Guy de Maupassant – Le domeniche di un borghese parigino

A cura di Sergio Bertolami

Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera (i cui interventi dovrebbero comparire più spesso in prima pagina) ha pubblicato nella sua rubrica un acuto commento riguardante “I talk e i dubbi sulla classe dirigente”. Qui paragona certe sconclusionate affermazioni a quelle descritte nell’Ottocento da Guy de Maupassant nel libro di racconti Le Domeniche di un borghese parigino, dove dominano stupidità e luoghi comuni. Mi è sembrato interessante, perciò, riprendere e pubblicare proprio questo simpatico brano al quale fa riferimento, ricorrendo ad una mia traduzione, per rendere comprensibile a tutti il testo originale in francese. Questi racconti sono apparsi in serie nel 1880 su Le Gaulois, giornale col quale lo scrittore aveva iniziato a collaborare inviando un pezzo a settimana. Maupassant avrebbe preferito non riunirli in volume. Fu, quindi, soltanto dopo la sua morte che apparvero in un’edizione illustrata del 1901. Les Dimanches d’un bourgeois de Paris esprime la critica al conformismo, a un modo di pensare che rasenta la stupidità, caratteristica spesso attribuita della borghesia nel XIX° secolo. Cosa fa un piccolo borghese la domenica? Stare inattivo, significa annoiarsi. Così il protagonista di questa bella serie di “avventure” – M. Patissot, cinquantadue anni, impiegato ministeriale – decide di andare a prendere un po’ d’aria fresca, tanto più che il suo medico gli ha prescritto l’esercizio fisico. In questo episodio si reca in campagna, per esempio, in un sobborgo parigino ancora relativamente sconosciuto ai lettori del tempo, ma presto dipinto anche dagli Impressionisti, tra pranzi sull’erba, balli popolari, pesca e canottaggio. Ogni domenica per il nostro piccolo borghese è una vera spedizione per incontrare personaggi che, a quanto pare, noi possiamo incrociare anche oggi, col telecomando davanti al televisore o dialogando sui social media. Buon divertimento.

LEGGI L’ARTICOLO DI ALDO GRASSO SUL CORRIERE DELLA SERA

Una cena e qualche idea

In occasione della festa nazionale, il signor Perdrix (Antoine), capo ufficio del signor Patissot, fu nominato cavaliere della Legione d’onore. Contava trent’anni di servizio sotto i regimi precedenti e dieci anni dall’istituzione dell’attuale governo. I suoi dipendenti, pur mormorando un po’ di essere così ricompensati nella persona del loro capo, considerarono opportuno offrirgli una croce arricchita di falsi diamanti; e il nuovo cavaliere, non volendo restare indietro, li invitò tutti a cena la domenica successiva, nella sua proprietà ad Asnières.

La casa, illuminata con ornamenti moreschi, aveva l’aspetto di un caffè-concerto, ma la sua posizione le dava valore, perché la linea ferroviaria, tagliando il giardino in tutta la sua larghezza, passava a 20 metri dalla scala circolare esterna che si concludeva sul terrazzo d’accesso al portone principale della casa. Al centro di una aiuola verde, una vasca di foggia romana in cemento conteneva dei pesci rossi e un getto d’acqua, del tutto simile a una siringa, a tratti lanciava in aria microscopici arcobaleni, di cui i visitatori si meravigliavano. L’alimentazione di questo irrigatore era la preoccupazione costante del signor Perdrix, che a volte si alzava alle cinque del mattino per riempire il serbatoio. In maniche di camicia, con la sua gran pancia straripante dalle mutande, pompava ostinatamente, per avere, al suo ritorno dall’ufficio, la soddisfazione di lasciare scorrere le grandi acque e immaginare che la freschezza si diffondesse nel giardino.

La sera della cena ufficiale, tutti gli ospiti, uno dopo l’altro, andarono in estasi per le condizioni ideali della tenuta, e ogni volta che sentivano, in lontananza, arrivare un treno, il signor Perdrix annunciava loro la sua destinazione: Saint-Germain, le Havre, Cherbourg o Dieppe, e, per scherzo, facevano segnali ai viaggiatori che si affacciavano dai finestrini. L’intero ufficio era lì. C’era per primo il signor Capitaine, vicecapo; il signor Patissot, l’impiegato più anziano; poi i signori De Sombreterre e Vallin, giovani impiegati eleganti, che venivano in ufficio con gran comodo; infine, il signor Rade, famoso in tutto il ministero per le folli dottrine che metteva in mostra, e lo spedizioniere, signor Boivin.

Il signor Rade passava per un tipo originale. Alcuni lo consideravano un fantasioso o un ideologo; altri un rivoluzionario; tutti però erano d’accordo che fosse uno alquanto goffo. Già anziano, magro e basso, con un occhio vivace e lunghi capelli bianchi, aveva professato per tutta la vita il più profondo disprezzo per il lavoro amministrativo. Setacciatore di libri e grande lettore, di natura sempre ribelle a tutto, ricercatore della verità e sprezzante dei pregiudizi comuni, aveva un modo diretto e paradossale di esprimere le proprie opinioni tanto da chiudere la bocca agli imbecilli soddisfatti e a quelli scontenti senza sapere perché. Di lui dicevano: «Questo vecchio pazzo di Rade», oppure: «Questo Rade senza cervello»; e la lentezza del suo avanzamento di carriera sembrava dare ragione ai mediocri “parvenu” contro di lui. L’indipendenza della sua parola faceva spesso tremare i suoi colleghi, che si chiedevano con terrore come avesse potuto ancora conservare il suo posto di lavoro.

Appena furono a tavola, il signor Perdrix, in un breve e sentito discorso, ringraziò i suoi “collaboratori”, promettendo loro la sua protezione tanto più efficace man mano che fosse cresciuta la sua autorità, e concluse con una commossa arringa per ringraziare e glorificare il governo liberale e giusto, che sapeva ricercare il merito fra gli umili. Il signor Capitaine, vicecapo, rispose a nome dell’ufficio: si felicitò, si congratulò, si inchinò, si esaltò e decantò le lodi di tutti. E un applauso frenetico accolse questi due pezzi di eloquenza. Dopo di che si cominciò sul serio a mangiare.

Tutto andò bene fino al dessert, l’esiguità di parole non infastidì nessuno. Ma, al caffè, una questione sollevata inaspettatamente scatenò il signor Rade, che iniziò ad oltrepassare il limite. Si stava parlando d’amore, con naturalezza, e un soffio di cavalleria inebriava questa sala di burocrati: si vantava con esaltazione la bellezza superiore della donna, la sua delicatezza d’animo, la sua attitudine per le cose squisite, la certezza del suo giudizio e la delicatezza dei suoi sentimenti. Il signor Rade, iniziò a reclamare, rifiutando decisamente al sesso qualificato come “bello” tutte le qualità che gli venivano attribuite; e, di fronte all’indignazione generale, si richiamò a degli autori qualificati:
«Schopenhauer, signori, Schopenhauer, un grande filosofo che la Germania venera. Ecco cosa dice: “Era necessario che l’intelligenza dell’uomo fosse tanto oscurata dall’amore così da chiamare bello questo sesso di piccola taglia, spalle strette, fianchi larghi e gambe curve? Tutta la sua bellezza, infatti, sta nell’istinto dell’amore. Invece di definirlo bello, sarebbe stato più corretto definirlo sgradevole. Le donne non hanno né sentimento, né intelligenza per la musica, così come per la poesia o per le arti plastiche; ciò per loro non è altro che cantilena, puro pretesto, pura affettazione sfruttata dal loro desiderio di piacere”».

«L’uomo che l’ha detto è uno sciocco», dichiarò il signor de Sombreterre.
M. Rade, sorridendo, continuò:
«E Rousseau, signore? Ecco la sua opinione:
“Le donne, in generale, non amano nessuna arte, non si distinguono una dall’altra e non hanno alcuna genialità”».
Il signor de Sombreterre alzò le spalle con disprezzo:
«Rousseau è stupido come l’altro, tutto qui».
Il signor Rade continuò ancora a sorridere:
«E Lord Byron, che nondimeno amava le donne, signore? Questo è ciò che disse:
“Dovrebbero essere ben nutrite e ben vestite, ma non mescolate con la società. Dovrebbero anche essere istruite in religione, ma ignorare la poesia e la politica, leggere solo libri religiosi e di cucina”».
M. Rade continuò:
«Vedete, signori, studiano tutte pittura e musica. Non ce n’è una, tuttavia, che abbia realizzato un buon dipinto o un’opera notevole! Perché, signori? Perché sono il “sexus sequior”, il secondo sesso a tutti gli effetti, fatto per stare in disparte e in secondo piano».

Il signor Patissot si arrabbiò:
«E Mme Sand, signore?».
«Un’eccezione, signore, un’eccezione. Vorrei citare ancora un passaggio di un altro grande filosofo, questo però inglese: Herbert Spencer. Ecco: “Ogni sesso è capace, sotto l’influenza di stimolanti particolari, di manifestare facoltà normalmente riservate all’altro. Così, per prendere un caso estremo, una stimolazione speciale può far sì che il latte possa essere somministrato dal seno degli uomini. Si è visto, durante le carestie: bambini piccoli privati ​​della madre, salvati in questo modo. Non includiamo, tuttavia, questa facoltà di avere latte tra il numero di attributi del maschio. Allo stesso modo, l’intelligenza femminile che, in alcuni casi, darà prodotti superiori, dovrebbe essere trascurata nel conto della natura femminile, come fattore sociale”…».

M. Patissot, in tutto e per tutto, ferito nel carattere cavalleresco che gli era proprio, dichiarò:
«Lei non è francese, signore. La galanteria francese è una forma di patriottismo».
Il signor Rade raccolse la palla.
«Ho pochissimo patriottismo, signore, il meno possibile».
Il freddo si diffuse fra i presenti, ma lui continuò tranquillamente:
«Siete d’accordo con me che la guerra sia una cosa mostruosa; che questa consuetudine di massacrare i popoli costituisca uno stato permanente di barbarie; che è odioso, dal momento che l’unico vero bene è la “vita”, vedere i governi, il cui dovere è di proteggere l’esistenza dei loro sudditi, cercare costantemente mezzi di distruzione? Sì, non è vero?
Ebbene, se la guerra è una cosa orribile, non sarebbe il patriottismo l’idea madre che lo sostiene? Quando un assassino uccide, ha un solo pensiero, ed è quello di rubare. Quando un brav’uomo, con colpi di baionetta, uccide un altro uomo onesto, padre di famiglia o forse un grande artista, a quale pensiero obbedisce?».

Tutti si sentirono profondamente feriti.
«Quando si pensano delle cose del genere, non si dicono in società».
Il signor Patissot continuò:
«Tuttavia, signore, ci sono principi che tutte le persone oneste riconoscono».
Il signor Rade chiese:
«Quali?».
Allorché, solennemente, M. Patissot pronunciò:
«Moralità, signore».
Il signor Rade, raggiante, esclamò:
«Solo un esempio, signori, un esempio molto piccolo. Cosa ne pensate dei signori con berretti di seta che sui boulevards esterni fanno il bel lavoro che conoscete e che si guadagnano da vivere?».
Un broncio di disgusto attraversò il tavolo:
«Bene! Signori, solo un secolo fa, quando un gentiluomo elegante, molto permaloso sul punto dell’onore, aveva per… amica … una “signora molto bella e onesta di alto lignaggio”, stava benissimo a vivere a sue spese, signori, e persino di rovinarla del tutto. Si trovava questo gioco affascinante. Quindi i principi della moralità non sono fissi… e poi …».

Il signor Perdrix, visibilmente imbarazzato, lo fermò:
«Sta minando le fondamenta della società, signor Rade, occorre sempre avere dei principi. Quindi, in politica, ecco il signor de Sombreterre che è un legittimista, il signor Vallin orleanista, il signor Patissot e io repubblicani, abbiamo principi molto diversi, non è vero? Eppure, noi ci intendiamo molto bene, andiamo d’accordo proprio perché li abbiamo, questi principi».
Ma il signor Rade esclamò:
«Anche io ho dei principi, signori, e ne ho di molto solidi».
Il signor Patissot alzò la testa e, freddamente:
«Sarei felice di conoscerli, signore».
M. Rade non si fece pregare:
«Eccoli, signore:
1° principio. – Il governo di uno solo è una mostruosità.
2° principio. – Il suffragio ristretto [limitato cioè soltanto ad una parte dei cittadini] è un’ingiustizia.
3° principio. – Il suffragio universale è stupidità.

1° – Infatti, consegnare milioni di uomini, intelligenze d’élite, scienziati, persino geni, al capriccio, al volere di un essere che, in un momento di allegria, di follia, di ubriachezza o di eccitazione amorosa, non esiterà a sacrificare tutto per la sua fantasia esaltata, dilapiderà le ricchezze del paese dolorosamente accumulate da ciascuno, farà ammassare migliaia di uomini da fare a pezzi sui campi di battaglia, ecc., ecc., a me sembra – a me, che sono un semplice ragionatore – un’aberrazione mostruosa.
2° – Ma pur ammettendo che il paese debba governarsi da sé stesso, escludendo con un pretesto sempre discutibile una parte dei cittadini dell’amministrazione degli affari pubblici, è un’ingiustizia così evidente, che mi sembra inutile discuterne ulteriormente.
3° – Rimane il suffragio universale. Voi siete d’accordo con me sul fatto che gli uomini di ingegno sono rari, vero? Per essere larghi, ammettiamo che al momento in Francia ce ne siano cinque. Aggiungiamo ancora, per essere più larghi, duecento uomini di grande talento, mille altri possessori di talenti vari, e diecimila uomini superiori, in un modo qualunque. Ecco uno stato maggiore di undicimiladuecentocinque dotati di spirito. Dopo di che voi avete di fronte l’esercito dei mediocri, ai quali segue la moltitudine degli imbecilli. Dato che il mediocre e lo sciocco costituiscono sempre l’immensa maggioranza, è inaccettabile che possano eleggere un governo intelligente.

Per essere onesti, aggiungerei che, logicamente, il suffragio universale mi sembra l’unico principio ammissibile, ma che è inapplicabile, ecco perché.
Far concorrere al governo tutta la linfa vitale di un Paese, rappresentarne tutti gli interessi, tenendo conto di tutti i diritti, è un sogno ideale, ma poco pratico, perché l’unica forza che si può misurare è proprio quella che dovrebbe essere la più trascurata, la forza insignificante, il numero.
Secondo il vostro metodo, il numero costituito da chi non è intelligente ha la prevalenza sull’ingegno, sul sapere, su tutte le conoscenze acquisite, sulla ricchezza, sull’industria, ecc. Quando potrete dare a un membro dell’Istituzione diecimila voti contro uno allo straccivendolo, cento voti al grande proprietario terriero contro dieci voti al suo contadino, avrete grosso modo bilanciato le forze e ottenuto una rappresentanza nazionale che riprodurrà veramente tutte le potenzialità della nazione. Ma io vi sfido bene a farlo.
Ecco le mie conclusioni: in passato, quando non si poteva esercitare nessuna professione, si faceva il fotografo; oggigiorno si diventa membri del Parlamento. Un potere così composto sarà sempre deplorevolmente incapace; ma incapace di nuocere quanto incapace di fare il bene. Un tiranno, al contrario, se è stupido, può fare molto male e, se è intelligente (cosa infinitamente rara), molto bene.
Su queste forme di governo non parlo; e mi dichiaro anarchico, vale a dire sostenitore del potere più cancellato, più insensibile, più liberale nel senso ampio del termine, e allo stesso tempo rivoluzionario, cioè l’eterno nemico di questo stesso potere, che comunque non può essere che assolutamente difettoso. Ecco.

Grida di indignazione si levarono intorno al tavolo e tutti, legittimisti, orleanisti, repubblicani per necessità, si infuocarono di rabbia. Il signor Patissot, in particolare, stava soffocando e, rivolgendosi al signor Rade:
«Allora, signore, lei non crede a niente».
L’altro gli rispose semplicemente:
«No signore».
La collera che suscitò fra tutti gli invitati impedì al signor Rade di continuare, e il signor Perdrix, ridiventando capo, chiuse la discussione.
«Basta, Signori, per favore. Ognuno di noi ha la propria opinione, non è vero? E non siamo disposti a cambiarla».
Ognuno approvò quello che considerarono un giusto intervento. Ma il signor Rade, ancora in rivolta, volle avere l’ultima parola.
«Eppure, io ho una morale», disse, «È molto semplice e sempre applicabile; una frase la enuncia, eccola: “Non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi”. Io vi sfido a metterla in dubbio, mentre con tre ragionamenti io mi impegno a demolire il più sacro dei vostri principi».

Questa volta non risposero affatto. Ma mentre tornavamo la sera a due a due, ciascuno disse al suo compagno:
«No, davvero il signor Rade sta andando troppo oltre. Ha sicuramente un colpo di martello. Dovremmo nominarlo sottocapo a Charenton».

[Ndt: Come dire dobbiamo promuoverlo questo vecchio pazzo di Rade e liberarcene, spedendolo a Charenton, piccolo paese vicino Parigi, dove la Marna si getta nella Senna. Anche questo è un modo come un altro per fare carriera. Di “urlatori” che hanno acquistato visibilità nelle risse televisive e nei social media ne conosciamo a uffa. Prima meravigliavano, ma ormai hanno cominciato a seccare].

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Arsenio Lupin – Victor della squadra mondana da Maurice Leblanc

In questo episodio, la polizia decide di usare la mano pesante contro Lupin, che di recente sta lanciando una vera ondata di crimini, tra rapine, furti, rapimenti e omicidi; poiché il commissario Guerchard non viene a capo della faccenda, il prefetto fa richiamare in patria un agente molto in gamba, Victor della brigata mondana, che lavora nelle colonie d’Africa; in realtà al suo posto arriverà Lupin travestito, per scoprire chi sta usando il suo nome e commette efferatezze di cui lui non si macchierebbe mai; con l’aiuto del prefetto e seguito di nascosto da Guerchard, Lupin riesce ad avvicinare la contessa Natasha, amante del bandito, e e si infiltra nella banda. Durante un colpo ai danni di un banchiere, Lupin rende innocuo il criminale e lo lascia a Guerchard, che lo arresta, ma porta in salvo Natasha di cui si è innamorato; mentre la donna scopre chi è il vero Lupin, il prefetto riceve durante la conferenza stampa un regalo del falso Victor, ovvero Victor stesso; questi racconta della sostituzione e restituisce alle autorità i certificati del Tesoro rubati da una banca dal falso Lupin, gesto che Lupin motiva sostenendo che lui non deruba mai la repubblica francese. (Fonte Wikipedia)

Le avventura su You Tube

Victor della squadra mondana

Arsenio Lupin

Arsenio Lupin è il geniale ladro inventato dalla penna di Maurice Leblanc nel 1905. In questi giorni il personaggio letterario è tornato alla ribalta su Netflix, nella cui serie è stato riadattato in chiave contemporanea: non più Lupin, ma un suo emulo. Il protagonista odierno è il simpatico attore francese Omar Sy, (lo ricorderete nel film Quasi Amici). La prima parte di cinque episodi, intitolata “Nell’ombra di Arsenio” è disponibile dall’8 gennaio 2021. Noi di Experiences, tuttavia, vi proponiamo l’Arsenio Lupin delle serie trasmesse fra il 1971 e il 1974. L’interprete principale fu Georges Descrières.

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Guido Gozzano – La camicia della trisavola

Estratto da “La danza degli gnomi e altre fiabe”

Quando (il tempo non ricordo!)
cani, gatti, topi a schiera
ben si misero d’accordo
c’era, allora, c’era… c’era…
… un orfano detto Prataiolo, tardo e trasognato, tenuto da tutti per un mentecatto. Prataiolo mendicava di porta in porta ed era accolto benevolmente dalle massaie e dalle fantesche, perché tagliava il legno, attingeva al pozzo; e quelle lo compensavano con una ciotola di minestra. Ma quando Prataiolo compì i diciott’anni, il vicinato cominciò ad accoglierlo meno bene ed a rimproverargli il suo ozioso vagabondare.
Tanto che egli decise di lasciare il paese e di mettersi pel mondo alla ventura.
Andò a salutare la sua sorella di latte, Ciclamina, e questa gli disse:
– Voglio darti una piccola cosa, per mio ricordo. Non sono ricca e non posso fare gran che. Aggiungerò al tuo fardello una logora camicia della mia trisavola, che era negromante.
Prataiolo non poté nascondere un sorriso di delusione.
– Non sdegnare il mio dono, o Prataiolo. Ti sarà più utile che tu non pensi. Ti basterà distendere la camicia per terra e comandare ciò che vorrai: e ciò che vorrai sarà fatto.
Prataiolo prese il dono, abbracciò la sorella, e partì. Verso sera sentiva appetito e trovandosi senza provviste e senza denaro, cominciava ad inquietarsi, perché aveva ben poca fiducia nella tela miracolosa.
Volle provare, tuttavia; la distese in terra e mormorò:
– Camicia della trisavola, vorrei un pollo arrosto!
Ed ecco disegnarsi a poco a poco l’ombra di un pollo, leggiera dapprima e trasparente, poi più densa e concreta, solida e dorata come un pollo naturale. E un profumo delizioso si diffondeva intorno.
Prataiolo non osava toccarlo, temendo un malefizio. Poi si chinò, lo palpò, ne strappò un’ala, la portò alla bocca.
Era un pollo autentico e squisito. Ordinò allora una torta allo zibibbo, un piatto di pesche, una bottiglia di Cipro.
E tutto si disegnava leggiero, si concretava a poco a poco sulla camicia miracolosa.
Prataiolo mangiava tranquillo, seduto sull’erba, quando vide sulla strada maestra un mendicante che lo fissava muto e supplichevole.
– Posso offrirti, compagno?
Il vecchio non si fece pregare e divise il banchetto con lui.
Ma quando vide la comparsa meravigliosa delle portate, pregò il ragazzo di donargli la tela magica.
– Ti darò questo mio bastone in compenso.
– E che vuoi che ne faccia?
– Se tu sapessi la virtù di questo mio bastone, accetteresti con gioia. Contiene mille piccole celle ed ogni cella racchiude un cavaliere armato e un cavallo bardato di tutto punto. Ogni volta che avrai bisogno d’aiuto ti basterà comandare: ” Fuori l’armata!”.
Prataiolo aveva sempre sognato d’essere generale e non poté resistere a quella tentazione: accettò il cambio e si mise in cammino. Ma dopo poche ore era già pentito.
– Ho fame e non ho più la mia camicia! A che può giovarmi un ‘armata quando lo stomaco è vuoto?
L’appetito cresceva e per distrarsi egli puntò in terra il bastone e comandò:
– Fuori l’armata!
Ed ecco un fruscìo dal di dentro, poi aprirsi nel legno tante piccole finestre e da ogni finestra uscir fuori un cosino minuscolo come un’ape; poi crescere in pochi secondi, crescere, formare all’intorno una muraglia di cavalli scalpitanti e di cavalieri armati.
Prataiolo guardava trasognato.
– Che cosa comandate, signor generale?
Egli ebbe un’idea.
– Che mi sia riportata la camicia della trisavola!
L’armata partì di gran galoppo, sparve all’orizzonte, e poco dopo era di ritorno con la tela miracolosa.
– L’armata rientri in caserma! …
Prataiolo puntò il bastone in terra. Cavalli e cavalieri presero a rimpicciolire, in pochi secondi ritornarono minuscoli come api, rientrarono nelle cellette che si rinchiusero sul legno senza lasciar traccia.
Prataiolo era felice.
Riprese la via e giunse ad un mulino.
Il mugnaio era sulla soglia e suonava il flauto: la moglie e i suoi nove figli danzavano intorno. Prataiolo sentì che avvicinandosi gli cresceva una voglia irresistibile di muover le gambe; poi fu costretto da una forza ignorata a ballare con gli altri ballerini.
Sentiva intanto la moglie del mugnaio che danzando gridava furibonda al marito:
– Basta! Basta! Uomo senza cuore! Dacci del pane invece che costringerci a ballare!
Poi rivolgendosi a Prataiolo che ballava con loro:
– Vedete? Questo mascalzone di marito, quando lo si prega di sfamarci, prende il suo flauto dannato e ci costringe a ballare!
Il mugnaio, quando gli piacque, smise di suonare e la moglie, i figli, Prataiolo caddero sfiniti dalla ridda vertiginosa. Prataiolo, riprese le forze, distese la camicia della trisavola e comandò un pranzo magnifico. Invitò il mugnaio e la sua famiglia sbigottita a dividere il pasto. Quelli non si fecero pregare, e giunti alle frutta il mugnaio disse:
– Cedimi la camicia ed io ti do il mio flauto.
Prataiolo accettò il cambio, già sicuro di ciò che doveva fare poco dopo. Giunto, infatti, a dieci miglia dal paese, spedì i mille cavalieri che gli riportarono la tela.
– Ed eccomi ora possessore della camicia, del bastone, del flauto magico… Non posso desiderare di più.
Arrivò verso sera in una città e vide grandi annunci a vivi colori. Si accordava la mano della figlia del Re a chi sapeva guarirla della sua insanabile malinconia.
Prataiolo si presentò subito alla Reggia. Il Re dava quella sera un banchetto di gala agli ambasciatori del Gran Sultano, ma, udita la profferta dello sconosciuto, lo fece passare all’istante. Prataiolo entrò nella sala immensa, e fu abbagliato dallo sfolgorio degli ori e delle gemme.
Sedevano a mensa più di cinquecento persone, con a capo il Re, la Regina e la Principessa, bella ed assorta, pallida come un giglio.
Prataiolo fece legare da un servo le gambe della Principessa, senza che i commensali se n’avvedessero, poi si rifugiò in un angolo e cominciò le prime note. Ed ecco un agitarsi improvviso fra i commensali, un fremere di gambe e di ginocchia… Poi tutti s’alzano d’improvviso, scostano le sedie, cominciano a ballare guardandosi l’un l’altro, spaventati.
Principi, baroni, ambasciatori panciuti, baronesse pingui e venerabili, servi e coppieri, e financo i veltri, i pavoni, i fagiani farciti nei piatti d’oro, tutti si animarono, cominciarono a ballare la danza irresistibile.
– Basta! Basta! Per pietà! – gridavano i più vecchi e i più pingui.
– Avanti! Avanti ancora! – dicevano i più giovani, tenendosi per mano.
La Principessa, legata alla sua sedia, tentava anch’essa d’alzarsi e guardava gli altri, e rideva giubilante. Quando piacque a Prataiolo, il suono cessò e i cinquecento ballerini caddero sfiniti sulle sedie e sui tappeti, le dame senza scarpette e senza parrucca. La Principessa rise per un’ora e quando poté parlare disse al Re:
– Padre mio, costui mi ha risanata ed io sono la sua sposa.
Il Re acconsentì, ma Prataiolo esitava.
– Ho lasciata al paese la mia sorella di latte, bella come il sole e alla quale devo la mia fortuna; vorrei farvela conoscere.
– Partite, dunque, e portatela fra noi – dissero i commensali.
I mille cavalieri comparvero, occupando la sala immensa, fra lo stupore generale.
– Mi sia portata Ciclamina, la mia piccola sorella -. E l’armata attraversò la Reggia, le sale, gli scaloni, con gran fragore. Poco dopo era di ritorno con la sorella Ciclamina. La fanciulla fu trovata così bella, che un ambasciatore se ne innamorò all’istante.
E in uno stesso giorno furono celebrate le doppie nozze.

IMMAGINE DI APERTURA: Illustrazione di Mystic Art Design da Pixabay

Guido Gozzano – La leggenda dei sei compagni

Estratto da “La danza degli gnomi e altre fiabe”

C’era una volta un vecchio signore, senza più fortuna, che aveva tre figli. Il primogenito disse un giorno al padre:
– Voglio mettermi pel mondo, alla ventura.
– Sia come tu vuoi – disse il padre, – ma non posso darti più di dieci scudi.
– È poco, ma farò che mi bastino.
Desiderio prese i dieci scudi e partì.
Giunto in città vide un uomo che gridava per le vie un bando del re. Il re cercava chi sapesse costruirgli una nave che andasse per mare e per terra. Ricompensa: la mano della principessa.
– Voglio tentare – disse Desiderio, e si propose al banditore.
Fu condotto alla reggia e all’indomani gli fu data un’accetta per abbattere il legno necessario all’impresa.
Lavorò tutto il mattino, e a mezzodì sedette all’ombra d’un vecchio castagno, per mangiare il suo tozzo di pane.
Una gazza lo guardava curiosa, scendendo di ramo in ramo. Ella diceva nel suo roco cicaleccio:
– Un briciolo anche a me! Un briciolo anche a me!
E protendeva il becco verso le mani di Desiderio, supplicando.
– Lasciami in pace, bestia importuna! – gridò Desiderio impaziente.
La gazza risalì di due rami.
– Che lavoro stai facendo?
– Dei cucchiai, se ti piace! – le rispose Desiderio, beffandola.
– Cucchiai! Cucchiai! – gridò la gazza, risalendo di ramo in ramo.
E disparve.
Terminato il pasto, Desiderio si rimise all’opera, ma ad ogni colpo staccava dall’albero una scheggia in forma di rozzo cucchiaio. E non gli riusciva di far altro. Tentò e ritentò, poi capì di essere vittima di qualche incantesimo.
– Quella gazza dannata mi ha stregato l’accetta!
Gettò via lo stromento e fece ritorno alla casa paterna.
– Già di ritorno, figlio mio? – gli disse il padre.
– Sì. Ho pensato che la vita con voi, nella mia casa, era preferibile a qualunque avventura.
E tacque del bando, e della gazza misteriosa.
Saturnino, il secondogenito, volle partire a sua volta.
Il padre non gli diede che cinque scudi.
Giunto in città s’incontrò col banditore e volle tentare l’impresa. Si propose al banditore, e dopo aver lavorato tutto un mattino si sedette ai piedi del castagno centenario, sbocconcellando il suo pane.
Ed ecco la gazza scendere di ramo in ramo
– Un briciolo anche a me! Un briciolo anche a me!
– Lasciami in pace, bestia importuna!
E come la gazza si protendeva agitando le ali, Saturnino la minacciò con la mano.
La gazza risalì tra i rami.
– Che fai tu qui?
– Grucce per le tue gambe, gazza curiosa! – gli rispose il giovane beffandola.
– Grucce! Grucce per le mie gambe! – gridò l’uccello risalendo tra le fronde.
E disparve.
Quando Saturnino riprese il lavoro, ad ogni colpo che dava nel legno non riusciva che a staccarne schegge in forma di grucce minuscole.
– Eccomi segno della magia di quell’uccellaccio.
Saturnino gettò l’accetta e riprese deluso la via del ritorno.
Gentile, il terzogenito, un fanciullo pallido e taciturno, volle tentare a sua volta la sorte.
– E tu speri di vincere – disse il padre – là dove furono sconfitti i tuoi fratelli maggiori?
– Il destino può essermi benigno. Lasciami partire.
Gentile va in città, ode il bando, si propone al banditore. Ed eccolo nella foresta, dopo un mattino di lavoro, che sbocconcella il suo pane sotto il castagno venerando.
– Un briciolo anche a me! Un briciolo anche a me!
Alzò gli occhi e vide la gazza protesa verso di lui.
– Avrai la tua parte, povera bestiola!
E sminuzzò il pane e lo gettò sull’erba. La gazza, mangiando, lo interrogava:
– Che stai facendo qui?
E Gentile narrò i casi suoi e il bando e il tentativo.
– Buona fortuna e bella nave! – gridò la gazza risalendo di ramo in ramo.
– Che Dio t’ascolti!
Gentile si rimise all’opera e ad ogni colpo d’accetta che dava nei tronchi, egli staccava un pezzo della nave già lavorato e scolpito per incanto. E le varie parti s’attiravano, s’univano fra di loro come se fossero calamitate.
– Ecco l’aiuto di qualche magia favorevole! – pensava Gentile, esultando.
Prima del tramonto la nave prodigiosa era pronta, ed egli vi salì, prendendone il timone e dirigendola attraverso i campi, i fiumi, le valli, i laghi, fra lo sbigottimento dei contadini.
A mezza via incontrò un uomo che rodeva un osso.
– Che stai facendo? – gli domandò Gentile.
– Muoio di fame!
– Sali con me e avrai di che sfamarti.
E l’uomo salì sulla nave.
Poco più lungi incontrarono un altro uomo presso una fontana.
– E tu che stai facendo?
– Ho prosciugato, col bere, tutta questa sorgente, ed ora attendo che si riempia, perché ho ancora sete.
– Sali con me e avrai di che dissetarti.
E il bevitore prodigioso salì sulla nave.
Non molto lontano incontrarono un altro individuo che aveva una pietra da macina a ciascun piede e che correva tuttavia come un daino.
– Che significa questo? – gli chiese Gentile.
– Voglio prendere una lepre che deve passare di qui.
– E tu, imbecille, ti leghi una pietra da macina alle gambe?
– Sì, perché corro troppo in fretta, e nonostante le pietre da macina alle gambe, avanzo sempre di qualche miglio la lepre da prendere.
– Questa è buffa! Vuoi salire sulla nave con noi?
Anche il corridore insuperabile salì sulla nave.
Verso il tramonto incontrarono un altro individuo che teneva in mano un arco teso e fissava un oggetto invisibile per loro.
– Uomo dell’arco, che stai facendo?
– Prendo di mira una lepre che vedo lassù, su quella montagna.
– Tu ci vuoi beffare…
In quel momento la freccia partì e l’uomo disse:
– Ecco… L’ho uccisa… Ma di qui alla montagna ci sono sette miglia e temo che altri passi e se la prenda.
– Presto, Primosempre – disse Gentile – corri e vedi se la lepre è uccisa o se costui è un fanfarone…
Primosempre partì e ritornò poco dopo con la lepre.
– Sei un arciere insuperabile – disse Gentile, rivolgendosi ad Occhiofino. – Vieni con noi e dividi le nostre avventure.
Occhiofino salì sulla nave che proseguì il cammino.
Poco dopo s’incontrarono in un altro sconosciuto, con l’orecchio applicato contro la terra.
– Che stai facendo? – gli chiese Gentile.
– Ieri ho seminato dell’avena e l’ascolto crescere…
– Che udito fine! – disse Gentile. – Se tu vuoi, sali sulla nave; credo che sei compagni come noi possono far grandi cose.
Eccoli dunque in sei sulla nave prodigiosa: Gentile, Mangiatutto, Bevitutto, Occhiofino, Finorecchia, Primosempre. La nave si mise in cammino e giunse trionfale in città, fra i cittadini sbigottiti e festanti.
Gentile scese dinanzi alla reggia e si presentò al Re.
– Maestà, eccovi servita. Vostra figlia è mia.
Il Re ammirava la nave, ma gli pesava concedere la figlia a quel poveretto randagio.
– Questo non basta, figliuolo. Prima di aver la sua mano si devono soddisfare altre prove ancora…
– Accetto le nuove prove.
– Sta bene – disse il re. – Io ho dunque nelle mie stalle cinquanta buoi, e occorre che tu, o uno dei tuoi compagni, li mangi da solo in otto giorni.
– Tenteremo, Sire.
Gentile affidò l’impresa a Mangiatutto e quattro giorni dopo le stalle erano vuote.
Il Re era contrariato d’aver perduto la prova e le bestie.
– Non basta – disse a Gentile. – Dopo il pasto bisogna bere; ho nelle mie cantine cinquanta botti di vino inacidito. Tu, o uno dei tuoi compagni deve berlo da solo, in otto giorni.
– Bevitutto, questo è affar tuo.
E in otto giorni le cantine erano vuote.
– Chi è, dunque, costui e i suoi compagni? – pensava il re inquieto, e non sapeva come disfarsene.
Uno dei ministri lo consigliò.
– Maestà, voi avete nella vostra cucina un cuoco insuperabile alla corsa. in cinque minuti va ad attingere acqua a dieci miglia di qui, e ritorna con gli otri pieni. Proponete allo sconosciuto una gara con lui.
Il Re fece chiamare Gentile e gli propose la gara.
– Sarà fatto – rispose Gentile, e delegò la cosa a Primosempre.
All’indomani il cuoco e Primosempre partirono insieme e questi giunse assai per tempo alla fontana, con grande ira del cuoco, che si credeva insuperabile alla corsa. Mentre si riposavano sull’erba, dopo aver riempito gli otri, il cuoco, che s’intendeva anche di magia, addormentò Primosempre col fissarlo a lungo; e partì con gli otri, dopo avergli deposte due pietruzze verdi sulle palpebre, perché non si svegliasse.
Ma Finorecchia era in ascolto e informava gli amici di quanto accadeva lontano.
– Finorecchia, che stanno facendo?
– Il cuoco e Primosempre si sono seduti ansanti e conversano presso la fontana. Primosempre s’addormenta, e russa forte. Il cuoco ritorna di corsa verso la reggia.
– Occhiofino, guarda e dacci notizia.
– Il cuoco è a mezza via e Primosempre dorme supino, con due pietruzze sugli occhi.
– Prendi il tuo arco – ordinò Gentile – e togli da gli occhi di Primosempre le pietruzze malefiche, perché si svegli. Bada di non ferirlo!
L’arciere prodigioso tese l’arco e sbalzò le pietre dalle palpebre del compagno addormentato.
Questi si svegliò con un sussulto, prese gli otri, e partì con tale velocità che arrivò prima ancora del cuoco, fra lo stupore del Re e dei cortigiani.
– Sia dunque – disse il Re, vinto ormai. E rivolgendosi verso Gentile: – Amo meglio aver per genero che per nemico un uomo della tua abilità.
Le nozze splendide ebbero luogo nella settimana. E Primosempre, Mangiatutto, Bevitutto, Finorecchia, Occhiofino furono fatti ministri.

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Abraham Stoker – Dracula

Dracula a fumetti per scaricare le tensioni

Jonathan Harker, procuratore legale inglese, arriva in Transilvania per incontrare il suo cliente, il Conte Dracula. Da subito si trova avvolto in un’atmosfera tetra e misteriosa. Prigioniero nel castello del Conte, si ritrova a fare la parte del topo in un gioco crudele che Dracula instaura con il suo ospite. Infatti l’uomo anziano, avvolto in abiti neri e con un insano odio per gli specchi e il sole, si rivela essere un nosferatu: un vampiro assetato di sangue umano. Ed è proprio Harker che consegna a questo mostro senz’anima le informazioni e i contatti necessari a Dracula per raggiungere la popolosa e vitale Inghilterra. La terra in cui inizierà la caccia al Conte Dracula, il più temibile fra i predatori che l’uomo abbia mai conosciuto.

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Oscar Wilde – Il ritratto di Dorian Gray

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Dorian Gray è un ragazzo di una bellezza e di una purezza incredibili. Mentre posa per il suo ritratto, Lord Henry Wotton gli fa notare come la sua giovinezza è purtroppo destinata a durare poco. Dorian chiede allora di non invecchiare mai e che, al suo posto, sia invece il ritratto a sopportare le ingiurie del tempo. Inizia così un racconto sulle gioie e le perversioni dell’anima, sul bene e sul male, sulla bellezza e l’orrore. Un libro che scava nel cuore dell’uomo perché ”è lo spettatore, non la vita, che l’arte, in realtà, rispecchia”.

I MAESTRI DELL’AVVENTURA – IL RITRATTO DI DORIAN GRAY – Free Book 

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Arthur Conan Doyle – Uno studio in rosso

Sherlock Holmes a fumetti per scaricare le tensioni

Siamo di fronte a un caposaldo della letteratura europea: Uno Studio in Rosso, infatti, è il primo romanzo di sir Arthur Conan Doyle dove fa la comparsa il detective più famoso di tutti i tempi: Sherlock Holmes. In questa straordinaria avventura i lettori faranno la conoscenza di questo straordinario e carismatico personaggio, vedendolo all’opera nel risolvere un caso apparentemente senza soluzione. Elementare, no?

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Giovanni Verga – L’amante di Gramigna

A Salvatore Farina.

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti.

Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?

Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.

Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietari non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.

Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.

La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:

— La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —.

Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta.

Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! —

Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.

Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui.

Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi.

Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia.

Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.

— Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di tre compagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —.

Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.

Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.

Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.

— Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui?

Ella non rispose, guardandolo fisso.

— Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo!

— Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati.

— Cosa m’importa? Vattene! —

E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:

— Dunque? … Sei pazza? … O sei qualche spia?

— No, — diss’ella, — no!

— Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è cos—.

Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:

— Queste erano per me —.

Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:

— Vuoi venire con me?

— Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —.

E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.

Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse:

— Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! —

Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.

— Ferma! ferma! —

E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.

— È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.

Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta.

Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita!

La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita, onde pagare gli avvocati di sua figlia, e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.

Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.

Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.

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Grazia Deledda – Il Mago

Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l’ultima, e guardava giù per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie. Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendentisi ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani. In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di musco giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza. Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo; però una leggera nuvola era apparsa dopo due anni di completa felicità sul cielo sereno della sua esistenza. Saveria non lo aveva reso né ancora accennava a renderlo padre! Era una cosa ben triste! Egli l’aveva tanto sognato un bel marmocchio bruno come lui che appena in gambe l’avrebbe seguito su e giù, fra i boschi e le valli, aiutandolo nelle dure fatiche di pastore; un marmocchio che poi, fatto forte giovanotto, la gioia e la speranza dei suoi vecchi, ammogliandosi avrebbe a sua volta tramandato il loro nome e la discendenza dei loro armenti in un altro, e così via pei secoli dei secoli! Tutti gli avi di Antonio erano stati pastori: e questa gloria egli sognava di continuarla ma come fare se non veniva l’erede?

Tutto fu messo in opera; promesse, novene, pellegrinaggi. Antonio andò, scalzo e a testa nuda, a piedi, sino al celebre santuario della Madonna dei Miracoli, a Bitti, fece fare una processione, una messa solenne, e promise di dare tante libbre di cera lavorata alla Madonna quante ne avrebbe pesate il futuro figliuolino, ma tutto fu inutile. Saveria restava sottile, sottile, elegante nel suo costume dal corsetto giallo e la camicia ricamata, e la casa non veniva ancora rallegrata dagli strilli del sognato bambino né dalla nenia della mamma accompagnata dal cigolio della culla.

Era una ben triste, triste cosa! Se ne aveva già deposta l’ultima speranza allorché un giorno un’amica di Saveria venne a trovarla e le disse con profondo mistero, dopo i primi complimenti alla francese:

– Non sapete dunque, comare Sabé? Peppe Longu mi ha detto che voi non fate figli perché…

– Perché?… – chiese attenta Saveria con gli occhi spalancati.

– Perché? – seguitò l’altra abbassando la voce. – Ci scampi Iddio, ma voi lo sapete, Peppe è un mago di prima qualità, così almeno dicono tutti… e lui stesso mi ha detto che è per opera di una sua magia che voi non avete figli.

– Liberanosdomine! – esclamò Saveria ridendo e facendosi il segno della croce. Come tutte le donnicciuole del villaggio essa era superstiziosa e credeva alle magie, anzi una volta aveva visto coi suoi propri occhi un fantasma bianco vagare pei monti, ma che poi Peppe Longu, per quanto fosse mago, arrivasse a quel punto, ah, questo troppo! Ma l’altra proseguì, offesa dell’incredulità di Saveria, e tanto disse che finì per convincerla.

Dopo un’ora di chiacchiere accanto al focolare, sulle cui bracie Saveria aveva posto a bollire il caffè, ell’era così convinta della magia di Peppe che chiese pensosa alla comare:

– E… ditemi, non la potrebbe disfare questa opera infernale?

– Questo poi no, mi ha detto, questo no! Pare che abbia dell’astio contro vostro marito!…

All’imbrunire Antonio comparve in fondo alla strada rocciosa sul suo cavallino nero e la bisaccia gonfia di formaggio fresco e di ricotta. Mentre scaricava la sua entrata sotto il pergolato, Saveria lo informò di tutto: egli non rise punto, ma aggrottando le folte sopracciglia si contentò di scuotere la testa. E quando tutto fu rimesso in ordine, cavallo, bisaccia ed entrata, Antonio si sedette a piedi in croce al focolare e si fece ripetere la strana novità.

– Ma che diavolo avete con Peppe? Perché si vendica così orribilmente?

– domandò alla fine Saveria con grande serietà.

– Nulla!… – rispose Antonio. – A meno che non sia perché mi rido sempre delle sue magie!

– È male! Non hai visto come ha disperso le cavallette che rovinavano la vigna di Don Giovanni? E quelle di Jolgi Luppeddu?…

– È vero… è vero… ma! Vedremo! Domani gli parlerò.

– Ah, se sciogliesse la magia!… – esclamò Saveria.

Quella notte i due sposi sognarono nuovamente un bel bambino bruno; ma l’indomani, per quante preghiere Antonio gli facesse, il mago del villaggio ricusò assolutamente di disfare l’incantesimo.

Era un tipo alquanto misterioso quel mago: viveva come tutti gli altri uomini del mondo, però non lavorava mai.

È vero che oltre le magie pubbliche di cui menava vanto, come l’uccidere le cavallette e il sanare le pecore malate con semplici parole misteriose, per cui non accettava compenso alcuno egli riceveva molte visite notturne; però nessuno ci badava e generalmente si credeva che i genî che egli aveva al suo comando gli dessero il denaro e le provviste che abbondavano nella sua catapecchia. Ma forse Antonio la pensava diversamente perché, viste mal riuscite tutte le sue preghiere e anche le sue minacce, si recò una notte da Peppe e gli promise un bel luigi d’oro purché sciogliesse finalmente la fatale magia.

Sulle prime Peppe fece il sordo, si mostrò anzi scandalizzato, come un artista a cui si proponga un affare che spoetizzi i suoi ideali; ma poi, visto realmente lo splendore del luigi, chissà donde il pastore lo aveva tratto! cedé a poco a poco e gridò:

– Ebbene, sì! Lo faccio però per amicizia e pietà di Saveria; ma tu non lo meriti, tu che mi hai sempre deriso!…

Antonio protestò; Peppe allora l’avvertì di trovarsi l’indomani notte in un sito deserto della montagna, col fucile scarico, una tovaglia bianca e due ceri. Antonio lasciò la moneta al mago e promise tutto; però, allorché trovossi nella strada oscura, minacciò col pugno la casa rovinata da cui era uscito e sogghignò:

– Vedremo!

L’indomani notte fu il primo ad arrivare al convegno: era un sito orrido e dirupato reso fantastico dal chiarore croceo della luna al tramonto. Nella notte serena non spirava un alito di brezza, e i rovi fioriti, le liane nere e il musco olezzavano nel silenzio misterioso delle rocce illuminate dalla luna.

Il pastore depose il fucile che, secondo la raccomandazione di Peppe, non aveva caricato, la tovaglia, e i ceri su un masso e attese… Peppe non tardò. Le sue prime parole furono: – È giusta l’ora! Mezzanotte -.

Stese la tovaglia su una larga pietra nuda e isolata dalle altre, fissò i ceri in terra e fece stendere bocconi, per un secondo, il pastore. Quando si rialzò Antonio vide i ceri accesi e il fucile posto sulla tovaglia.

– Cominciamo! – disse Peppe.

E infatti cominciò a fare mille pantomime che Antonio seguiva con occhio torvo e con un sorriso di sdegno sulle labbra. Più che mai si sentiva in vena di deridere il mago; ma qual non fu il suo spavento quando Peppe rivoltosi alla pietra coperta dalla tovaglia, la interrogò in un linguaggio strano che probabilmente doveva passare per latino, e la pietra rispose, con voce flebile, lugubre, uscente di sotterra, nel medesimo linguaggio?… In pari tempo i ceri si spensero da sé senza che tirasse vento o che Peppe si chinasse su di essi. Si rivolse invece verso il pastore che tremava verga a verga e gli disse: – La pietra mi risponde che… il fucile risponderà se la magia è sì o no sciolta!…

– Come? – chiese Antonio richiamato in sé dalla voce del mago.

– Era scarico il tuo fucile?…

– Sì perdio! – esclamò il pastore.

– Ebbene, piglialo e spara in aria: se fa fuoco è segno che l’incantesimo è sciolto!

Antonio, oramai preparato ad assistere a tutte le meraviglie del mondo ma non a quest’ultima, si accostò alla pietra parlante, prese il fucile e sparò… Peppe cadde al suolo, senza emettere un solo gemito, col cuore trapassato da una palla.

Invece di sparare in aria, Antonio lo aveva preso di mira…

Dopo il suo involontario delitto, perché, nonostante tutto, credeva che il fucile non facesse fuoco, il pastore pensò di darsela a gambe ma poi rifletté che nessuno sapeva nulla di tutta questa faccenda, e… ripiegò la tovaglia, riprese i ceri e il fucile e ritornò al villaggio camminando sulle rupi in modo da non lasciare alcuna traccia dietro di sé, e passò tranquillamente il resto della notte con la sua adorata Saveria.

… Sempre incredulo in fatto di magie, il forte pastore dai grandi occhi ardenti non seppe mai spiegarsi come la pietra avesse parlato, come i ceri eransi spenti e come il fucile aveva fatto fuoco; però nove mesi dopo ebbe la gioia di pigliare fra le sue braccia robuste un bel marmocchio di cui Saveria lo rese padre. Allora si pentì amaramente di non aver sparato in aria; ma non potendo far rivivere il mago, si contentò di fargli dire una messa di suffragio nella vecchia chiesetta della montagna.

IMMAGINE DI APERTURA: Disegno di Luc Mahler da Pixabay 

Matilde Serao – Una Fioraia

Date lilia…

La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti.

Ella non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo che appariva fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sé. Guardava le pietre, come se le contasse.

Camminava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano, di qualche rara carrozza che passava. Quando arrivò alla chiesetta del Cerriglio, dirimpetto alla statua dell’Eccehomo vestito di rosso, coronato di spine, con gli occhi pieni di lagrime immobili, la fronte e il petto macchiati di sangue coagulato, la bimba gli dette uno sguardo indifferente e tornò indietro, con la stessa andatura rigida.

Era una mendica. Aveva fame, aveva freddo, aveva sete. Aveva le gambe nude, i piedini scalzi che si deformavano nella mota. In quel gelido giorno di febbraio, ella non portava che una camicia e un sottanino lacero e sfrangiato, mantenuto su, alla cinta, da uno spago. Aggrovigliato al collo, un brandello di ciarpa all’uncinetto. Niente altro. La bimba era molto magra, quasi stecchita: dagli strappi della camicia e del sottanino si vedeva una carnagione esangue, cinerea; sotto la ciarpa si vedevano le due ossa clavicolari sporgenti, come se volessero bucare la pelle; s’indovinava la meschinità malaticcia di quel busto legnoso di bambina. Le spalle erano aguzze, curve, come quelle di chi si raggricchia sempre per freddo o per chetare lo spasimo dello stomaco. Un volto serio e grave, con la medesima tinta plumbea del corpo; rugata la fronte breve; corrugate le sottili sopracciglia, troppo grandi gli occhi dalla palpebra bigia, sottolineati di bistro, incavernati, profondi; duro, rigido il profilo, già formato come quello di una donna; la bocca stretta, chiusa, le labbra pallide, senza fremiti, con due rughe agli angoli. Ella aveva sette anni.

Un giorno aveva avuto una madre scarna, mendica anche lei. Vagavano ambedue per le vie di Porto, cercando l’elemosina. Mangiavano spesso del pane e dormivano in un sottoscala, sulla paglia, la figlia col capo in grembo alla madre. Poi la madre era morta, di tifo: la bambina era rimasta sola, sul lastrico. Non pianse, non gridò, uscì per cercare l’elemosina, non ebbe nulla: quel giorno non mangiò e dormì all’aria aperta, sullo scalino della chiesa di Portanova, arrotondata come un cane.

Per tre anni la vita della bambina non aveva avuto varianti. Ella non sapeva nulla, non ricordava nulla, altro che un lunghissimo giorno in cui aveva avuto sempre fame. Dalla mattina cominciava le sue peregrinazioni. La strada dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed ella ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati da una luce fioca e grigia, le scalette smussate. Andava e veniva, senza posa, dalla piazzetta di Portanova, donde era il suo punto di partenza, sino alla cappella del Cerriglio, dove era il suo punto di arrivo. Si fermava a piazzetta di Porto, faceva un mezzo giro e riesciva all’antico Sedile, dava uno sguardo al simulacro del dio Orione attaccato alla muraglia che il popolo chiama Pesce Niccolò, poi saliva per Mezzocannone, bagnandosi i piedi nelle acque azzurre, rosse, violette dei tintori che lavoravano in certi antri lugubri, intorno a caldaie nere, agitandovi un miscuglio misterioso. Arrivata su, non osava andare più oltre e ridiscendeva ai Mercanti; non dava neppure un’occhiata alla taverna aperta sotto un porticato dove si friggevano pesci e pastette, dove si espandevano le vivezze rosse del soffritto e gli acuti odori delle pastinache in aceto. Voltava a destra per la scaletta lurida di santa Barbara, s’inerpicava fino al famoso biscottaio, ma i biscotti le facevano troppo gola e scappava via: al ridiscendere, si fermava innanzi alla porta dello stabilimento di bagni, guardando una vasca di macigno artificiale, dove non ci era acqua, ma dove si ergeva una musa dalle larghe foglie verdi: continuava la sua via sino al Cerriglio e tornava indietro, sempre col suo passo guardingo, sfiorando i muri, scivolando fra le gambe dei viandanti.

Quelle viuzze nere, quella strettezza, quella miseria, quelle case stillanti umidità, quei cattivi odori, quei portoni sospetti, quelle tinte cupe, quell’assenza di sole, quelle facce usuraie dei commercianti, quelle facce losche dei loro mediatori, quelle facce ebeti di male femmine, quella merce gretta, impolverata, avariata, erano tutto il suo mondo. Sentiva vagamente che di sopra santa Barbara, di sopra Mezzocannone, di sopra il Cerriglio, alla fine di via Principessa Margherita, vi era un altro mondo, ma ella temeva di arrischiarvisi, ne aveva una paura selvaggia. Anche giù nei Mercanti, ella aveva paura delle altre mendicanti che la picchiavano, dei cani che volevano morderla, delle guardie che potevano arrestarla: ma ella era furba a schermirsi da questi pericoli.

Lassù, il pericolo era ignoto. Quando arrivava a quei limiti, dava uno sguardo sospettoso in su, poi fuggiva, nascondendosi il capo ricciuto nel braccio, come se la perseguitassero.

Chiedeva l’elemosina, ma non gliela davano spesso. Tutta quella gente affaccendata a guadagnare una dura giornata, bottegai accaniti a imbrogliare i compratori contadini, facchini curvi sotto le balle, serve luride e straccione, non badavano a lei. Qualche galantuomo la prendeva per una piccola ladra e si tastava le tasche, dicendole una parolaccia; qualcuno, anche vestito decentemente, era povero, la guardava e si stringeva nelle spalle. A qualcuno faceva disgusto, e la scacciava con un gesto di noia. Ella chiedeva prima a voce alta, quasi imperiosa, un soldo per mangiare, non avendo mangiato il giorno prima, nella tortura dello stomaco che si ribellava: poi la voce si abbassava, diventava supplichevole, ansante, lamentosa, poche e gelide lagrime le scendevano per le guance. Essa continuava ad andare e venire, come per istinto, balbettando parole indistinte, sino a che la voce le si seccava nella gola riarsa: allora chiedeva l’elemosina con la intensità dello sguardo. Verso la fine della giornata, quando non le avevano dato nulla, era presa da una grande stanchezza, il capogiro la faceva vacillare, ella si trascinava sino ai gradini della chiesa di Portanova e vi rimaneva, immobile, accoccolata, come un batuffolo di stracci, donde sfuggiva un sordo lamento. Si rialzava, per girare ancora, fra i lumi che si accendevano, gli operai che ritornavano dal lavoro e l’odore di mangiare che usciva dalle botteghe socchiuse. Allora arrivava a raccogliere due centesimi o una fetta di pane o un osso di costoletta o uno scampoletto di trippa, e scappava a divorarlo, provando un bruciore insopportabile allo stomaco. Ma venivano spesso i giorni in cui non aveva nulla e si addormiva in un torpore malaticcio, senza aver mangiato altro che le bucce di aranci fradici, o masticato i baccelli dei piselli. Il sabato era il migliore suo giorno: al sabato una femmina giovane, col fazzoletto di seta rosso attorno al collo, la gonna corta e legata sullo stomaco, la pianella col tacco alto e il fiocco verde, la pettinessa d’argento nell’alto cocuzzolo dei capelli impomatati, le guance cariche di carminio, le dava un soldo. La giovane femmina stava per lo più accantonata a un portoncino, le mani nelle taschette del grembiule, lo sguardo vagante, la fisonomia stupida, canticchiando dalla mattina alla sera una canzoncina lenta: Spina de pesce,

Sta vita desperata quanno fenesce?

Ogni giorno, molte volte, la bimba le passava daccanto. Ma solo il sabato l’altra le dava un soldo: questo per cinque o sei mesi. Poi la donna scomparve. L’avevano buttata o s’era buttata nel pozzo.

In quella giornata di domenica la bimba si sentiva morire. Ogni tanto le mancavano le forze e si sedeva per terra. Le botteghe erano chiuse, i viandanti frettolosi non le davano retta, dirigendosi tutti alle strade superiori, scomparendo lassù: ella li seguiva macchinalmente, con lo sguardo. Entrò nella chiesa di Portanova. La chiesa era vuota, le parve immensa e paurosa; ebbe una sensazione di freddo, co’ suoi piedini nudi sul marmo; il sagrestano l’acchiappò e la mise fuori. Ella riprese la sua corsa nelle strade spopolate: si vide sola, disperata. Tutti erano andati lassù.

Allora, dimenticando la sua paura, spinta dalla fame, dall’istinto, superò la frontiera, e oltrepassato il larghetto di Rua Catalana, sali gli scalini di san Giuseppe. Fu stupefatta: vedeva quello che non aveva mai visto, la strada larga, i magazzini puliti, i palazzi bianchi, i giardini, il cielo. Dimenticava la sua fame davanti a così mirabile spettacolo: non vi pensò più dinnanzi a un negozio di giocattoli. Lassù tutto era bello: ed ella seguì la folla che si avviava per Fontana Medina, fermandosi ogni momento, eccitata, curiosa, scordandosi di chiedere l’elemosina. Solo le carrozze la spaventavano col continuo loro incrociarsi; ma seguiva il marciapiede. A piazza Municipio, vinta di nuovo dalla stanchezza, sedette sopra un banco, presso il giardino; ma dopo un poco saltò giù e corse anche lei verso san Carlo: là si perdette, piccina come era, nella folla che la trascinò verso san Ferdinando. Non vedeva niente, annullata fra la gente; aveva caldo, stava bene. Ogni tanto vedeva passare nell’aria un mazzetto di fiori, poi un altro, poi una pioggia di fiori: ogni tanto la folla si gettava da parte, per lasciar passare un equipaggio, dentro una signora bellissima, seduta in mezzo alle stoffe e ai fiori: visioni rapide, fuggevoli, fulgide, che quasi sgomentavano la bambina. Passò il tempo, così. Imbruniva: i fiori cadevano più lenti, il clamore era più basso, la folla si diradava.

Accanto alla bimba passò una leggiadra apparizione di donna, dall’abito nero, succinto e ricco, dal volto bianco e sorridente, dagli enormi brillanti alle orecchie delicate: portava in mano un cestino di fiori, a mazzetti e disciolti. Era una fioraia meravigliosa, che accumulava denari nel fondo del cestino.

— Signora, signora — mormorò una voce infantile — dammi un fiore.

E la fioraia, con un moto gentile e svelto, lasciò cadere nelle mani della bimba un manipoletto di garofani. La bimba sorrise, ficcò un garofano in un bucherello della sua camicia e volle anch’essa vendere i fiori, poiché ne aveva tanti. Ma da lei la gente non ne comprava. Uno studente le disse: quando sarai più grande, potrai vender fiori. Un grasso signore si pose a declamare contro l’accattonaggio e contro l’inerzia della questura. La bimba non comprese il senso, ma intese che la maltrattavano. Neppure lassù erano buoni con lei. Ella era lacera, scalza, brutta: i suoi grandi occhi spalancati mettevano paura, la sua testolina arruffata e selvaggia faceva paura. Ora la fame riappariva feroce, mettendole un fuoco nel petto, straziandola. Si trovava presso la Boulangerie française, donde usciva un odore di pane e di pasticcini che la faceva svenire. Offriva i suoi fiori macchinalmente, senza poter più parlare, con un singhiozzo lento che le sollevava il petto. Un soldato passò e comprò un garofano: dette un soldo. La bimba entrò nella panetteria e comprò un panino da un soldo. Le bastava. Voleva andar via. Ricominciava ad aver paura. Quelle carrozze la stordivano, lei che voleva passare dall’altra parte. Prese la rincorsa, abbassando il capo… Nella carrozza una signora gettò un grido e svenne.

Ma sulla via, presso il marciapiede, agonizzava una innocente creatura, con la gambina sfracellata. Agonizzava, giacente fra i garofani che le si erano sparsi d’attorno, stringendone uno sul petto, tenendo il panino nell’altra mano, con la faccia bianca e seria, la bocca socchiusa, coi grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo.

IMMAGINE DI APERTURA: Disegno di Jo-B da Pixabay