La Porcellana di Doccia: dall’antica Cina alla Toscana dei Medici

La porcellana è stata per secoli un materiale esotico importato dalla Cina. In Europa non se ne conoscevano la composizione e le tecniche di fabbricazione. Tra il 1585 e il 1610 Francesco I de’ Medici finanziò a Firenze la produzione di una pseudo-porcellana, destinata all’uso della corte e ai doni diplomatici, ma la vera ricetta rimase segreta fino al 1710, quando Böttger scoprì l’ingrediente base, il caolino, riuscendo così a sfornare la prima autentica porcellana dura europea. Da quel momento la porcellana europea divenne un vero e proprio status symbol: ancor più che possederne degli esemplari, era segno di splendore e di potenza promuoverne la fabbricazione. Il marchese Carlo Ginori fu uno dei primi a cimentarsi nell’impresa, che a quei tempi costituiva una sfida artistica, scientifica ed economica. Nel 1737 fondò a Doccia una manifattura che, da allora, non ha mai interrotto la sua attività.

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LA PORCELLANA DI DOCCIA

Uova e coniglietti di cioccolata: i cioccolatieri europei danno forma alla Pasqua

Se tornassimo indietro di 200 anni, le uniche uova di Pasqua disponibili erano uova vere (sebbene splendidamente decorate). Fu solo agli inizi del XIX secolo che i pasticcieri europei escogitarono furbamente un piano per crearne un’alternativa dolce. Sono i cioccolatieri francesi e tedeschi ad avere il merito di aver inventato le uova di cioccolata, sebbene fossero molto scure e amare quando furono realizzate per la prima volta. A quell’epoca il cioccolato era così costoso che le uova potevano essere acquistate solo dalle famiglie più abbienti. Inoltre, le uova di Pasqua disponibili al tempo non erano vuote all’interno, perché i pasticcieri del tempo non avevano ancora trovato il modo di modellare il cioccolato con facilità.

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UOVA E CONIGLIETTI DI CIOCCOLATA

SU FOCUS: Com’è nata la tradizione delle uova di Pasqua?

La Carta di Fabriano: un sistema produttivo rimasto intatto da centinaia d’anni

Fabriano è una delle pochissime città al mondo dove ancora oggi la carta viene fabbricata a mano a testimonianza della volontà di non recidere i legami con una tradizione ultracentenaria. Qui nacque la prima carta occidentale, merito delle innovazioni tecnologiche che questo territorio apportò alla fabbricazione del prodotto.

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LA CARTA DI FABRIANO

Liquirizia di Calabria: qualità superiore con Denominazione di Origine Protetta

Molto probabilmente la pianta della liquirizia venne importata in Calabria dai Greci circa 700 anni prima di Cristo. In questi luoghi la radice di liquirizia trovò un microclima e un  habitat ideale che ne consentì addirittura lo svilupparsi di un diverso ecotipo, come dimostrano le mappature genetiche effettuate e che ne hanno consentito l’individuazione rispetto a liquirizie di altra provenienza. Per comprendere su quali basi era sorta questa attività nella regione e con quali prospettive si era poi sviluppata, bisogna risalire al XIV secolo e alla logica del latifondo. Non a caso la quasi totalità delle ditte produttrici sono state di proprietà di famiglie nobili e feudatarie, le quali con investimenti irrisori e soprattutto senza compromettere l’usuale ciclo agricolo, riuscirono lentamente a consolidare l’ancora incerto mercato della liquirizia.

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LIQUIRIZIA DI CALABRIA

Il legno di Cuneo: dagli oggetti d’uso quotidiano al mobile d’arte

La maggior concentrazione di aziende del legno nella provincia di Cuneo, si trova in Valle Varaita, valle che annovera circa 90 aziende attive nella produzione di arredi e serramenti, ma anche di giocattoli e strumenti musicali. La produzione del mobile, che si consolida tra gli anni ’50 e ’70 con lo stile rustico “Valle Varaita”, conosce momenti di grande sviluppo: negli anni ’60 ogni mese autotreni carichi di mobili erano diretti in Valle Susa, Valle d’Aosta, Svizzera e Tirolo. Occorre menzionare alcuni maestri artigiani, come Boerio, Beoletto, Bessone che, percorrendo i decenni della crescita del settore ligneo, apportarono modifiche allo stile alpino che reggerà fino agli anni ’80.

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IL LEGNO DI CUNEO

Aceto Balsamico di Modena: cultura e storia di una città

A Modena sono sempre esistiti diversi tipi di aceto ottenuti col mosto di uva, in relazione allo sviluppo nella storia di diverse ricette, di diversi metodi di preparazione e di invecchiamento. L’origine di questi prodotti risale alla tradizione degli antichi Romani.
Il termine balsamico invece è relativamente giovane, usato per la prima volta nei registri degli inventari ducali della Reggia Estense di Modena nel 1747 e probabilmente il nome stesso nasceva dall’uso terapeutico che allora se ne faceva.
Con la nascita dello Stato Italiano, i mercati destarono sempre più interesse riguardo al balsamico, sviluppando anche notevoli ricerche storiche e bibliografiche attorno a questo prodotto che, uscendo timidamente dalla segretezza e dalla ritualità delle acetaie, riscuoteva tanto successo.
Nel 1839 il conte Giorgio Gallesio fermatosi in visita presso la residenza dell’amico Conte Salimbeni di Nonantola per studiare le varietà delle uve e dei vini nel modenese, rimase così colpito e incuriosito dall’acetaia famigliare dell’amico, che dedicò vari giorni allo studio delle tecniche di produzione.

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ACETO BALSAMICO DI MODENA

Le Fisarmoniche di Castelfidardo: sfidano i nuovi gusti musicali

L’antenato della fisarmonica fu lo “tcheng” o “sheng”, un antichissimo strumento cinese e degli altri paesi del sud-est asiatico risalente addirittura a 4500 anni fa. Fu lo “tcheng”, infatti, a utilizzare per primo l’ancia libera, principio sul quale si basa anche la fisarmonica. Il deposito del brevetto della fisarmonica risale al 1829 a opera di Cyrill Demian a Vienna, ma il fondamentale rimaneggiamento avvenne in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. A Castelfidardo infatti, nel 1860, la sconfitta dell’esercito pontificio a opera delle truppe piemontesi segnò un traguardo fondamentale nell’unificazione italiana con l’annessione dei territori delle Marche e dell’Umbria al Regno Italico. Questo territorio fu la culla che vide nascere i primi “organetti” o “fisarmoniche”, strumenti conosciuti grazie alle truppe francesi al servizio dello Stato Pontificio e poi perfezionati e adattati ai gusti etno-musicali.

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LE FISARMONICHE DI CASTELFIDARDO

Colosseo, Foro Romano, Palatino: l’area statale più visitata

Musei e siti archeologici statali sono stati visitati, nel 2018, da oltre 55 milioni di persone (55.504.372), con un incremento superiore ai cinque milioni rispetto all’anno solare 2017 (50.169.316). L’incremento riguarda sia gli ingressi a pagamento, 24.938.547 nel 2018, 24.068.759 nel 2017, sia, in misura maggiore, gli ingressi gratuiti che passano da 26.100.557 del 2017 a 30.565.825 del 2018.
In ragione dell’aumento dei visitatori si è registrato anche un incremento degli incassi lordi. Si è così passati dai 193.915.765 euro euro del 2017 ai 229.360.234 del 2018 con un segno più di ben 35.444.469 milioni di euro.

Per quanto riguarda i singoli ingressi
> il sito statale più visitato resta saldamente l’area Colosseo – Foro Romano – Palatino che fa segnare un +8,73% passando da 7.036.104 visitatori del 2017 a 7.650.519 del 2018. 
> Al secondo posto l’area archeologica di Pompei che aumenta il numero di visitatori del 7,78% passando da 3.383.415 ingressi a 3.646.585 del 2018.
> Terza la galleria degli Uffizi con il Corridoio Vasariano che fa registrare un leggerissimo decremento, dello 0,19%, calando da 2.235.328 a 2.231.071 visitatori.
Tra i 30 siti più visitati nel 2018 il maggior incremento è stato dei Musei Reali di Torino (+27,82), Palazzo Pitti a Firenze (+24,23%), le Grotte di Catullo e il museo archeologico di Sirmione (+18,83%) e il Giardino di Boboli a Firenze che risale la classifica fino ad essere il quinto sito più visitato in Italia con il suo +17,92.

Nella classifica dei primi 30 siti più visitati in Italia
– 8 si trovano nel Lazio,
– 6 in Campania,
– 5 in Toscana,
– 4 in Lombardia,
– 3 in Piemonte,
– 2 in Veneto
– e uno ciascuno in Puglia e Friuli Venezia Giulia.

Fonte: Ufficio Stampa MiBAC –
Redattore: RENZO DE SIMONE
Roma, 15 febbraio 2019

Il Velluto di Nuoro: per abiti classici, tradizionali o casual

Il velluto prende il nome dal latino vellus, proprio perché tessuto caratterizzato da un fitto pelo sulla faccia del dritto. Di origine orientale, si diffuse in Occidente verso il tredicesimo secolo presso le classi più agiate. Nel Cinquecento, periodo in cui si affermò una netta distinzione tra i tessuti per l’abbigliamento e quelli per l’arredo, la produzione del velluto si diffuse anche in Italia. Pur esistendo velluti di lana e di seta, il più diffuso è senza dubbio quello di cotone. Diversi capi tra cui giacche, pantaloni, berretti, e diversi tipi di tessitura, liscia o a coste, rendono il velluto una stoffa poliedrica, adatta ad interpretare qualsiasi stile. In Sardegna probabilmente il velluto giunse con i catalani, e per secoli fu chiamato “terciopelo alla spagnola”. Nostante il nome, questo tessuto veniva fabbricato in Italia per tutto il resto d’Europa.

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IL VELLUTO DI NUORO

La patata della Sila: coltivata fino a 2000 metri d’altitudine

Originaria del Perù, la “Patata della Sila” fu portata dagli spagnoli prima in Galizia e poi nei loro domini in Italia. Da qui cominciò a diffondersi in tutta Europa a partire dal XVI secolo. In montagna, si hanno testimonianze della sua coltivazione sin dal XVIII secolo. Nata sulla catena delle Ande, la Patata della Sila è particolarmente adatta alle alte quote e ai campi in pendenza, non teme la grandine e cresce in qualunque terreno. Infatti, questa patata, poteva essere coltivata fino a quasi 2000 metri di altitudine, anche su terreni poco fertili e in ombra, assicurando sempre un minimo di raccolto.

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PATATA DELLA SILA