Stanislao Napolano: Divenire, noi del Mezzogiorno, la locomotiva d’Italia

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Stanislao Napolano

Permettetemi di ringraziare Paolo Pantani per l’invito a partecipare a questo importante convegno che con l’occasione della presentazione del libro dei prof. Piraino e D’Amico, ci permette di confrontarci su una tematica di fondamentale importanza, ci obbliga a fare delle riflessioni sull’Europa e sull’emergere di nuove istanze che portano ad aggregazioni tra aree del vecchio continente e aree extra europee, appunto la macro area del Mediterraneo Centro Occidentale, è qui dove la cultura europea si incontra con la cultura araba, creando opportunità di confronti culturali ed economici, non senza difficoltà e interrogativi.

Questa iniziativa può avviare quel processo virtuoso, che permetterebbe ai paesi del nord Africa di svilupparsi con l’aiuto dell’Europa, consentendo di ridurre i flussi di migrazione, che stanno creando forti tensioni all’interno di diversi paesi europei.

Dobbiamo essere grati a Paolo per la grande intuizione che ha avuto nel credere in questa iniziativa per la costituzione della Macro Regione del Mediterraneo Centro Occidentale, opportunità in cui il Mezzogiorno d’Italia deve poter guadare con interesse e come un’occasione di sviluppo per sé stesso. Il confrontarsi con i grandi paesi rivieraschi del Mediterraneo Centro Occidentale, sia della sponda nord che quella sud, ci permette a noi del Mezzogiorno di avviare iniziative che creerebbero sviluppo con potenzialità molto interessanti.

L’Associazione Carlo Filangieri, di cui mi onoro di presiedere, composta per la maggior parte da giovani professionisti è intitolata al generale e politico della nazione napoletana, figlio di Gaetano Filangieri illustre giurista e filosofo ritenuto tra i massimi giuristi e pensatori napoletani ed europei del diciottesimo secolo, Carlo fu a fianco di Napoleone e fino all’ultimo tentò di modificare le sorti della nazione napoletana. Egli ha incarnato tutto il travaglio di questa nostra terra nel XIX secolo.

La nostra associazione è nata un anno fa circa, con il proposito di rivedere attraverso nuovi percorsi di studio e di ricerca la questione del Mezzogiorno ed ha permesso di riunire intorno a se, giovani professori universitari, imprenditori, economisti, come il prof. Lepore della facoltà di Economia dell’università Parthenope, il prof. Trione dell’università di Bari, il dott. Pierluigi Sanfelice imprenditore attivo nel settore della solidarietà nazionale e internazionale, il dott. Emanuele Raimondo ricercatore presso l’università Luiss Guido Carli di Roma e lo stesso Paolo Pantani motore infaticabile e insostituibile che ci unisce nelle nostre finalità. Abbiamo stabilito una serie di obiettivi definendo anche un cronoprogramma, affinché al termine di questo studio, possa essere presentato ai nostri rappresentanti politici, agli imprenditori, ai media, al mondo universitario, dimostrando che il Mezzogiorno può risollevarsi, può riscattarsi con le proprie forze, attraverso nuovi modelli di sviluppo, scevri da preconcetti ideologici e storici.

La nostra associazione nasce con le stesse motivazioni per cui si è costituita l’Unione Europea. Abbiamo pensato, che anche le nostre sei regioni peninsulari del Mezzogiorno, avessero questa esigenza, in quanto, se prendiamo in considerazione solo il numero di abitanti della Basilicata o del Molise riescono a stento ad eguagliare numericamente un quartiere di Napoli, ma analizzando anche gli altri dati presi a prestito da SVIMEZ, vediamo che ogni regione del Mezzogiorno peninsulare presenta numeri insignificanti in un contesto europeo, se invece immaginassimo insieme le sei le regioni, qualcosa in più rappresenteremmo e da questo qualcosa in più vorremmo partire e capire fin dove si può arrivare.

Indico sei regioni per motivi oggettivi, la Sicilia e la Sardegna sono regioni a statuto speciale, che avrebbero già le possibilità di poter attuare iniziative autonome per avere un buon sviluppo, e tra l’altro si rimane basiti quando si confronta la realtà siciliana, con quella del Trentino Alto Adige. La Sicilia, una Regione ricca, che potrebbe essere la locomotiva del nostro Mezzogiorno è sempre additata per le sue “performance” negative.

Noi vogliamo focalizzare la nostra attenzione e i nostri sforzi inizialmente sul territorio peninsulare, poi ci confronteremo con le altre due regioni, ma prima vogliamo fare ordine qui, trovare qui le prime risposte all’esigenza di creare un mondo dove i nostri figli non debbano più emigrare, dove si possano creare nuove opportunità di lavoro, dove si possa ricostruire una solidarietà civile, dove la legalità non debba essere sollecitata e bramata. Noi puntiamo e crediamo molto nei giovani, essi sono il nostro target, noi lavoriamo per loro!

Noi guardiamo ai nostri concittadini e tentiamo con la nostra iniziativa, di contribuire a un miglioramento della qualità della nostra vita per dare speranza in queste terre, migliorare il rapporto tra domanda e offerta facendo crescere le occasioni di lavoro per tutti, far sì che vivere nel Mezzogiorno d’Italia non sia più una iattura!

Dobbiamo immaginare come se fino ad oggi avessimo vissuto una tragica guerra, ora ci troviamo tra le macerie di questo conflitto, per cui da adesso, in una fase post bellica vogliamo avviare una nuova fase storica, per cui come è avvenuto in altre parti del mondo, come ad esempio in Corea del Sud, in Indonesia, nel Vietnam, rimetterci in gioco, senza recriminare nulla, senza lamentose questue, partire da ciò che abbiamo, anche se questo può apparire a una prima lettura poco!

Da dove possiamo partire? Possiamo ad esempio partire dal nostro gettito fiscale, perché anche noi nel Mezzogiorno abbiamo un nostro gettito fiscale, dal sommerso da far emergere e tante altre risorse nascoste che potrebbero contribuire alla nostra ripresa. Poter partire da questa base individuando pochi, ma strategici investimenti per infrastrutture e fondi per incentivare l’imprenditoria, naturalmente ribadiamo, stiamo a un livello di studio che si sta approfondendo e sarà nostra cura far conoscere a voi tutti, i risultati.

Ritorniamo a questo costante richiamo e interesse verso il Mezzogiorno, che ha suscitato, ha provocato, ha sollecitato centinaia di convegni, dibattiti, confronti, senza mai riuscire a trovare il bandolo della matassa o tirare il ragno dal buco. Cosa ancora più stupefacente è che tutti questi dibattiti e confronti, ufficialmente richiamavano e richiamano il Mezzogiorno come tema, ma poi si discuteva e si discute delle singole regioni di questa vasta area del nostro paese, mai immaginate come una forza unica, accomunate da un unico destino!

Chiedo a voi esperti di economia, di finanza, di imprese, perché l’Europa ha deciso di unirsi? Ci è stato detto che la globalizzazione ci costringeva a confrontarci con realtà economiche e industriali molto forti, per cui l’Italia, la Germania, la Francia ognuna da sola non avrebbe avuta la capacità di misurarsi, con le economie emergenti della Cina, l’India, il Pakistan, il Brasile e quelle storiche come gli Stati Uniti d’America. Bene, se trasliamo tale esigenze nella nostra Italia e al nostro Mezzogiorno in particolare, la Basilicata, il Molise, la Calabria, la Campania, l’Abruzzo e la Puglia, ognuna da sola, cosa possono rappresentare? Che potenzialità hanno per potersi misurare in un contesto globale, come quello in cui viviamo ormai da oltre un ventennio? Come confrontarsi anche all’interno della costituenda Macro Regione del Mediterraneo Centro Occidentale?

Di conseguenza lo sviluppo del nostro Mezzogiorno deve essere affrontato, come sviluppo del Mezzogiorno, quindi non commettendo l’errore di voler programmare piani di sviluppo per ogni singola regione, ma definire piani di sviluppo per tutta l’area geografica del Mezzogiorno, da una comune cabina di regia. In quante occasioni si è parlato dello sviluppo dei porti del Mezzogiorno, Gioia Tauro, Brindisi, Salerno, Napoli, come porte d’acceso per l’Europa, da Sud. Bene, se vogliamo seriamente affrontare questo tema, il primo problema che ci troviamo d’avanti è l’interconnessione tra questi porti e la carenza d’infrastrutture, oltre ad aspetti di pari importanza di tipo organizzativo e di legalità, che non vanno dimenticati. Il settore marittimo che è stato uno dei maggiori punti di forza del Mezzogiorno da circa due secoli, deve essere potenziato e tutelato, come nostra eccellenza. Se invece continuiamo a ragionare con la visione regionalistica, ogni Regione potrebbe progettare iniziative non compatibili con le altre ed è il risultato che spesso abbiamo ottenuto. Quello delle infrastrutture è uno dei punti fondamentali, strategici per il nostro Mezzogiorno, in quanto negli anni passati sono state avviate moltissime opere, ma in larga parte sono rimaste incompiute, questo perché, alla base vi erano finalità esclusivamente regionali, mentre non vi era una programmazione strategica di ampio respiro che avrebbe dovuto coinvolgere anche le regioni limitrofe e l’intera area meridionale. Oltre a questi aspetti, si può considerare la realizzazione di una politica di sviluppo delle “Startup”, da ritenere come cellule staminali totipotenti che interconnettendosi creino una rete di industrializzazione, realizzando la spinta propulsiva per il Mezzogiorno, da questo, guardare alla sponda meridionale del Mediterraneo come area in cui noi del Mezzogiorno possiamo offrire il nostro know-how ai paesi del Nord Africa con ricadute dirette per la nostra imprenditoria. Il Mezzogiorno non può essere solo il mercato di altri, ma deve essere anche attore nella produzione industriale in senso lato, poiché solo in questo modo si creano posti di lavoro concreti e duraturi.

Colgo l’occasione per ricordare un recente articolo di Isaia Sales, sul bilancio fallimentare delle Regioni, ma quelle del Mezzogiorno, in particolare. La modifica del titolo V della Costituzione con la delega alle Regioni delle materie di legislazione concorrente quelle relative all’art. 117.3 della Cost.:

  • a) rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni;
  • b) commercio con l’estero;
  • d) istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale;
  • f) ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi;
  • g) tutela della salute;
  • l) protezione civile;
  • m) governo del territorio;
  • n) porti e aeroporti civili;
  • o) grandi reti di trasporto e di navigazione;
  • p) ordinamento della comunicazione;
  • q) produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia;
  • r) previdenza complementare e integrativa;
  • s) armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario;
  • t) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali;
  • u) casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale;
  • v) enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.

In queste materie concorrenti come sono intervenute le regioni del Mezzogiorno, come hanno sfruttato queste opportunità?

In realtà i risultati alla modifica del Titolo V della Costituzione sono stati a mio avviso, non il fallimento di una legge sbagliata, ma la cartina tornasole del valore dei nostri amministratori, in quanto le regioni del centro nord ne hanno beneficiato considerando l’opportunità che tale modifica offriva alle regioni stesse e traendone il massimo beneficio. Per noi invece vi è stato un arretramento generale, perché non si è compreso la portata di tale cambiamento, in quanto i nostri amministratori non sono stati all’altezza del momento storico, come è accaduto in più occasioni nel passato, per cui la modifica del titolo V° è stato un fallimento esclusivo per le nostre regioni. Bisogna anche smascherare il refrain che la solita Lombardia o il Veneto ci abbiano penalizzati con scelte egoistiche e antimeridionali. Posso affermare a ragion veduta in quanto presente alle trattative a livello ministeriale per la Sanità, negli anni ottanta e novanta, chi osteggiava le regioni meridionali, erano la Toscana, l’Emilia Romagna, l’Umbria! I contratti della Sanità, i modelli organizzativi in Sanità sono sempre stati realizzati da queste regioni e noi l’abbiamo subiti, perché assenti a quei tavoli e chi è assente ha sempre torto, questa è la realtà delle cose! Quanto affermo, non più di tre mesi fa, fu ribadito dal prof. Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore della Sanità ad un convegno qui a Napoli presso il CNR

Noi sosteniamo e propugniamo la piena nostra responsabilizzazione, come spesso mi trovo a dire, il nostro destino è nelle nostre mani, e quale miglior occasione in un confronto con le realtà che si trovano sulle sponde del Mediterraneo? Ma anche in questo caso, non possiamo affrontare questa importante e impegnativa iniziativa, in ordine sparso, senza la consapevolezza di una nostra forte responsabilità verso i nostri concittadini. Per vincere queste sfide bisogna essere attori attivi e sempre presenti nei momenti decisionali in quelli critici e definitivi.

Ho rappresentato in molte occasioni all’amico Pantani, che aderire all’area della macro regione del Mediterraneo Centro Occidentale, deve coincidere con la costituzione della macro regione del Mezzogiorno, in quanto gli altri partecipanti, hanno un background di notevole spessore. Ci troviamo di fronte a entità statali, come ad esempio Malta, di estensione pari alla nostra isola d’Elba, è però uno stato, per cui una regione come la Campania o la Puglia, da sole non sarebbero dei validi interlocutori.

Costituendo la Macro Regione del Mezzogiorno e utilizzando gli strumenti normativi previsti dall’art. 117 della Costituzione, si possono definire accordi internazionali e con l’Unione europea, facilitazioni per il commercio con l’estero, favorire con normative regionali specifiche, l’apertura del nostro Mezzogiorno a investitori stranieri.

Il nostro Mezzogiorno è costituito da 20 milioni di abitanti, una entità ragguardevole se rapportata ai 28 paesi della Comunità Europea, per comprendere cosa significa, solo la Germania, la Francia, il Regno Unito, Italia, la Spagna e la Polonia sono i paesi con un maggior numero di abitanti rispetto al Mezzogiorno. I paesi rimanenti ne hanno molto di meno, tra questi: la Norvegia, la Svezia, il Belgio, il Portogallo. Potremmo essere una realtà non di poco conto se ci crediamo e iniziamo a remare tutti nella stessa direzione.

L’importanza di dare vita alla Macro Regione del Mezzogiorno diviene strumento strategico anche per confrontarsi all’interno della nostra nazione. Pensate a un presidente di una tale realtà, che si confronta al tavolo della conferenza Stato – Regioni, non avremo più i timori, le perplessità, che a ogni finanziaria o ad ogni aggiustamento dei conti pubblici, giustamente l’autorevole Nando Santonastaso ci segnala con allarme e angoscia, ma essendo realista posso immaginare una tappa intermedia in cui la meta potrebbe essere un coordinamento funzionale delle Regioni Meridionali, dove si concordano gli obiettivi e si pianificano le tappe, con verifiche puntuali dei risultati che si ottengono, come avviene in ogni gestione imprenditoriale accorta e seria.

Cosa manca quindi per invertire la nostra attuale condizione? Essere convinti che ciò che facciamo lo facciamo per il nostro Mezzogiorno, una forte volontà a contrastare l’attuale stato delle cose, una forte motivazione a contare solo sulle nostre forze, poiché noi, fuori dalla nostra terra siamo i migliori e siamo gli artefici dei successi di altri in realtà lontane da qui, dare vita e formare un forte senso di appartenenza con la riscoperta del nostro passato, delle nostre tradizioni. Trovare le soluzioni per creare lavoro, permettendo ai nostri giovani di rimanere qui e dare la possibilità a chi è andato via, di ritornare aiutandoci con le loro positive esperienze a contribuire fattivamente alla crescita del nostro Mezzogiorno e anche dell’Italia, poiché potremo avere finalmente anche l’ambizione di divenire noi la locomotiva d’Italia.

 

Pasquale Persico: Non è possibile avvantaggiare solo una parte del Paese

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Pasquale Persico

Il ministro per il Sud, Barbara Lezzi, apre all’ipotesi di costituzione di una Macroregione del Mediterraneo Centro Occidentale. L’esponente del Governo ne parla durante la conferenza stampa di anticipazione del Rapporto Svimez, la notizia potrebbe avere implicazioni politiche importanti, perché il dibattito serio sulla nascita delle Macroregioni (quella del Mediterraneo centro occidentale ed quella Orientale) presuppone una modifica costituzionale sulle competenze delle le Regioni e delle le aree vaste, riorganizzate per il raggiungimento di una nuova efficacia della governance interistituzionale, in una visione federalista degli Stati Uniti d’Europa.
Ma, a parte la difficoltà di avviare in Europa una riforma politica che rafforzi l’Euro e la politica fiscale, la stessa Ministra Lezzi sottovaluta quanto bolle in pentola nelle commissioni parlamentari o in stanze più ristrette per delineare e soddisfare la richiesta di alcune regioni del Nord compresa L’Emilia e Romagna, di più autonomia e di più competenze a partire dalla istruzione.
I criteri di riassegnazione delle risorse prevedono un tacito accordo che invece di riconoscere una equità e comparabilità degli standard di infrastrutture e servizi, parta dallo stato attuale per cristallizzare l’attuale divario e sancire che i diversi livelli di qualità e quantità degli standard sono anche una misura del tipo di domanda che viene dalla popolazione.
Pertanto, le regioni che hanno una capacità fiscale maggiore possono diminuire il loro contributo alle altre regioni per il solo fatto che anch’esse devono migliorare le performance dei propri standard di servizi. Esse devono attingere al loro risparmio fiscale. Si cristallizza, così, il divario e non tengo conto che è tutto il sistema paese che deve essere messo in recupero della produttività totale dei fattori e che al Mezzogiorno deve essere data la possibilità di partecipare al gioco delle nuove autonomie e delle nuove competenze.
Ecco, se la Ministra è consapevole, la battaglia costituzionale potrebbe avere una prospettiva per la politica del riequilibrio dell’efficacia della governance delle regioni e delle aree vaste e del Mezzogiorno in particolare, che invece a breve diventerà la ferita profonda per la incapacità del sistema Italia di affrontare il divario nord- Sud così come delineato da Giannola nel rapporto Svimez.
La raccomandazione da fare, allora, è quella di non continuare ad ipotizzare la doppia produttività e la doppia politica dei redditi tra nord e sud dell’Italia e dell’Europa, ma ispirarsi al principio della cipolla come organizzazione sociale sana. Quando è sana la cipolla può essere tagliata guardando alla sua omogeneità come principio che rasserena sull’esito della sua efficacia. Per il Paese è un modo per dire che non è possibile pensare di poter avvantaggiare ancora solo una parte di esso lasciando marcire l’altra parte, questa visione sarebbe miope e di breve respiro culturale, e come la cipolla puzzerebbe di marcio anche durante il cucinare.

 

Paolo Pantani: Allargare il processo di partecipazione decisionale

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Paolo Pantani

La Macroregione è uno strumento comunitario approvato dalla Comunità Europea, nato con lo scopo di favorire la partecipazione al processo decisionale non solo degli stati ma anche delle regioni, degli enti locali e della società civile in aree circoscritte dello spazio europeo.

Gli interventi concordati in ambito Macroregionale possono essere sostenuti dai fondi strutturali e da investimenti europei per affrontare le sfide comuni relative ad una determinata area geografica. Gli stati di una determinata macroregione possono appartenere oppure no all’Unione Europea.

Nel 2009 venne istituita la prima macroregione denominata Regione del Mar Baltico, nel 2010 la regione del Danubio, nel 2014 l’Unione europea per l’Adriatico e Ionio ed infine nel 2015 venne istituita la macroregione Alpina:

La strategia UE per la Macroregione del Mar Baltico (EUSBSR) ha tre obiettivi principali: salvaguardare il mare, potenziare le infrastrutture per migliorare i collegamenti all’interno della macroregione e accrescere il benessere dei cittadini, anche combattendo la criminalità organizzata.

La strategia UE per la Macroregione del Danubio (EUSDR) ha quattro ambiti prioritari: promuovere i collegamenti nella regione del Danubio; proteggere l’ambiente; creare prosperità e rafforzare la regione anche dal punto di vista della sicurezza.

La strategia UE per la Macroregione Adriatica e Ionica (EUSAIR) promuove una crescita sostenibile in termini economici e sociali della regione adriatico-ionica, supportando al contempo il processo di integrazione dei paesi balcanici dell’area. La Strategia riguarda principalmente le opportunità dell’economia marittima: trasporti mare – terra, protezione dell’ambiente marino, turismo sostenibile e connettività in campo energetico.

La strategia UE per la Macroregione alpina (EUSALP) interessa quattro ambiti di intervento. Il primo è quello di crescita economica e innovazione, ad esempio mediante attività di ricerca su prodotti e servizi specifici della regione alpina; poi connettività e mobilità, con il miglioramento della rete stradale e ferroviaria e l’espansione dell’accesso a Internet via satellite nelle aree remote. Seguono interventi nel campo di ambiente ed energia, con la messa in comune delle risorse per salvaguardare l’ambiente e la promozione dell’efficienza energetica nella regione.

Sull’esperienza di queste quattro macroregioni è nata l’idea di proporre la costituzione della Macroregione Mediterranea Centro-Occidentale.
Con la revisione delle reti di Trasporto TEN-T (Trans-European Networks–Transport), prevista nel 2021 e la revisione del Regional Transport Action Plan (RTAP 2021-2026) si potrebbe formalizzare il piano di integrazione tra la Rete di Trasporto TEN-T e la Rete di Trasporto Trans-MED (TMN-T). Tali accordi dovrebbero creare le condizioni non solo per il completamento nei tempi stabiliti degli interventi previsti sia nel Sud Europa che nel Nord Africa, ma anche per la realizzazione dell’Afrotunnel di Gibilterra e del collegamento stabile nello Stretto di Messina, realizzati nel rispetto delle Specifiche Tecniche di Interoperabilità Europee e nella pianificazione del loro uso in esercizio.

Insieme a nuove opportunità di lavoro, le nuove infrastrutture sarebbero trainanti per implementare la integrazione al processo di globalizzazione del commercio mondiale, nonché di tenere conto dell’inarrestabile aumento demografico del continente africano nei prossimi decenni.

La nuova Macroregione Mediterranea Centro-Occidentale (MMCO) potrebbe avere i seguenti obiettivi:

  • Salvaguardare il mare Mediterraneo;
  • Promuovere la reciproca conoscenza e socializzazione tra i popoli;
  • Promuovere una crescita sostenibile in termini economici, sociali e culturali in tutta l’area sia nelle regioni del sud Europa che in quelle del nord Africa (istruzione superiore e ricerca);
  • Migliorare le infrastrutture stradali e ferroviarie, dei porti, degli interporti e degli aeroporti per creare un Sistema integrato e nuove opportunità di sviluppo che riducano la necessità di migrazione;
  • Sviluppare e gestire un piano condiviso di utilizzo delle energie alternative (piano solare del mediterraneo, eolico, ecc.);
  • Sviluppare e gestire un comune sistema di protezione civile e controllo delle migrazioni;
  • Combattere la delinquenza comune e organizzata.

Le attività di cooperazione in atto tra i paesi dell’Unione per il Mediterraneo potrebbero favorire la creazione della Macroregione Mediterranea Centro Occidentale con lo scopo di allargare il processo di partecipazione decisionale tra gli stati anche alle regioni, agli enti locali, alla società civile.

 

Anna Del Sorbo: Adeguare i modelli di governance alla competizione

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Anna Del Sorbo*

La creazione di una quinta macroregione, quella del Mediterraneo Occidentale, è ipotizzata non solo come un proseguimento di esperienze già in atto a partire dal 2009, con le creazioni della Baltica, della Danubiana, della Adriatico-Jonica e della Alpina, ma anche come uno strumento di una strategia di grande respiro.
Il futuro dell’Europa delle comunità territoriali, il recupero del rapporto tra cittadini e istituzioni, si coniuga in questo caso con la ricerca di una più completa identità europea.
Con la piena valorizzazione, finalmente!, dell’Europa Mediterranea attraverso un dialogo più stretto e strategie di crescita più interagenti e integrate con i Paesi della sponda Sud. Nella consapevolezza, come ricorda il Professor Piraino, che appena un terzo dei cinquecento milioni di abitanti dell’area mediterranea sono cittadini dell’Unione Europea. Da imprenditrice e rappresentante del mondo associativo, sono molto interessata a prospettive che favoriscano lo sviluppo economico e sociale attraverso nuove forme di dialogo territoriale, che facciano leva su esigenze comuni.
L’ Italia piattaforma naturale del Mediterraneo ed in modo principale le regioni del Sud sono strategiche per l’economia del mare.
I campi di intervento su cui in linea prioritaria si potrebbe trovare un terreno fertile per le strategie cooperative sono stati indicati nella blue e nella green economy, nell’economia soft e slow, nella cultura e nell’istruzione, nel turismo, nell’energia, e naturalmente nella ricerca e nell’innovazione.
Per la Green Economy con la normativa in vigore dell’IMO si parla di una riconversione di oltre 7000 navi tra installazione di Scrubber e Ballast Water Management System.
Comprendiamo bene che dinanzi a queste enormi opportunità, il ruolo della supply chain di Big Player-attori di questo cambiamento- è veramente centrale.
Ritengo che la vera sfida sarà far credere le nostre PMI, sia in termini di sinergie creando reti dia in termini di competitività attraverso processi di innovazione ed internazionalizzazione.
Sono piste che stiamo cercando di percorrere con sempre maggiore determinazione anche sulla nostra scala locale campana e che, proprio per questo, per avere cioè già avviato iniziative specifiche, sappiamo bene debbano essere rilanciate su una dimensione più vasta.
Ricordo, ad esempio, che proprio in Campania è stato costituito il Cluster Tecnologico Nazionale BIG – Blue Italian Growth. Per la Blue Ecomomy, in pratica, è stata costituita una piattaforma di dialogo tra sistema pubblico della ricerca e le imprese, con funzioni di coordinamento tra ricerca pubblica e ricerca privata, tra governo e politiche territoriali.
Il Cluster BIG, pur in un ambito di riferimento territoriale e istituzionale ancora delimitato, è comunque espressione del tentativo di rompere schemi, di aggregare funzioni, di promuovere uno sviluppo che parta da esigenze e potenzialità di sviluppo concrete, dalle vocazioni dei territori.
Ricordo, al riguardo, che la filiera della cosiddetta “Economia del Mare” che rappresenta il 2% del PIL nazionale, è di grande interesse strategico per l’economia del Paese, ed in particolare del Mezzogiorno, generando un valore aggiunto in Italia pari a 44,4 miliardi di euro di cui 14,7 miliardi di euro originati nel Mezzogiorno (circa il 33%; dati SRM Società Studi e Ricerche del Mezzogiorno).
Lo sviluppo ulteriore di questa filiera è evidentemente collegato alla capacità della Campania, del Mezzogiorno continentale e insulare, di potenziare business ma anche e soprattutto individuare temi e valori comuni con altre aree del Mediterraneo.
La crisi delle regioni da una parte, e dall’altra il declino di un modello d’Europa accentratrice, normativo burocratica, vincolistica e scollegata dai territori è un dato che avvertiamo quotidianamente e che ha come contraltare il rilancio dei nazionalismi.
La prospettiva di soluzioni nuove che sappiano riavvicinare la politica ai problemi della gente e alle esigenze del mondo produttivo, a partire dalle piccole e medie imprese che ne rappresentano così tanta parte in Italia e in Europa, non può che intrigarci e renderci disponibili a ogni forma di collaborazione concreta, basata su strategie, programmi e azioni.
Come Confindustria siamo convinti che la strada per lo sviluppo non possa prescindere da un modello di crescita che recuperi il valore trainante dell’impresa, al servizio di una società inclusiva, che promuova lavoro qualificato e produttivo, che riconfiguri gli iter formativi, che non trascuri impegni e responsabilità e sappia pertanto perseguire anche una graduale riduzione del debito pubblico.
Ma per cogliere questi obiettivi c’è bisogno anche di modelli di governance adeguati alle esigenze della moderna competizione. In tal senso, l’idea di Macroregioni che superino i confini nazionali, che siano concepiti sulla base di funzioni e non si risolvano dunque nella sovrapposizione di nuove istituzioni, è di sicura suggestione, al di là dei risultati dei tentativi finora attuati.
C’è tuttavia bisogno di farle marciare concretamente, tanto più che per la loro operatività sono comunque indispensabili percorsi e intese istituzionali. Il mondo dell’impresa è da sempre impegnato a misurarsi su obiettivi pragmatici ma – e lo abbiamo dimostrato ancora una volta con le Assise di Verona – sa anche che per creare sviluppo serve una vision, avere chiare le direttrici di marcia per quella che dovrà essere la nostra società nel prossimo futuro.
Su queste basi, siamo pronti a fornire ogni possibile contributo che vada nella direzione auspicata.

 

Anna Del Sorbo, presidente del gruppo Piccola Industria dell’Unione Industriali di Napoli. “La Macroregione del Mediterraneo Occidentale e l’interesse degli industriali campani”.

Pietro Spirito: Il deficit di politiche europee per il Mediterraneo

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Pietro Spirito*

Nel ridisegno delle connessioni internazionali e nella costruzione della nuova mappa dei poteri tra i principali blocchi del mondo, il convitato di pietra è l’Europa. L’indebolimento della sua capacità politica è cominciato proprio quando, con la nascita della unione monetaria, pareva invece che dovessero essere poste le premesse per un processo federale capace di far affermare sulla scena internazionale un soggetto destinato a pesare sempre più sulle scelte. Per parafrasare il titolo del libro di un politologo americano, Richard N. Haas, “la politica estera comincia a casa”. E quando la casa europea ha cominciato a vacillare nelle sue fondamenta, il peso dell’Europa sugli affari mondiali è diventato via via meno influente.

L’Unione Europea è stata la prima ad intuire che il disegno della integrazione delle reti di collegamento era parte strategica per recuperare competitività sul piano internazionale. A metà degli anni Ottanta del secolo passato Jacques Delors lancio l’iniziativa delle reti transeuropee, con l’ambizione di connettere i Paesi comunitari con infrastrutture maggiormente adeguate ed efficienti.

Ci sono stati due limiti in questo programma comunitario: da un lato i finanziamenti del programma provenivano per larga parte dagli Stati nazionali, ed hanno subito tagli nel periodo della grande crisi, e dall’altro questo disegno di rete non era concepito anche come un modello per connettere l’Europa agli altri principali mercati limitrofi, se escludiamo una proiezione verso Est e verso la Russia.

Anche chi oggi parla di una “Via europea della seta” concepisce un disegno di allargamento e potenziamento delle infrastrutture verso oriente, senza ipotizzare alcuna reale connessione verso la sponda meridionale del Mediterraneo, in qualche modo assecondando un disegno di integrazione solo parziale. E’ mancata, ed ancora manca, una visione comunitaria del disegno delle connessioni che ponga anche il Mediterraneo al centro di un ragionamento di sviluppo.

Questo ragionamento vale anche per la questione delle scelte logistiche che hanno sempre più caratterizzato la definizione delle gerarchie strategiche, sia all’interno della Unione sia sul piano internazionale. Sino ad ora la partita portuale comunitaria è stata caratterizzata da una contrapposizione tra sistema portuale del Nord Europa e sistema portuale mediterraneo, in una concorrenza per attrarre traffici destinati al mercato europeo. Va sottolineato che, come dice Abulafia, “nell’Unione Europea all’inizio del nostro secolo, il centro di gravità dell’Europa si trova ancora al Nord”.

E’ come se si fosse cristallizzato un potere di influenza sancito molto tempo addietro, a partire dalla costruzione della Lega Anseatica, sin dal dodicesimo secolo. L’Europa settentrionale marittima, sin da allora, ebbe la capacità di federare le proprie forze per affermare un progetto egemonico, con una alleanza che coinvolgeva sino a cento città marittime. Il Mediterraneo non è mai riuscito ad esprimere un modello federale che valorizzasse le specificità dei differenti scali, ed è stato caratterizzato invece più da singole temporanee egemonie che da modelli cooperativi.

Va poi sottolineato che – successivamente alla conclusione della seconda guerra mondiale – il Mediterraneo è entrato nella sfera di influenza statunitense, come avamposto della lunga stagione della guerra fredda tra i due grandi blocchi contrapposti delle economie di mercato e delle economie pianificate. In una certa misura la Comunità Economica Europea nasce anche per l’esigenza di non delegare a Stati Uniti e Unione Sovietica la sicurezza europea, non prestare il fianco alle offerte disgregatrici di Mosca, rafforzare la coesione dell’Europa sul piano politico, economico e sociale. Non si riesce a perfezionare anche la Comunità Europea della Difesa, in particolare per la rigida posizione francese, ma nasce una forte integrazione dei mercati che consente di consolidare la ripresa economica dei Paesi europei.

Il Mediterraneo come spazio geografico e politico è parte integrante del processo di integrazione europea sin dal suo avvio. Nella conferenza di Messina, che ha preparato i Trattati di Roma del 1957, tale aspetto politico è al centro della discussione tra i Paesi che daranno vita alla CEE. Tuttavia, politiche mediterranee hanno poi stentato ad emergere nella agenda comunitaria. La rilevante diversità degli interessi e nelle relazioni degli Stati membri nei confronti della sponda sud fu la causa principale del sostanziale fallimento nella creazione di una politica comune.

La costruzione europea è stata sin dall’inizio un edificio sofisticato di sperimentazione istituzionale, un contenitore che ha sapientemente mescolato più ingredienti politici e sociali: Lo spirito di complessità è lo spirito d’Europa. Questa complessità si è nel tempo inaridita di fronte alla difficoltà di arricchire i contenuti di cooperazione, che si sono focalizzati essenzialmente sulla costruzione di un mercato unico governato da una moneta unica. La latitanza delle altre politiche ha reso molto più difficile il bilanciamento con i fattori fondanti di una politica federale, che sono essenzialmente la politica estera, l’armonizzazione delle politiche economiche e fiscali, le politiche di indirizzo strategico su una visione condivisa del futuro.

C’è stata una breve fase, nella storia del processo di integrazione comunitaria, nella quale si è tentato di spostare l’asse dell’attenzione sul baricentro mediterraneo, vale a dire quando, da metà degli anni settanta del secolo passato, si è avviata, ed è poi giunta a conclusione positiva, la trattativa per accogliere Spagna e Portogallo nel disegno di integrazione europea: Si riteneva che la cooptazione di Spagna e Portogallo nella CEE avrebbe riequilibrato il baricentro della Comunità verso il Sud Europa.

Quella illusione è durata sino alla metà degli anni Ottanta, quando il tentativo di riforma istituzionale verso una maggiore integrazione politica, con l’Atto Unico, si è poi infranto con la diluizione delle ambiziose riforme proposte. Subito dopo, a distanza di qualche anno, il crollo dell’Unione Sovietica e delle economie pianificate ha cambiato completamente le carte in tavola.

L’unificazione tedesca prima, e l’espansione comunitaria verso Est poi, è stata la cifra dominante che, da allora in poi, ha caratterizzato prima l’asse, e poi la crisi, della integrazione comunitaria. La stessa costruzione della moneta unica è stata più un modo per imbrigliare la Germania unificata in un disegno di cooperazione obbligata che non una azione di rilancio per rafforzare la costruzione di una Europa federale.

Poi, per quei paradossi che spesso la storia presenta, il disegno di una moneta unica che doveva originariamente servire ad arginare il potenziale eccessivo potere di una Germania unificata, è piuttosto servito ad amplificarne la portata, non per effetto di un destino cinico e baro, ma per le debolezze delle soluzioni istituzionali adottate.

Nel tempo più recente, a partire dalla caduta del muro di Berlino e dallo sgretolamento delle economie pianificate che gravitavano attorno all’orbita sovietica, l’attenzione dell’Europa si è spostata verso Oriente, per allargare la propria sfera di influenza politica e l’ambito dello spazio economico comunitario. Inevitabilmente le risorse finanziarie e le energie politiche si sono direzionate verso questo obiettivo primario, ed ancora una volta è sfumata l’attenzione verso le regioni dell’area mediterranea.

Insomma, il Mediterraneo sembra costituire la promessa costantemente mancata delle politiche comunitarie: sembra sempre sul punto di entrare più volte nelle agende degli impegni della Unione Europea, per poi invece essere superato da altre questioni che incalzano tra le priorità che vanno effettivamente percorse.

Quella del partenariato euromediterraneo è in realtà una storia di un bambino morto nella culla. Da una parte infatti il riacutizzarsi della tensione nel conflitto arabo-israeliano ma anche il tramonto del clima di trionfo neo-liberale successivo alla fine della Guerra fredda, finiscono per far venire meno le condizioni ambientali affinchè l’ambizioso progetto possa realizzarsi.

Dalla prima conferenza euro-mediterranea tenutasi a Barcellona alla fine di novembre del 1995, si sono susseguiti tanti altri vertici e tante altre conferenze su questo tema, senza tuttavia generare quel salto di qualità nel modello di cooperazione capace di determinare una centralità effettiva della politica euro-mediterranea.

Si può registrare una parabola discendente della politica mediterranea della UE, che è passata dall’ambizioso approccio multilaterale proposto dal partenariato euro-mediterraneo del 1995, che nutriva la visione forse utopistica di modernizzare la regione, al ritorno alla pratica degli accordi bilaterali con la politica europea del vicinato e l’Unione per il Mediterraneo. Insomma, mentre si provava a mettere in campo una seria iniziativa euromediterranea, mancava poi il carburante politico per metterla in pratica, e al più si mantenevano in vita simulacri di cooperazione che ne indebolivano ulteriormente la portata.

Romano Prodi, attento osservatore della geopolitica internazionale, doversi anni fa ha sottolineato che “il Mediterraneo è ancora periferia del sistema economico mondiale e non è un sistema anche perché le relazioni marittime o aeree tra l’Italia e l’Africa del Nord, ad esempio, sono ridicole: pochissimi sono i collegamenti, quelli aerei sono recentissimi e sporadici, e manca persino una tradizione. Si è proprio interrotto un fatto storico, ma che dobbiamo e possiamo ricomporre”.

Mentre resta questa gravitazione settentrionale ed orientale delle politiche comunitarie, l’asse dei cambiamenti si sta spostando verso l’orizzonte mediterraneo, ma sembra che la Comunità non se ne sia accorta, salvo che per l’emergenza dell’immigrazione. Dopo la crisi finanziaria del 2007, i cui effetti sono ancora visibili, sono stati proprio i Paesi dell’Europa mediterranea ad entrare in crisi, e sono mancate risposte adeguate per baricentrare in modo più equilibrato le scelte di politica economica e di assetto geostrategico.

L’indirizzo delle politiche fiscali è stato guidato dal solo principio delle politiche monetarie, consistente in un approccio restrittivo alla finanza pubblica, proprio quando sarebbe stato necessario rispondere alla crisi con scelte anticicliche. Una Unione Europea a trazione tedesca ha scelto di controllare rigorosamente solo i parametri del deficit e del debito pubblico, mentre sono stati del tutto trascurati i parametri dell’avanzo eccessivo di surplus nella bilancia commerciale, che pure avrebbero dovuto dar luogo a provvedimenti correttivi secondo le regole di Maastricht.

Si sono adottati due pesi e due misure, con l’effetto di segnare ancor di più l’indirizzo recessivo delle politiche economiche, con una conseguente crisi ancor più dura dei debiti sovrani e con un indirizzo recessivo che ha assecondato il ciclo della crisi, piuttosto che contrastarlo.

Sono così emerse spinte centrifughe dall’euro, che hanno assecondato e sostenuto l’ondata populistica emergente per effetto di una crescita delle diseguaglianze e per un forte incremento della disoccupazione, soprattutto giovanile. L’Europa ha perso così una occasione di rinsaldare una dimensione federale che sarebbe stata assolutamente necessaria, in una fase nella quale il mondo ha avviato un ridisegno degli scenari competitivi tra grandi blocchi economici.

Proprio nell’area mediterranea sarebbe stata necessaria – ed ancora lo è – una iniziativa politica di rilancio della presenza europea. Ed invece si è andati in ordine sparso. All’indirizzo recessivo delle politiche economiche su scala comunitaria si è affiancata l’assenza di una politica estera comune per affrontare la stagione delle primavere arabe ed i grandi riassetti di potere che si sono accompagnati a questo fenomeno.

Nel caso della crisi libica si è raggiunto l’apice di questa contraddizione. Francia e Gran Bretagna si sono contrapposte all’Italia per conquistare spazi di iniziativa economica. Poi, quando è stato ribaltato il regime di Gheddafi, l’Europa ha continuato a balbettare senza essere in grado di esprimere una propria iniziativa per rivitalizzare un Paese strategico, per la sua potenziale rilevanza economica e per il suo ruolo sociale nella crisi della immigrazione. Ed ancora successivamente, in una situazione di balcanizzazione tribale dell’architettura istituzionale, libica, l’Europa non è riuscita a darsi una linea comune per mettere ordine in un Paese strategico per tante ragioni nel gioco degli equilibri mediterranei.

Non si è insomma colta la trasformazione in corso negli assi geostrategici di cambiamento. Per molto tempo, effettivamente, il Mediterraneo è stato marginale nella formazione degli equilibri economici e politici internazionali. Sino alla seconda metà del XIX secolo il Mediterraneo è ancora lo scenario dei grandi viaggiatori, del Gran Tour, di una visione superficiale, estetica di una élite europea in cerca di evasione, in una parola: l’esoterismo di tutta una generazione di artisti e di scrittori.

La stessa fondazione originaria del mercato comune europeo non riesce a generare quell’equilibrio necessario tra orizzonte nordico ed orizzonte mediterraneo dell’Europa: l’unificazione commerciale viene generata dalla necessità di garantire un equilibrio di pace franco-tedesco, dopo due guerre mondiali che erano maturate nel cuore dell’Europa. Il Mediterraneo era stato oggetto nella prima metà del Ventesimo secolo di un processo di colonizzazione subordinato alle visioni egemoniche occidentali.

ll processo di allargamento della Unione Europea ha poi visto protagonisti sostanzialmente la Gran Bretagna prima, ed i Paesi dell’Est Europa poi. L’orizzonte mediterraneo si è allontanato ulteriormente, ed anzi è stato più occasione di confronto e conflitto tra Paesi comunitari che non occasione di politica esterna comune: basti tra tutti l’esempio della crisi di Suez del 1957.

Nella portualità e nella politica marittima, i fronti del Nord e del Sud Europea si sono sviluppati in maniera separata ed antagonistica, più vivendosi come sistemi in competizione che parte di un disegno logistico integrato in uno spazio economico comune.

Ma, mentre il sistema portuale del Nord Europa non conosce concorrenza extra-comunitaria per servire i mercati comunitari, i porti europei della sponda sud subiscono la competizione che viene dalla sponda nord-africana. Stenta ancora ad affermarsi una strategia mediterranea dell’Unione Europea.

Tra gli anni sessanta e la metà degli anni settanta del secolo passato, la strategia europea verso il Mediterraneo è risultata frastagliata e non unitaria, guidata soprattutto da accordi bilaterali poco coerenti e coordinati. Successivamente, nel 1975, è stata definita una “politica globale per il Mediterraneo”, basata su tre tipologie di cooperazione: commerciale, finanziaria ed economica, sociale.

Da quel punto in avanti, non sono stati fatti grandi progressi sotto il profilo della integrazione, che si è sostanzialmente limitata a ribadire i principi definiti precedentemente, con la “rinnovata politica mediterranea”, il “partenariato euro-mediterraneo”, o l’”Unione per il Mediterraneo”.

Quest’ultima iniziativa, partita nel 2008 sotto il forte impulso del Presidente francese Nicolas Sarkozy, è immediatamente ripiegata su se stessa, senza segnare particolari discontinuità rispetto ad una linea originaria che non corrisponde più ai bisogni di una più stretta integrazione dettati dalla agenda internazionale e dalle crisi che si sono succedute nell’area mediterranea.

La Commissione Europea preferisce affidarsi a strumenti più affinati, come i partenariati strategici, le azioni comprese sotto l’ombrello della politica europea di vicinato e gli accordi di associazione. Tuttavia, si è avvertita fortemente la mancanza di un approccio strategico alla questione mediterranea, che ha lasciato spazio per l’iniziativa di altri, a cominciare dalla Cina.

Solo di recente si stanno cominciando a disegnare percorsi istituzionali di cooperazione e di intervento che cercano di porre rimedio ad un vuoto intanto riempito dal disegno egemonico cinese. Qualche segnale si comincia finalmente a muovere. Il 30 novembre del 2017, a Napoli, è stata sottoscritta una dichiarazione per la partnership con la Commissione Europea e l’Unione del Mediterraneo sottoscritta dai ministri degli affari marittimi dei dieci Stati che partecipano alla iniziativa per lo sviluppo sostenibile della blue economy nel Mediterraneo Occidentale. Si tratta di Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna, Tunisia.

La strategia macroregionale costituisce una modalità di cooperazione territoriale elaborata nell’ambito del potenziamento delle politiche regionali dell’Unione Europea. Sinora sono state istituite quattro macroregioni a partire dal 2009 (Baltica, Danubiana, Adriatico-Jonica, Alpina), mentre si discute sulla possibile di istituirne una quinta, quella del Mediterraneo Occidentale. Tuttavia, non è chiaro il livello di istituzionalizzazione e di autonomia funzionale che l’Europa intende assegnare a tale forma di cooperazione.

Esiste oggi una triplice restrizioni ai poteri delle macroregioni: non si possono approvare nuove normative, non si possono creare nuove istituzioni, non si possono ottenere risorse finanziarie addizionali. Insomma, gli spazi di manovra sono molto ristretti, e la forma con la quale le macroregioni possono dare il proprio contribuito alle politiche regionali consiste più nella articolazione di un maggiore coordinamento delle linee politiche già assunte, che non nella formazione di nuovi indirizzi. Le macroregioni non sono dunque veri e propri enti territoriali ma settori di cooperazione funzionale, localizzati in aree territoriali omogenee.

L’”Iniziativa per lo sviluppo sostenibile della blue economy nel Mediterraneo occidentale”, approvata con comunicazione del 19 aprile del 2017 dalla Commissione Europea, si propone le seguenti finalità:

  1. incrementare la sicurezza marittima;
  2. promuovere la crescita sostenibile della blue economy e lo sviluppo dell’occupazione;
  3. preservare l’ecosistema e la biodiversità della regione del Mediterraneo occidentale.

A questi obiettivi occorre cominciare a dare gambe concrete: da un lato servono finanziamenti infrastrutturali per il potenziamento delle reti e delle tecnologie e dall’altro occorre incrementare le connessioni marittime.

Sinora i flussi hanno riguardato prevalentemente il tragico fenomeno delle migrazioni dall’Africa all’Europa, e le contaminazioni sono più collegate alle terribili vicende del terrorismo islamico che mina la sicurezza. Il Mediterraneo adesso è una parola che fa paura, che ci divide e che ci indigna. Non importa più la sua storia millenaria: importano i disperati che vi affogano ogni giorno, importa la crisi economica che da anni lo attraversa come una tempesta, importano i pazzi e gli assassini che ne insanguinano le coste.

Se prevalgono approcci legati alla paura ed alla chiusura nei confronti di fenomeni sociali che devono essere invece governati e gestiti, il Mediterraneo smarrisce il suo orizzonte e perde la sua opportunità. Il protezionismo economico, che si staglia all’orizzonte, rischia di incrociarsi con il protezionismo sociale.

A circa sei anni di distanza dalle cosiddette primavere arabe, il Mediterraneo continua ad essere al centro dell’attenzione internazionale per la forte instabilità che lo caratterizza. E’ quasi un cane che si morde la coda. Il mancato governo delle istanze di cambiamento espresse dai popoli sulla sponda sud del Mediterraneo induce ad altri focolai di incertezza sociale.

Interrotti da meccanismi che riproducono regimi repressivi già precedentemente incapaci di dare risposte ai bisogni sociali, le società arabe e nord-africane si sono trovate anche a doversi confrontare con percorsi di trasposizione forzata delle democrazie occidentali, che si sono rivelati esperimenti anche peggiori rispetto alle autocrazie tradizionali locali. Si è insomma innescata una trappola istituzionale particolarmente intricata da dipanare.

L’assenza di una azione politica per governare i processi di trasformazione che sono ormai ineludibili getta benzina sul fuoco delle tensioni, impedendo uno sviluppo economico che sarebbe l’arma necessaria per traghettare le tensioni verso la sostenibilità sociale ed economica.

Mentre il terrorismo va combattuto con le armi della cooperazione internazionale, per quanto riguarda le dinamiche demografiche siamo in presenza di fenomeni irreversibili. L’Africa è ancora un continente fuori controllo: se nel 2015, con 1,2 miliardi di persone, essa rappresentava il 16% della popolazione mondiale, nel 2050 avrà 2,5 miliardi di uomini e donne, quasi il 26% della popolazione mondiale, e nel 2100 potrebbe raggiungere 4,5 miliardi, il 40% del totale.

Non leggere questi fenomeni di natura demografica destinati a modificare completamente la natura delle relazioni sociali è stato un errore strategico dell’Europa. La morsa dei processi di immigrazione si legge con queste due chiavi di lettura incrociate: da un lato l’inarrestabilità a breve del processo demografico e dall’altro un insieme di conflitti ad alta o a bassa tensione che interessano un vasto scacchiere della intera area mediterranea. Abbiamo così deciso di giocare esclusivamente di rimessa, alimentando le paure dei popoli senza guidare un processo di trasformazione.

Eppure, come spesso accade quando si affacciano alla storia fenomeni di natura fortemente discontinua, essi possono essere guardati secondo prospettive di rischio o di opportunità: saper trasformare in opportunità il rischio potenziale diventa il fattore di vantaggio strategico determinante nella competizione internazionale. Le grandi trasformazioni storiche avvengono perché il solito andazzo non funziona più. I potenti sono usi restare aggrappati alle strategie secolari persino quando la realtà cambia radicalmente.

Si legge nella poesia di Costantino Kavafis (Aspettando i barbari): “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente”. In fondo, gli Stati Uniti d’America hanno costruito la propria potenza e la propria crescita economica proprio nella capacità di accoglienza della immigrazione.

Sarebbe stata necessaria una poderosa organizzazione sociale di accoglienza, selettiva e rigorosa al tempo stesso, su base comunitaria con principi condivisi. Si è invece andati in ordine sparso, giocando a scaricabarile. L’esito è sotto gli occhi di tutti. L’Europa ha scelto di giocare di rimessa questa partita, alimentando una inconsapevole paura dell’altro che sta orientando i consensi verso opzioni populistiche di chiusura. Quel rischio che si chiamava tanti anni fa “Fortezza Europa” sta diventando realtà, ribaltandone completamente il senso originario.

In fondo è difficile trattare l’argomento mare per un’Europa che si è formata su terra. Le fondamenta stesse della Unione Europea non hanno mai posto la centralità della integrazione marittima, che è rimasta tra le politiche affidate sostanzialmente agli Stati membri, senza una reale volontà di approccio comune.

Con gli scenari internazionali che si stanno delineando, questa assenza di politiche comunitarie marittime costituisce uno dei punti di debolezza strategica di una Europa che si trova oggi in mezzo al guado, e che non riesce ad affrontare la sua crisi di identità, tra volontà di costituire, ormai minoritarie, gli Stati Uniti di Europa e tentazioni, attualmente crescenti, di ridurre i gradi di cooperazione che sono stati consolidati in questi decenni.

Dall’Africa si genereranno flussi migratori di grandissime proporzioni, soprattutto verso l’Europa, a causa sia di fattori climatici, sia ancora di sommovimenti politici. Poco si è fatto per integrare il traffico merci e passeggeri tra le due sponde del Mediterraneo in una logica commerciale. L’Africa del Nord è una frontiera dello sviluppo che costituisce l’opportunità principale non solo per l’Europa del Mezzogiorno ma anche per l’intera Comunità.

Invece di sprigionare una straordinaria iniziativa politica, all’altezza delle sfide che si presentano, è accaduto esattamente l’opposto. Non costituisce reato affermare che le istituzioni comunitarie e unioniste europee, trascinate dal peso economico e diplomatico del motore franco-tedesco e dalle continue spinte entropiche britanniche, abbiano trascurato i vettori di sviluppo, le vulnerabilità e le opportunità insite nella regione mediterranea.

Anche i tempi della navigazione indicano l’urgenza e la necessità di occuparsi innanzitutto del Mediterraneo. La rotta tra Shangai e Napoli impiega 21 giorni di navigazione, mentre quella tra Tunisi e Napoli solo 15 ore. Il tempo resta una variabile strategica della competizione. E la geometria variabile della globalizzazione sposterà la frontiera del futuro verso l’Africa. Se saremo in grado di comprendere ed orientare questa sfida, utilizzando il Mediterraneo come asse strategico, potremo cambiare il destino dell’Europa meridionale, e del nostro Mezzogiorno.

Prima ancora della opportunità africana nel suo insieme, che comunque richiede una visione strategica di lungo periodo, il mondo sarà chiamato a rispondere alla sfida della ricostruzione derivante dai conflitti bellici che si sono determinati negli ultimi decenni e da quelli che ancora sono in corso in Siria: L’Africa sarà nel lunghissimo periodo ciò che nel breve sarà la ricostruzione della Libia e della Mesopotamia.

Nell’area che più immediatamente ci circonda sono destinati a svolgersi eventi che cambieranno la configurazione di quello che siamo e di quello che saremo. Se non ce ne occuperemo noi, saranno altri a farlo al nostro posto, con una conseguente subordinazione politica dell’Europa, dell’Italia e del Mezzogiorno. Il presente e, con ogni probabilità, il futuro della UE risiede nella capacità di dar vita ad un nuovo ordine della centralità, restituendo al Mediterraneo il ruolo che la geografia gli ha sempre assegnato.

Non si vedono ancora i segni di questa evoluzione opportuna, ed anzi continuano ad essere presenti i sentimenti di una rimozione collettiva europea, che tende inevitabilmente a valorizzare i rischi di una presenza mediterranea, non comprendendo anche i vantaggi potenziali che si possono cogliere.

Va richiamata e percorsa una caratteristica fondamentale dell’Europa, vale a dire la sua costante incompletezza, che può diventare – da potenziale handicap – leva attorno alla quale costruire una riconfigurazione che superi la crisi attuale: l’Europa è una entità storica in continua metamorfosi che affronta in forme nuove una tensione ricorrente, e mai compiuta, tra unità e molteplicità. E la tensione tra unità e molteplicità, fra identità e diversità, è diventata, attraverso l’Europa, l’esperienza cruciale della condizione umana nel tempo della globalizzazione, nel tempo della complessità.

In particolare l’area MENA (Middle East and North Africa), che racchiude Paesi con i quali è stato storicamente forte il rapporto politico e l’interscambio con l’Europa, richiede la formulazione di una strategia e di una interlocuzione che stenta ad emergere, nonostante che vi sia consapevolezza sulla necessità di operare in tale direzione.

Mentre l’Europa tarda a maturare consapevolezza, almeno il nostro Paese deve necessariamente fare i conti con se stesso, con la sua collocazione geografica, con la necessità di fare leva sul Mezzogiorno per ricominciare a crescere. Il Mediterraneo già oggi gioca un ruolo rilevante nella struttura degli scambi economici per il nostro territorio.

L’area manifesta, pur tra crisi politiche e conflitti sociali, un potenziale di crescita che merita attenzione. I Paesi del Middle East e del Nord Africa sono cresciuti, nel periodo 1995-2016 ad una media del 4,4%, con un tasso decisamente più alto della Unione Europa a 28 Stati (1,9%). La Turchia ha registrato il valore più alto (4,9% anno). La popolazione dell’area arriverà a 730 milioni di abitanti nel 2050, con un tasso di crescita che è meno intenso del PIL.

Le regioni meridionali del nostro Paese non stanno cogliendo le opportunità che possono derivare dalla attivazione di una forte cooperazione commerciale con le regioni limitrofe ed a più alta crescita del Mediterraneo. Sta accadendo anzi l’opposto.

L’interscambio commerciale tra il Mezzogiorno ed il totale dei Paesi dell’area MENA è stato pari a 13,6 miliardi di euro nel 2016, valore molto inferiore a quello registrato dal Nord-Ovest (25,3 miliardi di euro). Nel 2001 gli scambi commerciali tra il Mezzogiorno e l’area MENA ammontavano a 14,6 miliardi. La crisi del 2009 ha determinato un brusco calo nell’interscambio.

Per il Mezzogiorno gli scambi con l’area MENA costituiscono il 15,7% del commercio estero globale: questo dato ha raggiunto il suo picco nel 2005 (26,7%), mentre dal 2012 al 2016 è risultato costantemente in calo, con una tendenza che dovrebbe invertirsi nel corso dei prossimi anni.

Articolare un programma di sviluppo industriale e commerciale del Mezzogiorno è possibile se ci impegniamo a costruire e ad intensificare delle relazioni commerciali e marittimi tra le regioni meridionali del nostro Paese ed il sistema mediterraneo, con il doppio scopo di consolidare da un lato la ripresa dell’industria manifatturiera nel Sud Italia e dall’altro di dare ulteriori slanci di competitività all’economia marittima del Mezzogiorno.

La produttività dei fattori è generata dalla migliore utilizzazione di lavoro e capitale. Troppo spesso ci si concentra sul rendimento del lavoro, mentre si è distratti sulla ottimizzazione del capitale. La rotazione delle navi sul corto raggio nell’arco mediterraneo può generare una intensità di connessioni senza paragoni rispetto alle rotte lunghe della globalizzazione tra Asia ed Europa.

Cinta poi quell’insieme di fattori che non sono né capitale né lavoro, e che gli economisti racchiudono sotto la denominazione di residuo. Nella organizzazione produttiva dei nostri tempi il residuo pesa in modo crescente: mette assieme le innovazioni tecnologiche, l’efficienza dei servizi, la densità delle connessioni, la qualità delle infrastrutture, la dotazione di capitale umano con adeguate capacità.

E’ nella combinazione consapevole ed efficiente di lavoro, capitale e residuo che – ancora una volta – si potrà interpretare e guidare in modo efficace la produttività totale dei fattori, vale a dire quell’indicatore sintetico capace di esprimere la combinazione degli elementi differenti della prodizione che danno vita alla competitività dei sistemi economici.

Su queste basi può esser rilanciata una politica industria e logistica solida, capace di attrarre investimenti e crescita. In questo modo lo sviluppo si avvicina a noi, ed il miglior sfruttamento del capitale lo può rendere ancora più intenso, attraverso una maglia densa di connessioni che valorizzi gli scambi commerciali mediterranei. Nell’epoca della nuova globalizzazione, alle reti lunghe transoceaniche si possono aggiungere anche le reti corte di prossimità, che possono consentire di rimettere in marcia territori ancora non contaminati dalla logica di una crescita economica basata su industrie ad alto contenuto tecnologico. Serviranno sempre meno braccia e sempre più cervello per produrre valore.

Insomma, lo sviluppo tende a fiorire laddove si generano quegli “ecosistemi innovativi” spesso trasversali rispetto ai tradizionali settori merceologici. La grammatica industriale alla quale eravamo abituati tende a contaminarsi con una nuova lingua basata su una scrittura più complessa, nella quale i perimetri sono continuamente rimessi in discussione secondo il paradigma della creazione e della costellazione del valore.

 

Pietro Spirito, Presidente dell’Autorità di Sistema del Mar Tirreno Centrale. “Il deficit di politiche europee per il Mediterraneo: origini e conseguenze”.

Francesco de Notaris: La Questione meridionale è questione nazionale

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Francesco de Notaris

Quella che fino ad oggi abbiamo chiamato ‘questione meridionale’ è questione nazionale, questione europea.
Se non la si risolve non si governa l’Italia intera e si resta prigionieri in una visione di parte.
Il  non aver affrontato la questione ha contribuito a determinare  una ricaduta su tutto il territorio nazionale in termini di sviluppo, a causa della cosi detta fuga dei giovani in cerca di lavoro, che rappresenta una nuova emigrazione differente dalle precedenti, e  per la diffusione della illegalità, del riciclaggio, degli investimenti distorti anche all’estero,  con visibili processi involutivi.
Questo breve scritto non ha alcuna pretesa, tranne quella di ricordare come sia centrale tale questione e come essa sia evidente fin dal tempo dell’unità d’Italia.
Aggiungo che , pur in presenza della visibile consapevolezza delle difficoltà in cui versa il Mezzogiorno, anche a fronte della pubblicazione di studi, saggi e documenti parlamentari nulla o poco accade sul piano concreto e un buco nero provvede ad…archiviare impegni e proposte.
I contributi scientifici, economici, culturali e propositivi che sono numerosi e sui quali è ampia la letteratura sono ben noti e ormai tutti gli Italiani hanno conoscenze per cui sperimentano anche nella quotidianità  le condizioni dello sviluppo dell’intero territorio nazionale.
I dati, le statistiche dell’occupazione, disoccupazione, Pil, etc. sono recepibili dovunque e pubblicati e commentati. L’uomo della strada, pur non avendo conoscenze accademiche, non ha bisogno di leggere documenti e saggi; verifica come sia faticoso vivere nel Mezzogiorno d’Italia, anche per l’insufficienza dei servizi ed il ridimensionamento delle provvidenze proprie dello stato sociale.
Nel nostro meridione una persona su tre è in condizioni di povertà.
Vorrei contribuire con queste note a far comprendere come, da politici, non si possa immaginare di disinteressarsi del Mezzogiorno d’Italia e come siano improprie le valutazioni sbrigative e superficiali che in questi ultimi anni  sono state proposte a proposito della  questione meridionale che è stata ignorata.
E’ di tutta evidenza che mentre si trascurava la questione meridionale e mentre addirittura al Governo c’era chi irrideva agli uomini del Mezzogiorno immaginando  per territori del nord improbabili e antistoriche secessioni tutto il Paese accusava un declino che ha incrociato poi la grande crisi nella quale siamo immersi e dalla quale occorre uscire insieme agli altri Paesi europei.
La debolezza strutturale nella quale vivono  numerose aree del Paese ha reso e rende più faticoso il percorso da intraprendere per battere la crisi.
Accade ciò che si sperimenta in un corpo malato se colpito da ulteriore malanno!
Se un politico, un amministratore, un uomo della classe dirigente non opera valutando la realtà nella quale è immerso e della quale è comunque espressione e si lascia condizionare da convinzioni infondate la sua opera sarà improduttiva o addirittura dannosa.
Ritengo che ciò sia accaduto in questi anni a proposito dell’approccio insufficiente alla questione del governo dell’intero Paese.

Carenza di visione di insieme

Interventi negati, interventi inadeguati, sprechi, classe dirigente meridionale incapace ed anche in parte corrotta,  e classe di governo priva, anche per scelta, di visione di insieme  e poi clientelismo e criminalità ed ancora  disinteresse , abbandono, cattivo uso, distrazione delle risorse, fuga delle migliori energie hanno determinato un disastro che è disastro italiano che appare tale in Europa.
Risulta più che evidente che il fenomeno del complessivo degrado del mezzogiorno attiene alla carenza   2 del senso dello Stato, all’affievolirsi dell’ ethos civile , che si diffonde in tutto il Paese e la ricerca dei privilegi riduce lo spazio dei diritti.
Dico che le sempre annunciate riforme istituzionali non potranno  da sole modificare e rendere migliori i cittadini e il Paese. Esiste un’emergenza etica e morale personale e sociale  insieme a quella democratica dalle quali bisogna uscire affrontandole insieme. La storia di questi giorni , alla vigilia di importanti elezioni politiche, insegna.

Nasce la questione meridionale

La cosi detta questione meridionale nasce e si sviluppa come un particolare aspetto dell’evoluzione borghese e capitalistica del nostro Paese. Dobbiamo pensare che essa inizia già nel 1734 quando Carlo III di Borbone diviene Re nel territorio delle Due Sicilie.
Il Sud, prima dell’unità, ha progredito come il Nord e il Centro sulla base di meccanismi di mercato e dei rapporti di proprietà borghese. Il Sud ha partecipato al rinnovamento del nostro Paese con il movimento illuministico e riformatore nel Settecento poi al tempo della rivoluzione francese, al tempo di Napoleone fino ai moti liberali del nostro Risorgimento.
Non desidero dilungarmi.
Ricordiamo tutti che l’unificazione, che in sé è un bene, rese difficile la situazione economica del Mezzogiorno per la politica fondiaria, del credito e per ciò che avvenne nell’industria.
Non tutti sanno  che una sorta di sanzione ufficiale della questione meridionale avvenne nel 1875  da parte di un fiorentino, di Pasquale Villari che pubblicava su “L’opinione” di Firenze. Nelle sue “Lettere meridionali” scritte da Napoli riconobbe che il tema del Meridione era tra i più rilevanti da considerare.
La questione divenne talmente centrale che Giustino Fortunato nel 1880 parlò di “Due Italie”. Si fece eco, in certo modo,  di quanto affermò Mazzini con lucidità: “L’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà”.
Avemmo quindi la prima grande emigrazione tra il 1895 e il 1914: migrazione epocale. Immaginate che quasi tre milioni di italiani abbandonarono il Paese in cerca di fortuna.  La popolazione delle Isole e del Sud ammontava a 12 milioni di cittadini. Un quarto di costoro emigrò. Evidenti  le conseguenze.
Intanto nel 1900 il Presidente del Consiglio Saracco aveva firmato il decreto per la commissione di inchiesta sulla camorra amministrativa a Napoli, che, a 39 anni dall’unità d’Italia , era stata commissariata nove volte.L’inchiesta Saredo evidenziò l’altissimo livello di corruzione al Comune di Napoli e si parlò di alta camorra, come se noi dicessimo oggi di camorra dell’alta borghesia.
Il  Presidente del Consiglio Zanardelli, nel 1902, visitò la Basilicata e si rese conto della questione che divenne questione nazionale.  Dal giorno dell’unità d’Italia Zanardelli fu il primo Presidente del Consiglio che visitò una Regione del Sud.
Non sfugge a politici ed amministratori come questo avvenimento fosse anomalo.
E l’invito al trasformismo da parte di Depretis segnò la cultura meridionale fin dal 1882 e continuò con Crispi e con Giolitti che ebbe nella maggioranza di Governo la deputazione parlamentare meridionale conservatrice. Oggi il trasformismo è chiamato consociativismo.
Fu Nitti che individuò il problema meridionale come un’articolazione di un unico problema nazionale e Salvemini analizzò i rapporti di forza che erano nella società meridionale.
L’intreccio di potere che governava l’Italia e che , a parere mio, persiste, in forma più scientifica e pervasiva fu descritto da Salvemini in questo modo: “I moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i Partiti democratici del Nord. I camorristi del Sud hanno bisogno dei moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud”. Forse, con un gioco di parole, eliminando le due parole nord e sud la frase potrebbe essere letta in maniera più aderente alla realtà del nostro tempo.
Salvemini fu isolato e nel 1911 uscì dal Partito socialista.
La questione meridionale era irrisolta prima della grande guerra che aggravò le condizioni dei meridionali.
Su 600.000 morti i meridionali furono oltre mezzo milione. I dati sono ufficiali.
Si comprende che cosa abbia significato questo dato per la ricaduta sulle condizioni delle famiglie, per la forza lavoro, per lo sviluppo negato. E non stiamo parlando di eventi accaduti dei quali abbiamo perso la memoria. Parliamo dei nonni, di qualche bisnonno, dei Cavalieri di Vittorio Veneto che tutti abbiamo conosciuto e visto nelle piazze e nelle strade del nostro Paese ed in particolare nel Sud d’Italia.

Le grandi migrazioni prima e dopo le guerre hanno avuto ricadute sulle famiglie e le donne sono state coloro che maggiormente hanno sofferto e che poi hanno contribuito alla stessa complessiva  periodica ricostruzione ed hanno dato un grande contributo anche nell’Assemblea Costituente.
Della questione si sono interessati in tempi più recenti Sturzo, Dorso, Gramsci da molti concittadini viventi conosciuti, le cui voci rimasero inascoltate.

La carenza delle classi dirigenti

Coloro che hanno avuto ed hanno a cuore il Mezzogiorno ed il Paese intero riconoscono che l’unità d’Italia è stata un bene per il Sud che è entrato in Europa e che era necessario lo sviluppo del Sud per superare dualismo e divario in funzione della stessa unità conquistata.
Bisognava creare una politica tesa al miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi ed il Sud, come tutto il Paese, aveva bisogno di una classe dirigente di alto livello che fosse al vertice delle istituzioni pubbliche da amministrare e governare in modo rigoroso, virtuoso all’interno di una visione unitaria, che doveva essere patrimonio dell’intero Paese.
Il venir meno della borghesia meridionale al ruolo innovativo sperabile, anzi la tentazione talvolta accolta di attingere da fondi dello Stato la ha resa parassitaria, come in gran parte lo è stata, a parere mio, l’imprenditoria che ha anche svolto compiti di mediazione con imprese prosperanti nella illegalità.
Sappiamo come stanno le cose.
Uno dei grandi meridionalisti e quindi un grande italiano come Manlio Rossi Doria, convinto che la questione meridionale fosse questione europea ebbe a dire: “Uno sviluppo economico del Mezzogiorno degno di questo nome non ci sarà se non quando tutti gli italiani, vorrei dire gli europei e non solo i meridionali, si renderanno conto che il problema centrale sta nell’impegnarsi nella battaglia per il risanamento civile e morale prima che economico del Mezzogiorno”.
Tale consapevolezza non è stata e non è patrimonio comune. Il fascismo in anni trascorsi aveva lasciato l’Italia in condizioni disastrose. Avemmo bisogno di ricostruzione dalle macerie della guerra ed il Sud, nonostante interventi mirati, ed anche a causa di una classe dirigente inadeguata, presente anche al Governo, acuì il ‘divario’.
Eppure la questione meridionale fu riproposta all’indomani della Liberazione. Tra il 1946 e il 1950 prese avvio una politica speciale per il Sud. Ricordiamo tutti, ognuno per il suo ruolo, uomini come Saraceno, Alicata, Romeo, Compagna e De Gasperi, Vanoni, La Malfa, De Martino, Pastore e tanti altri. Purtroppo la politica economica venne subordinata ad interessi di forti gruppi economici e i flussi del denaro pubblico furono gestiti da costruttori, speculatori edilizi e burocrati, come accadde anche in occasione del terremoto. Proprio qui a Napoli l’avv.Gerardo Marotta ha parlato di un blocco sociale che all’epoca si creò, anche attraverso l’istituto della concessione e portò all’insabbiamento della politica dell’intervento straordinario che pur produsse realizzazioni, ma insufficienti e a macchia di leopardo e che fu, quindi,  mal governato.
Ricordiamo Augusto Graziani che ha denunciato la nascita di una pletora di intermediari che gonfiava i costi degli interventi e non permise il raggiungimento degli obiettivi di promozione economica e sociale del  Mezzogiorno.Tutti ricordiamo come il Censis negli anni ’80 parlò di regioni tartarughe come la Campania, la Sicilia, la Calabria e la Sardegna  e di altre canguro come l’Abruzzo, il Molise, la Puglia e la Basilicata.
Ancora oggi lo sviluppo del Mezzogiorno è diversificato al suo interno ed al suo interno le condizioni di vita civile ha ancora i caratteri, come affermò Gramsci, di una grande disgregazione sociale.

Da questione nazionale alla politica dello steccato

Gli stessi Vescovi del Sud e poi tutti i Vescovi italiani  parlarono fin dal 1948 e poi nel 1989 e nel 2010  di un Mezzogiorno dallo sviluppo distorto nel quale convivono molti Mezzogiorni mentre invitavano a pensare al Sud come questione nazionale per cui occorreva un programma economico teso ad unificare l’intero Paese.
In anni recenti, di fronte ad un mondo che abbatte steccati, in Italia una rozza e superficiale politica ha operato per costruire cortili in cui rinchiudersi ed ha imprigionato creatività ed iniziative ed ha gridato contro la storia ed ha negato il futuro ed ha costretto gli italiani a sentire in modo forte una crisi mondiale. E chi ha lo sguardo corto non può governare una realtà che esige orizzonti e spazi e nessun confine.
Proprio nel 1994, anno in cui la Lega andò al Governo, la  Svimez indicava nel Mezzogiorno la nuova frontiera della così detta seconda Repubblica, che noi ben sappiamo non è mai esistita, come la stessa Padania, termine di moda, indicante un’immaginaria omogenea area territoriale.
La realtà impone  che  nel Sud vi sia una imprenditoria responsabile, che investa capitali e regga sul mercato, finanziamenti con tassi favorevoli ed una formazione e qualificazione e riqualificazione professionale per imprese da innovare.
Sappiamo che nessuna area territoriale può svilupparsi da sola e quindi va aiutata a svilupparsi facendo maturare e crescere l’innovazione e dove essa si manifesta.
Oggi resta il divario tra Sud e Nord e, come sappiamo. La forbice si allarga. Vogliamo andare alla ricerca delle responsabilità?
Ben le conosciamo e sono diffuse e permangono.
Il Governo di un Paese ha la responsabilità di governare l’intero Paese, per cui è doveroso chiedere che esso operi in funzione e per il bene di tutta l’Italia.

Liberarsi dalla criminalità

Ritengo che è opera prioritaria liberare le nostre Regioni dalla malavita organizzata, qualsiasi denominazione abbia. La “Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali anche straniere”  il 9 Febbraio 2011 approvava la” relazione sui costi economici della criminalità organizzata nelle Regioni dell’Italia meridionale” e riporto alcuni passaggi:
“L’analisi delle relazioni tra impresa, sviluppo economico e territorio, assume infatti un rilievo centrale soprattutto per impostare coerenti ed efficaci politiche di sviluppo e di sostegno in particolare delle piccole e medie imprese. Occorre anche riflettere sulla regolazione sociale deficitaria, individuata quale uno dei problemi storici del Meridione….Parallelamente occorre ricordare che nel Mezzogiorno il problema della disoccupazione ha le radici profonde e più che in altre aree del Paese, e che fin quando il tasso di disoccupazione delle aree più deboli del Paese continuerà ad essere così elevato, sarà sempre un problema contenere lo sviluppo delle organizzazioni criminali. Si deve allora ricorrere ad una utilizzazione proficua dei fondi strutturali per obiettivi infrastrutturali e di riequilibrio territoriale, soprattutto nel Mezzogiorno, con particolare attenzione alle reti viarie ed agli assi ferroviari di riconnessione del Mezzogiorno alle  5   direttrici nord-sud, est-ovest…..E’ necessario in particolare che nelle aree urbane, in molti quartieri dove il radicamento delle mafie è fortissimo, nelle città della Calabria, a Palermo, a Napoli, a Catania, a Bari si intervenga con massicci investimenti virtuosi proprio sul piano sociale ed urbanistico. Si auspica un impegno in tal senso, perché ne deriverebbero effetti enormemente positivi per l’occupazione e l’intera filiera produttiva edilizia che oggi versa in condizioni critiche. Ne avrebbero giovamento anche il commercio, lo sviluppo del turismo e la tutela del territorio, posto che ogni centro storico restaurato sarebbe un centro di attrazione turistica.. Le infrastrutture sono la via che consente alle aree meno dotate del Paese, in un certo momento storico, di potersi riequilibrare e, quindi, di arrivare a uguali condizioni di vita per imprese e persone che operano nelle diverse aree del Paese….Si ritiene dunque necessario rivolgere una particolare attenzione al problema delle infrastrutture nel Mezzogiorno, non solo per favorire il riequilibrio economico delle regioni del Sud, ma anche al fine di valorizzare gli ambiti socio culturali, quali le istituzioni scolastiche, la ricerca, l’università come importante strumento di contrasto alla presenza diffusa della criminalità organizzata per i riflessi negativi che comporta sul tessuto sociale di quelle regioni. Occorre tuttavia assicurare anche la presenza di una classe dirigente che sappia coniugare legalità e sviluppo, che devono procedere insieme perché senza le due dimensioni non si avrà mai una capacità di impatto contro le mafie in grado di sradicarle e non ci si limiterà semplicemente a contenere le manifestazioni violente, quando queste eccedono in un dato momento storico o in un dato territorio. La presenza delle mafie è infatti talmente strutturale da organizzarsi in forma di coabitazione con la società. L’economia, le istituzioni e la politica, al punto tale che oggi rappresenta il nodo principale da rimuovere per liberare le straordinarie potenzialità economiche del Paese, farlo diventare grande e metterlo nelle condizioni di competere in Europa e nella globalizzazione al meglio delle sue possibilità”.
La “Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali anche straniere”  il 22 Gennaio 2013 ha approvato la ‘relazione conclusiva’.La relazione è tutta da leggere e approfondire. Interessante rilevare come sia stata valutata la capacità imprenditoriale delle mafie. Il volume del riciclaggio sarebbe il 12 per cento del PIL e cioè 160 miliardi di euro. Ancora si presume che il fatturato criminale sia di 136 miliardi di euro ed un utile di 104 miliardi di euro.  Il IV Comitato che ha predisposto la relazione sui costi economici della criminalità organizzata nelle Regioni dell’Italia meridionale, in conclusione, stranamente a parere mio,  ritiene di “ non poter serenamente attribuire agli studi prodotti in materia di fatturato delle mafie, ovvero di entità del riciclaggio la capacità di fornire indicazioni utili all’attività legislativa, giudiziaria ed investigativa”.
Stupefacente l’affermazione, riportata in relazione, da parte del dr.Busà Presidente dell’Associazione SoS Impresa il quale ha riportato quanto affermato da imprenditori che hanno affermato che …”prima si pagava il pizzo, adesso gli appalti li ottengono solo le imprese che fanno riferimento alle organizzazioni criminali, precisando che il pizzo si sta trasformando quasi nell’iscrizione ad una associazione. “Chi paga entra nel mercato, in un’economia protetta e, poi, può chiedere al mafioso un favore, può partecipare agli appalti che loro vincono. Può ottenere una determinata fornitura, può avere agevolazioni. Chi si oppone non lavora più…”

E’ stato sottolineato che non esiste settore dell’economia che non sia contaminato dalla presenza criminale e che la nostra economia è ormai impregnata ed infetta.

Ovvie priorità

La SVIMEZ nel Documento 675.1 dell’archivio della Commissione  crede che per contrastare la situazione criminale bisogna mettere in piedi azioni compensative di due tipi. Occorre sostenere i redditi evitando tagli indiscriminati alle prestazioni sociali (pensiamo alla ricaduta sui Comuni, alle difficoltà per una ordinata  gestione, ai sacrifici indotti per i tagli al cosi detto stato sociale, all’aumento delle tasse comunali in 6 conseguenza dei tagli lineari messi in atto dai Governi Berlusconi e Monti)  ed attuare politiche di rigore selettive ripristinando la responsabilità dell’operatore pubblico non come pura entità di spesa bensì come capacità di definire e delineare una strategia…una strategia nazionale…(pensiamo alle conseguenze di una programmazione assente nelle scelte progettuali, al peso della corruzione, alla mancanza di controlli per la spesa e allo spreco delle risorse pubbliche, etc.etc.)
Sembrano a me tali relazioni bei temi scritti, spesso, dagli stessi che appartengono a partiti o movimenti che assumono poi comportamenti che appaiono distanti dai convincimenti espressi in tali condivisibili componimenti.
Abbiamo visto che per ottenere i risultati sperati occorrono la scuola, la cultura, il lavoro, l’aggiornamento per tutti e sviluppare le risorse e le professionalità esistenti.
Ed assistiamo alla moltiplicazioni delle Università ed alla caduta delle iscrizioni a causa dei costi non più sopportabili da famiglie con scarso reddito o prive di reddito certo.
Non è il caso di richiamare le priorità necessarie, ma  il mettere in sicurezza il nostro territorio, intervenire sul patrimonio edilizio, agricoltura, imprese minori, patrimonio artistico, centri storici, turismo, trasporti sono soltanto titoli per interventi strutturali.
Abbiamo una rete commerciale arretrata e carenza di spazi per la fruizione della cultura. Esigere piani per l’ambiente, per l’approvvigionamento idrico, e poi investimenti per la ricerca, l’università, la conservazione e difesa del suolo, per le attrezzature, per la prevenzione sismica, per la riconversione di morenti industrie militari non è una richiesta esagerata o irresponsabilmente esigente.
Se non sbaglio ancora sovrapprezzi termici  penalizzano le industrie del Sud ed il credito bancario  è patrigno al Sud.
Un grande impegno di risanamento urbanistico e lo sviluppo dei servizi essenziali, a cominciare dai trasporti per uomini e merci sarebbero decisivi in un Sud che è Europa  , che non sarebbe Europa senza il suo e nostro Sud. Direi poi  che il tema della ecologia è legato a quello della sopravvivenza .
Il sud è stato individuato come una discarica  e la questione rifiuti lo ha fatto precipitare  in una condizione dalla quale uscirne diventa un’impresa. Non è ininfluente lo scontro tra chi vuole gli inceneritori e chi li rifiuta, tra chi vede nell’industria dell’incenerimento  uno sbocco per la crisi e chi immagina il ciclo con l’obiettivo di ‘rifiuti zero’.
Il futuro richiede ricerca e innovazione tecnologica, che altri Paesi perseguono e che noi tralasciamo.
In ultimo e non ultima è la questione dell’informazione e dello sviluppo dell’editoria dal Sud e nel Sud che necessitano di una politica responsabile e lungimirante.
Infatti non avremo sviluppo se non rinforzando il quadro democratico all’interno della coscienza dei cittadini, a cominciare dai più giovani dei quali va accresciuto il livello di istruzione ed ai quali vanno presentati  uomini esemplari cui ispirarsi, ricchi di ideali e valori e non portatori di messaggi fuorvianti. Una società giusta, solidale e democratica necessita di uomini funzionali a tale progetto.
La costruzione di una comunità nel Sud ha bisogno di una politica che non lasci prevalere la rissa e faccia vincere un clima di pace che favorisca lo sviluppo ordinato ed una progettualità possibile.
Il Governo che verrà può mettere come priorità la più grande innovazione programmatica possibile e mai dichiarata: costruire il Paese in maniera unitaria per competere nel mondo.
Credo che occorra realizzare la nostra Costituzione nei suoi principi e bisognerà guardare avanti e, in questi giorni, all’indomani delle elezioni, ricordiamo Dossetti dicendo insieme a lui: “ La notte è notte, ma con l’anima della sentinella che è tutta tesa verso l’aurora. Sentinella, quanto resta della notte?”

 

A quando la laurea “honoris causa” di Luciano De Crescenzo?

 

Luciano De Crescenzo è uno dei maggiori scrittori italiani tradotti all’estero. Autore di best-seller della filosofia spiegata a tutti, De Crescenzo ha un proprio metodo per comunicare e farsi leggere: «Mi metto nei panni di chi sta a sentire, mentre la maggior parte degli intellettuali non diversifica il linguaggio. Il filosofo medioevale Averroè dice che ogni volta che si scrive un libro bisogna farlo tre volte: una per popolo, una per colleghi e una per i ragazzi. Sono ancora troppi quelli che scrivono solo per i colleghi». Paolo Pantani e molti altri amici da anni chiedono un riconoscimento accademico per il grande “divulgatore”: in questo articolo si raccontano i numerosi tentativi.

Campanilismo

Nu Milanese fa na cosa? embè,
tutta Milano: – Evviva ‘o Milanese!
È rrobba lloro e l’hann’ ‘a sustenè,
e ‘o stesso ‘o Turinese e ‘o Genovese.

Roma? : – Chisto è Rumano e si è Rumano,
naturalmente vene primma ‘e te.
Roma è la Capitale! E si è Tuscano,
Firenze ne fa subbito nu rre.

Si fa na cosa bona nu Pugliese?
Bari, cu tutte ‘e Puglie, ‘o ffa sapè.
Si è d’ ‘a Basilicata o Calavrese,
na gara a chi cchiù meglio ‘o po’ tenè.

È nu Palermitano o Catanese?
tutt”a Sicilia: – Chisto è figlio a mme!
Si è n’Umbro, Sardo, Veneto, Abruzzese,
‘a terra soia s”o vanta comme a cche.

Le fanno ‘e ffeste, aizano ‘o pavese:
senza suttilizzà si è o nun è.
Nun c’è nu Parmigiano o Bolognese
ca ‘e suoie nun s’ ‘o difendono; e pecché

si è nu Napulitano, ‘a città soia,
‘o ricunosce e nun ce ‘o ddà a parè?
S”o vasa ‘nsuonno e nun le dà sta gioia.
E ‘e trombe ‘e llate squillano: ” Tetèee! ”

Qualunque cosa fa, siente: – ” E ched’è? ”
” ‘O ssaccio fà pur’io. ” ” Senza pretese. ”
E chesto simme nuie. Dopo di che,
Nun se fa niente ‘e buono a stu paese?

E tu, Napule mia, permiette chesto?
Strignece ‘mpietto a te, figlie e figliaste.
Arapencelle ‘e braccia e fallo priesto:
avimm’ ‘a stà a ” guaglione ” e simmo maste.

T’avante ‘e vermicielle, ‘e pummarole:
mmescace pure a nuie si ‘o mmeretammo.
Che vvuò ca, cu stu cielo e chistu sole,
te dammo nu saluto e ce ne jammo?

Campanilismo bello, addò sì ghiuto?
facimmolo nuie pure comme a ll’ate.
si no p’ ‘a gente ‘e Napule è fernuto,
e nun sarrammo maie cunsiderate.

Talento ne tenimmo, avimmo ingegno:
nu poco sulo ca ce sustenimmo,
cunquistarrammo chillu posto degno
ca, pè mullezza nosta, nun tenimmo.

Quanno na cosa è bbona e è nata ccà,
nu milione ‘e gente l’ha da dì.
E vedarraie po’ Napule addò va,
cu tutto ca è ‘o paese d’ ‘o ddurmì.

Raffaele Viviani

I tentativi per raggiungere il tanto sospirato riconoscimento

>>> di Paolo Pantani 

Quando penso a Luciano de Crescenzo penso sempre a questa poesia di Raffaele Viviani e ai tanti talenti nostri, mai i valorizzati dalla città. Il caso di Antonio de Curtis è emblematico, non ha avuto riconoscimenti dalla critica teatrale, fu valorizzato, in primis, da Goffredo Fofi, solo dopo la sua scomparsa.
Luciano ha novanta anni, lo conosco da sempre, sin da quando era support-marketing alla IBM, io lavoravo per concorrenza, ma siamo sempre stati amici, nelle trattative che si svolgevano nel mercato delle imprese e degli studi professionali per l’ acquisto di computers, in anni di informatizzazione selvaggia che vanno dal 1970 alla metà degli anni ’80 , si vinceva e si perdeva, ma c’era spazio per tutti. È sempre intervenuto agli eventi che gli proponevo, senza chiedere mai niente, anche se è una grande star: http://www.aei.napoli.it/Locandine/convegno_22_ottobre_2003.pdf 
Da questo convegno, dopo l’avvenuto ” sdoganamento” all’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI, nacque l’idea di in altro convegno, quello di promuovere un riconoscimento accademico alla sua attività di divulgatore filosofico: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/10/07/luciano-la-pietra-filosofale.html
Dopo questo convegno, in un certo senso da precursori della “terza missione” della Università, quello dell’assegnare a persone illustri, che hanno operato sul campo, i riconoscimenti accademici onorifici, cominciò l’interlocuzione con l’allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studi Federico II, il colloquio si mostrò impegnativo, nella città di Gianbattista Vico, Benedetto Croce, il quale non era laureato, ma anche di Parmenide e Zenone di Velia, qui vicino, un riconoscimento “honoris causa” in Lettere e Filosofia non è ancora mai stato dato a nessuno. In quegli anni fu dato il riconoscimento di Professore Emerito a Giuseppe Galasso, quindi la cosa strideva un po’, diciamo così.
Comunque, nacque l’accettazione dell’invito a discuterne, visto che erano comunque possibili possibili azioni di mecenatismo a favore di giovani ricercatori, secondo il preside erano molto meglio di “un monumento in vita” alla figura di Luciano De Crescenzo. Raccontai tutto a Luciano, decidemmo di incontrare comunque il preside, per almeno cominciare a parlarne, correva l’anno 2005, all’epoca Luciano aveva 77 anni. Io ero perplesso, ma da “commerciale”, fidavo molto in una cena convincente in un noto ristorante napoletano, di mercoledì, per gustare uno straordinario sartù di riso. Pensavo che la cosa si sarebbe evoluta, tutte le cose cominciano piccole, poi crescono, è naturale evoluzione. Alla cena erano presenti Luciano De Crescenzo, il preside, Renato Ricci ed io, come amici di Luciano ed io, immeritatamente, anche come organizzatore dell’Evento ” Filosofo..sia”, forse un titolo troppo ottimista.
La situazione non si sbloccò, un riconoscimento così importante non poteva essere trasformato in una “disponibilità a pagare”, sia pure per finanziare opere meritorie come corsi di master universitari per giovani ricercatori.
Alla fine Luciano era tristissimo, lo accompagnammo in taxi all’Hotel Royal, credo che qui naufragò il progetto ambizioso di realizzare una Fondazione Luciano De Crescenzo a Napoli.

Cena fra amici. In apertura di pagina Luciano De Crescenzo (a sinistra) accompagnato da Paolo Pantani.

Comunque, malgrado questo insuccesso, l’amicizia con Luciano è proseguita, seppi che era ”testimonial” della associazione per i diritti del cittadino Civicrazia, di cui sono diventato primo direttore nazionale, mi occupo di politiche e strategie macroregionali.
Lo ammetto, da bagnolese “eretico” ostinato, ho continuato i miei tentativi di raggiungere questo tanto sospirato riconoscimento a Luciano De Crescenzo, cambiando però gli interlocutori, dopo il sostanziale fallimento, ci ha provato inutilmente anche Nino Daniele, amico fraterno dalla giovinezza, Assessore alla Cultura a Napoli e laureato in Filosofia.
Però ci tengo a dire che, nella sua storia della filosofia greca, medioevale, moderna,(ha scritto anche questo Luciano, altro che il semplice “Bellavista”), ha dedicato alla riforma protestante solo una mezza paginetta. La riforma fu la genesi del capitalismo moderno, come sottolineò Max Weber, nel suo citatissimo “etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
Secondo me è la lacuna più profonda di questo libro, ma non ostacola il valore divulgativo dell’opera, tutti gli italiani, del Nord e del Sud, infatti sono tiepidi vero i fattori religiosi, è un popolo antichissimo e sincretico, tutti preferiscono i punti interrogativi a quelli esclamativi, per dirla alla Luciano, adorano i santi, sono superstiziosi e scaramantici, non conoscono le sacre scritture e forse non credono veramente in niente.
Infatti, si stanno preparando in città le celebrazioni del cinquantenario della nascita dell’Ospedale Evangelico di Napoli, Villa Betania di Ponticelli, una realtà fra le più efficienti ed efficaci della sanità pubblica italiana, questo non è un caso, almeno per me che conosco con quanta abnegazione ci si lavora, è un’avventura della Fede. Comunque, non divagando, anche adesso stiamo lavorando per questo obiettivo del riconoscimento a Luciano, grazie al caro amico professore Rocco Giordano, presidente della Giordano Editore, che mi ha presentato il Dott. Francesco Montanaro, Presidente dell’Istituto di Studi Atellani.
Francesco Montanaro, in base alla “terza missione”, ha presentato la richiesta a favore di Luciano De Crescenzo al Senato Accademico della Università degli Studi Federico II, sarà appoggiato da alcuni dipartimenti universitari, finalmente?
Stavolta uso io il punto interrogativo, che tanto piace al nostro grande amico, però la campagna quotidiana che sta facendo da molte settimane un giornale cittadino, con illustri articoli in prima pagina di tutto il “Ghota della Cultura a Napoli”, anche con qualche “autocritica postuma” e pertanto inutile, giova a questo “riconoscimento”, sono diventato anche io scaramantico, NON LO NOMINO, malgrado sia valdese: “non è vero e non ci credo” ma veramente!

 

UE: confronto a Napoli sulla Macroregione del Mediterraneo Occidentale

 

Il 7 settembre dibattito sulle politiche di intervento

   (ANSA) – NAPOLI, 28 AGO – Politiche di cooperazione europee ed euromediterranee per la cultura, la tutela ambientale, la ricerca scientifica, l’innovazione, i sistemi energetici, la connettività territoriale, la mobilitàurbana sostenibile, e dunque lo sviluppo socioeconomico della terra meridionale e dei Paesi rivieraschi del Mediterraneo centro occidentale: come e quali gli strumenti per garantire una proficua ed utile partecipazione delle Autoritàregionali, locali e dei cittadini? Questi i temi principali trattati nella pubblicazione “Per la Macroregione occidentale” di Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore) che sarà presentata venerdi 7 settembre, alle 9:30, nella Stazione Marittima del porto di Napoli. L’evento, rileva una nota, “rientra nella fase di preparazione del Forum in programma per la terza decade di ottobre a Napoli dal titolo: “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale”. L’appuntamento è organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.”. Gli autori sono Renato D’Amico, professore ordinario di Scienza della politica nell’Università degli Studi di Catania e Andrea Piraino, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Palermo. All’incontro, moderato da Alfonso Ruffo, direttore de “Il Denaro”, parteciperanno rappresentanti delle istituzioni, esponenti del mondo politico ed accademico.

PRESENTAZIONE LIBRO “PER LA MACROREGIONE DEL MEDITERRANEO OCCIDENTALE
A CURA DI RENATO D’AMICO E ANDREA PIRAINO, FRANCO ANGELI

INTERVENTI
modera ALFONSO RUFFO, Direttore de “Il Denaro”
ore 9.30 – LUIGI DE MAGISTRIS – Saluti
ore 9.45 – PAOLO PANTANI– Apertura dei lavori
ore 10.00 – ROCCO GIORDANO – Logistica e sistemi dei trasporti della Macroregione
ore 10.15 – AMARILIS GUTIERREZ GRAFFE – Scambi internazionali
ore 10.30 – ALBERTO CAMMARATA – Unione Europea e Macroregioni
ore 10.45 – ALESSANDRO CITARELLA – Le istanze meridionaliste nelle costituenti macroaree
ore 11.00 – PIETRO SPIRITO – Sistema portuale integrato nel Mediterraneo
ore 11.15 – STANISLAO NAPOLANO – Macroregione Mezzogiorno e Macroregione Mediterraneo Occ.
ore 11.30 – PASQUALE GALLIFUOCO – Geografia della Macroregione Mediterraneo Occidentale
ore 11.45 – PASQUALE ORLANDO – Il Mediterraneo Occidentale come coesione tra i popoli
ore 12.00 – DOMENICO DE CRESCENZO – I professionisti e la nuova realtà del federalismo macroregionale
ore 12.15 – ROBERTO ROSSINI – La promozione sociale nelle macroregioni
ore 12.30 – VINCENZO MENNA – Le fondazioni e le strategie macroregionali
ore 12. 45 – VITO GRASSI – La macroregione del Mediterraneo Occidentale e l’interesse degli industriali campani
ore 13.00 – SANDRO STAIANO – Il federalismo solidale
ore 13.15 – STELIO MANGIAMELI – La ricerca scientifica e le strategie macro regionali
ore 13.30 – CARLO AMIRANTE – La questione sociale del Mediterraneo occidentale
ore 13.45 – ADRIANO GIANNOLA – Le attività produttive integrate del Mezzogiorno
ore 14.00 – GERARDO BIANCO – La storia del Mezzogiorno d’Italia e i suoi interessi
ore 14.15 – PASQUALE PERSICO – Le zone interne e le strategie macroregionali
ore 14.30 – ANDREA COZZOLINO – La riforma dei fondi strutturali
ore 14.45 – ROSA D’AMELIO – Gli interessi della Regione Campania nei contesti macroregionali
RELATORI
CARLO AMIRANTE, Costituzionalista, Federico II
GERARDO BIANCO, Presidente Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia
ALBERTO CAMMARATA, Head of the Political, European Integration and Trade Section of the EU Delegation (Invitato)
ALESSANDRO CITARELLA – Segretario Generale dei Meridionalisti Democratici
ANDREA COZZOLINO, Vicepresidente della Commissione Europea per lo sviluppo regionale – Portavoce del Parlamento Europeo per la riforma dei Fondi Strutturali.
ROSA D’AMELIO, Presidente Consiglio Regionale della Campania
DOMENICO DE CRESCENZO, Presidente della Consulta degli Ordini e dei Collegi di Napoli e della Campania (Invitato)
LUIGI DE MAGISTRIS, Sindaco della Città Metropolitana di Napoli (Invitato)
PASQUALE GALLIFUOCO, Geografo – Acli Beni Culturali
ADRIANO GIANNOLA, Presidente SVIMEZ
ROCCO GIORDANO, Presidente Giordano Editore
VITO GRASSI, Presidente Unione Industriali Napoli – Presidente Confindustria Campania
AMARILIS GUTIERREZ GRAFFE, Console Generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela a Napoli e Console Generale Decano del Corpo Diplomatico di Napoli (Invitata)
STELIO MANGIAMELI, Direttore dell’ISSiRFA – CNR
VINCENZO MENNA, Direttore della Fondazione “Achille Grandi”
STANISLAO NAPOLANO, Presidente Associazione “Carlo Filangieri”
PASQUALE ORLANDO, Dirigente Nazionale F.A.P. Acli – Curatore Rivista “Risorsa Mezzogiorno”
PAOLO PANTANI, Presidente Emerito Acli Beni Culturali – Coordinatore del Forum di Ottobre “Macroregione del Mediterraneo Occidentale”
PASQUALE PERSICO, Economista, Università di Salerno
ROBERTO ROSSINI, Presidente Nazionale delle ACLI
PIETRO SPIRITO, Presidente Autorità di Sistema Portuale del Mare Tirreno Centrale
SANDRO STAIANO, Costituzionalista, Federico II, componente della Rivista “Federalismi”
CONCLUSIONI
degli autori RENATO D’AMICO e ANDREA PIRAINO
RENATO D’AMICO, professore ordinario di scienza politica all’Università degli Studi di Catania, dove insegna Scienza della amministrazione e Analisi delle politiche pubbliche tra le sue più recenti pubblicazioni: Il rapporto tra Governo e Assemblea nella Regione Siciliana (2015) Politiche europee e prove di sviluppo locale in Sicilia (2015); L’Università dalla prima alla terza missione: il contributo della didattica di “terzo livello” (2017)
ANDREA PIRAINO, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Palermo. E’ stato assessore del Governo della Regione siciliana e segretario generale dell’Anci Sicilia. Tra le più più recenti pubblicazioni: L’autonomia federale nella azione e nel pensiero sturziano (2015); La controriforma della riforma costituzionale (2016); La politica ed il bene comune. Fine di un rapporto? (2016); Un nuovo comune policentrico nella nuova Italia (2017).

 

Esperienze Mediterranee: Che fine hanno fatto le parole?

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L’editoriale è tratto dalla rubrica “Mediterranei”, che conclude le 100 pagine del secondo numero di “Esperienze Mediterranee”, che potrete sfogliare, leggere, vedere, ascoltare, ripercorrendo una giornata di lavori tenuti il 7 aprile nell’aula magna dell’Università degli studi di Messina.

Due metaforiche fotografie a confronto. La prima raffigura un recente progetto della UE sul “Bacino del Mediterraneo”, Med-Phares, incentrato sulla rete dei fari. Ha coinvolto Francia, Tunisia, Libano e tre stazioni semaforiche in Sardegna: Cagliari, Sant’Antioco e Asinara. La seconda fotografia rappresenta gommoni di migranti riguardo ai quali l’accoglienza umanitaria è diventata “semplicemente” una disquisizione etica, filosofica, letteraria, piuttosto che giuridica e politica. Giorni fa, Sandro Veronesi ricordava: «Da quando il Mediterraneo ospita la civiltà, cioè da migliaia di anni, il naufrago in mare è sempre stato considerato sacro: anche i fenici lo traevano in salvo e gli riservavano l’onore dell’ospitalità, non foss’altro per superstizione, perché non avessero a offendersi gli Dei ai quali esso, il naufrago, partendo, si era raccomandato». A proposito: che fine hanno fatto parole come “onore” e “ospitalità”, tanto sacre nella Grecia dei nostri studi? Perché mai è stata costruita, a partire dai tempi antichi, quella rete di fari? Raccontano la millenaria storia dei popoli del Mediterraneo, ne tengono vivi miti e leggende, a memoria della propria umana solidarietà. Sollecito domande, perché la cultura non è qualcosa relegata ad un’aula scolastica o ad un museo: la si porta nella mente e nell’animo e aiuta a dare un senso alla vita. Ecco dunque che in mare misurare miglia nautiche su di una carta, scorgere il bagliore di un faro, erano preziosi ausili ai naviganti. Quindi, non bastano più progetti per mettere a punto “soltanto” strategie per conservare, recuperare, valorizzare, un patrimonio costiero di architetture da restituire come attrazione mondiale, fattore di sviluppo turistico per il territorio. Questo perché gli strumenti europei di vicinato e partenariato devono potere incidere anche sulle coscienze. A proposito: dove è finita una parola come “coscienza”? Scriveva Hervé Bazin: «Nessuno ha ancora ben chiaro dove sia la sede della coscienza. Ciò che è certo è che non ci si può sedere sopra».

Museums in an Age of Migrations

 

This volume collects a series of essays that offer a starting point for the European project MeLa-European Museums in an age of migrations, an interdisciplinary research that reflects on the role of museums and heritage in relation to the contemporary global and multicultural world. International scholars and researchers interrogate themselves on issues of history, memory, identity and citizenship, and explore their effects on the organization, functioning, communication strategies, exhibition design and architecture of museums.

Questo volume raccoglie una serie di saggi che offrono un punto di partenza per il progetto europeo MeLa-European Museums in un’epoca di migrazioni, una ricerca interdisciplinare che riflette sul ruolo dei musei e del patrimonio in relazione al mondo globale e multiculturale contemporaneo. Studiosi e ricercatori internazionali s’interrogano su questioni di storia, memoria, identità e cittadinanza, ed esplorano i loro effetti sull’organizzazione, sul funzionamento, sulle strategie di comunicazione, sul design della mostra e sull’architettura dei musei.

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