La Sicilia e le sue culture

 

di Giuseppe Mento, organizzatore dell’evento.

C’è ancora spazio per il “Mito e il Sogno della Bellezza e della Giustizia” nella dimensione contemporanea del territorio in cui viviamo? La nostra “Sicilia” è disseminata da tracce antropologiche che rivelano un destino narrativo primordiale al centro del Mediterraneo. In alcune aree, dove la temporalità è ancora sospesa e la realtà oscilla tra l’accadere, l’inerzia e le negazioni del passato, sarà la mente dell’uomo, con la sua cultura, la conoscenza, le sue musiche e le architetture a ridisegnare un “ritmo dominante” di bellezza nel territorio, e trascinare “fuori” definitivamente la percezione di incombente abbandono territoriale, sociale, spirituale e giuridico che ha caratterizzato i fenomeni critici di questo secolo. Questo evento è un tentativo di “rivisitazione critica” dei concetti di spazio, luogo, ambiente, territorio e paesaggio attraverso una prospettiva antropologica e storica della percezione dei “comportamenti umani” e dei “fenomeni” che in essi avvengono. Una occasione culturale di confronto tra aree del sapere apparentemente distanti tra loro come le neuroscienze e la psicoanalisi, l’architettura e il design, le scienze musicali e l’archeologia, l’economia e il diritto, la filosofia e la geografia, l’antropologia e la storia. La vera conoscenza di un “territorio” da parte di chi lo abita, ma anche di chi lo visita, non può continuare ad essere sostenuta solo da motivazioni di tipo individuale e consumistico, ma dovrebbe sempre tendere ad una “esplorazione cognitiva delle memorie” dalla quale possa emergere una nuova coscienza collettiva dell’abitare e attraversare i luoghi, non solo in senso fisico ma anche in senso spirituale, immaginario, metafisico e simbolico. Al fenomeno della globalizzazione che, per soggiacere a regole di tipo prevalentemente economico tende alla cancellazione delle piccole etnie, dei retroterra culturali e di tutta una fenomenologia arcaica di comportamenti umani e di tradizioni, va contrapposto un modello alternativo di “connettività microdimensionale delle culture e dei saperi” di tutti i luoghi della terra che possa efficacemente assicurare all’umanità un progressivo transito verso la post-modernità e oltre! Questo evento è quindi dedicato a uomini e donne dallo spirito libero che sentono di poter dare ancora un personale e collettivo apporto, tramite le diverse discipline e ambiti in cui operano, scientifiche, umanistiche, spirituali, artistiche e tecnologiche, alla complessa dimensione evolutiva del sistema “Mondo”. Negli spazi in cui vivono.. in quelli che stanno ancora attraversando.. e in altri, che hanno solo immaginato o sognato!

IL PROGRAMMA DELL’EVENTO

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Macerie, una volta di più

 

TERREMOTI. Prevederli non significa indicare in anticipo zona, giorno, ora, intensità. Ma avere l’idea che, prima o poi, l’evento si verificherà. Fronteggiare il problema non è mai una questione tecnica, ma politica ed economica; perché sono politica ed economia ad indirizzare i programmi. La tecnica individua solo come realizzarli. La carta della classificazione sismica non è, perciò, una figurina per illustrare i tragici resoconti di cronaca. Il livello massimo di pericolosità si estende lungo la dorsale appenninica, senza discontinuità, dall’Italia centrale fino ad attraversare lo Stretto. Studiosi e tecnici lo spiegano a chiare lettere: siamo letteralmente seduti su di una polveriera con una sigaretta accesa fra le dita. I dati sono resi più drammatici dal fatto che circa il 70% del patrimonio storico ed artistico dei nostri bellissimi centri è fatiscente. Le sopraelevazioni e persino certe sostituzioni dei vecchi impalcati in legno, con nuovi solai cementizi, premono – verticalmente od orizzontalmente – su murature in pietrame che utilizzano leganti aerei di antichissima data. Neppure gli stabili dei primi anni del Novecento, costruiti con telai in calcestruzzo armato, sono sempre del tutto sicuri, poiché le competenze dell’epoca erano empiriche e le normative ancora deficitarie. Recuperare pertanto i centri storici, per adeguare alle attuali prescrizioni antisismiche un tessuto edilizio fragile e vulnerabile, dovrebbe costituire l’obiettivo fondamentale del nostro Paese. Urge un programma di prevenzione, risanamento e restauro, che prenda in considerazione l’intero territorio italiano a rischio. Perché, una volta di più, non basterà ricostruire le aree colpite dal sisma del 24 agosto.

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Si dice arancino o arancina?

 

Annoso problema che divide in due la Sicilia. Sentite dire arancina (rotonda) nella parte occidentale e arancino (rotondo o a punta come la forma dell’Etna) nella parte orientale. Ma quale è il vero nome di queste gustose crocchette di riso? Non si può fare a meno di chiederlo a Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia nazionale della Crusca, intervenuto all’istituto comprensivo Buonarroti di Palermo per presentare l’ultima edizione del suo libro, Conosco la mia lingua. Lui risponde diplomaticamente: «Propendo per la prima forma, “arancino”, perché di solito i diminutivi vanno al maschile. L’arancia è femminile, ma la trasformazione in un’altra cosa dovrebbe far cambiare il genere grammaticale. So che a Palermo si preferisce usare il femminile e allora va bene anche così. L’importante non è come si pronuncia ma chi lo fa meglio».

In verità, l’Accademia nazionale della Crusca è l’autorità assoluta in fatto di Lingua italiana. Non possiamo, dunque, che attenerci a quanto ci spiega con competenza Stefania Iannizzotto, della Redazione Consulenza Linguistica della prestigiosa Accademia. Scopriremo proprio quello che dice il prof. Sabatini: si può dire in ambedue i modi. Inoltre apprenderemo una curiosità storica: anche se molti vorrebbero fare risalire questa preparazione agli arabi, in realtà non ci sono tracce prima della seconda metà del XIX secolo. Per saperne di più, non rimane che leggere la lunga ma “gustosa” risposta sul sito web dell’Accademia della Crusca, così finiremo di domandarci: Si dice arancino o arancina?

LEGGI LA RISPOSTA DATA DALL’ACCADEMIA NAZIONALE DELLA CRUSCA


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Questo era il miglior mangiare!

 

Il fine di queste pagine è far capire che anche mangiare o bere è cultura. È la cultura di un popolo che dalla sua terra ha sempre tratto sostentamento, che l’ha coltivata con amorevolezza e perseveranza. È la cucina della tradizione legata alle stagioni e molte volte alle feste religiose e propiziatorie. La cucina dei nobili e quella del popolo. Non solo, perciò, la cucina dei “monsù”, ossia i cuochi dei baroni, come abbiamo visto con la serie dedicata alla “cena barocca”. Ma anche la cucina della gente comune, che nella semplicità traeva piatti freschi e gustosi, fra i cui ingredienti sembrava esserci persino il naturale profumo dell’orto.

A questo proposito ci pare appropriato prendere spunto dalle parole che da Sidney ci scrive il signor Antonino Biondo, un nostro assiduo visitatore (ormai diventato un nostro amico). Da anni vive in Australia, ma attraverso i suoi ricordi di ragazzo fornisce una significativa testimonianza della buona cucina casalinga siciliana.

«Sono nato a Barcellona Pozzo di Gotto, ho fatto il militare a Brescia, quindi mi sono trasferito a Sabaudia. Dal 1961 ho vissuto per lavoro nei paesi del Mercato Comune e qui ho potuto conoscere le differenti cucine europee. Adesso mi trovo in Australia e ho provato i cibi inglesi, giapponesi, cinesi, in altri termini la cucina etnica di buona parte del mondo. C’è chi mangia nei ristoranti di lusso, dove più paghi più esci con lo stomaco vuoto, e chi mangia sui marciapiedi, approfittando delle bancarelle degli ambulanti, con quei piatti di pasta il cui condimento è impuzzolentito dal fumo dei gas di scarico delle automobili che passano. Ma quanto è bello mangiare in casa !

Mio padre era un coltivatore diretto e a volte ci toccava di rimanere in campagna. Le pietanze erano genuine e gustose, ma non solo perché mangiavamo insieme ai contadini. Oggi penso che il migliore cibo era quello di una volta. Era quello che cucinavano i nostri genitori: i bei piatti di pasta condita con pomidoro fresco, con prezzemolo, con succo di limone, aglio e pepe. Per secondo un paio di melanzane ripiene oppure un po’ di “pesce stocco a ghiotta”. Il tutto annaffiato da mezzo litro di buon vino fatto in casa. Questo capriccio se lo poteva passare chi non comprava niente, se non lo stoccafisso. Vi posso assicurare che questo era il miglior mangiare».

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Prospettive – La Parigi del barone Haussmann

 

Prendete una cartina di Parigi e cancellatene un buon 70 per cento. A questo punto, realizzate la nuova Parigi! Sembra una sciocchezza, vero? Eppure è proprio quello che fece il barone Haussmann a metà dell’Ottocento. Pochi anni dopo, alla fine del secolo, Parigi era riedificata praticamente ex novo. Il suo fascino oggi dipende, quindi, dal visionario barone. Città pensata, città realizzata. Quando si dice che basta la volontà…

Il Tema

Molto del fascino di Parigi si deve al lavoro del barone Georges Eugène Haussmann, che dal 1852 al 1869, in qualità di prefetto del dipartimento della Senna, ristrutturò la città. Fu nominato barone da Napoleone III, proprio in virtù della sua opera. Dopo avere svolto studi in scuole di grande prestigio di Parigi (la famiglia ne aveva la possibilità), quasi subito iniziò la carriera di funzionario di Stato, che assolse con ottimi risultati in diverse prefetture di Parigi. Si mise in luce, in particolare, per le realizzazioni urbanistiche, con la creazione di strade, scuole e piantumazioni a verde, come nel dipartimento del Lot-et-Garonne. La sua vita ebbe una importante svolta nel 1853, quando Victor de Persigny, ministro dell’Interno, lo presentò a Napoleone III, che lo nominò Prefetto di Parigi e Senna.

L’attività di prefetto di Parigi fu accompagnata da altre nomine prestigiose: ad esempio, divenne membro dell’Académie des beaux-arts, nel 1867. Ma fu anche segnata da forti contrasti politici. Il deputato Jules Ferry, in particolare, lo fece mettere sotto inchiesta per i disinvolti finanziamenti dei lavori pubblici della capitale. Tanto che nel 1869 fu estromesso da prefetto con disonore, prima ancora di ultimare i lavori di trasformazione della città. Tuttavia, Haussmann continuò a ricoprire un ruolo di primo piano, nominato deputato nel 1877 e nel 1881. Il valore della trasformazione di Parigi lo mise in grande luce, tanto che gli fu richiesto, dal governo italiano presieduto da Crispi, un progetto anche per Roma, nuova capitale d’Italia. La sua stesura, tuttavia, non convinse molto. Egli aveva proposto per la città romana una “medicina” molto simile a quella francese. Strade larghe e diritte, demolizioni, ampliamento di piazze, il tutto in una soluzione planimetrica ortogonale. Accantonato per qualche anno, il progetto fu parzialmente attuato dal successivo regime fascista. Il barone Haussmann scrisse le sue memorie, in tre volumi, pubblicate fra il 1890 e il 1893. Morì nel 1891.

La Parigi del Re

L’input per il rinnovamento della capitale francese non venne da Haussmann, bensì dal re Napoleone III. Infatti, nel corso della sua permanenza a Londra, ebbe modo di apprezzare le trasformazioni della città in conseguenza della ricostruzione dovuta all’incendio del 1666 che l’aveva annientata. La città riedificata, aveva seguito principi innovativi d’igiene e di urbanistica, con strade larghe ed edifici non più in legno, ma in muratura. Al suo ritorno la capitale francese, al contrario di quanto veduto in Inghilterra, gli apparve caratterizzata da strade strette e malsane, eredità del periodo medievale. Il re aveva, perciò, più di un motivo per cambiare volto alla città. A cominciare proprio da quello igienico, desunto dal pensiero illuminista del secolo prima e, soprattutto, dopo l’epidemia di colera, registrata in città, nel 1832. Sotto il suo slogan “Parigi abbellita, ingrandita”, si nascondeva, però, una precisa volontà politica. Per superare la coabitazione con il popolo, Luigi XIV (il famoso Re Sole), aveva fatto costruire Versailles. Dopo più di un secolo, Napoleone III fece la scelta opposta: trasferire il popolo fuori da Parigi. La corona non si sentiva tranquilla, soprattutto dopo le rivolte parigine del 1830 e del 1848.

 

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