Il timballo delle feste 2/3

 

Infinite sono le ricette per la preparazione del timballo, il cui ripieno non impone limiti alla fantasia. Il timballo della tradizione è quello di maccheroni, dalle svariate forme e consistenze: maccheroni corti o lunghi, secchi o freschi (cioè lavorati a mano) lisci o rigati. Ma sono presenti anche ziti, mezzemaniche, fettuccine, lasagne…e persino il riso, cereale di antica tradizione siciliana, oggi desueto in queste preparazioni. Li accompagnano le verdure, le carni tra le quali quelle di gallina contenente le uova non nate, animelle e rigaglie (frattaglie).

Il timballo eleva i maccheroni, associati spesso alla schiettezza e alla semplicità del popolo, a piatto di prestigio, infatti la sua fama a partire dal secolo XVII travalica le Alpi, innalzandolo a piatto nobiliare e facendogli assumere un ruolo di primaria importanza nella letteratura gastronomica francese e italiana. Il famoso cuoco Antonin Carême celebra il timballo di maccheroni tanto da renderlo una preparazione di prestigio per l’Italia del Risorgimento e per la Francia dell’Impero e della Restaurazione.

L’interscambio tra le due culture gastronomiche, già nel Rinascimento aveva visto il prevalere della cucina italiana e in particolare toscana in Francia grazie a Caterina dei Medici, famosa, nello specifico, per aver introdotto l’uso di elaborati pasticci di carne. Nel ‘600 e nel ‘700, i ruoli si invertono, l’egemonia spetta alla cucina francese che, ingentilisce ed armonizza l’uso dei prodotti, controllando il dosaggio delle spezie, equilibrando contrasti fra dolce e salato e introducendo nuove tecniche di cottura. La superiorità di questa cucina contribuisce alla istituzione di un gergo specifico tuttora presente nel lessico abituale della gastronomia siciliana: monsù da monsieur, ragù da ragoût, gattò da gateaux

 

Home

 

Il timballo delle feste 1/3

 

Timballo, pasticcio, sformato, sartù, nomi dagli etimi diversi, pietanze dalle impercettibili varianti, ma sempre ricche e sontuose. Il timballo, piatto in grado di sedurre i palati più esigenti, è caratterizzato da una sfoglia di pasta che lo avvolge ed è farcito da cibi già cotti (pasta, riso, carni, verdure) e passato in forno nell’apposito recipiente.

Il suo nome sta ad indicare un antico strumento a percussione, il tamburo o timpano, su cui è tesa una membrana e per analogia uno stampo di forma cilindrica. Il termine deriva dal francese timbale a sua volta dallo spagnolo atabal di origine araba. In Sicilia, del resto l’impronta araba pervade tutta la cucina e l’utilizzo di pasticci imbottiti di carne era già noto ai tempi degli conquistatori islamici.

Imperioso nell’aspetto, opulento per la quantità e la ricercatezza degli ingredienti, rigoroso per la forma che ricalca geometrie e decori di stampi appositamente creati per la sua realizzazione, è comune tanto alla cucina baronale quanto a quella popolare. La gente umile vuole infatti emulare le tavole dei nobili, in occasione di ricorrenze, eventi speciali o festività religiose come il Natale.

L’involucro esterno di questo contenitore commestibile, può essere dolce o salato, di pasta frolla, di pasta brisée, aromatizzato spesso con cannella, scorza di limone o con altre essenze. Tale involucro può essere sostituito da altri alimenti che svolgono il ruolo di “fasciare”, come fette di melanzane fritte e verdure affini, crespelle o del semplice pangrattato che, aderendo perfettamente alle pareti unte della teglia, crea un consistente strato esterno.

La visione del timballo, il cui decorativismo attinge alla pasticceria, intesa nel senso più ampio del termine come arte del plasmare, induce la mente e il palato del commensale a esperienze gustative uniche, in grado di stimolare ed attivare tutti i sensi.

 

Home

 

 

La cucina a Messina, in riva allo Stretto 2/2

 

Non bisogna dimenticare che la cucina di Messina, come quella delle Eolie, e apparentemente in modo paradossale la cucina dell’intera Sicilia e delle sue isole, è essenzialmente una cucina di terra. Il clima favorisce la coltivazione delle verdure, tanto che spostandosi dalla costa all’entroterra collinare, oltre che al pesce, queste verdure si mescolano alle carni. Ecco l’agnello alla messinese, cotto al forno con olive nere e pecorino o, ricordando atavici riti, cosparso di ogni genere di erbe e anticamente cotto in una fossa scavata nel terreno. Gli involtini di vitello, le polpette di carne (e di magro), il manzo e il coniglio in agrodolce, il falsomagro ripieno di salsiccia e tritato, uova sode, salame e formaggio.

La specialità dell'antica cucina messinese chiamata “sciusceddu”.
La specialità dell’antica cucina messinese chiamata “sciusceddu”.

Anche la cotoletta si arricchisce di un gusto più incisivo, dopo una infusione nell’uovo sbattuto ed una ripassata in un composto di pecorino, pane grattato, prezzemolo, sale, pepe, aglio. Poi possiamo scoprire il tipico “agglassato” a base di lacerto, il cui fondo di cottura può essere utilizzato per condire della pasta fresca. Ancora un piatto, per ricordare solo di sfuggita una tradizione gastronomica attraverso la quale siamo in grado di mostrare il legame con il territorio, per reintrodurlo nella ristorazione locale: parliamo del “sciusceddu”, polpettine di carne trita cotte nel brodo, versate in teglia e infornate, dopo avere aggiunto un composto di ricotta fresca, sbattuta con uovo, parmigiano, noce moscata.

E poi i dolci: cannoli e cassata, che a seconda delle province assumono consistenze e fragranze diverse; la frutta martorana, la pignolata messinese bianca e nera, le “sfinci” di San Giuseppe e i gelati, i rosoli, gli sciroppi, i liquori dolci della tradizione, come il nespolino e il liquore di miele.

 

Home

 

La cucina a Messina, in riva allo Stretto 1/2

 

Il modo più tradizionale per intraprendere un viaggio in Sicilia attraverso itinerari, non solo dell’arte, della cultura, delle tradizioni etniche, ma anche del gusto e dei sapori comincia dalla città dello Stretto. Messina, primo punto di approdo nell’Isola per chi traghetta dal continente, offre al visitatore l’immagine della nuova città eclettica e razionale, ricostruita all’inizio del Novecento, sulla quale spiccano il campanile e la mole del duomo. Ma ben altre sorprese sono riservate al viaggiatore attento, che vuole conoscere usi e costumi non sempre riscontrabili nelle classiche mete turistiche.

Nella città, come in tutte quelle della Sicilia, la giornata inizia con il rito mattiniero della granita al gusto di caffè, o se preferite mandorla, cioccolato, limone, fragola, pesca, albicocche, gelsi neri e bianchi, gelsomino, anguria, cantalupo, pistacchio… Tutti prodotti, colori, sapori e profumi degli incantevoli giardini di Sicilia, accompagnati da fragranti brioches o dalle meno usuali zuccherate.

Il mare entra in tavola proponendo una incredibile varietà di piatti; si tratta dello stoccafisso in insalata o alla messinese, cioè a “ghiotta”, con un intingolo di pomodori, sedano, carota, prezzemolo e patate. Il pesce spada, per la cui pesca si utilizzano delle imbarcazioni tipiche dall’albero altissimo, viene proposto in svariati modi: alla “ghiotta”, alla “stemperata”, ad involtino, impanato o arrosto, spennellato con il “sammurigghiu”, una calda emulsione di acqua, olio, limone, prezzemolo, origano, sale e pepe, cotta a bagnomaria, che serve per accompagnare oltre ai pesci, anche carni alla brace. Ma a Messina e nelle località di riviera, si possono gustare, non solo pesce spada, ma anche tonni, spigole, ricciole, calamari, polpi, cozze… aguglie arrotolate come un bracciale, capone imperiale, pescato solamente nel mare dello Stretto.

 

Home

 

Tradizionale o innovativa, la cucina è in evoluzione

 

Tradizione o innovazione, questo è il problema. In realtà si tratta di un falso quesito, poiché i due termini sono complementari e l’uno segue o precede l’altro.

La cucina della tradizione è la trasmissione del patrimonio culturale delle generazioni passate, è memoria storica; tende a far rivivere gusti dimenticati o scomparsi; utilizza prodotti locali, cucinati in maniera semplice se attinge al mondo contadino o elaborata se fa riferimento a quello aristocratico. Il cibo della tradizione vuole rievocare la storia di un luogo, di una famiglia e la sua preparazione richiede ritmi lenti e una gestualità che si ripete nel tempo sempre uguale a sé stessa. Spesso, sono adoperati per lavorarlo utensili del passato, tramandati da generazioni e non è concessa alcuna variazione stravagante, né si seguono le mode.

La cucina innovativa, pur servendosi degli stessi prodotti, si avvale di tecniche nuove, ardite; di accostamenti inediti, talvolta estremi e di una “mise en place”  ad effetto. Sperimentare è la parola chiave, tanto che l’esasperazione può facilmente superare la creatività dello chef, sempre intento alla ricerca di nuovi sapori e consistenze. Nouvelle cousine, pietanze destrutturate, cucina fushion… e come ultima frontiera la gastronomia molecolare, che si avvale di tecniche che seguono le leggi della chimica e della fisica.

Le uova non sono cotte sul fuoco, ma semplicemente mescolate, avendo cura di versare su di esse a filo dell’alcol da cucina e ottenere cosi al posto di una morbida frittata, una sorta di ”formaggio d’uova”. Perché non assaporare poi un caffè al pomodoro? La “bevanda” si ottiene inserendo nella classica macchinetta (utilizzata solo per questo scopo) il liquido di filtrazione del pomodoro ed al posto del caffè foglie di basilico. Si prosegue con del pesce fritto nello zucchero, ma sapientemente avvolto in foglie di porro. Come dessert un cremoso gelato, la cui preparazione non richiede tempi lunghissimi ma solo pochi minuti e basta versare sul composto da solidificare azoto liquido.

Dunque: cucina innovativa o cucina tradizionale? Ciò che è importante non è trovare una risposta, ma fare sì che il modo di cucinare continui la sua lenta e graduale evoluzione; oggi del resto le mutate condizioni ambientali non permettono di apprezzare gli stessi sapori di una volta ed il gusto si è profondamente mutato.

 

Home

 

Cos’era una panelleria? 2/2

 

Nella panelleria si consumavano anche minuscole crocchette di patate, dette cazzilli; in rapporto alla stagione broccoli, cardi, carciofi… rigorosamente fritti in pastella. Oltre ai cazzilli si potevano gustare persino anelletti al forno, sarde a”beccafico”, frittura di calamari, melanzane alla parmigiana, a “quaglia”, trippa, pasta con le sarde e quanto di più buono offrisse la tradizione.

Stigghiole arrostite.
Stigghiole arrostite.

Per strada si incontravano, invece, il poliparo ovvero il venditore di polpo, il venditore di frittole, i banchi con la griglia sulla quale era cotta la “stigghiola”, stecca fatta con interiora di vitello intrecciata con verdi gambi di cipolla. La sua lunga cottura richiede notevole abilità e va consumata bollente con sale e limone. La stigghiola può essere consumata anche bollita, in tal caso prende il nome di quarume cioè caldure. Il quarumaro acquista i visceri del vitello che, puliti con acqua e sale, subiscono una prebollitura prima di passare a quella nel brodo con i tipici aromi di carota, cipolla, sedano e pomodoro.

Bollito è servito anche il “musso”, la parte del vitello che comprende la testa, i piedi, le mammelle, i genitali. I vari pezzi lessati vengono serviti freddi, tagliati e cosparsi di limone, su un piano inclinato coperto di larghe foglie di broccolo. Si tratta, è evidente, di una gastronomia popolare adatta ad un forte palato, ma pregnante di storia, un patrimonio culturale da salvaguardare.

Home

 

Cos’era una panelleria? 1/2

 

In principio c’era il fast-food, poi lo slow-food, per ultimo il finger-food. Seguendo una moda esterofila i termini presi in prestito dalla lingua inglese indicano, in ordine, un pasto veloce, uno lento e uno da afferrare con le dita. Dalla tradizione riaffiora così la pratica del cibo di strada, del piacere di consumare in piedi o su sgabelli posti davanti i banconi, bocconi golosi. Ritorna l’atavico gesto di prendere il cibo con le mani, sentire il profumo ed il “calore” che emana.

Il cibo di strada si identifica infatti con le friggitorie, i carrettini ambulanti, i chioschi; uso legato un tempo soprattutto alle città di mare, ma anche interne, che svolgevano un ruolo nevralgico negli scambi commerciali. Città così come Catania e Palermo, Genova e Firenze o la lontana Singapore, mettono in  “piazza” crespelle e panelle, farinata e lampredotto o saitai, cioè spiedini di legno su cui sono infilzati pezzi di carne marinata e grigliata.

La profumata focaccia a base di farina di ceci (farinata) dal porto di Genova approda a quelli della Toscana per giungere in Sicilia, a Palermo, non più cotta al forno, ma fritta in piccole porzioni. La panella è una piccola frittella a base di farina di ceci ed acqua che semplice negli ingredienti, richiede abilità nella preparazione. Facoltativa è nell’impasto la presenza di un ciuffo di prezzemolo così come la spolverata di pepe e qualche goccia di succo di limone. Pane e panelle, un tempo nel capoluogo siciliano, si trovavano dal panellaro. La sua bottega, ubicata al pianterreno di vecchi edifici, era impregnata dell’odore di olio fritto e rifritto.

Pane e panelle
Pane e panelle

Nelle panellerie il lavoro poteva cominciare anche il pomeriggio del giorno precedente e proseguire sino al mattino del giorno successivo. La farina di ceci veniva cotta a lungo in acqua salata e rimestata con un grande paiolo a “zattera”. Poi veniva fatta raffreddare, coperta da una mappina e si attendeva il momento giusto per confezionare le panelle, evitando che l’impasto si indurisse troppo. Si usavano particolari formelle di legno, di forma rettangolare, circolare oppure a semicerchio che avevano la particolarità di possedere un rilievo floreale. Una sorta di cartina al tornasole che provava l’immediatezza della preparazione, poiché tale incisione si rendeva visibile solo sopra una panella fritta da poco. Arredo tipico della panelleria era il piano inclinato forato, uno sgocciolatoio sul quale venivano riversate le panelle gonfie di vapore per eliminare l’olio superfluo, prima di essere gustate così o dentro tipiche pagnottelle calde di forno.

 

 

 

Home

 

Questo era il miglior mangiare!

 

Il fine di queste pagine è far capire che anche mangiare o bere è cultura. È la cultura di un popolo che dalla sua terra ha sempre tratto sostentamento, che l’ha coltivata con amorevolezza e perseveranza. È la cucina della tradizione legata alle stagioni e molte volte alle feste religiose e propiziatorie. La cucina dei nobili e quella del popolo. Non solo, perciò, la cucina dei “monsù”, ossia i cuochi dei baroni, come abbiamo visto con la serie dedicata alla “cena barocca”. Ma anche la cucina della gente comune, che nella semplicità traeva piatti freschi e gustosi, fra i cui ingredienti sembrava esserci persino il naturale profumo dell’orto.

A questo proposito ci pare appropriato prendere spunto dalle parole che da Sidney ci scrive il signor Antonino Biondo, un nostro assiduo visitatore (ormai diventato un nostro amico). Da anni vive in Australia, ma attraverso i suoi ricordi di ragazzo fornisce una significativa testimonianza della buona cucina casalinga siciliana.

«Sono nato a Barcellona Pozzo di Gotto, ho fatto il militare a Brescia, quindi mi sono trasferito a Sabaudia. Dal 1961 ho vissuto per lavoro nei paesi del Mercato Comune e qui ho potuto conoscere le differenti cucine europee. Adesso mi trovo in Australia e ho provato i cibi inglesi, giapponesi, cinesi, in altri termini la cucina etnica di buona parte del mondo. C’è chi mangia nei ristoranti di lusso, dove più paghi più esci con lo stomaco vuoto, e chi mangia sui marciapiedi, approfittando delle bancarelle degli ambulanti, con quei piatti di pasta il cui condimento è impuzzolentito dal fumo dei gas di scarico delle automobili che passano. Ma quanto è bello mangiare in casa !

Mio padre era un coltivatore diretto e a volte ci toccava di rimanere in campagna. Le pietanze erano genuine e gustose, ma non solo perché mangiavamo insieme ai contadini. Oggi penso che il migliore cibo era quello di una volta. Era quello che cucinavano i nostri genitori: i bei piatti di pasta condita con pomidoro fresco, con prezzemolo, con succo di limone, aglio e pepe. Per secondo un paio di melanzane ripiene oppure un po’ di “pesce stocco a ghiotta”. Il tutto annaffiato da mezzo litro di buon vino fatto in casa. Questo capriccio se lo poteva passare chi non comprava niente, se non lo stoccafisso. Vi posso assicurare che questo era il miglior mangiare».

Home

 

Una sontuosa cena barocca – 7/7

BIGNÈ.

Ingredienti per 4 persone

20 bignè da farcire

per la crema:
75 gr di pistacchi tritati
250 gr di latte
50 gr di zucchero
25 gr di amido di grano
100 gr conserva di zucca

per la salsa:
500 gr di succo d’anguria
25 gr di amido di mais
100 gr di zucchero
5 gr di cannella in polvere
1 bustina di vaniglia
15 gr di acqua di gelsomino

per guarnire:
20 gr di cioccolato
uno spruzzo di pistacchi tritati

Possiamo considerare questo dolce una sorta di profiterol, realizzato però con ingredienti tipicamente siciliani. D’altra parte la grande cucina e la grande pasticceria tra Sette e Ottocento si ispirava al gusto della Corte francese. Ma attenzione, perché la glassa finale affonda le proprie radici sulla tradizione araba.

Date vita ad una crema, unendo latte tiepido, amido di grano e zucchero; in ultimo cospargetela con il trito di pistacchi e la conserva di zucca (la cosiddetta zuccata). Questa crema costituirà la farcitura di piccoli bignè, che disporrete a piramide, su di un raffinato piatto da portata per dolci.

Contemporaneamente preparate una salsa con la quale ricoprire i bignè. Gli ingredienti (cui farete raggiungere lentamente l’ebollizione e poi raffreddare), sono il succo di anguria e l’acqua profumata al gelsomino, l’amido di mais, lo zucchero, la cannella e la vaniglia: i medesimi ingredienti del gelo di melone, qui utilizzati in un trionfo di sapori. Guarnite con riccioli di cioccolata e pistacchi tritati.

[Fotografia tratta dalla rivista “A Tavola”, rielaborata graficamente da Sebastiano Occhino]

 

logo4

 

Una sontuosa cena barocca – 6/7

BISQUIT A SORPRESA. 

Ingredienti per 8 persone

1 fetta di pan di Spagna di 200 gr ca.
60 gr di marmellata di arance amare
50 gr di Cointreau
150 gr di cioccolato di copertura
100 gr di croccante
150 gr di albumi
300 gr di zucchero
poco zucchero a velo

per il biscuit:
2 uova, 75 gr di zucchero
1 bustina di vaniglia
250 gr di panna

Questo biscuit è il non plus ultra della leggerezza: una nuvola bianca in un insieme di “inganni” propriamente barocchi, laddove l’apparentemente morbido è in realtà croccante, e l’apparentemente caldo nasconde con un composto ghiacciato.

In una ciotola ponete due uova, zucchero e vaniglia; poi battete a lungo, in ultimo aggiungete la panna montata. Versate il tutto in uno stampo preferibilmente metallico, che avete avuto cura di raffreddare preventivamente e che ora tornerete a riporre in freezer. Lasciate consolidare il composto per cinque ore. Quindi sformate il biscuit e cospargetelo del croccante pestato (di nocciole e mandole tostate e caramellate); poi ricopritelo con cioccolato fuso e riponetelo ancora una volta in freezer.

Preparate un piano di pan di Spagna, imbevuto di Cointreau e cosparso uniformemente di marmellata di arance amare. Trasferite il pan di Spagna su un sostegno di cartone e, quando il biscuit sarà ben freddo, ponetevelo sopra.

A lato, realizzate una meringa, battendo a neve albumi e zucchero. Versate il composto sul biscuit fino a ricoprire anche la base e spolverizzate con zucchero a velo. Mettete in forno, contate tre minuti esatti. Servite immediatamente: la meringa bollente sorprenderà per il suo contenuto gelato.

[
Fotografia tratta dalla rivista “A Tavola”, rielaborata graficamente da Sebastiano Occhino]

 

logo4