di vento increspare le onde del mare, in un silenzio solenne e irreale che una sola parola bastava a turbare». Fu dopo le modifiche che il soggetto divenne, dapprima, L’isola delle tombe e, in seguito al suggerimento di Gurlitt, L’isola dei morti.

Il castello Aragonese di Ischia

Chi chiedesse dove si trova quest’isola tenebrosa, stupirebbe a sapere che potrebbe essere stata ispirata sotto il sole di Ischia. Lo ha rivelato lo storico dell’arte svizzero Hans Holenweg, dell’Università di Basilea, fondatore e curatore dell’archivio di Böcklin, aprendo nel 2011 una mostra al palazzo comunale di Fiesole, cittadina toscana dove il pittore si spense nella villa di San Domenico sei anni dopo averla acquistata nel 1895. Come ha spiegato Holenweg, Böcklin aveva visitato Ischia per la prima volta col suo amico Hans von Marées, pittore tedesco. Era il settembre del 1879, a conti fatti appena sei mesi prima di realizzare il dipinto nelle due versioni conservate l’una a Basilea e l’altra a Berlino. Fu lo stesso Böcklin a confidare al suo allievo Friedrich Albert Schmidt che l’idea scaturì dalla vista del castello ischitano di Alfonso d’Aragona. «In effetti – commenta Holenweg – quest’isola presenta notevoli somiglianze con le rocce e le pareti che si ergono sul mare. E poiché in Böcklin la scelta del soggetto nasceva spesso da una suggestione visiva, si può affermare che lo spettacolo di quell’isola rocciosa abbia ispirato in lui la concezione del quadro. Proprio di fronte all’isola con il castello, c’è un cimitero a terrazze addossato alla roccia, con un approdo a riva che sorse nel 1836 durante un’epidemia di colera. Evidentemente a quel tempo i morti venivano trasportati al camposanto anche via mare. Böcklin nel 1879 alloggiò a Villa Drago, nei pressi di questo vecchio cimitero, ora ricoperto di sterpaglie e completamente privo di croci».

Eugen Bracht

Il tema della morte non è certo fra quelli privilegiati nelle sue opere da Eugen Bracht. Anch’egli svizzero come Böcklin, tuttavia, dal 1887 è attratto da paesaggi rocciosi fortemente caricati di significati simbolici. Rive dell’oblio (Gestade der Vergessenheit) e l’Isola dei morti di Arnold Böcklin sono considerate fra le più famose opere del simbolismo tedesco. Se Böcklin ne realizzò cinque versioni, Bracht la stessa opera la moltiplicò per otto, tra il 1889 e il 1916. Cosa accumunava i due pittori? Sicuramente i viaggi in Italia, ma soprattutto la “pittura del pensiero”, come la chiamava Bracht, manifestato attraverso quel sottile simbolismo che i loro dipinti restituivano. Bracht lo esprimeva con la rappresentazione dei fenomeni naturali, con inquietanti paesaggi costieri e rocce selvagge e aspre, col trattamento della luce da poterne leggere risvolti quasi mistici. Molteplici rappresentazioni espressive che riflettevano il talento dell’artista. Un talento che non passò inosservato ad Anton von Werner, direttore dell’Università di Belle Arti di Berlino, che gli offrì di dipingere insieme a lui le parti di paesaggio all’interno de La battaglia di Sedan e parallelamente assumere l’incarico per la cattedra di “pittura di paesaggio” nell’Accademia da lui diretta. Proposte irrinunciabili per nessuno, specialmente per un pittore che sin dall’inizio della sua carriera non era stato ancora baciato dalla fortuna. Bracht, insoddisfatto del proprio lavoro di quegli anni, era alla ricerca di nuove forme d’espressione. Pensava addirittura di lasciare Berlino e trasferirsi a Parigi. Anzi, si racconta che vi avesse mandato sua moglie alla ricerca di un appartamento. Fu allora che Anton von Werner venuto a conoscenza di tali intenzioni, grazie ad un collega pittore che soggiornava nello stesso Hotel della moglie, evitò di non farsi sfuggire il talentoso giovane pittore, offrendogli un posto d’eccezione all’Accademia di Berlino.

Eugen Bracht, Rive dell’oblio, Versione originale, 1889, Hessisches Landesmuseum, Darmstadt

In questi “anni panoramici”, come Bracht era solito chiamarli, iniziò il successo artistico e la sua entusiasmante ascesa sociale. Tuttavia, Bracht non era artista che si rivolgeva al passato, e quando si trovò a vivere l’acceso dibattito tra forze conservatrici e progressiste che si scatenò sulla scena artistica berlinese prese una posizione molto precisa e inaspettata da parte del mondo accademico. Protestò vigorosamente, con altre settanta personalità della cultura, allorché Anton von Werner – che dopotutto era il suo superiore e il suo amico – nel 1892 fece chiudere anticipatamente, dopo appena una settimana, la mostra di Edvard Munch. Per dimostrare in modo inequivocabile le proprie posizioni, rassegnò le dimissioni da tutti gli incarichi ufficiali e onorari. Dimissioni che furono chiaramente rifiutate, considerato che il corso di Bracht era il più frequentato e che i suoi allievi erano spesso vincitori di premi alle mostre d’arte. Lasciò la cattedra di Berlino per trasferirsi a Dresda solo nel 1901, quando cambiò la direzione dell’Accademia. Rifiutò persino un’importante opera pubblica, tanto da scandalizzare lo stesso Kaiser Guglielmo II. Si prese a dire di lui: «Nato col romanticismo, passato attraverso il naturalismo, approdò infine all’impressionismo». La pittura di Stato era, infatti, per lui ormai alle spalle e ora veniva considerato come un rappresentante dell’avanguardia berlinese e uno degli artisti più famosi del tempo. Vita e opere di Bracht potevano leggersi anche nella seconda edizione del libro di Julius Norden, Berliner Künstler-Silhouetten del 1902. Una serie di saggi che tratteggiavano le “silhouette degli artisti berlinesi”.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay