Gli Uffizi dopo i Medici 4/4

 

Con la fine della dinastia della famiglia dei Medici, avvenuta nel 1737, dopo la morte di Gian Gastone Medici, si aprì un grosso problema sulla fine delle collezioni degli Uffizi. Oculatamente, Anna Maria Ludovica, la sorella di Gian Gastone, stipulò una convenzione con la dinastia dei Lorena. Si impegnava a cedere tutte le collezioni ai Lorena, con la clausola che le opere rimanessero a Firenze, inalienabili, escludendo così i pericoli di frazionamento e dispersione in altri luoghi. Il patto fu rispettato dai Lorena, tanto che oggi possiamo ammirare la Galleria degli Uffizi con tutte le sue opere d’arte. Purtroppo non avvenne altrettanto per le collezioni di Mantova e di Urbino.

Superato l’incendio, del 1762, che distrusse il corridoio orientale, anche se soltanto in parte, nel 1769, la Galleria fu aperta al pubblico, grazie a Pietro Leopoldo di Lorena. Per questo motivo, venne attivato un nuovo ingresso, ideato dall’architetto Zanobi del Rosso, e la direzione degli Uffizi fu affidata a Giuseppe Pelli Bencivenni. La nuova situazione comportò anche un ripensamento generale di tutte le collezioni del museo e delle loro esposizioni. Ripensamento che fu affidato all’illuminista Luigi Lanzi, che riorganizzò le esposizioni seguendo un principio razionalistico e pedagogico. Per razionalità, il Lanzi fece rimuovere dal museo l’armeria, traslò la collezione degli strumenti scientifici nella Specola e vendette la raccolta di maioliche. Tutto questo per concentrare la Galleria sulle opere d’arte. Le arti minori vennero, però, sottovalutate.

Nel 1779, giunse da Villa Medici a Roma, Niobe e i suoi figli. L’opera, insieme ad altre sculture antiche, fu inserita nell’omonima Sala della Niobe, realizzata da Gaspare Maria Paletti. Nel 1793, fu eseguito uno scambio tra gli Uffizi e la Galleria Imperiale di Vienna. Alcune produzioni fiorentine appartenenti ai secoli XVI e XVII, lasciarono l’Italia. Tra queste i lavori di  Fra Bartolomeo. In compenso arrivarono a Firenze quadri di Tiziano, Giovanni Bellini, Giorgione e Dürer.

Le 28 statue di marmo presenti nelle nicchie dei pilastri esterni, che raffigurano persone toscane importanti, che vanno dal Medioevo all’Ottocento, furono inserite nella prima metà del XIX secolo. Con l’Unità d’Italia ed il trasferimento della capitale a Firenze, il Senato si riunì più volte proprio nel Teatro mediceo degli Uffizi (tra i senatori anche il Manzoni). Il Teatro fu eliminato nel 1889. Alla fine dell’Ottocento, alcune opere lasciarono la Galleria a favore del Museo del Bargello (statue rinascimentali) e del Museo Archeologico (statue etrusche). Con una ristrutturazione di Mariano Falcini, nel 1866 trovarono sede nel palazzo le Regie Poste. Oggi l’area è utilizzata per delle esposizioni a rotazione di materiale dei depositi.

All’inizio del 1900, si iniziarono ad acquistare opere da istituti religiosi, come il Trittico Portinari (dalla chiesa di Sant’Egidio) e la quadreria appartenente all’arcispedale di Santa Maria Nuova, L’area dei due piani ricavati dalla soppressione del Teatro mediceo, fu oggetto, nel 1956, di restauri ed allestimento da parte di illustri architetti del calibro di Giovanni Michelucci, Carlo Scarpa, Ignazio Gardella. Nel 1969 è stata acquistata la Collezione Contini Bonacossi.

Con lo spostamento dell’Archivio di Stato, il primo piano è tornato a disposizione della Galleria. Oggi è occupato dall’esposizione di opere del Seicento (anche con dipinti di Caravaggio), e da mostre temporanee di grande richiamo.

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La millenaria storia delle Isole Eolie

 

I primi insediamenti sulle isole vengono fatti risalire al 4.000 a. C. in epoca neolitica. Gli eoliani del tempo, trovandosi su un arcipelago di origina vulcanica, fecero del materiale più comune, l’ossidiana, la loro fortuna, esportandolo ovunque, dalla vicina Sicilia all’Italia meridionale, ma anche verso la Liguria, la Provenza e, addirittura, la Dalmazia. L’ossidiana all’epoca era il materiale più usato per ottenere schegge durissime e taglienti e quindi ricercatissima e preziosa. Gli eoliani, grazie a cotanta fortuna divennero uno dei più grandi insediamenti del Mediterraneo. Partita da Lipari, la popolazione, nel 3.000 a. C., si diffuse su tutte le altre isole consorelle. La vicinanza con lo Stretto di Messina portò le Eolie ad essere, tra il XVI e il XIV secolo a.C., sulla rotta del commercio dei metalli, come ad esempio dello stagno, che collegava la Britannia al Mediterraneo orientale. Si forma nelle isole la cosiddetta “cultura eoliana” caratterizzata più dal commercio che dall’agricoltura. Di tale cultura fanno parte i ritrovamenti archeologici di capanne circolari con pareti di pietre a secco e una produzione locale di ceramiche.

Nel 580 a.C. queste terre furono colonizzate dai greci che le chiamarono Eolie – secondo una delle varie tradizioni – dal nome del dio greco Eolo, dio dei venti. Nel 260 a. C. nel corso delle guerre puniche, l’arcipelago fu teatro dello scontro navale tra Roma e Cartagine, vinto dai romani. Perciò, come tutta la Sicilia, anche le isole divennero colonia romana. In tale periodo crebbero d’importanza, divenendo centro di produzione e commercio dello zolfo, dell’allume e del sale.
Nel 1544, durante la guerra tra Spagna e Francia, il sultano ottomano Solimano il Magnifico, alleato del re francese Francesco I, inviò una flotta comandata da Khayr al-Din Barbarossa che occupò le Eolie per farne un punto d’appoggio per la conquista di Napoli. Decimò e deportò ampiamente, con grande crudeltà, le popolazioni locali. Negli ultimi secoli le isole sono state ripopolate. Durante il governo borbonico ripresero ad esportare allume e zolfo. Oggi sono al centro di un turismo in forte ascesa dovuto alle loro esclusive caratteristiche naturalistiche.

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La Torre di Babele di Pieter Bruegel

 

Pieter Bruegel (1525/1530 circa – Bruxelles, 5 settembre 1569) è uno dei più grandi pittori olandesi ed europei. È generalmente indicato come il Vecchio per distinguerlo dal primogenito, Pieter Bruegel il Giovane. Anche il secondogenito, ricordato come Jan Bruegel il Vecchio, seguì le orme paterne e così fece anche il nipote Jan Bruegel il Giovane. Tante generazioni di pittori di cui il Pieter Bruegel è il capostipite.

Il dipinto che presentiamo raffigura la Torre di Babele. La Genesi (11: 1-9) narra dei discendenti di Noè che hanno pensato di costruire questa torre per arrivare il più vicino possibile al cielo e, quindi, Dio. Tuttavia, l’opera dalle difficoltà “sovrumane” era di per se stessa un segno di vanità. Così Dio punì i costruttori facendo loro parlare lingue diverse, in modo che essi non potessero più comunicare.

All’interno della nostra rubrica “Blogroll”, vi proponiamo questa mostra online ideata per Google Arts & Culture. Molti sono i particolari messi in evidenza per fare apprezzare l’arte pittorica del maestro e nel contempo le scene familiari per Bruegel, vissuto per vari anni ad Anversa. Sotto i suoi occhi la città andava sviluppandosi nelle sue attività edilizie e soprattutto in quelle portuali, poiché nel 16° secolo Anversa era una delle città più importanti in Europa occidentale.

Come vedrete l’ispirazione pittorica fa diretto riferimento ad un monumento italiano di età romana: il Colosseo. Bruegel aveva potuto ammirarlo a Roma, poco dopo il 1550, quando vi si è recato percorrendo un viaggio di studio che lo ha portato ad attraversare l’Italia e la Francia.

Guardate la mostra e divertitevi
THE TOWER OF BABEL di PIETER BRUEGEL IL VECCHIO

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A che serviva una torre? 1/2

 

Cosa sia una torre lo sappiamo tutti. È un edificio sviluppato verso l’alto, con una base molto stretta rispetto all’altezza. Se militarmente la loro funzione è chiara (cioè controllare un territorio più vasto) civilmente la loro funzione è certamente fonte di dubbio. Sono state utilizzate come campanili, minareti, ma anche come torri dell’orologio o torri del vento. Tuttavia, quale sia la reale funzione, ad esempio, della Torre degli Asinelli a Bologna, rimane ancora enigmatica.

Storicamente erano già utilizzate al tempo dei romani, per l’avvistamento dei nemici, posizionate lungo mura difensive. Nel medioevo l’esigenza di proteggersi dai nemici crebbe. Avevano scopo difensivo anche le case gentilizie: erano a torre, ad esempio, le case dei guelfi e ghibellini, in contesa fra di loro, e quelle di tutte le altre famiglie che lottavano per il controllo del potere cittadino. La casa-torre era in sostanza un piccolo castello sviluppato in elevazione. Questo castello possedeva delle grosse mura nella parte basamentale, con piccole finestre a forma di feritoie (a volte munite di inferriate). Spesso si accedeva ai piani superiori tramite botole con scale a pioli rimovibili.

Nel corso del tempo esse mutarono conformazione. Le torri medievali a base tonda sono le più antiche e si ispiravano a quelle d’epoca romana, poste lungo le mura di cinta. Staticamente erano le più resistenti, anche se le più difficili da costruire, avendo le pietre una precisa angolatura. I conci tendevano ad essere meno spessi all’interno man mano che si saliva verso l’alto. In periodo romanico appaiono torri a base quadrata (o rettangolare), ma in epoca federiciana anche a base poligonale, come nel Castel del Monte, in Puglia, dove vi sono otto torri (a base ottagonale) poste ai vertici di un ottagono.

Abbiamo torri con scale in muratura in alcune cattedrali del nord Europa, dove è possibile trovare anche una doppia torre scalare, che aveva la funzione di raggiungere il matroneo, collocato ad un piano più superiore.

Nelle torri di guardia, essendo lo spazio interno molto limitato, scomodissimo per i soldati che trascorrevano lunghi periodi in cima alla torre, si pensò di aumentare la superfice ponendo all’ultimo piano ballatoi in legno. Tali opere, col tempo, divennero una “decorazione” della torre, anche per la presenza di smerlature e caditoie, vere o finte che fossero.

 

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Il Cinema racconta… nel Museo del Novecento

 

Messina è una città malata? Geri Villaroel usa una metafora calzante. Se sei un giovane e t’infortuni ad una gamba presto camminerai di nuovo, ma se sei un vecchio sarà problematico riprendersi. Evidenzia l’On. Giovanni Ardizzone: terremoto e guerra erano cause esterne, per questo la città ha riconquistato l’impulso vitale, oggi invece la sua crisi è interna alle coscienze. L’orgoglio civico che spingeva a rimboccarsi le maniche lo avverti nella quotidianità di quegli anni. Negli spezzoni di pellicola che Egidio Bernava ha rimontato vedi sul viale S. Martino, fra due quinte di casette in legno, carrozze e persone a passeggio, donne in lutto e famigliole eleganti. La pescheria, l’approdo dei traghetti, le navi agli ormeggi, tutto parla della vita che ricomincia. Anche gli spettacoli. Egidio propone un album di sale cinematografiche: dal Peloro in Piazza Don Fano, col prospetto ligneo di gusto liberty, fino all’Olimpia fondato dal padre Salvatore nel 1955. Lo fa con un piacere affabulatorio suggestivo: il giovane al mio fianco è calamitato dalle sue parole. Pensare alla nostalgia non coglierebbe lo spirito autentico di questa serata introduttiva della rassegna “Il Cinema racconta il Novecento”. La Messina del Teatro dei Dodicimila in piazza Municipio o della Rassegna cinematografica all’Irrera a mare – città moderna, colta, artefice d’iniziative culturali ed economiche – era guarita dai suoi trascorsi. Oggi al Museo del Novecento, sorto non a caso nell’ex rifugio aereo Cappellini, non c’è rimpianto. Bensì perseveranza fattiva. Qui si rievocano immagini e storie del secolo scorso: decisi a recuperare le radici del passato, per fare mettere frutti all’albero di un rinnovato buonsenso condiviso.

Pubblicato su Centonove-Press n. 39 – 20 ottobre 2016 2016

Fonte fotografia: Wikimedia. Lo scomparso cinema Trinacria a Messina

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Lungo i giardini del Palais-Royal 1/3

 

Esattamente di fronte all’ala Nord del Louvre, si aprono i cancelli dell’ampia piazza del Palais-Royal, che ospita oggi il Consiglio di Stato. Chi conosce la sua storia sa bene che il Palazzo è nato come residenza privata del cardinale Richelieu; ma alla sua morte passò in proprietà alla famiglia reale. Di qui il suo nome, anche se, tra Parigi e dintorni, di Palazzi Reali ne possiamo contare più d’uno, a cominciare dal Louvre stesso o dal Palazzo delle Tuileries, suo prolungamento, demolito in seguito a un incendio. Raccontano le cronache che per qualche tempo i rivoltosi Frondeurs costrinsero il giovane Luigi XIV a lasciare proprio le insicure Tuileries per soggiornare in quello che, un tempo, era stato il Palais Cardinal, con la regina Madre reggente e il cardinale Mazzarino, primo ministro, vero gestore del potere fino alla maggiore età del Re.

Tutti sanno, però, che la residenza amata dal futuro Re Sole era il favoloso Château de Versailles, ad una ventina di chilometri dalla capitale, dove il 6 maggio 1682 il sovrano trasferì definitivamente ed ufficialmente la propria Corte, benché la Reggia non fosse ancora del tutto completata. Fu per questo motivo che nel febbraio del 1692 Luigi XIV offrì il Palais-Royal a Monsieur (titolo nobiliare riservato esclusivamente al fratello minore del Re) Filippo I d’Orléans. Con questo atto il Palazzo divenne residenza dei Duchi di Orleans e del proprio casato.

“Noblesse oblige”, una responsabilità di sangue che dovrebbe sottintendere agiatezza, potere, prestigio. Fatto sta che nel 1781, il discendente Filippo d’Orleans, Duca di Chartres, noto come Philippe Egalité, si trovava sull’orlo della rovina.  Intraprese, pertanto, un articolato piano di speculazione immobiliare.  Dal momento che i giardini prospicienti il Palazzo erano aperti alla città, perché non lottizzarne i margini, per farne costruzioni fruibili dal pubblico? Ciò avrebbe permesso di accrescere il consenso popolare e, nel contempo, pareggiare il bilancio familiare. Il progetto, naturalmente, suscitò il disappunto dei proprietari limitrofi, che perdevano la vista sull’ampio spazio verde. Nonostante ciò fu incaricato della lottizzazione l’architetto Louis Victor, che il Duca aveva conosciuto a Bordeaux nel 1776, durante i lavori di costruzione del Grand Théâtre, accolto come il più bel teatro francese dell’epoca.

Galeries del Palais Royal
Galeries del Palais Royal

Le nuove edificazioni si eressero per setti livelli: un seminterrato, un pianoterra per attività commerciali, sormontato da un ammezzato, un piano nobile, un attico, un piano mansardato ed infine un sottotetto destinato alla servitù. Il prospetto, uniforme per tutto perimetro del giardino, fu terminato nel 1786 con le alte arcate in pietra del portico. Il quarto lato a sud, quello della “cour d’honneur” del Palazzo, doveva essere completato con un maestoso colonnato, sormontato da una terrazza. Furono gettate le fondamenta, ma per mancanza di finanziamenti il cantiere fu interrotto. Sembrava per poco tanto che, momentaneamente, si provvide a riparare dalle intemperie i lavori sospesi; ma questi lavori non furono più ripresi.

Quel doppio colonnato che oggi conclude la corte – ed apre sull’istallazione concettuale “Les Deux Plateaux” di Daniel Buren – non è, a ogni buon conto, progetto di Louis Victor. In qualche modo ne è la diretta conseguenza; ma questa è un’altra storia e troverò modo di raccontarla la prossima volta.

 

Per saperne di più sull’immagine consulta la scheda del musée Carnavalet di Parigi

Leggi anche: Béatrice MÉON-VINGTRINIER, « Les galeries du Palais-Royal, ancêtre des passages couverts », Histoire par l’image [en ligne].

 

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Il timballo delle feste 2/3

 

Infinite sono le ricette per la preparazione del timballo, il cui ripieno non impone limiti alla fantasia. Il timballo della tradizione è quello di maccheroni, dalle svariate forme e consistenze: maccheroni corti o lunghi, secchi o freschi (cioè lavorati a mano) lisci o rigati. Ma sono presenti anche ziti, mezzemaniche, fettuccine, lasagne…e persino il riso, cereale di antica tradizione siciliana, oggi desueto in queste preparazioni. Li accompagnano le verdure, le carni tra le quali quelle di gallina contenente le uova non nate, animelle e rigaglie (frattaglie).

Il timballo eleva i maccheroni, associati spesso alla schiettezza e alla semplicità del popolo, a piatto di prestigio, infatti la sua fama a partire dal secolo XVII travalica le Alpi, innalzandolo a piatto nobiliare e facendogli assumere un ruolo di primaria importanza nella letteratura gastronomica francese e italiana. Il famoso cuoco Antonin Carême celebra il timballo di maccheroni tanto da renderlo una preparazione di prestigio per l’Italia del Risorgimento e per la Francia dell’Impero e della Restaurazione.

L’interscambio tra le due culture gastronomiche, già nel Rinascimento aveva visto il prevalere della cucina italiana e in particolare toscana in Francia grazie a Caterina dei Medici, famosa, nello specifico, per aver introdotto l’uso di elaborati pasticci di carne. Nel ‘600 e nel ‘700, i ruoli si invertono, l’egemonia spetta alla cucina francese che, ingentilisce ed armonizza l’uso dei prodotti, controllando il dosaggio delle spezie, equilibrando contrasti fra dolce e salato e introducendo nuove tecniche di cottura. La superiorità di questa cucina contribuisce alla istituzione di un gergo specifico tuttora presente nel lessico abituale della gastronomia siciliana: monsù da monsieur, ragù da ragoût, gattò da gateaux

 

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Uffizi: l’arte e l’edificio museale 3/4

 

A metà del 1572, pur non essendo terminata la costruzione, si trasferirono nel palazzo degli Uffizi tutte le magistrature dalla parte di San Pier Scheraggio. Con la successione di Francesco I, tuttavia l’edificazione passò nelle mani di Bernardo Buontalenti, coadiuvato da Alfonso Parigi il vecchio. La fabbrica fu ultimata nel 1580. In questi anni, si iniziò anche il lavoro negli interni. Si affrescarono a “grottesca” le volte della Galleria, dipinte da Antonio Tempesta e poi da Alessandro Allori.  L’anno seguente l’ultimazione dei lavori, il duca Francesco, decise di riservarsi la loggia superiore, ospitandovi la collezione di famiglia, in particolare, quattrocentesca. La preziosa raccolta comprendeva dipinti (ed anche ritratti della famiglia Medici), statue antiche e moderne, ma pure oreficerie, cammei, medaglie, bronzetti, armature, miniature, strumenti scientifici e rarità naturalistiche.

Quella dei Medici è la prima raccolta ospitata dalla Galleria degli Uffizi, e ne costituisce il nucleo fondativo. Nel 1583, il duca fece trasformare il terrazzo sopra la loggia, in un giardino pensile, dove si intratteneva la sua corte. Con il tempo, il giardino è scomparso. Bernardo Buontalenti realizzò, su indicazione del duca, alcuni elementi speciali. Dopo la Tribuna nella loggia, nel 1586, costruì un vero e proprio teatro all’interno del palazzo. Fu pensato a doppia altezza, posto tra il primo e il secondo piano, presentava gradinate sui tre lati di un grande rettangolo. Nella parte centrale era collocato il palco dei principi. Nell’Ottocento il grande vano venne ridiviso in due piani: sopra attualmente sono situate delle sale espositive, mentre nel piano inferiore è ospitato il Gabinetto Disegni e Stampe. Della costruzione rimane il vestibolo e il portale d’ingresso (al teatro), oggi al Gabinetto Disegni.

Il duca Ferdinando I de’ Medici, nel 1587, fece chiudere un terrazzo vicino alla tribuna, ricavandone la sala chiamata “delle carte geografiche“, con affreschi di Ludovico Buti. Nella sala si dispose la “Serie Gioviana“, una collezione che comprendeva i ritratti di uomini importanti, raccolta da Paolo Giovio, vescovo di Como. Sempre Ferdinando I, oltre a far giungere agli Uffizi la sua la collezione di armi e armature, vi fece trasferire nel 1588 l’Opificio delle Pietre Dure, una manifattura di Stato, e, costruendo, nell’ala di ponente del palazzo, lo scalone (oggi detto del Buontalenti)accolse laboratori di scultori e pittori, ma anche di orafi, gioiellieri, miniatori, giardinieri e ceramisti di preziose porcellane. Nel 1591, fu aperta la visita alle collezioni, da effettuarsi su richiesta.

Dopo una cinquantina d’anni, alla morte di Ferdinando I, la Galleria risultava inalterata. Verso la metà del Seicento, Vittoria della Rovere, andata in sposa a Ferdinando II de’ Medici, portò in dote la splendida collezione dei Rovere di Urbino, che comprendeva opere del Tiziano, Piero della Francesca, Raffaello, Federico Barocci e molti altri artisti. Dal cardinale Leopoldo de’ Medici, inoltre, si accluse una collezione di quadri di scuola veneta, e ulteriori disegni e miniature, ma anche autoritratti.

Sotto il Granducato di Cosimo III de’ Medici, tra il 1696 e il 1699, fu ampliato il braccio di ponente della Galleria e decorato quello sull’Arno, con raffinati stucchi di Giuseppe Nicola Nasini e Giuseppe Tonelli. Cosimo III, che intanto raccoglieva rarità e stramberie naturalistiche (come voleva la moda dell’epoca), comprò una serie di quadri di scuola fiamminga, tra cui alcuni Rubens. Sempre dal mercato acquisì alcune statue romane, tra cui la celebre Venere Medici, che risultò un rarissimo originale d’epoca greca. La Venere è divenuta in seguito un’icona del museo degli Uffizi.

 

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Isole Eolie: Vulcano

 

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VULCANO

L’isola di Vulcano è divisa da un braccio di mare largo 750 metri circa dall’isola di Lipari, detto Bocche di Vulcano. Ricopre una superficie di 21 km quadrati e fa parte del comune di Lipari. Gli abitanti vengono chiamati vulcanari.

Chiaramente l’isola è d’origine vulcanica. Presenta una fusione di più vulcani, alcuni spenti altri ancora in attività, come il più grande detto il Vulcano della Fossa (alto 386 m ) con a nord un cratere spento, detto Forgia Vecchia. A nord dell’isola vi è Vulcanello (123 m), mentre a sud è collocato Monte Aria (500 m) che costituisce con il Monte Saraceno (481 m) un altopiano di lave, tufo e depositi alluvionali. La colata di ossidiana del 1771 ha creato a nord-ovest la zona delle Pietre Cotte. L’eruzione relativamente più recente risale al 1888-90, ma l’attività del vulcano continua con diversi segni, come fumarole, presenza di fanghi sulfurei (utilizzati per le sue proprietà terapeutiche) e fuoriuscite di vapore, sia dal cratere, che da aperture sottomarine. Alcune fumarole vengono adoperate per la produzione di zolfo.

Sull’isola veniva collocata dalla mitologia greca la fucina del dio del fuoco Efesto con i suoi aiutanti, i Ciclopi. Il dio venne chiamato dai latini Vulcano, da cui deriva il nome dell’isola. Oggi l’attività principale è, chiaramente, il turismo, ma sono presenti colture agricole, tra cui la primaria è quella della vite. Un servizio marittimo collega l’isola di Vulcano (da Porto di Levante) a Lipari, passando attraverso le Bocche di Vulcano. Può essere raggiunta partendo da Milazzo.

 

Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.

 

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Siciliani da riscoprire

 

Da Horcynus Orca a L’incarico: una mappa della Sicilia letteraria dimenticata.

Nell’articolo, scritto da Orazio Labbate per la rivista IL TASCABILE edita da Treccani.it, si mettono in luce i tanti capolavori siciliani da riscoprire. Un tentativo ben riuscito di tracciare una mappa letteraria per soffermarsi su HORCYNUS ORCA di Stefano D’Arrigo (1975), L’UOMO INVASO di Gesualdo Bufalino (1986), LUNARIA di Vincenzo Consolo (1985), L’INCARICO di Angelo Fiore (1970), CUTUSÌU di Nino de Vita (1994).

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