Una Tour Eiffel da record 2/2

 

La torre inizialmente, come detto, doveva essere smontata dopo vent’anni, il tempo concesso all’atto della sua costruzione. La modernità della torre, però, si sposò bene con l’avveniristica funzione delle comunicazioni via etere. Si cominciò con le trasmissioni fra la Torre Eiffel ed il Pantheon, poco distante. Più tardi fu utilizzata per scopi scientifici, quali le misurazioni meteorologiche o le analisi dell’aria (con l’aggiunta di un barometro), e furono avviate ricerche anche sul pendolo di Foucault. Man mano che passava il tempo, vennero inseriti nuovi “marchingegni” aggiuntivi, ad esempio, i parafulmini o uno strumento per la radiotelegrafia. Sulla torre furono eseguiti degli esperimenti scientifici, come quelli di telegrafia senza fili da parte dello scienziato Eugène Ducretet.

Quest’ultimo servizio non aveva soltanto uno scopo civile, ma, per i tempi, anche militare. Eiffel ebbe per questo anche il caloroso interessamento del generale Ferrié. Durante la Prima Guerra Mondiale, infatti, dalla torre venivano intercettate le trasmissioni radiotelegrafiche del nemico. Fu possibile, così, inviare d’urgenza e in modo quasi spettacolare i famosi taxi parigini sul fronte della Marna, per trasportare le truppe francesi. Inoltre, sulla torre si eseguivano trasmissioni senza fili con le navi da guerra al largo o con i dirigibili in volo. Tra gli usi curiosi delle sue antenne vi fu anche quello di ascoltare le comunicazioni segrete degli 007 tedeschi. Così, ad esempio, fu smascherata la famosa agente nemica che ormai tutti conoscono come Mata Hari (Gertrude Zelle).

Sulla sommità della torre, dal capodanno del 2000, sono stati montati quattro potenti riflettori che coprono l’area a 360 gradi, illuminando dall’alto tutta la città di Parigi.
La torre viene oggi, riverniciata integralmente ogni 7 anni, per un peso complessivo di 50 tonnellate di vernice. Essendo fatta interamente di metallo la struttura “respira” con dilatazioni che si adattano alle condizioni meteorologiche. In estate il materiale si dilata, tanto che la sua altezza può aumentare anche di 15 centimetri. Essendo una struttura traforata oppone poca resistenza ai venti, ma a volte si può avere una oscillazione che raggiunge perfino i 12 centimetri.

 

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T’innamorerai, con un colpo di fulmine

 

Sabirfest è un evento ispirato allo spirito di conoscenza e ospitalità della lingua sabir. «Cos’è la lingua sabir?» domanderete voi. E Molière mi avvertirebbe: «Se ti sabir, ti respondir. Se non sabir, tazir, tazir», come dire: «Se tu sai, rispondi. Se non sai, taci». Mi sono documentato e perciò chiarisco: è la più longeva lingua pidgin di cui si abbia notizia. Una lingua franca barbaresca – dove franchi erano i cristiani europei e barbareschi i musulmani – nata dal miscuglio di lingue parlate fra le popolazioni del Mediterraneo per capirsi sulle necessità della vita quotidiana. È durata almeno tre secoli e l’avremmo dimenticata senza questa manifestazione intrapresa nel 2014 a Messina, che «propone occasioni per vivere la nostra città e il Mediterraneo come spazio aperto di crescita culturale e partecipazione sociale, di creatività e di svago». Quest’anno ha raddoppiato attività: quattro giorni a Messina e altrettanti a Catania (fino al 16 ottobre). Con SabirFestival puoi appassionarti a letture, seminari, laboratori, cinema, teatro, fumetti. A SabirMaydan, la “piazza nella piazza”, puoi ascoltare e dibattere sul Mediterraneo come spazio di lotta e di progresso. A SabirLibri scoprire storie, idee, opere e autori, perché cinquantacinque sono le case editrici che presentano novità ai lettori. Tutto ciò per un pubblico differenziato in quanto ad interessi ed età: per giovani o meno, per studenti degli Istituti coinvolti direttamente e per i più piccoli con laboratori di animazione. Insomma, un programma fitto di appuntamenti per evitare a Messina i “Vuoti di memoria” e a Catania per tracciare rotte tra le realtà complesse dei quartieri del centro storico che restituiscono una “Città arcipelago”.

 

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Il Marché aux Puces di Saint-Ouen 2/2

 

Nel 1908 la metropolitana serve questa «Foire aux Puces». Il termine “foire” (fiera), richiama il chiasso, la confusione, una babele di rivenditori subissati dall’affluenza di compratori che, soprattutto la domenica, si distraggono con l’abituale passeggiata fuori le mura. Da allora, l’iniziale agglomerato si è moltiplicato in una infinità di altri mercati, specializzati nell’offerta merceologica. Dopo il primo conflitto mondiale la concentrazione commerciale diviene stabile e tra il 1920 e il 1938 si creano altri quattro mercati: Vernaiso, Malik, Biron e Jules Vallès. Tra le due guerre “les Puces” diventa così popolare che numerosi appaltatori accaparrano aree intorno alla Rue des Rosiers. Ciò determina l’esigenza di opere di urbanizzazione, come strade, reti idrauliche e fognarie, elettricità. Crescono luoghi di ristoro, caffè, pub, trattorie. Gli artigiani danno “spettacolo”: lavorano in strada per attrarre clienti, come gli impagliatori di sedie o di metalli artistici. Si organizzano attività ricreative con clown, complessini di musica negroamericana e chitarristi che inventano il Gypsy Jazz o, per dirla alla francese, il Manouche Jazz.

Dopo il 1945 agli iniziali venditori di rottami di metallo e commercianti di stracci, si sono fatti spazio antiquari e mercanti d’abbigliamento. Il mercato amplifica la propria offerta con merce di lusso datata tra XVIII secolo e primo Novecento: mobili restaurati, arazzi, specchi, lampade e articoli per la tavola. Paul Bert, ad esempio, è un mercato eterogeneo: mobili in stile eclettico, accanto a mobili dell’età industriale e Novecento. Per gli amanti di lampade Art déco, Art Nouveau e Design modernista, così per i collezionisti di vetri di Lallique o Gallé, c’è il mercato di Rosiers. L’Entrepôtè, invece, è specializzato in “marchandises volumineuses” cioè merci fuori misura; soprattutto grandi scalinate, librerie, caminetti, “zinchi”, gazebo, portali di pietra e portoni di palazzi, con il vantaggio del trasporto gratuito a destinazione. Gli appassionati di reliquie napoleoniche trovano armi d’epoca ed effetti militari; i bibliofili libri antichi e cimeli tipografici. Sono un po’ dappertutto.

Vernaison è quello che conserva i caratteri storici del passato. I suoi vicoli tortuosi, suggestivi, sono la dimostrazione dell’espansione del mercato delle pulci, quello improvvisato. I suoi chioschi specializzati offrono dai vecchi giocattoli agli oggetti scientifici. Dagli anni Novanta si sono aggiunti, a quelli originari, altri tredici mercati. Tanto che oggi “Les Puces” è stato classificato “Zone de Protection du Patrimoine Architectural Urbain et Paysager”, per l’atmosfera particolare che si respira, percorrendo i vicoli scoperti o coperti dei suoi complessivi diciassette mercati. È per questo che quanti non si accontentano di passeggiare o di acquistare, possono seguire delle visite guidate, per scoprirne i risvolti più nascosti.

 

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Il timballo delle feste 1/3

 

Timballo, pasticcio, sformato, sartù, nomi dagli etimi diversi, pietanze dalle impercettibili varianti, ma sempre ricche e sontuose. Il timballo, piatto in grado di sedurre i palati più esigenti, è caratterizzato da una sfoglia di pasta che lo avvolge ed è farcito da cibi già cotti (pasta, riso, carni, verdure) e passato in forno nell’apposito recipiente.

Il suo nome sta ad indicare un antico strumento a percussione, il tamburo o timpano, su cui è tesa una membrana e per analogia uno stampo di forma cilindrica. Il termine deriva dal francese timbale a sua volta dallo spagnolo atabal di origine araba. In Sicilia, del resto l’impronta araba pervade tutta la cucina e l’utilizzo di pasticci imbottiti di carne era già noto ai tempi degli conquistatori islamici.

Imperioso nell’aspetto, opulento per la quantità e la ricercatezza degli ingredienti, rigoroso per la forma che ricalca geometrie e decori di stampi appositamente creati per la sua realizzazione, è comune tanto alla cucina baronale quanto a quella popolare. La gente umile vuole infatti emulare le tavole dei nobili, in occasione di ricorrenze, eventi speciali o festività religiose come il Natale.

L’involucro esterno di questo contenitore commestibile, può essere dolce o salato, di pasta frolla, di pasta brisée, aromatizzato spesso con cannella, scorza di limone o con altre essenze. Tale involucro può essere sostituito da altri alimenti che svolgono il ruolo di “fasciare”, come fette di melanzane fritte e verdure affini, crespelle o del semplice pangrattato che, aderendo perfettamente alle pareti unte della teglia, crea un consistente strato esterno.

La visione del timballo, il cui decorativismo attinge alla pasticceria, intesa nel senso più ampio del termine come arte del plasmare, induce la mente e il palato del commensale a esperienze gustative uniche, in grado di stimolare ed attivare tutti i sensi.

 

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Gli Uffizi e Giorgio Vasari 2/4

 

Cosimo incaricò del progetto e della realizzazione del palazzo degli Uffizi l’architetto Giorgio Vasari. I disegni prevedevano un edificio a forma di U, ma a bracci dissimili per lunghezza, inglobando l’antica chiesa di San Pier Scheraggio. Nella nuova costruzione sarebbero state allocate le più importanti istituzioni fiorentine. Tutta Firenze sarebbe stata investita nei lavori degli Uffizi. Dopo aver assegnato la costruzione al massimo ribasso, Cosimo rilasciò una serie di licenze inusuali ai fornitori: gli scalpellini utilizzarono per la pietra serena la cava del Fossato del Mulinaccio, presso San Martino a Mensola (come per un’opera pubblica), i renaioli estrassero la sabbia dal fiume Arno (vicino il ponte alle Grazie) i muratori presero le pietre dal fosso della fortezza di San Miniato, vicino alla porta di San Niccolò, oltre che il lastricato avanzato dalle pavimentazioni delle strade cittadine. Cosimo impose, inoltre, delle servitù ai Comuni esterni, come per gli scalpellini di Fiesole e i carradori di Campi e Prato.

Il lavoro del Vasari fu sostenuto dalla collaborazione del Maestro Dionigi della Neghittosa. Come se non bastasse, Vasari ebbe l’incarico di realizzare, in occasione del matrimonio di Francesco, figlio di Cosimo, con Giovanna d’Austria, nel 1565, un collegamento sopraelevato e protetto, che collegasse Palazzo Pitti (la sua nuova residenza) e Palazzo Vecchio. Il Corridoio Vasariano (così denominato), superava via della Ninna attraverso un ponte coperto, percorreva parte della galleria, oltrepassava l’Arno sopra Ponte Vecchio, giungeva nel quartiere d’Oltrarno, percorreva il giardino di Boboli, concludendosi, finalmente, in Palazzo Pitti. Vasari fu velocissimo: per realizzare la strada sopraelevata impiegò solo sei mesi. Successivamente, il camminamento fu prolungato, collegandolo anche a Forte Belvedere.

Nell’immagine, tratto del corridoio vasariano dagli Uffizi al Ponte Vecchio. Fonte: Wikimedia Commons.

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Isole Eolie: Stromboli

 

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STROMBOLI

L’isola di Stromboli, di 12,6 km², è l’unica delle Eolie ad avere un vulcano in continua attività. Verso sudovest c’è Ginostra che d’inverno è quasi disabitata. Fa parte anch’essa del comune di Lipari. Gli abitanti vengono chiamati strombolani. Sull’isola troviamo i borghi di San Vincenzo (anticamente l’abitato degli agricoltori), Scari, Piscità e Ficogrande (anticamente l’abitato degli armatori).

A nord è ubicato, a qualche centinaio di metri, uno scoglio denominato Strombolicchio, vulcano nato circa 200.000 anni fa che rappresenta la prima formazione di Stromboli. L’isola principale infatti inizia a crearsi, emergendo dal mare, circa 160.000 anni fa, in una successione di nuovi vulcani e di eruzioni, che danno vita e forma all’isola attuale.

Il vulcano di Stromboli, chiamato affettuosamente dagli abitanti Struògnoli, è costantemente attivo (ha una media di eruzioni di una ogni ora). Soste nell’attività eruttiva sono rarissime, in genere non vanno oltre qualche mese. La sosta maggiore è stata registrata tra il 1908 e il 1910.

Oggi Stromboli presenta tre crateri disposti da nord-est a sud-ovest, compresi nella depressione chiamata Sciara del Fuoco. Questa depressione permette ai vulcani di eruttare al suo interno senza interessare la parte abitata dell’isola. Le rare volte che colate laviche sono fuoriuscite dalla Sciara del Fuoco sono state pericolosissime e mortali. Nel 1919 e nel 1930 la lava lambì i centri abitati (Piscità si salvò per appena 20 metri). Oltre i danni e le vittime, in quelle occasioni si creò uno tsunami che interessò una vasta area fino a Capo Vaticano, in Calabria. L’ultima grande eruzione si è registrata tra il 27 febbraio e il 2 aprile del 2007 con aperture di nuove bocche all’interno della Sciara del Fuoco tra i 400 e i 500 metri sul livello del mare.

Popolata sin dall’antichità remota, Stromboli si è basata da sempre sulla pesca e sull’agricoltura peculiare del Mediterraneo, dedita alla produzione di olive, vite e fichi. Fino al XIX secolo l’isola è stata fiorente, tanto da richiamare 4000 abitanti. Una inversione di tendenza economica iniziò dall’Unità d’Italia, passando per continue eruzioni vulcaniche e terremoti, sino alla quasi distruzione della coltura della vite, dovuta alla peronospera, arrivata negli anni Trenta, che alla fine costrinse la popolazione ad emigrare verso le Americhe e l’Australia.

Nell’arcipelago delle Eolie, con il turismo nato a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta anche Stromboli è tornata a ripopolarsi e a rifiorire. L’isola è raggiungibile con traghetti e aliscafi da Lipari, Milazzo, Messina e Napoli. In estate anche da Reggio Calabria, Tropea, Vibo Marina e da Capo Vaticano.

 

Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.

 

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Scopriamo “I raccoglitori” di Pieter Bruegel

 

A guardare questo dipinto da lontano, sembra una scena pastorale, forse anche un po’ sonnolenta. Ma si potrebbe credere che invece caratterizza la rocambolesca fuga di alcuni ladri, e tanto altro ancora? Scopriamo il capolavoro di Bruegel, digitalizzato ad alta risoluzione. Ce lo presenta Google Arts & Culture in collaborazione con la BBC. CLICCA QUI e insieme esploriamo da vicino i dettagli magici di questo favoloso dipinto.

Il testo di riferimento è in inglese e il documentario che segue è in francese [ma potete attivare i sottotitoli in italiano]. Buona visione.

 


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Una Tour Eiffel da record 1/2

 

 

Il nome di Parigi (e della Francia intera) è legato inscindibilmente al nome del suo monumento più famoso: la Tour Eiffel. La sua attrattiva è tale, che registra ben cinque milioni e mezzo di visitatori, ogni anno. Si calcola che dalla sua apertura (1898) ben oltre 250 milioni di persone l’hanno visitata. È infatti, tra i siti più ricercati della Francia (al nono posto), e fra quelli remunerativi perché è a pagamento. È considerata come una delle sette meraviglie del mondo moderno, anche se, tuttora, alcuni ancora la denigrano come fu quando apparve per la prima volta alla vista dei parigini.

La Tour Eiffel fu aperta ai visitatori ad agosto del 1898, in occasione dell’esposizione universale, che si tenne a Parigi a celebrazione del centenario dalla Rivoluzione francese. Venne costruita nel giro di due anni e raggiunse i 324 metri, talmente alta da sovrastare tutte le altre costruzioni parigine. Il suo progettista e creatore fu l’ingegnere Alexandre Gustave Eiffel. La Tour, fino al 1930, fu la costruzione più alta del mondo, superata in quell’anno dal Chrysler Building di New York.
In quanto a modernità la torre espresse anche altre funzioni innovative. E nell’ottica della modernità occorre ricordare che a sud-est della torre Eiffel si trovava una distesa erbosa da dove partivano e atterravano le colossali mongolfiere per i primi viaggiatori dell’aria.

Ciononostante, questa attrazione divenuta subito famosa rischiò, nel 1909, di essere smontata e rimossa. Così voleva l’élite culturale ed artistica francese. Ma la torre fu risparmiata, dal momento che si dimostrò preziosa per posizionare le antenne delle trasmissioni radio (quella che allora si chiamava radiotelegrafia).

Per salire e raggiungere i tre livelli della torre vi sono due vie. La prima con gli ascensori panoramici, azionati ancora con la tecnologia originaria. Oppure si possono salire a piedi ben 1665 scalini complessivi, per raggiungere l’ultimo piano. Qui è collocato un piccolo appartamento-studio, dove Eiffel usava incontrare le personalità dell’epoca. Durante l’esposizione universale, l’ingegnere accolse Thomas Edison, che gli portò un Fonografo di sua invenzione. L’incontro è oggi rappresentato, nello stesso luogo, con dei manichini di cera somiglianti ai personaggi dell’avvenimento.

 

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Tanti mestieri che nessuno vuol fare

 

L’artigianato va scomparendo. Lo gridava ai quattro venti già William Morris, che nel tardo Ottocento diede vita alle Arts and Crafts per fronteggiare i metodi di produzione industriale. Oggi i lavori più ambiti sono: consulenti per la gestione aziendale, progettisti per l’automazione industriale, analisti di procedure informatiche, sviluppatori di software. Per contro nessuno rifiuta le “tipicità”, in dissenso col predominare della omologazione. Nondimeno cosa rispondereste se vostro figlio confessasse, a voi impiegati o professionisti, di voler fare il produttore di sedie, anzi l’impagliatore di divani e poltrone, il riparatore di lustrini di mobili, il corniciaio? Eppure scemano a vista d’occhio le professioni di tradizionale memoria: quelle artigianali o creative, con guadagni limitati, difficili da intraprendere e imporre al mercato consumista. È retorico voler salvare le tradizioni a spese dei singoli mentre le Istituzioni rimangono immobili, se non per poche eccezioni. Ad esempio, si sta riprendendo l’antichissima arte di pizzi, trine e macramè. Questo in seguito al progetto di candidatura del merletto italiano a Patrimonio immateriale dell’Umanità dell’Unesco. Nel Biellese, per coltivare gli antichi mestieri del tessile, sono state create scuole superiori, corsi universitari e master. Esistono settori rilevanti, come l’alta moda o il restauro, che fanno capo a filiere che nella tradizione trovano il loro sostegno. Sono alternative parallele ai grandi competitor industriali, volendo sanare una ferita culturale sempre più ampia e fugando persino i timori di Morris: «Fintantoché il sistema della competizione nella produzione e negli scambi continua, continuerà la degradazione delle arti».

 

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Il Marché aux Puces di Saint-Ouen 1/2

 

Chi va a Parigi e non vuole vedere solo luoghi turistici, ma frequentati anche da “parisien”, prenda la linea 4 del “Métro” e raggiunga il capolinea a Porte de Clignancourt, XVIII arrondissement nel dipartimento della Seine-Saint-Denis. È così chiamato perché un tempo il territorio era possedimento dalla gotica Abbazia di Saint Denis. L’opera monumentale, voluta dall’abate Suger per celebrare il primo vescovo di Parigi, non riverbera alcun carattere artistico, perché la cinta fortificata e la porta d’ingresso alla città (una delle diciassette realizzate da Thiers a metà del XIX secolo), non esistono più. Ma dall’attuale piazza si accede all’antico paese di Clignancourt, oggi Saint-Ouen. Questo agglomerato di oltre 39.000 abitanti (annesso alla città di Parigi nel 1859) ha una sua storia minimale, ma ugualmente interessante, perché tra sabato e lunedì di ogni settimana è possibile recarsi “aux Puces”. In questo modo i residenti chiamano il celeberrimo “Marché aux puces” che – insieme all’altro storico mercato delle pulci di Parigi, quello di Porte de Vanves – permette ai collezionisti un tuffo nelle soffitte d’altri tempi, alla ricerca di quel bric-à-brac che ornò mensole e camini delle case borghesi europee a partire da fine Settecento.

Si sbaglia chi pensa ad un mercatino di bagattelle. Sono ben sette acri coperti da oltre 2.000 banchi e bancarelle, ma anche negozi vetrati, che offrono una passeggiata eccentrica in uno spettacolo rutilante di prodotti. Può capitare di trovarsi al secondo piano di un vecchio caseggiato senza neppure rendersene conto, come nel caso del “marché Dauphine”, dov’è il «Carré des libraires», la piazza dei librai, il posto dove amo perdermi. E voi di cosa avete bisogno? Abiti correnti o vintage? Ce ne sono in abbondanza; perché è possibile trovare articoli nuovi ed usati di ogni genere. Calzature, pezzi di ricambio, vecchia ferramenta, libri, bijou e gioielli, giocattoli, lampade e lampadari, brocche e posate, oggetti d’artigianato, attrezzature sportive, scientifiche, tecnologiche…

Si racconta che un tizio, osservando le bancarelle ricolme di tutte queste mercanzie addossate alle mura della città esclamò sbalordito: “Parola mia, questo è un mercato di pulci”, intendendo riferirsi agli insetti che infestavano tappeti e tessuti esposti in vendita. L’espressione tenne a battesimo il nuovo mercato che la cittadinanza, per motivi d’igiene, voleva “extra moenia”. Fu infatti dopo la guerra del 1870, che gli straccivendoli cacciati di Parigi, tra le casematte e le costruzioni spontanee attecchite alla cinta, dettero vita al primo villaggio commerciale della storia parigina. La nascita ufficiale del mercato delle pulci avviene, però, nell’anno 1885, quando la municipalità di Saint-Ouen si mobilita per la pulizia e la sicurezza del quartiere. I puciers – già si chiamavano così i venditori ambulanti – dovranno d’ora in poi pagare una tassa al Comune per l’occupazione del suolo pubblico.

 

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