29- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Storia segreta

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Storia segreta

Per questa strada passava mio padre. Passava di notte perch’era lunga e voleva arrivare di buon’ora. Faceva a piedi la collina, poi tutta la valle e poi le altre colline, finché sbucavano insieme il sole in faccia e lui sull’ultima cresta. La strada saliva alle nuvole, che si rompevano nel sole sopra il fumo della pianura. Io le ho viste queste nuvole: luccicavano ancora come oro; mio padre disse, ai suoi tempi, che quand’erano basse e infuocate gli promettevano una buona giornata. Allora sui mercati correvano pezze d’oro.

Ancor oggi i passanti vanno verso la pianura piegati innanzi col mantello sulla bocca. Non si guardano intorno, neanche se il tempo è sereno. Le ombre cadono dietro, sulla strada, e li seguono adagio. La collina li segue, col suo orizzonte uguale. Io conosco quest’orizzonte, ciascuno degli alberi piccoli che incorona le creste. So che cosa si vede da sotto quegli alberi.

Mio padre a prima luce non scendeva in pianura. Girava per coste e cascine a cominciare il mercato. Parlava nei cortili con gente assonnata. Facevano colazione. Bevevano un bicchiere taciturni sulla porta. Mio padre conosceva tutti quanti e sapeva le stalle di tutta la strada; sapeva le disgrazie, i bisogni, le donne. Parlava poco. Quando incontrava nei cortili altri sensali, stava zitto e lasciava che dicessero.

Anni e anni fa – era vedovo, e noialtri, bambini – qualcuno gli aveva detto di smetterla e attaccare il biroccino. Ma era inverno e lui diceva che il cavallo avrebbe patito su per quelle stradette. Col mantello sugli occhi e il berretto di pelo, partiva nella nebbia e saliva alla Bicocca due vallate lontano. Ci stava la Sandiana, ch’era la figlia di un suo amico, giovane e disperata da quando si vedeva sola in quelle vigne. Mio padre aveva in mente di portarsela in casa e farsi fare ancora un figlio. Ma lei passava le giornate addosso al fuoco, in una stanza come un pollaio, e non faceva che ripetere ch’era sola e che aveva paura. Poi si seppe che un sensale di fuori le aveva parlato di vendere e andarsene a vivere tranquilla in città. Mio padre sospettava qualcosa e pestò molta neve per venirne in chiaro, finché un giorno alla Bicocca trovò quell’altro che si scaldava i piedi al fuoco. Ma ancora non capiva chi poteva comprare la terra: sapeva l’idea di tutti là intorno. La donna diceva di no; mio padre tornò verso sera e trovò i figli del sensale che caricavano la roba. Allora capí di esser vecchio. La Sandiana andò a stare vicino al mercato.

Non parlava di queste cose con noi. Si sapevano dalla gente e dai sospiri che cacciava in quegli anni. Adesso, le volte che scendeva in città, passava a farsi il sangue cattivo là sotto. Era in un cortiletto basso, coperto di vite vergine, dove il rumore del mercato arrivava appena. Il sensale, venduta la terra, era tornato ai suoi paesi. La Sandiana aspettava, seduta alla stufa come una gatta. Per un pezzo mio padre le mandò un piatto caldo. Quell’inverno lo passò all’osteria. Veniva a sedersi, guardava il va e vieni, il fumo, i sensali, e pareva che ascoltasse i discorsi. Lasciava che gli affari li facessero gli altri. Pensava ancora a quella vigna.

La Sandiana per tutto l’inverno non uscí dal cortile. Senza terra, sapeva di non valere più niente; e, sul patto, era incinta. Si sfogava con la donna che le portava da mangiare, e diceva che i vecchi sono peggio dei giovani. Mandò a dire a mio padre che si voleva ammazzare. Mio padre lasciò che passasse l’inverno; poi riprese a battere le colline. A marzo gli dissero che s’era sgravata.

Allora venne a cercarla, e le propose di portarsela in casa. Dicono che la Sandiana, dimagrita, piangesse; ma so che mio padre dovette tagliar corto e dirle che veniva da noi per far la donna dove non ce n’erano, e non la padrona. Ma neanche la serva. Non eravamo signori.

Così diede una stanza alla Sandiana e al bambino, e lui continuò a dormir solo. L’idea di fare quel figlio era sfumata con la vigna. Neanche nell’estate, che la Sandiana rifiorí come una sposa e allattava, mio padre cambiò. Partiva col buio, e la Sandiana si levava a preparargli la roba. Tra loro parlavano appena. Noialtri ragazzi, messi su dalla serva, tendevamo l’orecchio per sentire qualcosa. La Sandiana piaceva anche a noi. Ci accudiva e aiutava.

Verso sera, d’estate, andavamo con lei per le campagne. Sapevamo la strada per dove tornava mio padre, e bastava che la tenessimo d’occhio dall’alto. Noi portavamo la Sandiana a vedere i nostri posti, e lei sapeva dirci il nome dei campanili e dei paesi più lontani. Ci descriveva quel che lassú da quei boschi si vedeva in pianura, e quel che faceva la gente nelle casupole isolate. Ci parlava di suo padre e di quando alla Bicocca erano in tanti, fratelli e sorelle, e la sera giravano con le lanterne a chiudere stalle e cantine. Raccontava di quando d’inverno i suoi nonni sentivano il lupo raspare alla porta e continuavano a vegliare e intrecciare cavagni. Prendevamo i sentieri attraverso le vigne, e chi primo arrivava, gridava e agitava le braccia sul cielo. Correva anche lei.

Quell’anno ero cresciuto, e nell’inverno avrei dovuto andare a scuola in città. La Sandiana mi diceva che ci sarei stato bene e avrei scordato il paese. Mi sarei vergognato di casa e di noialtri. Io capivo che aveva ragione, eppure, anche adesso che l’estate finiva, guardavo le strade, le nuvole, le uve, per stamparmi ogni cosa dentro e vantarmene poi. Avrei voluto anch’io esser nato alla Bicocca coi suoi vecchi e aver conosciuto i fratelli e provato quelle notti che venivano i lupi. Di questo avrei voluto vantarmi, e ascoltando la Sandiana sapevo che me ne sarei vantato. Così era fin da allora: godevo non le cose che facevo ma quelle che sentivo dagli altri. Non sembravo mio padre.

La casa della Sandiana era in mano a due vecchi, mezzadri di un signore che l’aveva ricomprata e che nessuno conosceva. Andavamo sovente su quella collina e di là si vedevano i pini, neri dietro la casa, alti in mezzo alle vigne come campanili, pieni d’uccelli che volavano. La Sandiana ci portò una volta fin nel cortile; c’era un cane che la riconobbe e le corse addosso saltando. Allora uscí la vecchia, e si parlarono e girarono insieme nella casa e sull’aia. Noi aspettammo nel cortile, sotto il pagliaio, e tiravamo dei sassi nel pino più grosso. Io guardavo il sentiero che dai beni portava al pozzo. Non ero mai stato in un cortile più vuoto, sembrava abbandonato: anche il cane che mugolava di sopra con le donne non l’avevo mai visto: non la voce di un cane ma più fiera. Pensavo a quei tempi che i fratelli della Sandiana giravano i boschi. Il bosco era nero, profondo, sull’altra sponda della collina. Quando tornò con la Sandiana e si lamentavano insieme, la vecchia ci disse che voleva darci qualcosa – una cotogna – ma non ne trovò. La Sandiana rideva, contenta.

Il cane voleva venire con noi; lo legarono al filo. Per tornare passammo da un altro sentiero, e per tutta la strada la Sandiana non parlò: disse soltanto di non dire a mio padre ch’eravamo saliti lassú, perché era troppo lontano. Ma quella sera mi chiese se sapevo che mio padre ci fosse venuto quell’estate. Le risposi che avrebbe dovuto domandarlo alla vecchia, e lei allora stette zitta.

Un mattino trovammo mio padre in cucina. Non era domenica, ma tutto aveva l’aria insolita. Tornò la Sandiana dal cortile con una faccia agitata e i capelli negli occhi. Il bambino piangeva e mandarono la serva a calmarlo. Mio padre comandava e scherzava. Non era ancora il giorno ch’io dovessi partire, e non capivo il perché dell’agitazione, ma poi lo seppi da una parola della serva. La Bicocca era nostra; mio padre l’aveva comprata.

Partirono sul biroccino lui e la Sandiana. La serva quel giorno fu cattiva e ci disse, come fossimo uomini, che ormai la padrona era l’altra e la Bicocca era sua e di suo figlio. Aspettammo tutto il giorno che tornassero. Io speravo che almeno girare nel bosco la Sandiana mi avrebbe lasciato, e per meritarmelo accudii il bambino che – la serva diceva – era ormai mio fratello. Pensavo più di tutto a quei fratelli morti, e godevo a sapere che sarebbero stati anche i miei. Quella sera la serva disse a mio padre che bisognava far festa e andò a prendere il vino.

Tanti anni eran passati e dovevano ancora passare, nell’inverno andai in città e cambiai vita; ci tornai l’anno dopo, divenni un altro; venivo in paese per le vacanze e Così mi sembrò di esser stato ragazzo soltanto d’estate. La Sandiana era sempre la stessa; il bambino era morto; Così il tempo in casa nostra non passò quasi più. Tutti gli anni l’estate fu come quando non andavo ancor via, un’unica estate che durò sempre.

Tutti gli anni io guardavo le nuvole, le uve e le piante per vantarmene in città, ma, non so come, pensavo a tutt’altro laggiú e non ne parlavo. Doveva aver ragione la Sandiana che mi chiedeva sempre se i compagni mi avevano canzonato e se sarei tornato ancora nella vigna. Ma nella vigna io ci tornavo felice e le chiedevo se veniva anche lei. Il giorno stesso che rientravo a casa facevo il giro delle strade e dei sentieri, e quei mattini mi svegliavo contento se era sole e più contento se pioveva, perché non c’è che l’acqua fresca per metter voglia di girare la campagna. La Sandiana rideva se tornavo bagnato e infangato e mi diceva che sarebbe venuta anche lei – una volta.

Non venne, ma una sera ci prese il temporale sulla strada, e noialtri ragazzi avevamo paura del tuono, la Sandiana del lampo. A me il lampo piaceva, quella luce violetta improvvisa che inondava come un’acqua, ma la Sandiana raccontò ch’era di zolfo e che uccideva con la scossa. — Se non è niente, – le dicevo, – si vede una luce che passa. — Tu non sai, – mi rispose, – dove tocca ammazza. Mamma mia —. Io allora fiutavo nell’aria bagnata e sentii finalmente l’odore del lampo: un odore nuovo, come d’un fiore mai veduto, schiacciato tra le nuvole e l’acqua. — Senti? — le dissi; ma la Sandiana si premeva con la mano sulle orecchie, sotto il portico dov’eravamo rifugiati. Il profumo ci durò fino a casa: era fresco, pungeva dentro il naso come quando si tuffa la faccia nel catino. La Sandiana diceva che quello era vento passato sui boschi, ma non l’avevo mai sentito prima: era davvero l’odore del lampo. — Chi sa dove è caduto, — disse.

Ma non volle venire a cercarlo. Doveva esser caduto nei boschi, sapeva troppo di selvatico. Ora capivo perché tante cose strane si raccontano dei boschi, perché ci sono tante piante, tanti fiori mai veduti, e rumori di bestie che si nascondono nei rovi. Forse il lampo diventa una pietra, una lucertola, uno strato di fiorellini, e bisogna sentirlo all’odore. Di terra bruciata ce n’era sí, ma la terra bruciata non sa quel profumo d’acqua. La Sandiana mi rispondeva e diceva di no. Nel bosco della Bicocca c’era uno spacco dentro il tufo. La Sandiana diceva ch’era stato un terremoto prima ancora che noialtri nascessimo. Nessuno se non qualche biscia poteva passarci. Ma io avevo visto una volta lassú un bel fiore lilla e chi sa che il suo odore non fosse lo stesso del lampo. Capivo che il tuono facesse gli spacchi ma il temporale cadeva dal cielo e qualcosa di bello doveva portare. — Macché, – disse la Sandiana, – tutto quello che nasce, è fatto di terra; acqua e radici sono in terra; dentro il grano che mangi e il vino d’uva c’è tutto il buono della terra —. Io non avevo mai pensato che la terra servisse a fare il grano e a mantenerci, tanto più adesso che studiavo. Se anche avevamo la Bicocca, non eravamo contadini. Ma quando mangiavo le frutta, capivo.

Le frutta, secondo il terreno, hanno molti sapori. Si riconoscono come fossero gente. Ce n’è delle magre, delle sane, delle cattive, delle aspre. Qualcuna è come le ragazze. Ci sono fichi e uva luglienga alla Bicocca che sanno ancora di Sandiana. Io ne ho mangiate di ogni sorta, e specialmente la selvatica, le prugnole e le nespole acerbe.

Specialmente le prugnole mi facevano gola. Ancora adesso lascio tutto per le prugnole. Le sento a distanza: fanno siepi spinose, verdissime lungo le forre, in mezzo ai rovi. Alla fine d’agosto i rami ingrossano di chicchi azzurri, più scuri del cielo, agglomerati e sodi. Hanno un sapore brusco e asperrimo che non piace a nessuno eppure non mancano di una punta di dolce. Con novembre son tutte cadute.

Che le prugnole sappiano di succhi selvatici, si capisce anche dai luoghi dove crescono. Io le trovavo sempre all’orlo delle vigne, dove il coltivo finisce e più nulla matura se non l’arido del terreno scoperto. Allora non pensavo a queste cose; avrei solamente voluto che mio padre, la Sandiana e tutti quanti mangiassero prugnole. Degli altri non so; la Sandiana diceva che le mordevano la lingua. — Per questo mi piacciono, – dicevo io, – loro sí che si sente che crescono nella campagna. Nessuno le tocca eppure vengono. Se la campagna fosse sola farebbe ancora delle prugnole.

La Sandiana rideva e diceva: — Sapessi… — Sapessi cosa? Fin che un giorno mi disse che di là dai suoi boschi dopo un’altra vallata, alla Madonna della Rovere la costa era tutta una prugnola. — Ci andiamo? – Era troppo lontano. – Ma nessuno le coglie? — chiedevo.

A questo ci pensavo sempre. Non soltanto non bastavo a scoprire tutte quelle delle nostre strade, ma tante colline c’erano al mondo, tanta campagna sterminata, e dappertutto prugnole, su per le rive, nei fossi, in luoghi impervi, dove nessuno anche volendo arriva mai. Me le vedevo con le foglie ricciute, coi rametti pesanti di frutto, immobili, in attesa di una mano che non sarebbe mai venuta. Oggi ancora mi pare un assurdo tanto spreco di sapori e di succhi che nessuno gusterà. Raccolgono il grano, raccolgono l’uva, e non ce n’è mai abbastanza. Ma la ricchezza della terra si rivela in queste cose selvagge. Nemmeno gli uccelli, selvaggi anche loro, non potevano goderne, perché le spine dei rametti li ferivano negli occhi.

Allora pensavo alle cose, alle bestie, ai sapori, alle nuvole che la Sandiana aveva conosciuto quando stava nei boschi, e capivo che tutto perduto non era, che ci son delle cose che basta che esistano e si gode a saperlo. Anche le prugnole, diceva la Sandiana, non se ne mangia più di due tre alla volta. Ma è un piacere sapere che ce n’è dappertutto.

Già a quel tempo bastava che dicesse un paese, e mi pareva di vederlo. I suoi paesi erano fatti di cascine, di canneti e di raccolti, come i miei. Mi pareva di esserci stato o di poterci andar domani. Qualcuno ne spuntava dietro ai boschi. Eppure se salivo in biroccino con mio padre partivo come alla scoperta. C’era di mezzo quel selvatico che lei non sapeva ma io mettevo dappertutto.

Una strada e un canneto sono cose comuni, per lo meno da noi, ma avvistati Così in lontananza sotto una cresta e sapendo che dietro ci sono altre creste altri canneti e per quanto si passi tra loro ne restano sempre dove noi non andremo e qualcuno c’è stato e noi no – ecco questo pensavo ascoltando la Sandiana. Invidiavo mio padre ch’era stato in tanti luoghi e aveva fatto quelle strade e quelle creste giorno e notte. Che fosse fatica lo seppi più tardi. Ora mi accontentavo di guardarlo la sera quando saliva taciturno i tre scalini o aspettava noialtri. In quel momento non pareva più mio padre. Gli si capiva in faccia che veniva da lontano e ch’era stanco – aveva negli occhi anche lui quel selvatico. Era tanto stanco che, se la Sandiana lo chiamava, veniva senza risponderle. Dei paesi tra loro non parlavano mai.

Qualche volta ci portava in biroccino per un tratto, ma poco, perché il cavallo faticava già troppo con lui. Andammo sempre più lontano a piedi. Solamente al principio e alla fine dell’estate facevo con lui lo stradone della città e lui guidava, io pensavo a quei giorni che laggiú c’era stata la Sandiana, e mi pareva tanto tempo perché allora la città non l’avevo mai veduta. Gli chiedevo s’era vero che da giovane ci scappava di nascosto, e lui brusco, scherzando, diceva che ci andavano i vecchi soltanto, a vedere la festa, e tornavano a piedi la notte mentre loro ragazzi contavano le botte e guardavano i riflessi in lontananza. — Adesso hanno troppi palazzi, – diceva, – e si vergognano di noi delle campagne. Si divertono al chiuso. Non vale più la pena di venirci —. Nel fresco dell’alba stavo attento per accorgermi dove finiva lo stradone e cominciavano i palazzi e c’era sempre come un fumo dorato e nebbioso che sembrava un’altr’aria e uno c’entrava a poco a poco e, una volta arrivato, pareva impossibile che ci fossero ancora dei paesi e delle colline. Lontano, chi sa dove, c’era il mare. Lo dicevo a mio padre, e lui rideva, brusco.

Adesso che il tempo è passato e quelle estati le ricordo, so che cosa volevo dalla Madonna della Rovere. Una siepe di prugnole mi chiudeva l’orizzonte, e l’orizzonte sono nuvole, cose lontane, strade, che basta sapere che esistono. La Madonna della Rovere è sempre esistita, e dappertutto, sulle coste, sulle creste dei paesi, ci sono chiese e masse d’alberi impiccolite nella distanza. Dentro, la luce è colorata, il cielo tace; e donne come la Sandiana ci stanno in ginocchio e si segnano, qualcuna c’è sempre. Se una vetrata della volta è schiusa, si sente un soffio di cielo più caldo, qualcosa di vivo, che sono le piante, i sapori, le nuvole.

Queste chiese di cresta sono tutte Così. Ce n’è sempre qualcuna più lontana, mai vista. Nel porticato di ciascuna è tutto il cielo e vi si sentono le prugnole e i canneti che il cammino non basta a raggiungere. Tanto vale fermarsi a due passi e sapere che tutta la terra è un gran bosco che non potremo mai far nostro davvero come un frutto. Anzi, le cose che ci crescono a due passi hanno il loro sapore da quelle selvatiche, e se il campo e la vigna ci nutrono è perché affiora alle radici una forza nascosta. Mio padre direbbe che al mondo tutto viene dal basso. Io non so né sapevo di questo, ma la Madonna della Rovere era come il santuario delle cose nascoste e lontane che devono esistere.

Quando anni fa morí mio padre, trovai nel mio dolore un senso di calma che non mi aspettavo eppure avevo sempre saputo. Andai in chiesa e al cimitero; rividi le donne col velo sul capo e i quadretti della Via crucis, sentii l’odore dell’incenso e di terra scavata. Più abbattuta di me, la Sandiana pregò sulla tomba; poi ritornammo a casa insieme e lei ci preparò la cena. Da molto tempo non tornavo, e il cortile mi parve più piccolo. Parlammo di mio padre e della Bicocca, della vendemmia e della morte, poi a notte avanzata rimasi solo alla finestra.

In quei giorni ripensai molte cose che avevo dimenticato. Pensai che mio padre ora esisteva come qualcosa di selvatico e non aveva più bisogno di girare giorno e notte per dirmelo. La chiesa, com’è giusto, l’aveva inghiottito, ma la chiesa anche lei non va di là dall’orizzonte e mio padre sotterra non era cambiato. Da corpo di sangue era fatto radice, una radice delle mille che tagliata la pianta perdurano in terra. Queste radici esistono, la campagna ne è piena. I finestroni colorati della chiesa non cambiano niente, e anzi fanno pensare che nulla muta neanche fuori sotto il cielo, e che quanto è lontano o sepolto continua a vivere tranquillo in quella luce. Ora in tutte le cose sentivo mio padre; la sua assenza pungente e monotona condiva ogni vista e ogni voce della campagna. Non riuscivo a richiuderlo dentro la bara nella tomba stretta: come in tutti i paesi di queste colline ci son chiese e cappelle, Così lui mi accompagnava dappertutto, mi precedeva sulle creste, mi voleva ragazzo. Nei luoghi più suoi mi fermavo per lui; lo sentivo ragazzo. Guardavo dalla parte dell’alba la strada e la città nascosta in fondo dove – quanto tempo fa? – lui era entrato un mattino, col suo passo campagnolo e raccolto.

Parlavamo di lui. La Sandiana bambina l’aveva veduto ballare e sapeva la voce che aveva a quei tempi. Diceva che invece di aiutare in campagna, lui già allora era sempre per strade e comprava i cavalli. Comprava e vendeva, ma più che il commercio gli piaceva girare. Lui sí che i paesi li aveva veduti. Nostra madre l’aveva trovata in città e sposata senza dirlo a nessuno, poi tornato in paese e rifatta la pace aveva dato un grosso pranzo di nozze. La prima delle mie sorelle era nata due giorni dopo quel pranzo.

Allora mio padre era allegro e manesco. La Sandiana diceva che a quarant’anni si mise coi suoi fratelli e andava in giro con loro scherzando come un giovanotto. Si vedevano sempre alla Bicocca ma lei non pensava che l’avrebbe sposato. Ci veniva mia madre a cercarlo quando stavano fuori la notte. Mia madre era giovane, sempre spaventata, e sembrava una figliola accanto a lui. Chi avrebbe pensato che doveva morire la prima. La Sandiana scordava mio padre e parlava di donne, di loro.

Io tacevo e rivedevo la città nella nebbia. Non era questo che cercavo di lui. Le donne l’avevano fatto mio padre, ma c’era qualcosa di più antico di questo, di più segreto e sepolto per sempre. Voglio dire, un ragazzo. Come me anche mio padre era entrato in città, non per chiudersi in scuola ma per fare fortuna. C’era entrato selvatico e non era cambiato. Mi chiedevo che cosa l’aveva cacciato laggiú, quale rabbia, quale istinto, lui che pure era nato in un campo. La città sonnolenta gli era parsa superba alla fine, e non ci s’era mai fermato, ma le sue donne le aveva trovate laggiú, anche l’ultima, anche quella che veniva dalla Bicocca. Forse sapeva tutto questo da principio. Forse anche lui cercava in città l’ignoto, il selvatico.

Qui mi voltavo alla Sandiana e le chiedevo se mio padre non aveva mai pensato di fermarsi in città. Lei sembrava non capire e mi diceva che in quel caso non avrebbe comperato la Bicocca. Invece capiva benissimo: la risposta era quella. A mio padre piaceva venire in città da una terra: il suo lavoro si faceva sopra un’aia, e d’aia in aia la città glielo pagava. Palazzi e mercato per lui volevano ancor dire pezze d’oro, carrate di sacchi e di botti, campagna. Nella città non conosceva veramente se non quelli che venivano dai campi come lui. Con gli altri scherzava. Così era stato da ragazzo e Così era morto.

Adesso era inutile salir quelle creste per essere solo con lui. Mi bastava incontrare un canneto, un fico storto contro il cielo, una terra vangata, per commuovermi e contentarmi. Quel che c’era lontano, di là dalle creste, la città, la pianura fumosa, se ne stava sepolto, nulla più che una chiesa coperta dagli alberi sull’orizzonte.

Invece i gerani che la Sandiana teneva sulla finestra, mi parevano davvero città. Avevano un colore vivacissimo come soltanto i rosolacci, ma dalla forma complicata e dalle foglie si capiva che non crescono in terra. S’avvicinava l’ora che ne avrei veduti molti in pianura, sui terrazzi delle ville. Quando vedevo la Sandiana alla finestra per bagnarli, mi pareva che anche lei fosse qualcosa di mai visto, di scarlatto come loro.

La Sandiana era come una forestiera; quel che faceva lei sembrava sempre nuovo, tanto più adesso che non c’ero che d’estate. Quando andavamo alla Bicocca la seguivo dappertutto, nelle stanze rossastre, sui solai, davanti alle finestre. C’erano contro i muri cassapanche massicce, sempre chiuse, e i pavimenti di mattoni eran coperti di grano, di patate, di meliga. Per traversarli bisognava scalzarsi. La Sandiana girava, toccava e vedeva. — Chi sa che freddo fa d’inverno in queste stanze — dissi una volta. — Non fa freddo dappertutto? — mi disse lei, brusca. Sembrava che fosse la casa di un altro e che lei ci tornasse per impararla sempre meglio. Era felice, si capiva.

— Vedi, tuo padre, – diceva, – ha comperato tutto questo per voialtri.

Non appena arrivava, tirava su l’acqua dal pozzo e la portava in cucina. Se i contadini erano fuori a far fieno o qualcosa, si legava un fazzoletto sul capo e ci andava anche lei. Io salivo i sentieri di punta a cercare le prugnole in fondo alle vigne, e di là vedevo che si muoveva in mezzo al campo. Già allora mi piaceva appiattarmi in quella solitudine, nell’incolto sotto gli ultimi filari, a due passi dal bosco. Poi mi prendeva la paura e ritornavo a rompicollo dal sentiero. Vedendomi correre ridevano tutti.

— Se scappi, – dicevano, – la paura ti acchiappa.

Era qualcosa, la paura, che per tutti esisteva. La Sandiana mi disse che dovevo resistere. — Se stai fermo al tuo posto, la paura si spaventa. Ma se scappi ti vien dietro come il vento di notte —. Le risposi che avevo paura anche al chiaro. — Quand’è chiaro la devi guardare negli occhi. Lei scappa a nascondersi —. Ma l’idea di guardar la paura mi spaventava ancor di più. — Tu l’hai vista? – le chiesi. – Com’è?

— Se l’hai vista anche tu.

— Io no.

La Sandiana rideva. — Stacci attento alla prima occasione. Vedrai com’è fatta.

Questi discorsi mi mettevano in orgasmo. — Non è soltanto la paura, – dicevo. – Quando sto solo nella vigna o sotto il portico, aspetto qualcosa. Mi par sempre che deva succedere. Delle volte ci vado apposta. Se non fosse che scappo vedrei che cos’è.

— E tu fermati, — diceva la Sandiana.

— È una cosa come quando per stirare metti il ferro alla finestra. Sopra la brace si vede il cielo tremare. Hai già visto?

— Sí.

— Tu in campagna non vedi mai niente?

— Ne vedo sí.

— No, tu ridi. A me sembra che dalla terra esca un calore continuo che tien verdi le piante e le fa crescere, e certi giorni mi fa senso camminarci perché dico che magari metto il piede sul vivo e sottoterra se ne accorge. Quando il sole è più forte si sente il rumore della terra che cresce.

A nessun altro confidavo queste cose. Ma la Sandiana diceva che avevo ragione; raccontava che una volta aveva un fiore che si apriva ogni mattina sotto il sole e si muoveva.

— Ce ne sono nei boschi?

— Chi lo sa, – disse la Sandiana. – Nei boschi c’è di tutto.

Nei boschi andavamo qualche volta per funghi, ma bisognava che avesse piovuto, e la Sandiana ne trovava più lei sola che tutti noialtri. Lei sapeva il terreno e ficcava la mano sotto le foglie marce: non si sbagliava mai. Delle volte io passavo, guardavo, non ce n’era nessuno. Veniva lei, sembrava che le fossero cresciuti sotto i piedi. Mi diceva ridendo che i funghi crescono di colpo, dalla sera al mattino, da un’ora all’altra, e che conoscono la mano. Sono come le talpe, si muovono; li fa l’acqua e il calore. Peccato che la strada era lunga, sapevo venirci soltanto con lei. Partivamo da casa al mattino e arrivavamo sulle creste sudati. Passavamo una valle e una costa, perdevamo i sentieri. Quelle notti, nel letto, tutta quanta la collina mi pareva un vivaio caloroso di pioggia e di funghi, che solamente la Sandiana conosceva a palmo a palmo.

— Mio nonno diceva, – mi disse una volta, – che ogni fatica che si fa in campagna, ritorna in forza dentro il sangue nella notte. C’è qualcosa nel terreno, che si respira sudando. E diceva che è meno fatica camminare sui beni che non sulla strada. Era già vecchio e non voleva mai saperne.

— Perché sulla strada?

Chiedevo ma avevo capito. La Sandiana mi guardò se dovesse scherzare.

— Perché. Sulla strada non zappi.

— Ma è terreno anche quello.

— Vallo a chiedere a lui.

Alla Bicocca nella balza di tufo, proprio dietro la casa, c’era uno scavo profondo che faceva cantina, e là dentro tenevano attrezzi, carrette, robe. Mi misi in testa che l’avesse scavato quel nonno. Col tempo la muraglia di roccia s’era fatta grigia, ma nel fondo dov’era più scuro, sudava ancora umidità e c’era un pozzetto. Qui ci cresceva il capelvenere. Ragazze in paese dissero che il capelvenere è una bella pianta, e la Sandiana andò una volta per sbarbarne e farne un vaso. Io le tenevo la candela.

— Qui siamo sotto la collina, — dissi.

— È più fresco che sopra.

Fin che restammo sottoterra io pensavo a suo nonno e dicevo che l’acqua è il sudore delle radici. Lo dicevo tra me perché avevo paura che la Sandiana mi burlasse. Ma non mi tenni che le chiesi se non vengono sotterra anche i gerani. — Sei matto, — gridò. Poi mi chiese perché.

— Si somigliano.

— Come?

— In campagna non vengono.

La Sandiana mi chiese: — Non siamo in campagna?

Allora capii ch’era inutile dirlo e m’accorsi ch’era vero, la campagna non è solamente la terra ma tutto quello che c’è dentro. Mi venne voglia di restarmene là sotto, e che fuori piovesse, crescessero gli alberi, passasse la sera e il mattino. «Qui di notte è già buio, – pensai, – dentro la terra è sempre notte».

Ci tornai qualche volta da solo, ma come dappertutto dov’era silenzio, tendevo l’orecchio perplesso. Dalla soglia spiavo nel buio. Credevo di udire il gorgoglío dell’acqua che sudava dal tufo, inzuppava la volta, scorreva tutta la collina. Pensavo a quel vecchione che camminava solamente sui sentieri. Lui sí che doveva sapere che cosa è campagna. Ma adesso era morto e sepolto, e con un passo ero in cortile sotto il cielo.

Quel che dicevo alla Sandiana accadeva nell’ora che tutti dormono, tra pranzo e merenda, quando il sole brucia e ancora adesso esco a girare. Esco in mezzo alle case, nel riverbero bianco, e penso a quello che pensavo allora. Credo che mi annoiavo e anelavo il momento che la giornata riprendesse, ma è nella noia che toccavo il fondo della giornata e dell’estate. Nulla accadeva, nemmeno una voce, nei cortili e sulle coste, e questo vuoto m’incantava come se il tempo si fermasse nell’aria. Venivo al punto che ogni cosa era possibile e vigeva; solamente, non capivo perché in tanto fervore ogni cosa tacesse. Allora guardavo le formiche in terra, o le piante lontano, minuscole anch’esse sulla grande costa; e le formiche irrequiete e le piante sembravano smarrite anche loro nel tempo. La collina è tutta fatta di cose distanti, e a volte rientrando salivo a osservarla nella finestra dei gerani. Tra i gerani e le creste calcinate nel sole c’era comune la distanza, la ricchezza nascosta. Io guardavo dai fiori alle creste ma senza sapere perché lo facessi; né l’avrei detto alla Sandiana che mi voleva canzonare. Mi serviva piuttosto anche lei da finestra, e molte volte la guardavo come guardavo quei gerani, fioriti in città. Anche lei c’era stata a suo tempo.

La città aveva viuzze raccolte, dove s’aprivano portoni sui giardini improvvisi. Li intravedevo andando a scuola e pensavo che fossero una nuova campagna più segreta e più bella. Sapevo certo che mio padre non li aveva mai guardati e non osavo domandargliene. Ma la Sandiana ch’era stata in quelle viuzze, doveva averli conosciuti; e cercai di riconoscere la sua vite vergine, che d’inverno era rossa più del fuoco. Né mio padre né lei me ne avevano mai detto nulla; da chi l’avessi sentito non so. Ma nei cortili non mettevo piede, m’accontentavo di passare; quando c’era una vite mi chiedevo perché la Sandiana non fosse rimasta, e immaginavo di venirci adesso, di salire le grandi scale solenni, di stare con lei nel palazzo. Qualche volta d’inverno venivano insieme a vedermi la domenica, e avevo il permesso di uscire con loro, con lei; ma dei tempi ch’era stata in città non le sapevo mai parlare. Mi portavano fino al mercato dove mio padre comandava merenda; poi lui si fermava con l’oste discorrendo, noialtri uscivamo a vedere la gente a passeggio. Prendevamo dai portici fino al Castello; c’erano donne ben vestite, signori, soldati, e ragazzi come me ma più ricchi, e tutti andavano adagio, si fermavano un poco, tornavano, facendosi segno e vociando. M’incantavano nel freddo le porte dei caffè piene di fumo e dorate, ma la Sandiana mi tirava per la mano, se mi staccavo s’inquietava, e assisteva tra curiosa e impaziente fin che avessi veduto ogni cosa. Preferivo le volte che aveva da fare e tagliavamo nella folla, correvamo le viuzze deserte dei miei giardini. Faceva freddo, ma potevo sempre dirle quali fiori ci fossero nella bella stagione e le chiedevo chi ci stesse nei palazzi e se non c’era mai salita. Lei mi chiedeva di dov’erano i compagni, e invidiava i più ricchi, ma diceva che i ricchi non stanno mica nei palazzi, ci fa troppo caldo e l’aria è chiusa, vanno invece in campagna dove hanno le ville, nelle montagne e al mare. Così parlavamo del mare; conoscevo diversi che d’estate ci andavano, lei stava a sentire e mi chiedeva se da uomo ci avrei condotti i miei bambini. Ma io non pensavo a bambini, pensavo a me stesso su coste lontane e a lunghi viaggi; passavamo davanti ai portoni e Così i fiori più ricchi e nascosti si confondevano col mare nel mio cuore. Pensavo allora alla finestra dei gerani come a uno sfondo di luoghi marini. La sera rientravo dai compagni carico di frutta, e ne davo ai più degni e mangiavamo ripetendoci le storie più assurde.

Così la ricchezza, ch’era tutta la giornata di mio padre, per me si faceva fantasticheria e perdeva quell’astio con cui la sentivo agognata da tutti. Non capivo quell’astio. Non capivo, a dir vero, cosa fosse ricchezza. Mi pareva qualcosa di esotico che di là dall’orizzonte promettesse stupori, come una luna di settembre ancor nascosta dalle piante. Non capivo i rapporti del grano e dell’uva coi palazzi e la vita in città. La Sandiana che girava la Bicocca misurando i raccolti con occhio cattivo, mi scoraggiava: io cercavo le prugnole. Una volta senza dirmelo fece roncare una riva d’incolto per metterla a grano: arrivai ch’era tutto finito e i cespugli buttati: le diedi dei nomi, minacciai, tirai calci – lei rise. Non capiva le lacrime, e perciò non piansi. Tanto feci che divenne cattiva e lo disse a mio padre, che mi picchiò. Mi canzonarono poi tutta la sera perché non capivo le cose. Io piansi di nascosto, e per vendetta mi vietai per un pezzo di guardar la collina attraverso i gerani. Ma la guardavo dai canneti della strada, dove basta fermarsi e si è soli, e anche qui la lontananza, filtrata dal canneto, pareva nitida e più azzurra, tra fiorita e marina. A salire più in alto – ma ci andavo di rado e non solo – s’intravedeva la pianura; e minuscole chiazze sperdute nel vago, ch’eran case o paesi, parevano vele, arcipelaghi, spume. Eran queste le cose che portavo con me nell’inverno in città; e non le dicevo, le chiudevo orgoglioso nel cuore. Ascoltavo i compagni parlare e vantarsi; io stavo zitto, non perché non godessi a sentirli, ma piuttosto capivo che le cose proprio vere non si riesce a raccontarle. Non soltanto è necessario che chi ascolta le sappia, ma bisognava già saperle quando si sono conosciute, e insomma è impossibile saperle da un altro. Io stesso mi chiedevo quando avevo cominciato a sapere, ma era come se mi avessero chiesto quando avevo conosciuto mio padre. La Sandiana un bel giorno era venuta a star con noi, eppure nemmeno di lei ricordavo che prima non c’era. A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

28- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il colloquio del fiume

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Il colloquio del fiume

Dopo l’ultimo incontro sulla riva del fiume vagabondai nei prati come facevo da ragazzo. La giornata non voleva finire. Io sapevo che un giorno quelle ore le avrei ricordate come ricordo i pomeriggi abbandonati di tanti anni fa. Ero ridotto come un bambino, troppo ammaccato per sentir altro che il mio corpo, e le angosce mi camminavano davanti come guide. Le seguivo istupidito.

Fabbriche e cupole lontane non superavano le siepi. La campagna diceva il suo vuoto. Senza dubbio ero già entrato nello stato di coscienza in cui tutto può accadere perché più nulla importa. La cocente distrazione che mi aveva cacciato, si chiariva per ciò che era veramente – un distacco –, e mi trovavo staccato da me stesso al punto che guardandomi intorno ogni cosa era impensata. Saltai senza sforzo, senza volerlo, un corso d’acqua, e camminavo sull’orizzonte come nel sentiero. Ricordi remoti mi salivano agli occhi, quasi fossi felice. E intanto notavo ogni cosa; ripensavo le piante capovolte nel fiume e potevo esitare tra il mondo di sopra e quello di sotto, non sapendo quale fosse il più verde. «Si riflettono nel cielo dell’acqua», dicevo, e studiavo le nuvole bianche, quasi fossero anch’esse un riflesso.

Il fatto è che qualcuno mi chiamava. Non so perché recalcitrassi. Avrei voluto esser disperso nel mio dolore, e invece sapevo che mi ero distratto e qualcosa mi cresceva dentro che mi occupava tutto quanto. Se quand’ero ragazzo mi avessero detto che mi attendeva quel pomeriggio, avrei risposto che un ragazzo non ha nulla da spartire con i grandi e sarei scappato via. Ora il ragazzo mi chiamava, e non volevo riconoscerlo. Non pensavo che a questo. Fin che sul prato fu lui solo, resistetti. Ma poi comparve anche la scalza, pelle fosca e robusta, il vestito a fiorami. Riannusai, come fosse presente, l’odor dell’estate. Mentre tutto sgorgò, rimasi immobile non potendo far altro, e guardavo esitante le siepi e il sentiero. Rispondevo al ragazzo, a voce bassa, ansioso come un abbandonato. E mi diedi al ricordo.

La donna era scalza, come allora. Allora era salita sul treno sotto i fiorami sventolanti, spinta alla vita da quell’uomo, contadino scuro in faccia come lei, che l’aveva rincorsa ridendo. Avevano in mano una cestetta tutta fradicia, e ci avevano guardati dal bianco dell’occhio. Il treno tornava in città e molti ridevano, pensando sul marciapiede le piante sudice della donna. Ridevano in faccia a quei due, messi di buon umore dalla loro goffaggine. La scalza non guardò il ragazzo – era seduta abbandonata stringendosi all’uomo, e aveva ancora paglie nei capelli. Di dove venissero nessuno sapeva. Venivano da quelle colline, le avevano negli occhi e nel sudore. Soltanto il ragazzo non rise.

— Io di te non ho riso, – dissi alla scalza che mi venne incontro. – Quel ragazzo lo sa.

— Sí, – disse la voce. – Quand’eri ragazzo eri più buono con le donne.

Volsi l’occhio, come a dire che in presenza del ragazzo era meglio tacere.

— Non eri un ipocrita allora. Non avevi di questi riguardi.

— Sí che li avevo, – dissi convinto. – Uno è sempre lo stesso.

Il ragazzo lasciava che parlassimo noi. Anzi pareva che sbirciasse per il prato, pronto a prendere la fuga non appena guardassimo altrove.

— Ma allora era giusto. Allora non sapevi che cosa è una donna.

Mi guardò, con gaiezza, dal bianco dell’occhio.

— Adesso dovresti saperlo.

Allora le dissi: — Sempre Così giovane sei?

Le guardavo la gola e parlavo sommesso. Mi aspettavo un’ingiuria, una smorfia, uno scatto.

Invece fu un rauco sospiro, intonato alla veste e ai capelli arruffati. — Perché me lo chiedi? – disse, e indicò il ragazzo. – Lo sa lui, non ti basta?

La veste ebbe un sussulto sui polpacci.

— Sei sempre la stessa, – dissi animato. – Non dimentico più quella sera d’estate.

La scalza sorrise di nuovo.

— Ne parliamo sempre. Vuol sapere che cosa facevo, di dove venivo, se quel giorno avevamo pescato. Se non fosse per lui non sarei qui.

— Non ti chiede chi fosse quell’uomo?

— Che uomo?…

Mi guardava sorpresa, poi rise.

— Va’, – disse forte. – Lui non è come te. Mi vuol bene. Preferisce il mio vestito a fiori. Diversamente gli farei paura –. Il ragazzo si venne accostando e pareva guardarsi le scarpe. – Gli piace l’odore del sole di allora. Lo vedi?

Tendendo la mano lo prese alla nuca, con quel gesto come si fa ai gatti. Il ragazzo si scrollò e scostò il capo, ma non se ne andava e rimase a guardarci in silenzio. La scalza sorrise – dell’aspro sorriso che le suonava nella voce come ruggine di sole.

— Lo vedi? – mi disse. – Quel che pensa, lo mostra.

— Ti nascondo qualcosa? — chiesi.

Allora mi diede uno sguardo terribile – lo sguardo che avevo temuto da un pezzo – ma senza deporre il sorriso di prima, che parve fasciarlo. Compresi il pericolo che c’era in quegli occhi. Se mi voleva giudicare ero perduto. Col cuore in tumulto, risposi:

— Hai ragione. Sono pieno di cose vigliacche e cattive. Come te. Siamo tutti Così. Il tempo passa.

La scalza ascoltava. — Non sei più una bambina e capisci anche tu. Ma quest’oggi non ho fatto del male. E chi mi ha schiacciato non è come te.

Le ultime parole le dissi alla terra. Sentii l’erba frusciare e vidi appena il piede nudo, che già la mano mi palpava la nuca e io mi scostavo scontroso e felice. La voce mi disse: — Non parli con lui?

Capii ch’ero solo, e tornai vagabondo alla riva del fiume, sul greto tranquillo. Li trovai già seduti sui sassi. Mi sedetti tra loro e poggiavo il mento sul ginocchio.

Il ragazzo si alzò e tirò un sasso a fior d’acqua. — Era meglio se non vi parlavo, – cominciai. – Non è la prima volta che vengo sul fiume.

— Dillo a lui, — cantò la scalza.

— Lui lo vedi com’è. Non saprei cosa dirgli. Tutte le volte che lo guardo se ne scappa. A lui basta tirare le pietre e salire sugli alberi.

— E se fosse Così che ti parla?

Guardavo l’acqua e non capivo più me stesso. Quell’orrendo sciacquío che avevo in testa da tutto il pomeriggio, pareva adesso un’altra cosa, un sommesso parlare. E non pensavo più alla sera e all’indomani: lasciavo che il giorno morisse sull’acqua e il mio solo pensiero era che i due non se ne andassero.

— Altre volte, – dissi, – ho aspettato la sera Così. Chi sa dove.

— Nella vigna, — disse il ragazzo di scatto.

— Nella vigna, – dissi. – Sí. Ma cos’altro ricordo che una vigna e un sentiero di canne, e un glicine sempre uguale sul balcone? Adesso a volte mi vergogno. Si può pensare giorno e notte a queste cose? Eppure, scava scava, è tutto qui.

— Il sentiero va nei boschi, – disse il ragazzo acceso. – E le canne finiscono al pozzo. I boschi coprono mezza collina e si vedono dal terrazzo.

Allora sorrisi e dissi: — È vero.

— D’estate, – disse il ragazzo, – quando l’uva matura, nella vigna non si sente un filo muovere: se uno sta zitto è come urlasse tanto forte da non sentir più.

— E con questo? — disse la scalza.

Il ragazzo ci guardò — È il rumore del sole che cuoce la terra.

Io dissi: — È come il tempo, che sul terrazzo del glicine è fermo. Per tutta l’estate. Soltanto, verso sera c’è come uno scatto e poi viene il fresco, e di là dalle piante si sente parlare e discorrere.

Il ragazzo mi sgranò gli occhi addosso. Mi ascoltava attento. Io sapevo che cosa accadeva e avrei voluto dirgli tutto. Ripresi:

— Anche nei boschi il tempo è fermo. Ma a vederli dal pozzo sembra sempre che nel prato in mezzo ai roveri debba succedere qualcosa. Chi sa mai se di notte non esce qualcuno in quel prato. Tu lo sai?

Rispose in fretta: — Non posso andarci fin lassú.

— Ma lo sai?

Intervenne la scalza: — È un ragazzo.

Noi ci guardammo dentro gli occhi: nei suoi, bambini, opachi, c’erano informi tante cose che dovevano accadere.

— Sciocco, – dissi, – la vigna e il terrazzo non sono niente. Conta solo la paura e il batticuore. E a due passi dalla vigna ne trovi.

— Non tormentarlo, – aggiunse lei. – Lo sa bene.

— Basta sentir passare il treno, — disse il ragazzo.

Non gli chiesi perché. Dissi alla scalza:

— Il tempo è fermo, ma c’è il mondo che aspetta. Capisci? Tutti i treni che passano portano via. Allora sí che verso sera batte il cuore, quando si sente cantare di là dalle piante.

— Come adesso.

Ascoltai lo sciacquío, dal greto alla riva di fronte, incerto nella sera. La campagna era vuota.

— Le notti d’estate, – disse forte la scalza, – andavamo a ridere e cantare sotto il paese. Quante volte ci andammo. Tu no?

Il ragazzo taceva, scontroso.

— Non mi lasciavano, – risposi. – Qualche volta scappavo.

— E cantavi Così?

Allora mi giunse nell’aria vaga una voce, e non era più il fiume. Si levava lontano, di là da quei prati, di là dalle nuvole – una voce di collina e di vigna, come un coro smorzato. Non risposi alla scalza. Ascoltavo nel canto scoppi netti di risa e parole. Serrai gli occhi felice.

— Cambia il vento e si sente, – disse lei. – Da un paese all’altro. Cantavi anche tu?

— Ascoltavo dal terrazzo nel buio.

— Ma quando scappavi?

— Avrei voluto andare in cima alle colline. Non ero mai solo abbastanza.

Riudii l’aspro sorriso. La scalza si piegò all’indietro quasi a toccarmi – non vidi il ragazzo – e mi disse: — A sfogliare la meliga andavi?

Feci per prenderle la faccia, e si scansò. — Avevi tutto questo, – disse, – e ti vergogni della vigna e del terrazzo?

— Di niente mi vergogno. È passata.

— Non hai più il batticuore?

Allora le presi la faccia e sentii sotto le dita la bocca schiusa e ridente. La scalza mi stette un momento vicina; mi passò un sospiro rauco sulla gota, poi disse: — Ricordati la vigna e il terrazzo.

Sentii che sfuggiva e non potevo trattenerla. Le dissi sul viso: — Ritorni?

La voce rispose: — D’estate.

La penombra del fiume era tutta sciacquío. Tesi l’orecchio a lungo, se ancora coglievo l’aerea canzone di prima. Poi quando fui solo, proprio solo, mi alzai sotto il cielo e andai via.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

27- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Nudismo

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Nudismo

Son tornato al torrente dove venivo quest’inverno, e come succede in quest’ore calde mi è venuta l’idea di mettermi nudo. Non mi vedevano che gli alberi e gli uccelli. Il torrente è incassato in uno spacco della campagna. Se si ha un corpo, tanto vale esporlo al cielo. Le radici che sporgono dalla parete, sono nude.

Mi bagnai nella pozza, dove disteso toccavo fondo. È un’acqua tiepida, che sa di terra. Di tanto in tanto ci tornavo; cuocevo al sole tutto il tempo, buttato sull’erba, scorrendomi addosso le stille come sudore. Non sapevo più di carne ma d’acqua e di terra. Mi vedevo sulla testa tra le punte degli alberi la pozza nuda del cielo. Ci stetti fino a sera.

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Sono ormai parecchi giorni che passo nudo il pomeriggio sotto il cielo. Mi espongo e aggiro inquieto sull’erba e sul terriccio della pozza. Rarissimi istanti – quando mi butto gocciolante sopra l’erba – perdo coscienza e mi dimentico il corpo. Non che risenta l’abbandono e la tristezza di quand’ero bambino e mi spogliavo per lavarmi. Ora mi spoglio anzi con foga, smanioso di ritrovarmi e riapparire, e il cuore mi batte violento. Ma nel battito c’è un’ansia, c’è l’attesa di qualcosa, che scuote la mia solitudine. Voglio dire che faccio come sapessi d’esser visto.

Non parlo della gente. Per venire al torrente, traverso campagne dove villani e ragazze sparse mietono, ma non c’è da pensare che qualcuno mi sorprenda in questa buca ch’è parata da cespugli e da balze. Sento muoversi anche una quaglia o una lucertola, e farei sempre in tempo a coprirmi. È un’altra la mia inquietudine, del resto non priva di godimento. Ogni volta il mio stato di assoluta nudità mi sbigottisce e mi stupisce, quasi fosse una gran cosa attuarlo qui senza un pensiero. Ogni volta che stendo sull’erba le mie lunghe gambe e rovescio la nuca, so che il sole mi vede e mi fruga quale sono dalla testa ai piedi e non c’è nulla di diverso da me a un sasso, a un tronco, a una biscia screziata, se non appunto il turbamento che provo a mostrarmi. Ormai l’acqua e il sole mi han tornito e velato, e anche in questo mi par di capire che la natura non sopporta il nudo umano e con tutti i suoi mezzi si sforza, come fa coi cadaveri, di appropriarselo. Ma le occorre del tempo, e dovrei stare giorno e notte in mezzo a lei. Ogni giorno invece ricompaio, e torno nudo spogliandomi. Così le resisto e insieme mi abbandono ai suoi sguardi con quel godimento che posso. C’è qui una conca di erbe alte, acquitrinose, sempre in ombra, dove alle volte mi aggiro. L’erbe mi dànno al ventre e i piedi sguazzano, ma non è il fresco che cerco. Entro qui per nascondermi, e uscirne improvviso, più nudo di prima.

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Gli strilli e le voci di uccelli sul mio capo mi dicono che non conto gran che. Qui tutto continua come se io non ci fossi, e dal fondo di questo burrone levando lo sguardo vedo passare qualche nuvola e stormire le punte degli alberi, quasi tra noi fosse un abisso. Il vento non giunge quaggiú. Non appena buttato, dimentico le campagne e le strade – è mio orizzonte quello breve della pozza, e guardo una farfalla o un tronco d’albero con stupidaggine testarda, come palpo col corpo il terreno che copro. A intervalli passa l’ombra di una nuvola, e allora fa fresco, tutta la macchia si trasforma: le piante che svanivano nel sole, si profilano, fan selva, si riflettono in acqua, i colori si smorzano, lo sguardo distingue. Allora mi alzo e mi riscuoto, sono nudo come un tronco sotto la corteccia, fresco e nudo come l’aria che tocco. Vedo che il cielo dietro gli alberi è nudo anche lui. Nudo e raccolto.

Cresce l’ombra e osservo il bosco o l’acqua ferma. Non saprei dire quel che vedo e che penso. Le parole sono erba e radici, sono sassi, mota, fulgore – non ce n’è altre – ma il mio corpo non le accetta. Entrar nell’erba, entrar nel sasso: questo il mio corpo lo direbbe, ma non basta. Questa conca è una materia senza nome; bisogna muoversi, sentirla, toccarla. Devo fare uno sforzo per non stringere le radici, arrampicarmi su nel bosco, tra le spine e i tronchi verdi, e camminarci. Mi contengo tastando il mio corpo.

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Se qualcuno giungesse quando appena mi son rovesciato grondante, credo che non mi muoverei. Sono indolente come un tronco. L’acqua e il sole mi vanno facendo ogni giorno più fosco; credono Così di cancellarmi, di coprirmi, ma non sanno che invece m’imbestiano. M’indurano il corpo a sopportare e far da sé. M’è già presa la smania, quando arrivo sudato, d’impiastricciarmi di mota raccogliendola a manate e spalmandomela addosso, e poi starmene al sole fin che cola. È un modo di coprirmi, anche questo. Così quando mi lavo, mi pare di uscire dall’acqua più nudo.

Per quanto la pozza sia quasi stagnante, e l’acqua viscida, mi basta allungarmici per uscirne deterso. C’è dentro una vena più cruda, fredda, che io cerco sguazzando di schiena o accoccolandomi come un rospo sotto i radiconi dello strapiombo. L’intorbida subito il limo, e tutto il pomeriggio non basta a schiarirla: si direbbe che il sole vi addensa i suoi vapori più estuosi. È immagine di un cielo nell’afa; nella sua opacità non riflette più nulla. Mi pare di uscirne sudato, mi scorrono gocce dal petto alle cosce.

Dopo queste bagnate è più forte il sentore di pantano e di mota. Tutta quanta la conca cuoce al sole. Si sentono frulli, fruscii, tonfi, richiami che paiono venir da chi sa dove e non sono a tre passi. È in qualcuno di questi momenti che dimentico d’essere nudo. Chiudo gli occhi, e tutta quanta la campagna, le frutte, i viottoli, le coste, i viandanti, riprendono di là dagli alberi esistenza e spazio, ogni cosa un sentore, un sapore, la sua realtà. Tutto va e viene intorno a me, che mi cuocio sull’erba. Perché dovrei muovermi se venisse qualcuno?

Ma non viene nessuno. Viene il tedio, questo sí. Prendo il sole e prendo l’acqua, mi aggiro e mi siedo sull’erba, guardo, fiuto, ritorno nell’acqua, mai che accada qualcosa. L’ombra di un albero si allunga a poco a poco, fin che copre il mio letto consueto. Un fresco diverso comincia a vestire la conca, e il fortore di mota e di morte si avviva. Ora posso sentirlo come sento il mio corpo, che è più grande e più nudo. E non viene nessuno. Ma non posso andar io?

La prima volta che pensai questo capriccio, allibii, ma sorrisi a me stesso. Adesso, per levarmene il gusto, corro su dal sentiero per cui scendo alla conca, e mi fermo tra i cespugli bassi sull’erba del piano. Non c’è ormai più difesa tra me e la campagna. Vedo oltre i tronchi le pianure del grano. Mi butto nell’erba supino al cielo, nell’ultimo sole. Non temo contatti, nemmeno le stoppie.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Han finito di mietere. La campagna è deserta. Faccio tutta la strada senza incontrare nessuno. La pozza mi attende e io rimpiango i giorni andati. Quel rischio era bello.

Mi tornano in mente i bagnanti del Po. Specialmente le donne che si credono nude perché cambiano d’abito. Vanno e vengono sopra il cemento o la sabbia, e si fanno dei cenni, si guardano dietro, si parlano e offendono come in salotto. Poi si mettono al sole e qualcuna si sfila il costume dalla spalla per prenderne un palmo di più. Tutti quanti si svestono, tutti si cercano, e non uno che dica ciò che tutti hanno in mente – che il corpo è ben altro. Hanno avuto il coraggio di mettersi in gruppo, non han quello di fare ciò che tutti vorrebbero.

Mi piaceva, in questi giorni passati, traversare le campagne sotto gli occhi delle donne, dei mietitori e dei buoi. Buona gente che non sapeva dove andavo, che poteva in qualunque momento venire al torrente per bagnarsi la faccia o abbeverare, e scoprire tra i rovi il mio corpo annerito. Loro almeno, se pensano di prendere un bagno, si spogliano senza riguardi. O forse non lo prendono, se non da ragazzi. Camminavo rasente ai mannelli di grano, che hanno la spiga abbrustolita, giusto il colore del mio corpo, e vedevo le mani scure tendersi, le schiene curvarsi, i fazzoletti rosseggiare. Ciò che mostrano del corpo è color del tabacco, e perfino la camicia e i calzoni hanno aspetto di terra come scorza di tronchi. Questa è gente che può tralasciare di mettersi nuda; è già nuda da sé. Quando passo tra loro, mi pesa il vestito che indosso, mi sento festivo come un bue infiocchettato. Vorrei che sapessero che sotto son nero. Che, insomma, sono nudo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

È accaduto. Una, almeno, lo sa.

Ero entrato nell’acqua per lavarmi il terriccio. Galleggiavo supino allargando le braccia e mi vedevo il cielo chiaro dentro gli occhi. Non pensavo a nulla. Mi rizzai barcollando sulla mota sommersa e mi chinavo a prender acqua per inondarmi, quando una donna traversò la conca. Era grande, una sposa, con un fascio di frasche sul fianco. Mi venne incontro né stupita né attenta – mi vide chino palpar l’acqua – poi deviò nel burrone col suo fascio, e sguazzando in un’acqua di scolo sparí tra le erbacce. Era scalza. Ne vidi la schiena robusta riapparire nel sole tra il verde, poi sentii che sfrascava più in là.

Era scesa dal sentiero per cui corro quando vado a buttarmi sull’erba. Mi dovette vedere fin da lassú, eppure continuò la sua strada con calma, né pensò a voltarsi dopo che fu passata.

Ritto nell’acqua, nudo, l’ascoltai allontanarsi. Ero certo più scosso di lei. Sulla pelle mi correvano le gocce d’acqua. Uscii sull’asciutto, e ancora non mi pareva vero. Come non l’avevo sentita? Una donna ha un altro passo da noialtri. Ma non è questo che pensavo. Pensavo che mi aveva guardato senza curiosità né rossore, come una cosa naturale. Se si fosse fermata magari ridendo a parlarmi, sarebbe stato diverso: io mi sarei coperto, l’avrei forse toccata, ma in ogni caso non sarei Così agitato. Eppure era giovane, perché qui le spose sfioriscono presto.

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Scende il fresco, e mi sento più nudo. Ripenso agli occhi della donna, abbronzata anche lei. Sarà tutta abbronzata? Certo non ne ha bisogno: non è questo che importa. A lei importa essere sana e far dei figli vigorosi. Prende del sole quanto basta, camminando. Lo stesso sole che matura le campagne e fa frutto, e che qui bevono nel vino. L’uva annerisce anche coperta dalle foglie. L’importante è che sotto sia il corpo.

Era vestita di una gonna scura sulle gambe forti, e andava senza riguardo tra pietre e radici. La vedo procedere intenta nel bosco e sfrondare le gaggie che lassú crescono belle. Siccome strapiombano sulla parete del burrone e ne sporgono le radici, mi par di vedere sottoterra e, in alto, il cielo. Qui è la parte celata del bosco, i sentimenti, il tenebrore, il fondo. La donna a quest’ora è lontana. Ho davanti la nuda balza venata di sasso, che mi dice che anche il bosco ha un suo corpo, come tutta la campagna, coperto di terra, terra esso stesso vestita di piante, nudo e vero come siamo tutti. Mi palpo la pelle che serba il buon tepore del sole. Sono felice che la donna mi abbia visto.

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Quando torno, mi fermo a discorrere ai bivi. C’è sempre qualcuno che sa cosa dire. Ieri ho visto Marchino e gli ho detto di dove venivo. – Bisogna che anch’io faccia il bagno, – disse. È un uomo fosco con due dita di barba e gli occhi duri. Ma ha di queste gentilezze. Non ha chiesto di venire con me.

Mi disse che andava domani alla bocca della gora dove l’acqua è corrente. — Se volete venire, — mi fece. Gli obbiettai che io non porto brachette. — Sapete, – rispose. – Con me non ce n’è bisogno.

Siamo andati stasera alla gora dove la diga fa lago, e la riva è un sabbione di salici battuto dal sole. I ragazzi a quest’ora sono tutti in pastura. Ci spogliammo e posammo la roba a un poco d’ombra, poi entrammo nell’acqua. Era un’acqua argentina, carezzante e sabbiosa. Marchino nuotò a grandi spruzzi. Io mi stesi nell’acqua e galleggiai guardando il cielo. In quegli istanti penso sempre alla campagna, alle punte degli alberi, alla vita che va.

Quando uscimmo dall’acqua guardai meglio Marchino. Doveva aver mietuto seminudo quell’anno, perché non aveva di pallido che il ventre e le cosce. Peloso, del resto, di un pelo biondiccio di solleone. Camminava tranquillo, e si piegò per allungarsi sulla sabbia. Distolsi lo sguardo.

Tra una chiacchiera e l’altra tornavamo nell’acqua a bagnarci la testa. Marchino lasciava che dicessi le cose e rispondeva a suo agio dopo un pezzo. Certe volte parlava, ch’io pensavo già ad altro. Mi piaceva il suo petto nodoso che anche nel respiro non si muoveva.

Mi disse che dovevo aver preso gran sole, tant’ero nero. — Non l’ho preso lavorando, – risposi. – Voi piuttosto. Bisognerà annerirvi tutto. Se no, che figura farete, a un’occasione? — Parlavamo con la nuca sulla sabbia. Lui si piegò e vide lo scherzo. Dopo un poco rispose: — Quando sono a quel punto, non pensano a noi.

Io rividi la donna del bosco e capii che Marchino era fatto per lei. Avrei voluto anche dirglielo ma come potevo? Marchino non avrebbe capito. È da lui non pensar queste cose.

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Sono entrato fra gli alberi sopra il burrone, nella penombra calda. Rifaccio la strada della sposa, camminando con cautela. La campagna è tutt’altro che semplice. Basta pensare quanta gente c’è passata. Ogni riva, ogni macchia ha veduto qualcosa. Ogni luogo ha un suo nome.

Per le finestre delle foglie occhieggia il cielo, e sotto il cielo la collina e il piano sono un tappeto di campi. La loro dolcezza ha sapor di sudore. Ma questa dolcezza sommerge anche il bosco, tutti gli angoli incolti del bosco, che tradisce la sua nudità. È qui, in questi luoghi selvatici – sovente un cespuglio, una pietra – che terra e campo sono nudi e si rivelano.

Mi fermo al ciglione dei tronchi. Di qui riprendono i coltivi e le fatiche. Poche macchie d’ontano e gaggia sullo spacco dell’acqua facevano tutto l’incolto. Non posso procedere, poiché sono nudo. Stavolta ho capito perché per spogliarsi bisogna scendere allo spacco e perché i contadini si vestono per andare sul campo. Lavorare è vestire la terra.

Per questo la donna mi guardava tranquilla. Sapeva che mi ero nascosto e che quello era un ozio. Vedermi era come vedere se stessa. Non sapeva che avevo pensato di uscire sui campi. Tutto ha un nome in campagna ma non questo gesto. E né lei né Marchino ci pensano.

Intanto, cade il sole anche qui. Sento l’erba agitarsi e frusciare; uccelli passano; un ronzío più profondo assorda terra e cielo. La campagna appare nuda ma non è. Dappertutto il sudore la copre di caligine riarsa. Mi chiedo se c’è un fosso, una costa, un pezzo solo di terra che mani non abbiano scavato e rifatto. Dappertutto è segnato di sguardi e parole umane. Viene dai campi come un alito tranquillo, che non penetra qua sotto dove l’acqua la mota il sudore stagnano e non dicono nulla. Io ogni giorno ci trovo la vita, ma poi mi stendo, corpo nero, come un morto.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

26- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Mal di mestiere

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Mal di mestiere

Talvolta se mi accosto a questa terra, ne ho un urto impetuoso che mi rapisce come un’acqua in piena e vuol sommergermi. Una voce, un odore bastano a prendermi e buttarmi chi sa dove. Son fatto pietra, umidità, letame, succo di frutto, vento. Del limite umano non mi resta che l’istinto di rapprendermi in parole, ma queste non sono più nulla e mi dibatto come un albero o una belva già stata uomo e ora incapace di esprimersi. Cedo, riluttando perché so che la mia natura è un’altra, e ogni volta trovo in fondo a questo impeto una vana sazietà. Ogni sforzo d’inturgidire il senso serbando coscienza, porta a questa disfatta. È insomma peccato, come il libertinaggio, come il sadismo e l’ubriachezza.

Il limite umano – il mio – reca in sé questa norma: ciò che si vuole e non si può esprimere è peccato. Peggio: è futilità. Ad esso è consentito questo solo perdono: il ricordo. Attraverso il ricordo, ciò che era disumano e bestiale può forse riscattarsi e rendere un suono di chiara ragione. Ma appunto diventando ricordo cessa d’essere turgore del senso.

Io parlo qui di tentazione attuale. Fermo davanti a una campagna, smemorato, a un cielo chiaro, a un corso d’acqua, a un bosco, mi sorprende la rabbia improvvisa di non esser più io, di farmi quel campo, quel cielo, quel bosco, di cercar la parola che lo traduca tutto quanto, fino ai fili dell’erba, fino al sentore, fino al vuoto. Io non esisto; esiste il campo, esiste il cielo. Esistono i miei sensi, spalancati come bocche a divorare l’oggetto. Due naturalità sono affrontate: una tesa, spasmodica; l’altra, inesorabile e bruta. Ripeto che sto tutto teso all’esterno; non inseguo me stesso, non brancico un’idea fuggitiva; anzi, dentro, lo spirito mi è come strozzato. Nella sua brutalità questo stato è, sia pur futile, uno sforzo d’indiarsi attraverso la bestia. Come il bere o l’uccidere. Se appare più veniale e quasi meritorio perché tende insomma a un frutto spirituale, è tuttavia più velenoso perché inestricabile dalla vita interiore genuina e con ciò sempre pronto a guastare il lavoro legittimo. È una crisi, una sommossa delle facoltà buone che, ingannate da un urto dei sensi, presumono di guadagnare abbandonandosi alle cose. E queste afferrano, travolgono, inghiottono come un mare agitato, elusive, inafferrabili a lor volta, come spuma. C’è in esse qualcosa di osceno: esattamente lo stesso che abbandonarsi al sesso e volerne narrare le sensazioni segrete.

Nel ricordo il tumulto si placa. Ciò si dice, beninteso, del ricordo-rinuncia, del ricordo che ha saputo insignorirsi delle cose attraverso il distacco, l’assunzione del naturale all’assoluto. Di qui nasce che il più sicuro vivaio di simboli sia quello dell’infanzia: sensazioni remote che si sono spogliate, macerandosi a lungo, di ogni materia, e hanno assunto nella memoria la trasparenza dello spirito. Di qui nasce che agli ingegni contemplativi non si raccomanderà mai abbastanza di tapparsi i sensi davanti alla realtà e accontentarsi di quella che, filtrata dagli anni, riaffiora dal fondo della chiusa coscienza. L’illusoria ricchezza del reale non può essere giustamente valutata se non da chi sa che solo è nostro ciò che abbiamo posseduto sempre; e questo spiega perché siano Così inenarrabilmente noiosi i libri di viaggio o, come si dice, documentari. Un solo documento c’interessa sempre e riesce nuovo: ciò che sapevamo fin da bambini.

Perché davvero nell’infanzia eravamo un’altra cosa. Piccoli bruti inconsapevoli, il reale ci accoglieva come accoglie semi e pietre. Nessun pericolo che allora lo ammirassimo e volessimo tuffarci nel suo gorgo. Eravamo il gorgo stesso. Ma la storia segreta dell’infanzia di tutti è fatta appunto dei sussulti e degli strappi che ci hanno sradicati dal reale, per cui – oggi una forma e domani un colore – attraverso il linguaggio ci siamo contrapposti alle cose e abbiamo imparato a valutarle e contemplarle. Ciò che è prezioso in fondo a noi sarà dunque questa concordia discorde d’incontri, di scoperte, di sviluppo. La tentazione di riattingere con amplesso innaturale l’universo preinfantile delle cose, è il peccato. Se mai, ci tocca esercitarci nell’opposto: respingere quella naturalità che ci fosse rimasta intorno, respingerla per poterla possedere. Ma ben poco la vita adulta può aggiungere al tesoro infantile di scoperte. Si può bensí riportare alla luce quelle forme primigenie e contemplarne la fresca salute, come di radici che il terriccio dei giorni ha continuato a nutrire. Poi da cosa nasce cosa, e anche i giorni futuri germoglieranno su questi ceppi.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

25- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – La vigna

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

La vigna

Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. È un cielo sempre tenero e maturo, dove non mancano – tesoro e vigna anch’esse – le nubi sode di settembre. Tutto ciò è familiare e remoto – infantile, a dirla breve, ma scuote ogni volta, quasi fosse un mondo.

La visione s’accompagna al sospetto che queste non siano se non le quinte di una scena favolosa in attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia conoscono. Qualcosa d’inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro. Basta pensare alle ore della notte, o del crepuscolo, in cui la vigna non cade sotto gli occhi e si sa che si distende sotto il cielo, sempre uguale e raccolta. Si direbbe che nessuno vi è mai camminato, eppure c’è chi la lavora a tralcio a tralcio e alla vendemmia è tutta gaia di voci e di passi. Ma poi se ne vanno, ed è come una stanza in cui da tempo non entra nessuno e la finestra è aperta al cielo. Il giorno e la notte vi regnano; a volte vi fa fresco e coperto – è la pioggia –, nulla muta nella stanza, e il tempo non passa. Neanche sulla vigna il tempo passa; la sua stagione è settembre e torna sempre, e appare eterna. Solamente un ragazzo la conosce davvero; sono passati gli anni, ma davanti alla vigna l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo. Il sospetto di ciò che deve – che è dovuto – accadere, la mantiene la stessa e risuscita nel ricordo l’infanzia. Ma nulla è veramente accaduto e il ragazzo non sapeva di attendere ciò che adesso sfugge anche al ricordo. E ciò che non accadde al principio non può accadere mai più.

Se non forse sia stata proprio quest’immobilità a incantare la vigna. Un sentiero l’attraversa all’insú, dimezzando i filari e tagliando una porta sul cielo vicino. Il ragazzo saliva per questi sentieri, vi saliva e non pensava a ricordare; non sapeva che l’attimo sarebbe durato come un germe e che un’ansia di afferrarlo e conoscerlo a fondo l’avrebbe in avvenire dilatato oltre il tempo. Forse quest’attimo era fatto di nulla, ma stava proprio in questo il suo avvenire. Un semplice e profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena, disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla vigna, e si scopre infantile, di là dalle cose e dal tempo, com’era allora che il tempo per il ragazzo non esisteva. E allora qualcosa è davvero accaduto. È accaduto un istante fa, è l’istante stesso: l’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono che il tempo è sfumato.

L’uomo sa queste cose contemplando la vigna. E tutto l’accumulo, la lenta ricchezza di ricordi d’ogni sorta, non è nulla di fronte alla certezza di quest’estasi immemoriale. Ci sono cieli e piante, e stagioni e ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e di speranza. Insoliti eventi vi possono accadere che la sola fantasia suscita, ma non l’evento che soggiace a tutti quanti e tutti abolisce: la scomparsa del tempo. Questo non accade, è; anzi è la vigna stessa.

Davanti al sentiero che sale all’orizzonte, l’uomo non ritorna ragazzo: è ragazzo. Per un attimo, in cui giunge a far tacere ogni ricordo, si trova entro gli occhi la vigna immobile, istintiva, immutabile, quale ha sempre saputo di avere nel cuore. E non accade nulla, perché nulla può accadere che sia più vasto di questa presenza. Non occorre nemmeno fermarsi davanti alla vigna e riconoscerne i tratti familiari e inauditi. Basta l’attimo dell’incontro e già il ragazzo e l’uomo adulto han cominciato il loro dialogo che, ricco di giorni, dall’inizio non muta.


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24- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’adolescenza

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

L’adolescenza

Il giorno in cui ci si accorge che le conoscenze e gli incontri che facciamo nei libri, erano quelli della nostra prima età, si esce d’adolescenza e s’intravede se stessi. C’era in noi un tesoro che non sapevamo, un accumulo di lente abitudini cui d’improvviso scopriamo un viso nuovo, sorprendente, ricco di tutto il fascino e l’arcano del mondo della fantasia. Nulla è mutato nelle cose e persone della nostra piccola esistenza, siamo mutati noi: attraverso lo stupore che ciò che della vita abbiamo veduto e sentito sia lo stesso che muove e accende le alte fantasie dei libri, abbiamo capito di ammirare: abbiamo scoperto, afferrato un mondo, il nostro mondo.

Un’epoca in cui non ammirassimo, si perde nell’indistinto. Poiché prima dei libri ci furono le favole, le immagini, i giochi, ci furono i canti e le feste. A rigore, di età in cui nessuna fantasia esterna premesse sul nostro animo ci fu soltanto quella inconsapevole dell’infanzia. I libri sono venuti più tardi: essi hanno affrettato e condensato un processo che nulla sostanzialmente distingue dall’azione onnipresente della cultura prelibresca. Non appena ascoltammo e parlammo, eccoci nella sfera dello spirito, della fantasia incarnati.

Ora, l’ammirazione, e cioè la facoltà di vedere come unica e normativa la forma di una realtà, nasce sempre nel solco di una precedente trasfigurazione di questa realtà. Noi ammiriamo soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato. E d’istanza in istanza, finiamo ben per risalire a quella volta che l’ammirazione ci venne dall’esterno, cioè attraverso la parola, il segno, ci venne comunicata come frutto spirituale incarnato. Nessun ragazzo, nessun uomo ammira un paesaggio prima che l’arte, la poesia – una semplice parola anche – gli abbiano aperto gli occhi. Ognuno ripensi a un’ora estatica della sua fanciullezza, e troverà sotto l’entusiasmo e la rivelazione, la traccia di gusto, libresca o no, che la sua qualsiasi cultura gli ha segnato. L’invenzione di nuovi paesaggi – di nuove figure, persone, miti, di nuove forme – è cosa dell’età ben più provetta in cui l’impronta delle fantasie esterne cede finalmente al privilegiato fervore di chi ha saputo foggiarsi nuove ammirazioni portando alla luce con sforzo gli stampi istintivi del suo essere. Ma questo accade di rado. Di solito tutti – non esclusi i professionisti della fantasia – vivono di figure prese a prestito. Questo vale, almeno, per tutte le adolescenze. Che cessano appunto quando si capisce che la passata visione della realtà somiglia ed è quella esterna dei libri – degli altri.

Ogni qualvolta non giunse questo molteplice suggello culturale a popolarci di figure e forme la realtà, i giorni della nostra infanzia-adolescenza trascorsero stranamente e non ebbero, appunto, forma alcuna. Ma in essi si compí – meraviglioso e ordinario – l’incontro muto con tutta la realtà, ed è un peccato che, a ripensarci, noi c’imbattiamo di solito, per evidenti ragioni, soltanto nei momenti di trasfigurazione culturale, in quei momenti cioè quando un’espressione esterna c’illuminò di luce più o meno avventizia l’esperienza. Quali tappe della nostra consapevole educazione questi spiccano nel ricordo. Ma c’è tutta una plaga d’indistinte giornate, di cui chi riesce a cogliere e fermare l’atmosfera sfiora il segreto della propria natura più gelosa. In esse incontrammo la nostra realtà, la meno influita e incantata di cultura e quella che sotto tutte le rivelazioni future serberà inconfondibile l’impronta dell’istinto. C’è in esse come un solido suolo, un fondamento ultimo, uno schietto e incancellabile stampo. Tutto viene di là. La stessa meraviglia che un giorno proveremo ravvisando nelle illuminazioni dell’arte i volti e i sentimenti della nostra prima età – scoprendo di che cosa era fatto quell’entusiasmo – questa meraviglia ci verrà dal contrasto con le mute giornate che han potuto preparare e presentire tanta vita. Ce lo dicono le più belle forti fantasie.

«Ebbi in quel mar la culla…»
«……………….. Ivi, fanciullo,
la deità di Venere adorai».

L’infanzia di Zacinto s’illumina di cultura greca; ma è soprattutto la cultura greca che s’è arricchita e rinsanguata a quegli incontri infantili. Il fatto casuale della nascita in Grecia diventa il lievito di tutto un mondo libresco già disseccato. Più tardi nel secolo si incontreranno fantasie più scaltrite, nelle quali l’apporto culturale sarà sempre meglio eclissato dal momento scuro dell’infanzia; fino all’estremo tentativo di chi nella ricerca del tempo perduto ravviserà la vita vera e tutta l’arte.

E non è un caso che Proust per raggiungere il suo passato più geloso si sia servito della pura sensazione, che nella sua nudità pare fatta apposta per accostarci al mondo larvale delle origini istintive.

Ma il travaglio di distinguere nel ricordo fra barlumi originari e visioni riflesse comincia tardi, comincia con una giovinezza spirituale che si fa attendere molto al di là di quella fisica e talvolta non verrà mai. È necessario a questo scopo impadronirsi di se stessi – una conquista paziente – al punto di saper trascurare i ricordi gloriosi e confinarsi a scavare le zone monotone e neutre. Sono queste le piaghe di semplice vita infantile, istintive, vergini – per quanto è possibile – d’incontri culturali compreso il linguaggio. La difficoltà massima è nel fatto, sopra osservato, che il ricordo ci conserva soltanto ciò che in noi fanciulli fu, già, espresso, vale a dire ispirato da fuori. Occorre per ciò non tanto risalire il fiume della memoria, quanto rimettersi con abnegazione nello stato istintivo, o in ciò che ne resta. Con che si viene a dire che il modo proustiano di affidarsi alla sensazione impensata, non basta. Non basta perché la sensazione, sia pur bruta, in quanto ricordo è tutt’altro che immune da compiaciute coloriture di gusto; non basta perché il difficile non è risalire il passato bensí soffermarcisi; non basta infine perché noi intendiamo per stato istintivo quello stampo schietto che influisce sull’intera nostra realtà intima. E per ritrovare questo stato, più che sforzo mnemonico si richiede scavo nella realtà attuale, denudamento della propria essenza. Se avremo visto con chiarezza il nostro fondo, non potremo non aver toccato anche ciò che fummo fanciulli.

A questo punto dell’indagine il tempo dilegua. La nostra fanciullezza, la molla di ogni nostro stupore, è non ciò che fummo ma che siamo da sempre. La durata non tocca gli istanti interiori: altrimenti quel sussulto di gioia, che ci accoglie nel ricordo assoluto, riuscirebbe inspiegabile. Qui ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che siamo. L’infanzia a ripensarla suggerisce nostalgia non tristezze: di essa ci manca unicamente quella maggior facilità – la purezza iniziale – di vivere nell’essere genuino. Invece la malinconia del passato si svolge sul piano evidente dei giorni, si attacca alle parvenze; per essa il ricordo è tutto fatto di durate e concrescenze, di scoperte di gusto che come viticci c’impigliano agli altri, alle cose, alla storia.

Succede dunque questo fatto curioso: noi viviamo l’esser nostro più autentico quando ancora non sappiamo ammirare, cioè cogliere quel che ci accade. Le prime occhiate consapevoli le gettiamo su uno schema che ci viene dagli altri, dall’esterno; l’idea stessa di occhiata è qualcosa che accettiamo, che imitiamo dagli altri. Lo sforzo di passare di là dalla durata è ancora una norma che la durata c’insegna…


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23- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Stato di grazia

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Stato di grazia

I simboli che ciascuno di noi porta in sé, e ritrova improvvisamente nel mondo e li riconosce e il suo cuore ha un sussulto, sono i suoi autentici ricordi. Sono anche vere e proprie scoperte. Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.

Ciascuno ha una ricchezza intima di figurazioni – normalmente si lasciano ridurre a pochi grandi motivi – le quali compongono il vivaio di ogni suo stupore. Se le ritrova innanzi, nei momenti più impensati dell’anno, suggerite da un incontro, da una distrazione, da un accenno; e ogni volta vi figge lo sguardo come si scruta il proprio viso allo specchio. Sono una realtà enigmatica e tuttavia familiare, tanto più prepotente in quanto sempre sul punto di rivelarsi e mai scoperta. Accade che vi si pensi ad arte, come a ricordi che sono, e ci si sforzi di risalirne il movimento, quasi che la loro origine ne racchiuda il segreto. Ma esse non hanno origine, è questo il punto. Al loro principio non c’è una «prima volta» ma sempre una «seconda». È qui la loro ambiguità: in quanto ricordo esse cominciano a esistere solo da una seconda volta, e nascondono il capo come un mitico Nilo.

Perché proprio quelle tali figurazioni, e non altre? Perché, con tante immagini che la realtà ci ha proposto in ciascuno dei giorni, ci tocca l’estasi della «seconda volta» davanti a certune, che non furono nemmeno le più insistenti? Evidentemente l’intensità di un’anteriore consuetudine con fatti e cose non basta a imprimer loro la natura del ricordo. La scelta avviene secondo motivi che si direbbero capriccio, se non fosse la divorante serietà di questi simboli la quale ci fa credere che in essi si condensi l’essenza stessa della nostra singola vita. Siamo qui, senza dubbio, sul piano dell’istintivo, se è l’istinto che ci fa essere ciò che siamo e perseverare nel senso delle nostre premesse vitali.

Che i nostri ricordi nascondano il capo, vuol dire appunto che attingono alla sfera dell’istintivo-irrazionale. In questa sfera – la sfera dell’essere e dell’estasi – non esiste il prima e il dopo, la seconda volta e la prima, perché non esiste il tempo. Ciò che in essa è, è: qui l’attimo equivale all’eterno, all’assoluto. Nel senso che abbiamo dell’essere nostro, nell’assunzione al ricordo, stupiti di ritrovarci in esso, non cogliamo più traccia del tempo. Qui ogni volta è una seconda volta, o diciamo un ritrovamento, soltanto perché profondandoci in essa ritroviamo noi stessi. È evidente che non può avere inizio il simbolo di una realtà – noi stessi – la quale per il nostro istinto non ha avuto mai inizio, ma è.

Essa è, secondo modi che non sempre o quasi mai siamo in grado di risalire e comprendere. Ne tocchiamo in istanti inaspettati la piena sostanza come al buio si tocca un corpo o come un barbaglio guizza alla luce: presentiamo, intuiamo che lí siamo noi, ma perché proprio quel contatto, quel lampo con la loro guisa inconfondibile, e non un altro, un’altra parvenza, senza che nulla abbiamo fatto per la scelta, non sappiamo. Sappiamo che in noi l’immagine inaspettata non ha avuto inizio: dunque la scelta è avvenuta di là dalla nostra coscienza, di là dai nostri giorni e concetti; essa si ripete ogni volta, sul piano dell’essere, per grazia, per ispirazione, per estasi insomma.

Questi simboli del nostro essere sono altro dall’«ideale di vita», che qualcuno potrebbe scorgervi. Tutti ci facciamo immagini, favole, di una vita quale ci piacerebbe condurre, e non sempre le proiettiamo sul futuro: sovente vagheggiamo esperienze trascorse, contentandoci appunto di vagheggiarle. Ma non bisogna scambiare questi commossi programmi d’attività, sia pure contemplativa, coi mitici simboli della nostra perenne, assoluta realtà. Ciò che ci permette di riconoscere questi ultimi è lo sforzo conoscitivo che c’impongono, la tensione delusa e sempre vivace di tutto il nostro essere per afferrarli, incapsularli, incorporarceli nel sangue e conoscerli finalmente. Poiché il loro balenare dall’inconscio alla luce significa l’inizio di un processo che si placherà soltanto quando li avremo tutti penetrati di luce; ed essi sfuggono, ricadono nell’indistinto cui appartengono con la parte più ricca di noi.

Del resto, sovente la loro materia è la stessa degli «ideali di vita», o meglio gli ideali si sono costituiti concrescendo a questi germi, a queste figure, che lievitando nel nostro spirito hanno prodotto i più vistosi organismi del sogno, dove affluirono elementi dell’esperienza quotidiana e riflessa. Qui ciascuno non ha che a scomporre i suoi più elaborati sogni di vita e, se sarà fortunato, gli resterà nel crogiolo, irriducibile e forse inatteso, qualcosa in cui potrà riconoscere la sua verità.

Questo qualcosa è sovente un nonnulla. So di un uomo che una semplice finestra di scala, spalancata sul cielo vuoto, mette in stato di grazia. Forse ci furono nella sua vita più finestre di scala che in un’altra? Perché di tutte le possibili figure d’infinito, scelse proprio questa? Ognuno è sensibile all’idea d’infinito, e già il Leopardi ne ha chiarito l’operazione, ma perché una finestra invece che una fuga di piante o il profilo di una balaustra sul mare? Comunque, l’accenno al Leopardi suggerisce un sospetto. Quanto, nel costituirsi di una di queste nostre scoperte-ricordo, gioca l’influsso della poesia, la scuola della lettura, dell’audizione, della contemplazione? Per quali di questi simboli andiamo debitori ai poeti che ce ne hanno scavata in cuore l’impronta?

È chiaro che il primo contatto con la realtà spirituale è un fatto di educazione, e cioè ogni singolo in tanto impara a conoscere le cose in quanto le ha già conosciute nel gusto. Ciò, s’intende nel senso più lato possibile: un contadino, una donnetta si saranno educati attraverso la canzone, l’aneddoto, la ricorrenza festiva del paese. Anche qui, comunque, ritorna il caso della «seconda volta»: noi ammiriamo della realtà soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato. Ma siccome ammirare significa esprimere entro se stessi, il paradosso è risolto accettando che la prima scoperta della realtà ci viene fatta attraverso le espressioni esemplari che di questa realtà si sono date intorno a noi. Con le quali espressioni si risale a quella volta unica – che può estendersi a più momenti assommati nell’esperienza – quando si formò entro di noi come il mito di ogni singola figurazione: a quel momento velato in favolosa intemporalità, quando ricevemmo l’impronta che doveva dominare il nostro avvenire secondo i modi appunto del mito. Così l’oscurità della «prima volta» sarebbe spiegabile per l’analogia che offre con la natura del mito preistorico: e «prima volta» sarebbe insomma, assolutamente, ciò che accade una volta per tutte.

Fin dove giunga quest’alunnato non è facile accertare, ma pare evidente che le scosse impresseci nell’anima dalle rivelazioni della poesia portano faticosamente alla luce, aiutando anche – perché no? – a rifoggiarla, la materia estatica che dormiva nel nostro fondo. Viene il momento che la destinata struttura del nostro essere vero – quell’essere che è il modo, lo stile nostro, di guardare – traspare e affiora, balena e scompare e ci tenta alla sua comprensione-espressione. Tutti allora siamo creatori, in quanto interpreti di noi e del mondo.

E per ciò diremo che i simboli, le scoperte-ricordo della nostra sostanza, sono bensí un fatto di gusto, ma di gusto attivo, sono la risposta del nostro istinto alle sollecitazioni della cultura. Può darsi che la scala-finestra fosse quella della scuola dove si sono passati i primi anni e frequentati, sia pure con insofferenza, i poeti, ma ciò che in essa contava e conta ancora è il cielo vuoto e immemoriale.

Non dunque privilegio di chi fa della poesia è questo tesoro di simboli, che pure a far poesia sono indispensabili, ma bagaglio sovranamente umano, necessario a serbare la coscienza di sé e insomma a vivere. Il contadino o la donnetta non ci dicono gran cosa, ma anch’essi parlano, e cioè trasmettono e creano la realtà. Sotto la parola vige anche per loro un’immobile eternità di segni che, se non li travaglia col suo enigma, li soddisfa però, inconsapevoli, nella loro realtà istintiva.

Ciò è tanto vero che di qualunque individuo, anche il più colto e creatore, si può sostenere che i simboli non si radicano tanto nei suoi incontri libreschi o accademici, quanto nelle mitiche e quasi elementari scoperte d’infanzia, nei contatti umilissimi e inconsapevoli con le realtà quotidiane e domestiche che l’hanno accolto al principio: non l’alta poesia ma la fiaba, il litigio, la preghiera, non la grande pittura ma l’almanacco e la stampa, non la scienza ma la superstizione. Qui tutti gli uomini sono consorti. Differente soltanto è il risalto che la vita interiore darà in avvenire a questi simboli: qualcuno sentirà ingigantirsi nell’anima il ricordo remoto sino a comprendervi cielo e terra, e se stesso.

Nulla quindi è salutare come, davanti a qualunque più alta costruzione fantastica, sforzarsi di penetrarla sfrondandone ogni rigoglio e isolandone i simboli essenziali. Sarà un discendere nella tenebra feconda delle origini dove ci accoglie l’universale umano, e lo sforzo per rischiararne un’incarnazione non mancherà di una sua faticosa dolcezza. Si tratta di cogliere nella sua estasi, nel suo eterno, un altro spirito. Si tratta di respirarne un istante l’atmosfera rarefatta e vitale, e confortarci alla magnifica certezza che nulla la differenzia da quella che stagna nell’anima nostra o del contadino più umile.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

22- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Del mito, del simbolo e d’altro

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Del mito, del simbolo e d’altro

Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi a quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre, quando un po’ di foschia le spicca da terra, t’interessa per l’evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. Nelle radure, feste fiori sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio. Ora, carattere, non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.

Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti, ma bensí il prato, la spiaggia come ci si rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine. (Che poi queste forme primordiali si siano ancora arricchite dei sedimenti successivi del ricordo, vale come ricchezza poetica ed è altra cosa dal loro significato originario).

Quest’unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unicità del gesto e dell’evento, assoluti e quindi simbolici, che costituisce l’agire mitico. Una definizione non retorica di questo sarebbe: fare una cosa una volta per tutte, che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo, in grazia appunto alla sua fissità non piú realistica. Nella realtà naturale nessun gesto e nessun luogo vale piú di un altro. Nell’agire mitico (simbolico) è invece tutta una gerarchia.

L’impresa dell’eroe mitico non è tale perché disseminata di casi soprannaturali o fratture della normalità (queste anzi suppongono, nel credente, la consapevolezza di una normalità, ciò che non è gran che propizio al concepire mitico); bensí perché essa attinge un valore assoluto di norma immobile che, proprio perché immobile, si rivela perennemente interpretabile ex novo, polivalente, simbolica insomma. Devi guardarti dal confondere il mito con le redazioni poetiche che ne sono state fatte o se ne vanno facendo; esso precede, non è, l’espressione che gli si dà; nel suo caso si può ben parlare di un contenuto distinto dalla forma (seppure di una forma, anche sommaria, non possa mai fare a meno); e prova ciò il fatto che il vero mito non muta valore, lo si esprima a parole, a segni, o a mimica. Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo. Un uomo apparso un giorno, chi sa quando, sulle tue colline, che avesse chiesto dei salici e intrecciato un cavagno e poi fosse sparito, sarebbe il genuino e piú semplice eroe incivilitore. Mitica sarebbe questa rivelazione di un’arte, quando quel gesto fosse, beninteso, di un’unicità assoluta, non avesse presente e non avesse passato, ma assurgesse a una sacrale eternità che fosse paradigma a ogni intrecciatore di salici. E un’aia tra tutte, dov’egli si fosse seduto, sarebbe santuario; ma questa appare già una concezione posteriore, piú materialistica, nel senso di naturalistica. Genuinamente mitico è un evento che come fuori del tempo Così si compie fuori dello spazio. L’aia del mio eroe dev’essere tutte le aie: e su ognuna di esse il credente assiste al ricelebrarsi della rivelazione. L’unicità materiale del luogo (il santuario) è una concessione alla matter-of-factness del credente ma soprattutto alla sua fantasia sempre bisognosa di espressione corposa, sempre piú poetica che mitica. Del resto, dire per esempio Olimpo era dire, in un certo momento della preistoria greca, qualcosa come montagna, come tutte le montagne. Allo stesso modo che Ercole era ogni eroe di villaggio che tornasse dall’avventura, ciascun mito trovando la sua espressione s’incarnava in determinazioni culturali e geografiche che variavano coi luoghi.

Bisogna tener fermo a questa febbre d’unicità da cui trasuda il mito. È qui un nòcciolo senz’altro religioso. La vita si popola e arricchisce di eventi insostituibili che, appunto perché accaduti una volta per tutte e sovrastanti alle leggi del mondo sublunare, valgono come moduli supremi della realtà, come suo contenuto, significato e midollo, e tutte le vicende quotidiane acquistano senso e valore in quanto ne sono la ripetizione o il riflesso. Un mito è sempre simbolico; per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle piú diverse e molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia. Altra definizione non si può dare del simbolo se non che anch’esso è un oggetto, una qualità, un evento che un valore unico, assoluto, strappa alla causalità naturalistica e isola in mezzo alla realtà. Il piú semplice dei simboli, un fazzoletto che l’innamorato ha avuto in dono dalla bella, è tale in quanto ha acquistato un valore assoluto che lo carica di significati molteplici, e questi durano finché dura l’esaltazione amorosa.

Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del «paradiso infantile» in cui a suo tempo l’uomo adulto s’accorgerà di esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio da fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Che l’infanzia sia poetica, è soltanto una fantasia dell’età matura). Ma questo simbolo, nella sua assolutezza, solleva alla sua atmosfera la cosa significata, che col tempo diviene nostra forma immaginativa assoluta. Tale la mitopeia infantile, e in essa si conferma che le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. Poiché, rigorosamente, non esiste un «veder le cose la prima volta»: quella che conta è sempre una seconda.

Il concepire mitico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva. Così ognuno di noi possiede una mitologia personale (fievole eco di quell’altra) che dà valore, un valore assoluto, al suo mondo piú remoto, e gli riveste povere cose del passato con un ambiguo e seducente lucore dove pare, come in un simbolo, riassumersi il senso di tutta la vita. A questo «temps retrouvé» non manca del mito genuino nemmeno la ripetibilità, la facoltà cioè di reincarnarsi in ripetizioni, che appaiono e sono creazioni ex novo, Così come la festa ricelebra il mito e insieme lo instaura come se ogni volta fosse la prima.

La poesia è altra cosa. In essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico. La ragione perché la poesia può nascere sempre e dovunque e invece ogni popolo finisce per uscire dal suo stadio mitologico, è che per trasformare in fede l’invenzione non basta volere. L’ingenuità della barbarie per cui la fantasia è conoscenza oggettiva, non ritorna, una volta violata. Il miracolo dell’infanzia è presto sommerso nella conoscenza del reale e permane soltanto come inconsapevole forma del nostro fantasticare, continuamente disfatta dalla coscienza che ne prendiamo. La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti. Ma non si può fare che in essi non sia il foco vitale, la ratio ultima perché inconsapevole, della vita interiore. Il tonico potente che se ne assorbe, l’unica e sola ispirazione degna di questo nome abusato, ne è prova. Soltanto, non bisogna vietarsi esteticamente lo sforzo piú assiduo per ridurli a chiarezza, cioè distruggerli. Soltanto ciò che ne rimarrà dopo questo sforzo (e qualcosa non può non rimaner sempre, se è vero che lo spirito è inesauribile), potrà valere come fonte di vita.

La poesia cerca sovente di rinverginarsi, ricorrendo al simbolismo, alle memorie dell’infanzia e anche ai miti. Confessa di sentire in queste forme spirituali un’alta tensione immaginativa che le fa gola, e s’illude che per derivare questa tensione nel suo campo basti un atto della volontà. Ricalca le forme del mito e del simbolo, sperando che in esse torni a battere magicamente il cuore. Ma dimentica che essa sa d’inventare, e che il mito vive invece di fede.

Nelle formule prese a prestito dorme un assoluto che, soltanto se accolto come rivelazione vitale prima che poetica, può ridestarsi. Tuttavia accade talvolta che intorno allo scheletro vecchio cresca e fiorisca una nuova carne che è tutt’altro da quello che il creatore s’attendeva e sapeva. Non si parla qui della poesia, che è sempre possibile, specie quando la si vuole, e in definitiva dipende soltanto dalla pazienza e dall’occhio netto. Ma di quell’immagine o ispirazione centrale, formalmente inconfondibile, cui la fantasia di ciascun creatore tende inconsciamente a tornare e che piú lo scalda con la sua onnipresenza misteriosa. Mitica è quest’immagine in quanto il creatore vi torna sempre come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza. Essa è il foco centrale non soltanto della sua poesia ma di tutta la sua vita. Quanto piú essa è capace e robusta, tanto piú ampia e vitale è la poesia che ne sgorga. Ma, inutile dire, non appena il creatore se n’è reso conto criticamente e continua a sfruttarla, la poesia si spegne.

Quest’ispirazione affonda le radici nel passato piú remoto dell’individuo e traduce la quintessenza della sua scoperta delle cose. A volte, attraverso gli schemi ch’egli s’illude di riesumare, trapela in brevi immagini marginali, quasi casuali; piú sovente s’incarna in situazioni assorbenti, poderose e monotone, che qualunque sia il tema della favola scoppiano sempre uguali a se stesse e ne dànno il senso vero. Di esse il creatore non saprebbe dir altro se non che sono il suo mito, il suo evento unico, che ogni volta ha un carattere di rivelazione inaudita come per il credente una festa rituale. Dentro di sé le contempla, quando giunge a vederle, come si contemplarono un tempo i dolori di Dioniso o la trasfigurazione di Cristo. Esse sono misteri, nel senso religioso piú genuino.

Hai descritto Così quella che Baudelaire chiama l’«extase». La spontaneità dell’ispirato che è tutt’altro dai «subtils complots» del poeta. Per battezzare le cose occorre l’ingenuità della fede, e ogni battesimo è un miracolo come nel culto. Qui davvero si è ispirati, poiché davanti all’assoluto, a ciò che è unico, ci si raccoglie e insieme abbandona, e soltanto tempre straordinarie di creatori riescono a conservare sotto questa tensione religiosa la prontezza e l’agilità del mestiere poetico. Quasi sempre è proprio l’ispirazione – questa ispirazione – che deteriora la poesia, la diluisce, la spreca. Quel tanto di disciplina formale che si possedeva, crolla sotto l’indeterminato del sentimento incontenibile. Sono rari i creatori che sanno far coincidere la profonda esigenza formale implicita nell’impronta del loro piú remoto contatto col mondo e i mezzi espressivi forniti a tutta una generazione dalla cultura. È loro compito un compromesso, un parziale tradimento dell’ingenuità, un tentativo di vedere, nel gorgo del mito che li afferra, il piú nitidamente possibile ma soltanto fino al punto che la bella favola non si dissolva in naturalità. Per questo accade che taluni si salvino facendo altro da ciò che attendevano e sapevano. Ma i piú forti, i piú diabolicamente devoti e consapevoli, fanno ciò che vogliono, sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza. È questo il loro modo di collaborare all’unicità del miracolo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

21- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Le feste

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Le feste

Pino non s’era mai levato di mente il cavallo di Ganola e qualche volta me ne parlava. Una sera che tornavamo da Pozzengo fece per prendere la stradetta e a me che lo guardo dice: — Torno stanotte —. Tornò infatti l’indomani a prima luce e passò dal fienile. Quel giorno in campagna gli dissi: — Va’ a dormire nelle canne, – e lui stava seduto e rideva. – Almeno lavora —, ma Pino guardava la collina e disse: — Girerei tutto il giorno, se quel cavallo fosse mio —. Io pensai che un cavallo non era una vigna, ma non si può ragionare con un fratello che invece che alle ragazze parla ai cavalli. Dissi invece: — Non dormono i cavalli di notte? — E Pino, sempre con quell’aria incantata: — Ho girato, sono andato alle Rocche.

Nel vallone di Ganola mi toccava passarci ogni tanto, perché salva il giro di mezza collina. Alla cascina sopra il bosco, cintata di canne vive, era un pezzo che non salivo, da quando l’ultima figlia di Ganola se n’era andata per il mondo. Adesso si passava là sotto, e mai che intorno si muovesse una voce o qualcuno. Le colture erano mezzo in selvatico; il vecchio Ganola aveva abbandonato la vigna e dicevano che tutto il resto fosse a prato. Terra buona com’era, si aspettava soltanto che Ganola morisse. Ma i vecchi non muoiono. Quando Pino era piccolo, ci venivamo a spannocchiare: allora c’erano le ragazze, c’era Bruno, si stava allegri le giornate intiere. La cascina era dei giovani; Ganola già vecchio andava a caccia e lo sentivamo sparare di là dai coltivi, nei boschi sulle Rocche. Allora mettevamo insieme le capre e si saliva sui prati di punta; veniva sera che ancora non ne avevamo abbastanza e tornavamo rotolandoci e gridando fin sulla strada. Ganola già allora ci faceva paura e comandava tutti con gli occhi; ma se aveva ammazzato bene si metteva a ridere e ci lasciava toccare gli uccelli insanguinati che portava a tracolla. Per darli alle donne li staccava e li buttava in terra, e bisognava vedere il cane che in due non si riusciva a tenerlo. Io a casa dicevo che avrei voluto andare a caccia, ma piú acceso di me era Pino che non si staccava da quel cortile se non m’incamminavo minacciando di lasciarlo tornar solo. Poi venne l’età che non avemmo piú paura a girare di notte, e allora con Bruno andavo a ballare e chi pensava piú alla caccia; ma Bruno bisognava sentirlo quando diceva novità ai forestieri per attaccar lite. Qui era tutto suo padre, e nell’estate che girammo insieme per queste feste, venni a sapere che Ganola da giovane era peggio di noi perché allora nessuno li teneva e portavano in tasca il coltello. Molto presto lasciai Bruno andare solo, perché gli piaceva da una festa passare in un’altra traversando giorno e notte per fare a tempo, e cercar da mangiare nelle case come un ladro. Con lui non si sapeva, partendo, fin dove si sarebbe arrivati.

Bruno montava già in quell’anno. Alla festa di Popolo la cavalla s’era fatta ingravidare da qualche demonio del circo mentre, staccata dal biroccino, mangiava l’erba dietro al baraccone, e aveva figliato un rosso pezzato che Ganola disse subito: — Questo lo facciamo correre —. Bruno s’impratichí con la vecchia su e giú per il prato di cresta, e quando fu tempo montò il cavallino. Saranno cinque anni fa. Noialtri, specialmente Pino, eravamo frenetici, tutto il giorno sulla strada per vederlo passare, ma qui c’era di mezzo Ganola che accompagnava Bruno nel prato e ci diceva che non voleva spie. Certi giorni invece, quando Bruno arrivava tempestando chino sulla criniera, Ganola gridava anche a me di guardare, di acchiappare quel vento.

Pino allora era un maschiotto che nessuno gli faceva caso. Poi c’erano i giorni che il cavallo non voleva saperne e allora su quel cortile si trattavano a calci e strapponi e non bastava la forza di Bruno a domarlo. Le ragazze scappavano. Ganola s’imbestialiva e dava lui di mano al morso, e il cavallo saltava e menava la coda, e neanche Pino gli restava intorno. Nostro padre diceva che avrebbero fatto meglio a legarlo all’aratro e che a non lavorare anche le bestie si guastano.

In quella casa erano a posto soltanto le donne; pareva che sapessero come andava a finire. Pino adesso non vuol ricordarsene, ma da bambini lui e Carmina si parlavano. E Carmina morí proprio quell’autunno dopo che Bruno fece la corsa. Era già in letto alla Madonna di settembre e sua sorella per stare a vegliarla non venne alla festa; quando i suoi tornarono cantando e gridando, dicono che dalla stanchezza lei voltò la faccia al muro e piangeva, povera ragazza.

Venne anche Pino, si capisce: era la prima festa fuori paese che nostro padre gli lasciava vedere; e per tutto quel giorno non si staccò né da Bruno né dalla stalla del parroco dove avevano chiuso i cavalli: ballare non ballava ancora. Io li andai a cercare verso sera. Bruno era già sul prato da due giorni e maneggiava, vestito con gli stivali e il fazzoletto al collo, e Ganola sorvegliava il cavallo. Avevano fatto al mattino una corsa di prova ch’era andata male, e adesso si chiusero insieme nella stalla e Ganola era cattivo in faccia: voleva che uscissimo tutti, io mi fermai contro una scala. Anche Pino guardava. Allora Ganola stappò una bottiglia di vino buono, riempí una scodella e la ficcò sotto la lingua del cavallo che si scrollava. Il cavallo bevve tutto. Poi si fecero indietro, e Ganola, dato mano alla frusta, gli menò sui garetti e sull’osso del culo tre o quattro botte del manico, che lo fecero scattare come una biscia. Prese subito un’aria slanciata, da gatto: si capiva che il vino gli era arrivato dappertutto. Ganola ghignava. — Non ne avresti bisogno, — gli disse. E allora il cavallo si drizzò ringhiando. Faceva paura.

La corsa la vinsero loro. Mi ricordo la sera su quel prato, dopo che la gente si era dispersa, e veniva il fresco della luna, i baracconi al fondo accendevano l’acetilene, e il ballo aveva smesso di suonare. Trovo Pino dietro una pianta, solo, che piangeva e non voleva farsene accorgere. — Va’, – gli dico, – cerca qualcuno, parla con le ragazze —. Allora credevo che pensasse a Carmina. Macché, piangeva dalla rabbia di non essere un cavallo anche lui. — Restiamo con Bruno, — diceva. L’aveva già preso la malattia di girare di notte, e mica per ballare o divertirsi, ma per fare da solo il mattino e ritrovarsi il giorno dopo chi sa dove. Quella notte cenammo dal parroco, una tavola di gente: Ganola beffeggiava i padroni degli altri cavalli e tutti lo lodavano, e lodavano Bruno che mangiava gobbo sul piatto come se fosse ancora in corsa, e io pensavo che aveva l’età di Pino. Dalla finestra della stanza entrava la musica e il baccano della gente. Noi parlavamo delle corse degli anni passati e di quelle da farsi. Fu una bella notte. La luna durò fino a casa.

Quella notte Ganola non sapeva il suo destino. Carmina morí verso i Santi, e nell’inverno la madre le andò dietro dalla disperazione. Non mangiava piú da un pezzo. — Donne, — disse Ganola, tornando dal funerale. L’altra figlia, Linda, ch’era sempre stata piú fiera e teneva le parti della vecchia, si mise a urtare i due uomini tutte le volte che poteva. Facevano voci che si sentivano dalla strada. Non so Pino, ma da allora io ci andai piú di rado. Quell’autunno Ganola non lavorò neanche mezze le terre. Andava a caccia con Bruno e pensavano soltanto al cavallo. Ogni tanto prendevano il treno per andare a comprargli qualcosa. Poi comperarono gli sproni.

Dicono che quel giorno Bruno non voleva metterli, perché il cavallo era tranquillo. Ma Ganola ridendo: — Meglio che impari e sappia subito —. Gli tenne il morso fin che Bruno fu salito, poi gli diede l’abbrivo. Si vide uno scarto e il cavallo drizzarsi come una biscia, poi saltarono in aria e Bruno volò nel cortile. Restò là come un sacco. Se il cavallo non si ficcava come un matto nel portico che aveva davanti, Ganola non lo avrebbe acchiappato mai piú.

Cosí Bruno era morto, e Linda adesso voleva ammazzare il cavallo. Ganola in quei giorni, dicono che tralasciava ogni tanto di accendere il fuoco o parlare col prete o chiudere la stalla, per picchiarla come si picchia il grano. S’era fatto strabico, una barba come la stoppia, i calzoni sbottonati, e da quel giorno né alla barba né ai calzoni non ci pensò piú. Finché Linda scappò di casa.

Storie vecchie. Da allora io, potendo, giravo alla larga. Anche Pino, mancandogli Bruno, s’andò a mettere per altre colline. L’anno dopo dicevano che parlava a una ragazza del Ponte. Nell’estate, alle feste ci andò per conto suo e tornavamo qualche volta insieme, ma piú sovente lui spariva e si metteva per lo stradone e ritornava l’indomani. Non sembravamo neanche fratelli. Di Ganola me n’ero dimenticato. Ne parlava qualche volta nostro padre. Contò che uno di Odalengo era andato nell’inverno per comprare la riva di bosco che aveva sopra il vallone, e non era neanche riuscito a entrare in discorso. Ganola l’aveva tenuto sulla porta come un vagabondo e congedato in due parole, senza posare un secchio che portava nella stalla. Da quando Linda se n’era andata, non si muoveva quasi piú di casa: per paura che gli rubassero il cavallo, sembra, ma, diceva la gente, perché sapeva di dover morire. So che Pino in quell’anno e negli altri l’aiutò a vendere e comprare roba e qualche volta gli tagliava il fieno. Pino diceva per esempio che le belle giornate Ganola staccava il cavallo, e lo montava come poteva e girava su e giú per la collina. Sul mezzogiorno poi, quando il sole spaccava e tutti mangiavano, se ne andava di cresta in cresta anche lontano. Tanto che, sul lavoro, se era l’ora bruciata, Pino guardava la collina e diceva: — Il cavallo passeggia.

Un giorno m’era toccato andare da Ganola a cercare una botte che gli avevamo imprestato in altri tempi. Non so perché non ci andasse Pino, ma insomma attaccai la vacca e andai io. Era una sera di nebbia e salendo quella strada mi ricordavo di quando venivamo con le capre e c’era Bruno, c’era Carmina, e Ganola tornava con gli uccelli, noi con le castagne, e Linda senza parlare ci portava la fascina, e mettevamo la padella al fuoco. Proprio a quell’ora, perché la nebbia poi tappava strade e boschi e bisognava essere a casa. Mi fermai nel cortile e cercai nello stanzone già scuro. Non c’era nessuno, e cosí nella stalla. Invece di chiamare, mi sedetti alla porta, e guardavo la nebbia.

Ganola arrivò poco dopo, tirandosi a mano il cavallo. Spuntò dalla nebbia prima il collo e la testa di quel demonio, che non era bardato e sollevava in su la mano di Ganola stretta al morso. In quattr’anni era cresciuto come un platano; di pelo sembrava le foglie dei platani che cadono rosse: quando fu tutto nel cortile si vide che Ganola si era fatto piú piccolo, curvo, e lui lo dominava di una testa. Con Ganola parlammo come ci fossimo veduti il giorno prima. Nella stalla dove condusse il cavallo era tutto vuoto, neanche una capra. Lo legò alla sua stanga, gli gettò il fieno e, prima di uscire, gli batté la mano sul collo. Mentre portavamo la botte al carro non disse tre parole. Sputava soltanto, nella barba.

Quando gliela raccontai, Pino mi disse che in quei giorni Ganola lavorava la coltura sotto il pozzo, perché quell’anno voleva seminare. — Se non fosse che è vecchio, si dovrebbe sposare un’altra volta, – dissi; – cosa fa, solo, giorno e notte? — La compagnia non gli manca, – disse Pino. – E tu ce l’hai la compagnia? — chiesi ridendo. Pino scrollò la testa.

Pino adesso lavorava con me, e nostro padre era contento. Ma c’erano i giorni che tornava dallo stradone, e allora era a me che toccava aprir l’occhio e aspettarmi un bel momento qualche novità. La sentivo venire. Finché una sera, a tavola, Pino dice che è stufo di zappare la terra e vuole andare a lavorare alle Cave: è un lavoro anche questo e nel mondo bisogna cambiare. Nostro padre lo guarda. Io sto zitto perché sapevo che, quando Pino ha una cosa in mente, non gliela leva nessuno. Ma Pino diceva le Cave per dire: non piace a nessuno chiudersi sotto terra per il gusto di starci. Quel che voleva era girare, vedere qualcosa. — Ci andrai quest’inverno, – rispose mio padre, – imparerai quel che vuol dire.

Pino lasciò le Cave in primavera: ne aveva abbastanza. Tornò, magro come un chiodo, con un vagabondo di Pozzengo, uno zoppo dalla cacciatora strappata che aveva conosciuto alle Cave, e dormirono qualche notte sul nostro fienile. Parlavano poco e giravano insieme sulla strada. Non mi piaceva quel tipo, ma mio padre lo prese in burla e lui se ne andò. Pino stette tranquillo.

Piú nessuno adesso diceva di quella ragazza del Ponte: io credo non ci fosse mai stata. La gente incontrava Pino sulla strada della stazione, dove lui aveva dei soci delle Cave e la domenica si chiudevano nelle osterie. Poi guardavano il treno arrivare e si conoscevano coi ferrovieri e sapevano quel che era successo fino a Genova. Mai una volta che attaccassero una lite su un ballo per le ragazze di casa o che assaggiassero il vino nuovo in un cortile. Erano un’altra razza. Di quelli come noi ridevano.

Venne cosí l’estate passata, e cominciando le feste, Pino non lo tenne piú nessuno. Stavolta s’era messo con un tale magrolino, che girava per le fiere a far scommesse. Ma denari Pino non ne aveva gran che: solo quei pochi per fumare e pagarsi la festa. Questo tale era piú furbo di quell’altro di Pozzengo; a non sapere del mestiere che faceva, bisognava dargli credito, tanto incantava di parole. Era stato per il mondo, ma sapeva dar risposta anche intorno alla campagna. Era bassotto, gambe storte, coi capelli profumati. Si chiamava Roia.

Parlava di tutto e diceva che Pino non sapeva la sua fortuna di esser nato agricoltore. Diceva che meglio di noi non sta nessuno. — Tu però la campagna la lavori in piazza, — disse Pino. Con Roia scherzava. — Si capisce, – ribatteva. – Ci vuole l’uno e l’altro —. Era sveglio, ma a me non piaceva.

Son sicuro che Pino gli parlò di Ganola fin dalla prima volta, perché quel giorno nel cortile Roia guardava la collina delle canne e mi chiese chi ci stava lassú. — Ci sta un uomo e una bestia, — dissi, e lui a ridere piano, come chi sa già tutto.

Lo vedemmo qualche volta per la festa di Odalengo, e Pino lo invitò in mia presenza a venire da noi la Madonna d’agosto. Presi Pino da solo e gli chiesi se era matto a portarci in casa quel tipo. — Che cos’ha? – chiese lui mezzo ridendo. — Hai provato a dirlo al Pa’? – gli feci. – Dillo al Pa’ e te ne accorgi —. Pino mi guardò cattivo e stette fuori un’altra notte.

Avevamo appena battuto il grano, che venne un temporale di Dio: spianò mezza la vigna e portò via certe piante come fossero fascine. Esce Pino dal portico e dice: — Vado fino alla stazione. — Come? – fa nostro padre incarognito, – e la vigna? — La vigna è bell’e andata, – dice Pino, – sono stufo di lavorare per niente —. Io dissi ch’era sera e che tanto valeva aspettare l’indomani; nostro padre entrò in casa ad asciugarsi le scarpe, ma s’era capito che Pino l’aveva ripreso l’idea delle Cave. Soltanto che stavolta non parlava piú di Cave.

Venne agosto e, tra il soffoco di giorno e la luna di notte, chi pensava piú a lavorare. Quest’anno il comune ci aveva promesso i fuochi, e sembravano ragazzi anche i vecchi. Si diceva che i fuochi portano il bel tempo. Io non so, ma se fosse vero li terrebbero pronti tutte le volte che tuona. — Sarete contenti, – dico in casa, – qual è il paese che quest’anno fa i fuochi? — Non ci manca che la corsa di Ganola, – borbotta nostro padre. – Matti —. Pino stava zitto; finiva il piatto e se ne andava in campagna.

Viene quella sera e la passai in piazza a guardare la festa. Non s’era mai visto tanta gente. Erano scesi da tutte queste colline, dalle Rocche, di là dai boschi; neanche i cani mancavano. C’erano tutti i baracconi. Vidi anche Roia, che teneva un banchetto di dadi. Lo lasciai coi suoi trucchi e me ne andai sul ballo.

Quando fu notte, accesero i fuochi. Sul piú bello vedo a un riverbero le facce di tre o quattro della stazione che guardano in su, ma niente Pino. Penso «Dove sarà?» ma poi torno a guardare e sentire le botte.

Ce ne fu per mezz’ora, e appena finito ripigliano i balli. Tornai a casa intronato, fischiando come un passerotto, e dormire non si poteva perché sulla strada era un passare continuo di ubriachi, di carri, di gente che cantava. Pino non c’era ancora, al solito.

Allora mi misi sullo scalino a fumare, e guardavo le stelle che sembravano un’aia di grano. Poso l’occhio sulla collina di Ganola e vedo luce alla finestra. «To’, fa festa anche lui», penso ridendo. Ma poi la luce traballava; era rossa. Allora capii che bruciava e salto in piedi.

Era già quasi mattino, e il passaggio sulla strada cessato. Andai di corsa fino al giro, non pensando che ero solo, perché credevo che molti avessero veduto la fiamma e corressero là. Ma via via che salivo il vallone, mi prendeva paura. Alle canne mi fermo e riaccendo la cicca. Sento allora la voce di Pino che mi chiama per nome. Mi prende il braccio e dice: — Non andare, non andare.

Parlava tremando, come un ragazzo. — Cosa c’è? — Roia ha ucciso Ganola e il cavallo è scappato.

Disse ch’erano andati per comprare il cavallo. Il giorno prima, si capisce. Roia era andato con lui per vedere il cavallo e comprarlo. Dovevano vivere insieme e girare i paesi. Ganola li aveva condotti nella stalla, ma testardo diceva che prima di venderlo l’avrebbe ammazzato. Tornando a casa Roia aveva detto che i vecchi son tutti cosí ma un rosso piú bello non l’aveva mai visto. E poi stanotte eran tornati perché Roia diceva che ci vuole costanza. E che prima di svegliare il vecchio, erano entrati nella stalla. Ma mentre il cavallo sbuffava, Ganola era arrivato in camicia. Roia gli aveva detto qualcosa ridendo, poi, volandogli addosso, l’aveva ammazzato.

Scannato. Poi aveva staccato il cavallo, e gridava a Pino di aiutarlo; lui diceva soltanto: «volevamo comprarlo, perché l’hai ammazzato?» e scappava, e allora il cavallo s’era messo a drizzarsi, a ringhiare, a spaccare le stanghe, e non l’avevano piú visto.

Io chiesi a Pino se aveva davvero creduto che Roia comprasse quella bestia. Gli dissi che Roia voleva servirsi di lui per entrare in casa, non altro, e che il cavallo voleva poi venderlo, non girare i paesi.

— E adesso Roia dov’è?

Corremmo alla cascina. Il fuoco aveva preso tutta la stalla e non si poteva entrarci. — È Roia che l’ha acceso.

— Andiamo via, – diceva Pino, – andiamo.

Stavolta non aveva torto. Non bisognava essere i primi lassú. E poi tremava come uno straccio. Era tutto graffiato. Lo presi e, passando dai boschi, andammo a chiuderci in casa.

Il fuoco lo spensero gli altri. Si vede che Roia sapeva il suo mestiere, perché di Ganola non trovarono gran che. Ma del cavallo meno ancora e si spiegavano l’incendio dicendo che aveva ammazzato Ganola con un calcio e rovesciato la lanterna. Lo cercarono un pezzo per queste colline, ma io sono convinto che Roia l’ha acchiappato e se l’è portato via. La gente invece, e Pino con loro, dicono che il cavallo gira i boschi, e certi giorni lo sentono passare sulle creste.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

20- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Le case

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte seconda: La città

Le case

Sono un uomo solo che lavora, e tutte le settimane aspetta la domenica. Non dico che questo giorno mi piaccia, ma faccio festa come tutti perché un riposo ci vuole. Una volta, quand’ero ancora ragazzo, pensai che, se avessi lavorato anche la domenica, sarei diventato uomo piú presto degli altri, e mi feci dare la chiave dell’officina. Tutte le macchine erano ferme, ma io preparavo il lavoro del lunedí in poco tempo, e poi giravo nello stanzone vuoto tendendo l’orecchio e godendomela. Mi piaceva specialmente che potevo andarmene quando volevo e non facevo come i miei colleghi che in quell’ora giravano in bicicletta, all’osteria o in collina.

Anche adesso la gente alla domenica va fuori di città. Le vie si vuotano come un’officina. Io passo il pomeriggio camminandoci, e ce ne sono di quelle dove in mezz’ora non si vede un’anima. Sembra che tetti marciapiedi e muri, e qualche volta i giardini, siano stati fatti soltanto per un uomo come me, che ci passa e ripassa e se li guarda venire incontro e allontanarsi, come succede delle colline e degli alberi in campagna.

C’è sempre qualche via piú vuota di un’altra. Alle volte mi fermo a guardarla bene, perché in quell’ora, in quel deserto, non mi pare di conoscerla. Basta che il sole, un po’ di vento, il colore dell’aria siano cambiati, e non so piú dove mi trovo. Non finiscono mai, queste vie. Non par vero che tutte abbiano i loro inquilini e passanti, e che tutte se ne stiano cosí zitte e vuote. Piú che quelle lunghe e alberate della periferia dove potrei respirare un po’ d’aria buona, mi piace girare le piazze e le viuzze del centro, dove ci sono i palazzi, e che mi sembrano ancora piú mie, perché proprio non si capisce come tutti se ne siano andati.

È successo con gli anni che non cerco piú compagnia come facevo una volta. Ma le domeniche allora erano un giorno diverso dagli altri. C’era di bello allora che ci si diceva: — Vieni quest’oggi nel tal posto, — e ci andavamo discorrendo. Si facevano strade nuove, si finiva in qualche cortile: io mi voltavo per riconoscermi e non sempre ci riuscivo. Ciccotto aveva la mia età, ma era a lui che piaceva girare nei cortili vuoti e salire delle scale dove non era mai salito, suonare alla porta e attaccare discorso con chi apriva. Io gli andavo dietro, e a quel tempo non credevo che suonasse a certe porte per la prima volta. Se l’avessi creduto, non sarei salito con lui. Aveva un’arte, specialmente se ci aprivano donne e bambini, di dire qualcosa che voleva risposta, e di parola in parola entravamo in casa scherzando e ci stavamo fino a sera. Diceva che la gente alla domenica s’annoia, e che chi da mezzo pomeriggio è chiuso in casa e non sente e non vede nessuno è ben contento di discorrere con chiunque. Io credo che di certe donne, che ci davano anche da bere, lui s’informasse prima.

Quegli anni c’era chi andava in barca, chi prendeva la bicicletta e si fermava soltanto all’osteria, chi aspettava le ragazze davanti al cinema. Da quando conobbi Ciccotto, queste cose mi parevano stupide e non osavo piú farle né parlargliene. Con lui, se si raccontava una cosa, non bastava che fosse capitata, bisognava che gli andasse a sangue; e ascoltava guardando in terra, con la faccia di chi ride di tutt’altro. Siccome era piccolotto e quasi gobbo, dispiaceva umiliarlo, e cosí succedeva che dipendevo da lui.

C’erano case dove entrava chiedendo degli inquilini di prima e raccontando che venivamo apposta da fuori. Quando una donna grassa ci apriva, le raccontava che in passato in quell’alloggio lui aveva abitato e ne era sperso. Altre volte voleva affittare e si faceva condurre dappertutto, fin sul balcone. Diceva che lo mandava il portinaio. Non gli piacevano le case dove stavano ragazze giovani.

Gli uomini, la sera, sono tutti all’osteria, ma uomini o donne che venissero ad aprire, il gioco gli riusciva sempre e scendevamo la scala ridendo. Nel discorso Ciccotto la vinceva lui, e le donne grasse che non escono e se ne stanno alla finestra a rinfrescarsi, ci dicevano sulla porta di tornare a trovarle la domenica dopo.

Ci tornavamo. Ma a nostro gusto, uno due mesi dopo. A Ciccotto piaceva capitare in un momento che la nostra conoscenza non fosse piú sola, avesse la famiglia, una vicina, dei conoscenti in casa, e allora intratteneva tutti, si metteva a scherzare, faceva star sulle spine la donna, chiedeva da bere lodando la bella accoglienza dell’altra volta. Finiva sempre che la donna lo prendeva da parte e gli faceva gli occhiacci, gli gridava qualcosa, aveva una crisi di soffoco. E Ciccotto era il primo a slacciarle il vestito.

Ridevo con Ciccotto tornando a casa ma non sapevo perché ridessi. Mi sentivo piú leggero, piú libero, come quando si esce dal teatro; lasciavo che Ciccotto parlasse, parlavo anch’io, ci piaceva indovinare i misteri e i pasticci di quella gente, inventarci le storie piú strambe, ma insomma ero contento che fosse finita. Forse ridevo proprio per questo, e solo per ingenuità aiutavo Ciccotto. Lui che in officina faceva il turno di notte, aveva per divertirsi anche la mattina dei giorni feriali, e certe conoscenze le coltivava allora per godersele meglio. A me che discutevo sovente, diceva che dovevo ancora girarne di case per conoscere le donne d’età. — Sei un ragazzo, – diceva; – non lo sai che i ragazzi sono i piú cercati?

Ma, per convincermi che ero un ragazzo, non mi portò dalla sua tabaccaia del pianterreno (avevamo attaccato discorso sotto la finestra una sera; faceva tanto caldo che lei aveva spento la luce e ci chiese di andarle a prendere il gelato; ci andai io. Ciccotto rimase sotto a parlarle). Salimmo invece una scala di quelle viuzze del centro che una volta erano palazzi e adesso sembrano cantine. C’era un cortile silenzioso e su per la scala che pareva scavata nella pietra mi fermai a guardare il cielo dalle finestrette. Fin lassú era arrivato Ciccotto. Ci stavano le cameriere di un palazzo che aveva il portone su un’altra strada. Ci aprí una ragazza con cappello e borsetta che gridò: — Caterina! — e senza dirci una parola ci passò in mezzo e scese la scala. Ciccotto era già entrato, parlava; io guardai dietro a lei, tanto m’era piaciuta. Non chiesi a Ciccotto chi fosse, perché avevo paura che la richiamasse e le facesse chi sa che discorso, ma entrai contento in una casa di dove uscivano ragazze simili.

Caterina era la solita donnetta grassa che piaceva a Ciccotto, e ci fermammo tutti e tre in una stanza che prendeva luce dal soffitto. Aspettai che parlassero, ma Ciccotto s’era buttato in poltrona e si guardava le unghie; Caterina sedette appoggiando i gomiti al tavolo. In un angolo sotto un’arcata buia c’era un letto disfatto.

— Siamo povere serve, — disse Caterina guardandomi.

Borbottai che la stanza era comoda e tutta per loro. Caterina scosse il capo e levando gli occhi all’insú disse che a volte ci pioveva. Feci una smorfia per divertirla, ma Ciccotto che ci osservava disse qualcosa, non ricordo, forse «Muoviti» o «Non ci dài nulla?», e la donna si alzò di sussulto, girò indecisa per la stanza, pareva scontenta o assonnata; poi andò verso il letto, cercò in un comodino e tornò con un pacchetto di sigarette, a carta d’argento, che mi tese, e siccome esitavo, lo posò aperto sul tavolo. Ciccotto intanto si era alzato e accostato a una porta chiusa, e pareva ascoltasse. Caterina, buttato il pacchetto, sussultò come volesse dir qualcosa e si trattenne a stento. Ciccotto, voltandosi, la colse in quel gesto, ma mi sembrò non farne caso, venne invece al tavolo, si prese una sigaretta e l’accese. Allora Caterina disse: — Aspettatemi: torno, — aprí quella porta e corse via.

Nel tempo che stemmo soli – un momento – Ciccotto mi guardò come chi è lí per ridere, ma non rideva. — Non ho mai visto le finestre nel soffitto, — dissi. Lui guardò in su, ma pensava a tutt’altro. — Hai capito? — mi chiese. Per non offenderlo dissi: — Sta’ attento —. In quel momento rientrò Caterina, Ciccotto alzò le spalle.

Caterina tornava con una bottiglia di liquore, che posò sul tavolo. Andò a cercare in un armadio tre bicchieri e li riempí adagio, voltandosi a invitarci con un sorriso franco. Bevemmo tutti e tre, e Ciccotto schioccò la lingua. Allora anche Caterina si fece accendere la sigaretta e sedette fumando e facendosi vento.

Discorremmo per un pezzo e Ciccotto la stuzzicava chiedendole se aveva molte visite, giacché teneva le sigarette e i liquori. Caterina non era una stupida e ribatteva con vivacità. Cosí, con le gambe accavallate, non sembrava una serva. Mi accorsi che nel momento ch’era uscita dalla stanza, s’era cambiata la gonna, e anche le labbra le aveva piú rosse. Ciccotto la fece parlare dei suoi tempi, e ne dissero tante. Io la stavo a sentire sbalordito. Caterina doveva essere stata la moglie o la donna di gran signori: parlava di quando le venivano in casa gli amici e l’orchestra e ballavano tutte le sere. Bevevamo ridendo. Ciccotto si guardò intorno una volta e borbottò: — Non ci sentono qui? — Caterina alzò le spalle tutta incalorita e rispose che non c’era nessuno.

Mi chiedevo perché Ciccotto avesse avuto quel riguardo. Intanto il discorso voltò sui padroni, e Ciccotto le chiese se la vedova si era sposata. — T’interessa? — ribattè Caterina con tutt’altra faccia. Ciccotto rideva. Io allora chiesi da quanto tempo si conoscevano, e Ciccotto cominciò a raccontare. Raccontando guardava lei, malizioso. Disse che un giorno era comparsa in quella stanza la padrona, la vedova, una domenica che la casa era vuota (Caterina arrossí e si agitò), che li aveva trovati in quel letto, e senza spaventarsi aveva detto a lui di vestirsi in sua presenza, e lui l’avrebbe fatto ma Caterina gli tirava le coperte sulla testa, con quel caldo: gelosa come tutte le donne. Io stavo a sentire guardandolo, per non guardare Caterina, e dissi: — Poi ti sei vestito?

Qui Caterina, esasperata, gridò: — Tu! Ti vestivi sicuro. Non è la faccia che ti manca —. Ciccotto rideva. Caterina s’era coperta la faccia con le mani.

Io lo giuro che volevo andarmene. Ma invece guardavo quella porta, e non sapevo che dire. Ciccotto si alzò per versarsi da bere. Al movimento, Caterina levò la testa – rossa con gli occhi enormi, sembrava volesse sbranarlo. — Va’ di là, va’ di là, non è uscita, – gridò a voce bassa. – È piú sporca di te che sei venuto a cercarla.

Ciccotto finí di versare e posò la bottiglia. Stette un momento come incerto, soprapensiero. Poi ritornò a sedersi e disse a me: — Queste donne non escono mai.

Caterina ci guardava, ancora sussultante. — Dovrebbe darvi una finestra, – osservò Ciccotto. – Una finestra sulla strada. Ne ha tante —. Caterina alzò le spalle, scontrosa. — Quella non sta alle finestre, – disse ancora Ciccotto; – non ne ha bisogno.

Caterina borbottò qualcosa. Si asciugò la bocca col fazzoletto e guardava me. Sembrava che l’avesse con me. Feci il gesto di alzarmi e volevo dire: — Sarà meglio che vada, quando lei saltò in piedi e mi offrí un altro bicchierino.

Non trovai le parole e restai. Caterina adesso taceva offesa, e Ciccotto ci guardava tranquillo. La stanza era piena di luce.

— Ecco, – disse Ciccotto, – dovrebbe tornare la Lina. Sono giovani e andrebbero d’accordo.

Dal discorso capii che la Lina era l’altra ragazza, quella ch’era uscita entrando noi. Caterina disse che l’altra stava sí alla finestra e che era sfacciata. — Ma la Lina a lui piace, – disse Ciccotto. – Lui non sa quel che è buono —. Io guardavo il mio bicchiere e tendevo l’orecchio. Mi era venuta una speranza. Ma non si sentivano passi.

Chiesi quando tornava la Lina. — Voi dovete parlare, – dissi. – Io non c’entro —. Questa volta mi ero alzato e ci riuscivo. Caterina mi ficcò in tasca delle sigarette perché finissi il pomeriggio. Feci la scala senza voltarmi, e solo in piazza respirai.

Fu quello il primo pomeriggio che girai per la città vuota. L’idea che adesso conoscevo Lina, e che in quel momento Ciccotto faceva all’amore mi agitava, mi esaltava. Ero un poco ubriaco. Ero giovane, e tutto mi sembrava cosí facile. Non sapevo ancora ch’ero contento perché solo.

Quella sera, mentre aspettavo Ciccotto in piazza, guardai la finestra della sua tabaccaia, e me la risi. Ciccotto era proprio canaglia. Poi, quando arrivò, chiacchierammo di tutto. Mi spiegò quel che fanno e che dicono le donne gelose. Mi disse che al mondo non sanno far altro, tant’è vero che passano il tempo alla finestra, magari dietro le persiane. Bisogna conoscerle, e un giovanotto le conosce a ogni modo. Viene un’età, diceva, che lo aspettano dietro la porta come le gatte.

Ma adesso pensava alla sua tabaccaia e non voleva piú salire da Caterina. Mi disse di andarci solo, magari di sera. Io non ebbi il coraggio. Gironzolai sotto i balconi del palazzo, sperando di vedere la Lina affacciata. Ma le vetrate erano chiuse; tutto il mattino della domenica successiva restarono chiuse, e fu Ciccotto che mi disse che d’estate tutta quanta la famiglia andava al mare. — Anche le serve? — Anche loro.

Non capivo: Caterina era tanto gelosa, e una settimana prima di andarsene non ne aveva parlato. — Sono cosí, le donne, — disse Ciccotto.

Lui non era piú l’uomo di prima: non faceva piú il gioco di tornare con me per le scale dove si era cominciato a ridere. Non si staccava dalla piazza, passava tutte le domeniche intorno alla tabaccheria. La tabaccaia era l’unica donna che non lo lasciasse entrare in casa; gli parlava, anche di sera, dalla finestra del pianterreno, lo mandava a prendere il gelato; stavano zitti delle mezz’ore ascoltando morire i passi di chi traversava. Questa donna aveva forse trent’anni, ma sembrava ne avesse quaranta, tanto sapeva comandare e dar risposta.

Io, da solo, far la vita di prima non c’ero tagliato. Mi accontentavo di vedere Ciccotto all’officina; e andavo a spasso, mi ero fatto qualche collega, sapevo ancora divertirmi, ma non ero piú quello. Si sa com’è in casa: se uno dorme di giorno, lo svegliano, e poi da casa all’officina dall’officina a casa non è piú un vivere. Cominciai quell’estate a girare da solo, tutto il tempo che avevo, le strade e le piazze, e passare per quelle viuzze e cercare la Lina che invece era al mare. Speravo, non so come, di vedermela un giorno spuntare davanti. Quando le vie sono deserte, tutto può succedere. Mi fermavo sugli angoli.

E poi, non c’era solo la Lina. Ciccotto ne conosceva tante, di donne. Viene un’età che ti corrono dietro, lo diceva sempre. Di salire le scale, di farle parlare, di cercare, d’insistere, d’innamorarle, non ero capace. Ci riusciva Ciccotto, ch’era quasi gobbo; io sapevo che bastava aspettare.

Ma poi Ciccotto si sposò. Non me lo disse nemmeno: lo seppi da mia sorella. La tabaccaia lo faceva venir matto, e sposarla fu l’unico modo per entrarle in casa. Lui fino alla fine non mi disse mai altro se non ch’era troppo gelosa, ch’era una bella donna grassa e se a me non piaceva. — Per prendere in giro una donna, – diceva, – bisogna non dargliela vinta —. La sposò quasi di nascosto perché lei era vedova e gli diceva sempre che rimaritandosi avrebbe perduto i clienti. Ma, appena maritata, mise lui dietro il banco. Io allora risi di Ciccotto, come tutti ne risero, e finí che litigammo e ci vedemmo soltanto quando passavo sulla piazza. Ma adesso ci sono dei giorni, qualche domenica, che lo invidio.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.