Eravamo a cavallo… ora siamo a mare

 

L’ARCHEOLOGIA NAVALE fa “nuove scoperte” e mette a tacere persino Virgilio, il quale, nel II libro dell’Eneide, narra dell’esule Enea, che descrive alla regina Didone lo stratagemma messo in atto dagli Achei per concludere i dieci anni di guerra con Troia. Fingendo di tornare in patria, lasciano sulla spiaggia, quale dono agli dei, un colossale cavallo di legno costruito da Epeo con l’aiuto di Atena, e si nascondono nella vicina isola di Tenedo. È pura leggenda, legata a un mito tramandato attraverso resoconti orali. Ma una disputa di lunga durata asserisce che tale versione dei fatti, nata intorno al VII secolo a.C., sarebbe errata. L’ultimo a intervenire, in ordine di tempo, è l’archeologo Francesco Tiboni, ricercatore dell’Università di Aix-en-Provence e Marsiglia. Sostiene che sarebbe frutto della traduzione inesatta del termine “hippos” con “equus” (cavallo). In realtà, l’epica macchina, adoperata dai greci per espugnare Troia, era una particolare nave di origine fenicia con la polena a testa di cavallo e per questo denominata “hippos”. «Che quello realizzato da Epeo fosse un marchingegno per abbattere le mura e non un cavallo, lo sa bene chiunque non voglia attribuire ai Frigi un’assoluta dabbenaggine. Tuttavia, la leggenda ci dice che è un cavallo» (Pausania). Ce lo siamo domandati un po’ tutti come mai questi troiani si siano portati dentro casa il nemico. Ora il dubbio si accresce. Perché Tiboni dovrebbe spiegare, per quale ragione una nave dovesse essere trascinata a braccia oltre la cinta muraria, anziché i cittadini riversarsi a mare per festeggiare il dono rinvenuto. L’archeologia navale non dovrebbe esibire reperti ripescati, anziché ripescare libere interpretazioni lessicali?

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