Cannoli siciliani: la preparazione della scorza 2/3

 

“U cannolu” è formato da una “scorza” o “crosta” esterna e da una farcitura interna di ricotta. La crosta è una pasta tirata sottilmente, composta da farina, burro o strutto, poco zucchero, un pizzico di sale ed una serie di ingredienti che ne rafforzano il gusto e la consistenza. Una componente alcolica viene aggiunta ad essa, come marsala, vino rosso o bianco secco, moscato, che hanno il compito di conferire al cannolo le classiche bolle. Il cacao amaro, il caffè ristretto o in polvere tendono invece ad accentuare il colore ed il retrogusto un po’ amarognolo dell’involto.

Dopo aver lavorato l’impasto energicamente e averlo fatto riposare per circa un’ora in frigorifero, in forma di palla chiusa in un tovagliolo, si stende con il matterello. Lo spessore della sfoglia deve essere di circa mezzo centimetro, poi con un tagliapasta o sovrapponendo un piattino dal diametro di circa 10 centimetri  si ritagliano dei dischi. Per farli diventare poi ovali si pigiano al centro con il matterello e si avvolgono lungo un cannello di latta, utile attrezzo di pasticceria indispensabile per l’esecuzione della crosta. Anticamente erano utilizzati pezzetti di canna, da cui deriva il nome di “cannolo”. A tal proposito è curioso osservare come in vecchi libri di cucina si consiglia, qualora questi oggetti non si trovassero in vendita, di far realizzare i cannelli di latta dal proprio lattoniere, avendo cura di non sigillarli, per non essere confusi con quelli utilizzati per la preparazione dei cannoncini di pasta sfoglia, più lunghi e più stretti.

Affinché i cannoli, durante la cottura non si aprano, s’inumidiscono i bordi degli ovali con un po’ di albume, sovrapponendoli e premendo con  forza. Per conferire la caratteristica forma di cilindro dai bordi svasati si allargano le due estremità della buccia con le dita. I “cannola” fritti in abbondante olio o strutto, saranno lasciati intiepidire e sfilati con delicatezza, si faranno raffreddare completamente.

Fonte immagine: Cialde per cannoli siciliani

 

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Cannoli siciliani: l’origine 1/3

 

Il cannolo, tipico dolce siciliano del periodo invernale, un tempo veniva confezionato solo in occasione del carnevale, per la ricchezza e la complessità della sua ricetta. Oggi, questa golosità palermitana, si trova nell’isola durante tutto l’anno e viene esportata ovunque. È un dolce dai forti contrasti: di colori, di profumo, di sapore, di consistenza. Intrigante la sua forma cilindrica, conservatasi nel tempo. Giuseppe Coria evidenzia in uno studio sul rapporto tra la geometria e la simbologia che il suo aspetto rappresenterebbe la forma fallica. Sotto questo aspetto, il cannolo esprime, dunque, un significato di fecondità, di forza generatrice, ma anche un valore apotropaico, cioè di allontanamento delle influenze maligne. Un altro nome, infatti, con cui è identificato questo dolce è “scettro da re”. A Regalbuto, per S. Martino, si confeziona un biscotto di forma cilindrica, in analogia col cannolo, che richiama secondo la tradizione popolare il sesso del santo. Un cilindro di pasta, infatti, è cotto, tagliato due, svuotato, e riempito con una crema di ricotta arricchita di cioccolato e fili di zuccata.

L’ipotesi sull’origine di questo dolce, stimolante per il gusto ed accattivante per le interpretazioni tra sacro e profano, è descritta dal Duca Alberto Denti di Pirajno, cultore di gastronomia.  In “Siciliani a tavola” (la cui edizione fu terminata da Massimo Alberini, dopo la scomparsa del nobile siciliano) il Duca sostiene che il cannolo sarebbe stato inventato dalle abili mani delle suore di clausura di un convento nei pressi di Caltanissetta. Per l’esattezza, si legge: “Il cannolo non è un dolce cristiano, ché la varietà dei sapori e la fastosità della composizione tradiscono una indubbia origine mussulmana”. Caltanissetta, effettivamente, in arabo significa “Castello delle donne”, poiché gli emiri saraceni vi tenevano i loro harem; queste donne, aspettando l’arrivo del consorte si suppone ingannassero il tempo a preparare squisite leccornie. Quando gli arabi furono estromessi dai normanni, gli harem si svuotarono e, tra conversioni ed abiure, non si esclude che qualcuna delle favorite, convertita alla fede cristiana, si sia ritirata nei monasteri, portando con sé quelle ricette che avevano sedotto le corti degli emiri, trasmettendole in seguito a “quelle sante ancelle del Signore sino a noi poveri peccatori”.

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A Novara di Sicilia giocano col Maiorchino

 

Lo stemma del paese è rappresentato da un albero di noce; le sue origini affondano nella preistoria come attestano le contrade di Casalini e di Sperlinga; il paesaggio naturale, con la Rocca Salvatesta e la Rocca Leone, le neviere e la pineta di Mandrazzi, offre una serie di elementi fortemente caratterizzanti la geologia, la flora e la fauna del luogo. Numerosi mulini idraulici, oggi ridotti a pochi esemplari, si trovano lungo il torrente San Giorgio ubicato all’inizio del paese, offrendo un interessante esempio di archeologia industriale. Poi ci sono le chiese, il castello intorno al quale si è costituito il primo nucleo del paese, i monumenti ed anche un piccolo museo delle tradizioni popolari.

Questo è il territorio di Novara di Sicilia, un paese in provincia di Messina, situato al confine tra i monti Nebrodi ed i Peloritani, a 650 m. di altezza. Il viaggiatore lo potrà raggiungere sia dalla costa tirrenica che da quella ionica, attraverso la statale 185, partendo da Barcellona e Patti oppure da Giardini Naxos e Francavilla di Sicilia. In questa località non solo ammirerà suggestivi scorci panoramici, leggerà la storia del sito attraverso le sue testimonianze storiche ed artistiche, ma apprezzerà una tavola ricca di prodotti genuini, dei sapori e dei profumi di una cucina ancora fortemente legata al territorio.

Specialità panarie e dolciarie, gustose pietanze a base di carni, verdure e legumi …ed una peculiarità locale: il formaggio Maiorchino. Questo saporito pecorino è stato infatti presentato a Roma, a villa Borghese, nell’ambito di una manifestazione gastronomica, uscendo dai confini isolani e ponendosi all’attenzione di un pubblico più vasto in campo nazionale. Alcuni produttori di Novara di Sicilia e Fondachelli Fantina hanno offerto una degustazione di questo formaggio affiancandolo ad altre produzioni locali. La sua preparazione, a base di latte di pecora, è alquanto elaborata; altrettanto complessa è la stagionatura, scandita da ritmi ben precisi che prevedono la salatura delle forme, la pulitura, la strofinatura e l’oliatura. Dopo circa otto mesi il formaggio è pronto per essere gustato. Al taglio si presenta compatto e dal caratteristico colore giallo della pasta casearia.

La realizzazione del Maiorchino è associata ad un evento risalente al Seicento, per la precisione ad un gioco pubblico, che consiste nel lanciare una forma di cacio lungo un percorso prestabilito, fra vari contendenti e scommettitori. Chi raggiunge il traguardo con meno lanci è il vincitore. Il gioco si svolge durante il periodo carnevalesco, ma il crescente interesse non solo per l’aspetto ludico della manifestazione, ma anche per la qualità e la bontà del prodotto, ha determinato il ripetersi della gara durante il periodo estivo ad uso di emigranti di ritorno e naturalmente di turisti e curiosi. Nella settimana che precede il ferragosto, i numerosi villeggianti saranno pertanto coinvolti in un itinerario in grado di coniugare il bello dell’arte, l’allegria del gioco e la bontà dei sapori.

Fonte immagine:  “Corsa del Maiorchino”

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Antipasti appetitosi 1/3

 

Parlare di antipasti nella cucina siciliana è un’impresa difficoltosa, sia per l’origine antica alla quale si fanno risalire, sia per l’esorbitante numero di queste gustose preparazioni. Oggi infatti tale definizione include pietanze che possono essere anche servite come contorni o piatti di mezzo.

L’antipasto nella moderna accezione del termine e nella sequenza odierna, appare nell’Ottocento contemporaneamente alla ideazione del menù, come portata che si serve all’inizio del pasto per stuzzicare l’appetito.

Antipasto deriva da “ante pastum” dove, secondo l’etimologia latina, il prefisso ante indica anteriorità. Pellegrino Artusi, infatti, nella sua ”Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” li appella “Principii” anche se con questa definizione ci fornisce un’alternativa interessante. Per Artusi infatti gli antipasti sono delle “cosette appetitose che si imbandiscono per mangiarle o dopo la minestra come si usa in Toscana o prima come si pratica in altre parti d’Italia”. Quindi l’idea moderna che queste cose appetitose siano sempre servite prima del pasto, non sempre nel passato era seguita.

L’uso di preparare questi piccoli assaggi ha il compito di predisporre il commensale al rito della tavola e poiché l’antipasto deve suggerire il carattere dell’intero pranzo deve anche essere un “piatto forte e vigoroso”, ovvero un pasto in miniatura. In tal senso l’antipasto, come preludio di sontuosi pranzi o banchetti, è prerogativa di una cucina aristocratica, baronale, ricca e non certo popolare.

Il timballo delle feste 3/3

 

Il sartù, affine al timballo ed al pasticcio, etimologicamente deriva anche dal francese surtout che indica una decorazione da centrotavola. L’idea di creare un timballo di pasta è tuttavia tipica dell’Italia meridionale, Napoli e Sicilia in particolare. È in Sicilia, proprio nell’isola del sole, che padre Labat, tra i primi viaggiatori del grand tour, scopre per la prima volta all’inizio del XVIII sec. un pasticcio di maccheroni: “Non avevo mai visto pâtè di maccheroni. I maccheroni erano stati cotti in un brodo di latte di mandorle, di cannella, della vera uvetta di Corinto, dei pistacchi del Levante, delle scorze di limoni, i salamini più delicati e guarniti con pasta di Genova”

Dal prototipo di un timballo che evoca retaggi arabi e rinascimentali, passiamo a quello più aristocratico e più famoso della letteratura italiana, un “torreggiante timballo di maccheroni”: Don Fabrizio, principe di Salina, lo offre ai suoi ospiti, per celebrare l’importanza e la solennità del primo pranzo a Donnafugata, feudo e località di villeggiatura della famiglia. La superficie dorata di questo “trionfo di gola” rappresenta una premessa ai tesori che vi si celano all’interno. Primo fra tutti il tartufo, fungo ipogeo, che pur essendo presente nel sottobosco della Sicilia, non rientra nella sua tradizione culinaria: forse perché di dimensioni più modeste rispetto a quelli noti del Piemonte e dell’Umbria, forse per il suo aroma meno intenso o forse semplicemente perché i cuochi siciliani preferivano esaltare i loro piatti con i profumi del Mediterraneo.

La demi-glacé, il fondo bruno, è un ulteriore elogio alla professionalità e all’abilità dei monsù. I tempi di cottura prolungati, la varietà delle carni e delle verdure utilizzate, le operazioni scandite ad intervalli di tempo regolare, fra le quali la schiumatura, la filtrazione, la sgrassatura ne fanno un autentico boccone da re. Una portata che non tutte le bocche sono in grado di apprezzare ed infatti soltanto il Principe, autentico Gattopardo, si accorge di quanto la demi-glace sia carica: “…l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.

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Il timballo delle feste 2/3

 

Infinite sono le ricette per la preparazione del timballo, il cui ripieno non impone limiti alla fantasia. Il timballo della tradizione è quello di maccheroni, dalle svariate forme e consistenze: maccheroni corti o lunghi, secchi o freschi (cioè lavorati a mano) lisci o rigati. Ma sono presenti anche ziti, mezzemaniche, fettuccine, lasagne…e persino il riso, cereale di antica tradizione siciliana, oggi desueto in queste preparazioni. Li accompagnano le verdure, le carni tra le quali quelle di gallina contenente le uova non nate, animelle e rigaglie (frattaglie).

Il timballo eleva i maccheroni, associati spesso alla schiettezza e alla semplicità del popolo, a piatto di prestigio, infatti la sua fama a partire dal secolo XVII travalica le Alpi, innalzandolo a piatto nobiliare e facendogli assumere un ruolo di primaria importanza nella letteratura gastronomica francese e italiana. Il famoso cuoco Antonin Carême celebra il timballo di maccheroni tanto da renderlo una preparazione di prestigio per l’Italia del Risorgimento e per la Francia dell’Impero e della Restaurazione.

L’interscambio tra le due culture gastronomiche, già nel Rinascimento aveva visto il prevalere della cucina italiana e in particolare toscana in Francia grazie a Caterina dei Medici, famosa, nello specifico, per aver introdotto l’uso di elaborati pasticci di carne. Nel ‘600 e nel ‘700, i ruoli si invertono, l’egemonia spetta alla cucina francese che, ingentilisce ed armonizza l’uso dei prodotti, controllando il dosaggio delle spezie, equilibrando contrasti fra dolce e salato e introducendo nuove tecniche di cottura. La superiorità di questa cucina contribuisce alla istituzione di un gergo specifico tuttora presente nel lessico abituale della gastronomia siciliana: monsù da monsieur, ragù da ragoût, gattò da gateaux

 

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Il timballo delle feste 1/3

 

Timballo, pasticcio, sformato, sartù, nomi dagli etimi diversi, pietanze dalle impercettibili varianti, ma sempre ricche e sontuose. Il timballo, piatto in grado di sedurre i palati più esigenti, è caratterizzato da una sfoglia di pasta che lo avvolge ed è farcito da cibi già cotti (pasta, riso, carni, verdure) e passato in forno nell’apposito recipiente.

Il suo nome sta ad indicare un antico strumento a percussione, il tamburo o timpano, su cui è tesa una membrana e per analogia uno stampo di forma cilindrica. Il termine deriva dal francese timbale a sua volta dallo spagnolo atabal di origine araba. In Sicilia, del resto l’impronta araba pervade tutta la cucina e l’utilizzo di pasticci imbottiti di carne era già noto ai tempi degli conquistatori islamici.

Imperioso nell’aspetto, opulento per la quantità e la ricercatezza degli ingredienti, rigoroso per la forma che ricalca geometrie e decori di stampi appositamente creati per la sua realizzazione, è comune tanto alla cucina baronale quanto a quella popolare. La gente umile vuole infatti emulare le tavole dei nobili, in occasione di ricorrenze, eventi speciali o festività religiose come il Natale.

L’involucro esterno di questo contenitore commestibile, può essere dolce o salato, di pasta frolla, di pasta brisée, aromatizzato spesso con cannella, scorza di limone o con altre essenze. Tale involucro può essere sostituito da altri alimenti che svolgono il ruolo di “fasciare”, come fette di melanzane fritte e verdure affini, crespelle o del semplice pangrattato che, aderendo perfettamente alle pareti unte della teglia, crea un consistente strato esterno.

La visione del timballo, il cui decorativismo attinge alla pasticceria, intesa nel senso più ampio del termine come arte del plasmare, induce la mente e il palato del commensale a esperienze gustative uniche, in grado di stimolare ed attivare tutti i sensi.

 

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La cucina a Messina, in riva allo Stretto 2/2

 

Non bisogna dimenticare che la cucina di Messina, come quella delle Eolie, e apparentemente in modo paradossale la cucina dell’intera Sicilia e delle sue isole, è essenzialmente una cucina di terra. Il clima favorisce la coltivazione delle verdure, tanto che spostandosi dalla costa all’entroterra collinare, oltre che al pesce, queste verdure si mescolano alle carni. Ecco l’agnello alla messinese, cotto al forno con olive nere e pecorino o, ricordando atavici riti, cosparso di ogni genere di erbe e anticamente cotto in una fossa scavata nel terreno. Gli involtini di vitello, le polpette di carne (e di magro), il manzo e il coniglio in agrodolce, il falsomagro ripieno di salsiccia e tritato, uova sode, salame e formaggio.

La specialità dell'antica cucina messinese chiamata “sciusceddu”.
La specialità dell’antica cucina messinese chiamata “sciusceddu”.

Anche la cotoletta si arricchisce di un gusto più incisivo, dopo una infusione nell’uovo sbattuto ed una ripassata in un composto di pecorino, pane grattato, prezzemolo, sale, pepe, aglio. Poi possiamo scoprire il tipico “agglassato” a base di lacerto, il cui fondo di cottura può essere utilizzato per condire della pasta fresca. Ancora un piatto, per ricordare solo di sfuggita una tradizione gastronomica attraverso la quale siamo in grado di mostrare il legame con il territorio, per reintrodurlo nella ristorazione locale: parliamo del “sciusceddu”, polpettine di carne trita cotte nel brodo, versate in teglia e infornate, dopo avere aggiunto un composto di ricotta fresca, sbattuta con uovo, parmigiano, noce moscata.

E poi i dolci: cannoli e cassata, che a seconda delle province assumono consistenze e fragranze diverse; la frutta martorana, la pignolata messinese bianca e nera, le “sfinci” di San Giuseppe e i gelati, i rosoli, gli sciroppi, i liquori dolci della tradizione, come il nespolino e il liquore di miele.

 

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La cucina a Messina, in riva allo Stretto 1/2

 

Il modo più tradizionale per intraprendere un viaggio in Sicilia attraverso itinerari, non solo dell’arte, della cultura, delle tradizioni etniche, ma anche del gusto e dei sapori comincia dalla città dello Stretto. Messina, primo punto di approdo nell’Isola per chi traghetta dal continente, offre al visitatore l’immagine della nuova città eclettica e razionale, ricostruita all’inizio del Novecento, sulla quale spiccano il campanile e la mole del duomo. Ma ben altre sorprese sono riservate al viaggiatore attento, che vuole conoscere usi e costumi non sempre riscontrabili nelle classiche mete turistiche.

Nella città, come in tutte quelle della Sicilia, la giornata inizia con il rito mattiniero della granita al gusto di caffè, o se preferite mandorla, cioccolato, limone, fragola, pesca, albicocche, gelsi neri e bianchi, gelsomino, anguria, cantalupo, pistacchio… Tutti prodotti, colori, sapori e profumi degli incantevoli giardini di Sicilia, accompagnati da fragranti brioches o dalle meno usuali zuccherate.

Il mare entra in tavola proponendo una incredibile varietà di piatti; si tratta dello stoccafisso in insalata o alla messinese, cioè a “ghiotta”, con un intingolo di pomodori, sedano, carota, prezzemolo e patate. Il pesce spada, per la cui pesca si utilizzano delle imbarcazioni tipiche dall’albero altissimo, viene proposto in svariati modi: alla “ghiotta”, alla “stemperata”, ad involtino, impanato o arrosto, spennellato con il “sammurigghiu”, una calda emulsione di acqua, olio, limone, prezzemolo, origano, sale e pepe, cotta a bagnomaria, che serve per accompagnare oltre ai pesci, anche carni alla brace. Ma a Messina e nelle località di riviera, si possono gustare, non solo pesce spada, ma anche tonni, spigole, ricciole, calamari, polpi, cozze… aguglie arrotolate come un bracciale, capone imperiale, pescato solamente nel mare dello Stretto.

 

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Tradizionale o innovativa, la cucina è in evoluzione

 

Tradizione o innovazione, questo è il problema. In realtà si tratta di un falso quesito, poiché i due termini sono complementari e l’uno segue o precede l’altro.

La cucina della tradizione è la trasmissione del patrimonio culturale delle generazioni passate, è memoria storica; tende a far rivivere gusti dimenticati o scomparsi; utilizza prodotti locali, cucinati in maniera semplice se attinge al mondo contadino o elaborata se fa riferimento a quello aristocratico. Il cibo della tradizione vuole rievocare la storia di un luogo, di una famiglia e la sua preparazione richiede ritmi lenti e una gestualità che si ripete nel tempo sempre uguale a sé stessa. Spesso, sono adoperati per lavorarlo utensili del passato, tramandati da generazioni e non è concessa alcuna variazione stravagante, né si seguono le mode.

La cucina innovativa, pur servendosi degli stessi prodotti, si avvale di tecniche nuove, ardite; di accostamenti inediti, talvolta estremi e di una “mise en place”  ad effetto. Sperimentare è la parola chiave, tanto che l’esasperazione può facilmente superare la creatività dello chef, sempre intento alla ricerca di nuovi sapori e consistenze. Nouvelle cousine, pietanze destrutturate, cucina fushion… e come ultima frontiera la gastronomia molecolare, che si avvale di tecniche che seguono le leggi della chimica e della fisica.

Le uova non sono cotte sul fuoco, ma semplicemente mescolate, avendo cura di versare su di esse a filo dell’alcol da cucina e ottenere cosi al posto di una morbida frittata, una sorta di ”formaggio d’uova”. Perché non assaporare poi un caffè al pomodoro? La “bevanda” si ottiene inserendo nella classica macchinetta (utilizzata solo per questo scopo) il liquido di filtrazione del pomodoro ed al posto del caffè foglie di basilico. Si prosegue con del pesce fritto nello zucchero, ma sapientemente avvolto in foglie di porro. Come dessert un cremoso gelato, la cui preparazione non richiede tempi lunghissimi ma solo pochi minuti e basta versare sul composto da solidificare azoto liquido.

Dunque: cucina innovativa o cucina tradizionale? Ciò che è importante non è trovare una risposta, ma fare sì che il modo di cucinare continui la sua lenta e graduale evoluzione; oggi del resto le mutate condizioni ambientali non permettono di apprezzare gli stessi sapori di una volta ed il gusto si è profondamente mutato.

 

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