Essere specialisti di ciò che piace

 

Musica, luci soffuse. A fianco la donna di una vita. Alla mia offrirei un Manhattan quando lo Steinway diffonde un medley di George Gershwin. Con quale whisky? un Canadian o un Bourbon? Al “Manhattan club” di New York, nell’anno 1874, cosa proporrebbe la bella Lady Randolph Churchill, madre di Winston? Perché la serata è spiritosa, come le creazioni alcoliche della signora. Ed anche il pianista ha un’aria spiritosa: ha iniziato la serata col disneyano “Siam tre piccoli porcellin” di Churchill, non Winston, Frank. Ed ora – dopo Lehar, Satie, Liszt… Gershwin – è passato ad una fantasia dei Beatles rievocando i favolosi Anni Sessanta. Per il Manhattan, l’alternativa britannica potrebbe essere uno Scotch o un Irish. Ma in assoluto opterei per un buon Rye statunitense, sorpreso in chiusura dalla ciliegina jazz, di un raffinato ed elegante Cole Porter. Come io sto giocando col mio cocktail, così Antonio Ballista, con formidabile bravura, ha giocato al Palacultura per la Filarmonica col suo pianoforte. Venti interpretazioni sotto forma di Hit parade, per annodare le infatuanti partiture di ottant’anni d’esistenza, tra Classica e Pop. Dove Pop sta realmente per “popular culture” cioè la cultura di tutti noi. «Ci sono tante sinfonie noiose e tante canzoni strepitose», afferma l’eccentrico musicista. Lui ama le multiformi soluzioni estetiche della musica, di tutta la musica, e le restituisce conversando col pubblico. Smentisce lo stereotipo del pianista muto ed introverso. Con lui intuisci che non c’è bisogno di “capire la musica” ma semplicemente goderla, diventando pian piano, come dice, «specialisti di tutto ciò che ci piace». Vale anche per il whisky da usare nel Manhattan: scegliete quello che preferite.

Fonte immagine: news di costajonicaweb.it con recensione della serata musicale.

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La nuova Galleria Orleans al Palais-Royal 3/3

 

Quando si elevano voci sentenzianti contro il commercio coperto fiorente, che dava spazio alle attività dubbie ed immorali, si pone rimedio. L’intervento moralizzatore è compito del futuro Re Luigi Filippo, chiamato – durante i moti rivoluzionari che lo porteranno al trono – Égalité fil, giacché figlio di quel Duca d’Orléans che a questa vicenda ha dato inizio. Nel 1827 e nel 1829 le Gallerie sono demolite, a seguito di un incendio che distrugge la Galerie Vitrée. Il nuovo progetto di valorizzazione dell’area, che si accompagna al ripristino del giardino precedente di una quindicina d’anni, consiste nel sostituire le cadenti Galeries in legno con la nuova Galleria Orléans. La famiglia proprietaria del Palazzo identifica, dunque, con il proprio nome l’intero complesso.

Il progetto è affidato all’architetto Pierre -François- Leonard Fontaine. È ricordato come l’inventore dello “Stile impero”, il cui neoclassicismo celebrò le glorie di Napoleone. In verità Fontaine è stato capace di vivere la sua attività professionale passando dall’Ancien Régime alla Rivoluzione, al Consolato, al Primo impero, alla Restaurazione, alla Monarchia di luglio, al Secondo Impero. Carriera davvero invidiabile e costantemente ad altissimo livello. Luigi Filippo chiama, dunque, Fontaine per eseguire l’intervento fra i giardini e il cortile del Palais Royal ed egli realizza un ampio padiglione vetrato (65 metri di lunghezza e 8,5 metri di larghezza) che può ospitare 24 negozi in galleria. Oggi possiamo ammirare solo il doppio colonnato di pietra, perché la volta vetrata centrale è stata completamente smantellata nel 1935. E in quanto alla pubblica moralità? Luigi Filippo completerà il suo programma quando, conquistato il potere nel 1830, regolamenterà la prostituzione, vietandola al di fuori delle “maisons de tolérance” e dal 1836 chiuderà anche le sale da gioco. In conseguenza di ciò, mercanti equivoci, giocatori, prostitute e giovanotti allegri, lasceranno definitivamente il Palazzo e ripiegheranno sui nascenti boulevards.

La vicenda di questo intervento edilizio non ci dimostra semplicemente la progressiva trasformazione moderna di Parigi in capitale europea del XIX secolo. È anche la testimonianza della nascita, in maniera del tutto imprevista, di una tipologia che diverrà l’emblema della città ottocentesca, quella dei “passages couverts”. Saranno d’ora in poi strade urbane e nel contempo spazi commerciali protetti alle intemperie. Tutto ciò per celebrare la seduzione della merce e i desideri di un nuovo pubblico di benestanti acquirenti. La fiorente borghesia del secolo.

Fonte immagine: Paris – Palais Royal – La Galerie d’Orleans

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Antipasti appetitosi 1/3

 

Parlare di antipasti nella cucina siciliana è un’impresa difficoltosa, sia per l’origine antica alla quale si fanno risalire, sia per l’esorbitante numero di queste gustose preparazioni. Oggi infatti tale definizione include pietanze che possono essere anche servite come contorni o piatti di mezzo.

L’antipasto nella moderna accezione del termine e nella sequenza odierna, appare nell’Ottocento contemporaneamente alla ideazione del menù, come portata che si serve all’inizio del pasto per stuzzicare l’appetito.

Antipasto deriva da “ante pastum” dove, secondo l’etimologia latina, il prefisso ante indica anteriorità. Pellegrino Artusi, infatti, nella sua ”Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” li appella “Principii” anche se con questa definizione ci fornisce un’alternativa interessante. Per Artusi infatti gli antipasti sono delle “cosette appetitose che si imbandiscono per mangiarle o dopo la minestra come si usa in Toscana o prima come si pratica in altre parti d’Italia”. Quindi l’idea moderna che queste cose appetitose siano sempre servite prima del pasto, non sempre nel passato era seguita.

L’uso di preparare questi piccoli assaggi ha il compito di predisporre il commensale al rito della tavola e poiché l’antipasto deve suggerire il carattere dell’intero pranzo deve anche essere un “piatto forte e vigoroso”, ovvero un pasto in miniatura. In tal senso l’antipasto, come preludio di sontuosi pranzi o banchetti, è prerogativa di una cucina aristocratica, baronale, ricca e non certo popolare.

Il Museo del Prado a Madrid

 

Il Museo del Prado di Madrid (Spagna) è un altro dei musei importanti d’Europa. La sua pinacoteca espone capolavori di diversi pittori italiani, spagnoli e fiamminghi. Per citarne alcuni: Sandro Botticelli, Andrea Mantegna, Raffaello, Caravaggio, El Greco, Artemisia Gentileschi, Francisco Goya, Diego Velázquez, Rembrandt e Pieter Paul Rubens. La costruzione, che ospita il Museo del Prado, fu voluta da Carlo III di Spagna, nel 1786, unitamente a molti altri edifici, come il Gabinete de Historia Natural e lavori a carattere urbanistico. L’edificio, significativo esempio del neoclassicismo spagnolo, fu opera dell’architetto Juan de Villanueva, che realizzò anche il vicino Giardino Botanico.

All’inizio del secolo XIX, quando l’edificio era stato ultimato, scoppiò la guerra di indipendenza tra Spagna e Francia. Le truppe francesi invasero la penisola iberica. Il Prado, utilizzato in quel momento come caserma della cavalleria, fu pesantemente danneggiato, quasi distrutto. Successivamente, grazie a Ferdinando VII e alla consorte Maria Isabella di Braganza, iniziò ad essere ricostruito a partire dal 1818. Vennero utilizzati vecchi progetti del Villanueva, oltre al lavoro dell’architetto Antonio López Aguado (discepolo del maestro). All’interno del Palazzo ultimato furono trasferite le più belle opere della Collezione Reale Spagnola, che si trovavano in vari siti reali spagnoli. L’odierna Sala di Velázquez, cioè il salone di forma ovale, venne così denominato in onore dell’opera del grande pittore. Inizialmente, il museo presentava 3 grandi sale e 311 quadri.

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Il turismo alla scoperta delle Eolie

 

La fortuna per Panarea e le isole Eolie arriva con il turismo. Incredibilmente è il cinema a fare cassa di risonanza alla riscoperta del fascino “primitivo” delle isole. Con il film Stromboli terra di Dio di Roberto Rossellini (con protagonista femminile la giovane Ingrid Bergman) negli anni Cinquanta e con il film L’Avventura di Michelangelo Antonioni negli anni Sessanta (ambientato in larga parte a Panarea, Basiluzzo e Lisca Bianca) il pubblico mondiale ammira la straordinaria bellezza dell’arcipelago vulcanico, unico al mondo, ed inizia un turismo alla ricerca emotiva del “perdersi” in una natura rustica e incontaminata e non priva di scomodità come la mancanza di elettricità o la scarsità d’acqua.

L’ambiente permette di fare il bagno su piccole spiagge tra le rocce in grande tranquillità. Si possono raggiungere in barca zone come Strombolicchio o Ginostra del tutto incontaminata dove ci si muove a dorso di mulo. Ci sono zone ancora inarrivabili se non con barche o muli. Ma tante sono le possibilità di escursioni, come, ad esempio, a Stromboli sul vulcano fino a quota 900, accompagnati da guide esperte.

Molto si è fatto per accogliere i turisti, diminuendo i disagi, costruendo servizi, realizzando discoteche e locali (anche se è vietato diffondere musica oltre le due di notte), oppure organizzando feste sulla spiaggia nella stagione estiva. Esiste ancora, tuttavia, la volontà di non andare “oltre”: per decisione del comune di Lipari non esiste l’illuminazione elettrica delle strade, che permette sensazioni uniche, come guardare il cielo stellato di notte, cosa quasi impossibile in città. Dall’Osservatorio di Stromboli è possibile vedere la lava incandescente. Tuttavia, a
vendo ogni cosa il risvolto della medaglia, il turismo di massa erode pian piano l’originaria bellezza e suggestività. L’arcipelago rischia la possibile cementificazione, avvenuta altrove, ma, soprattutto, la spersonalizzazione in una banale e stereotipata bellezza, che non corrisponde all’antico spirito eoliano, vero prodotto di quei 5000 anni di storia delle isole Eolie.

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Sfogliate l’Agenda del Louvre

 

Ogni stagione, il Museo del Louvre ha esposizioni, frutto delle ultime ricerche condotte dagli specialisti. Basterà guardare l’Agenda di novembre per scoprire la ricchezza dei programmi. Di seguito citiamo solo alcune delle mostre già aperte, ma visibili fino al mese di gennaio dell’anno che viene. Sfogliare il fascicolo vi darà l’idea del perché questo Museo può contare circa 10 milioni di visitatori all’anno, mentre altrove si batte la fiacca.

Fino al 5 dicembre. Bouchardon (1698-1762) – Un’idea di bellezza. Edme Bouchardon è stato considerato nei suoi anni come un artista eccezionale. Caratterizzato da circa 270 opere e organizzata con il Getty Museum di Los Angeles, questa mostra è la prima monografia importante portata in giro per esporre il suo lavoro e per sottolineare che è stato uno dei principali protagonisti del neoclassicismo.

Fino al 16 gennaio 2017. Uno svedese a Parigi nel 18° secolo: la collezione Tessin. Ambasciatore svedese a Parigi tra il 1739 e il 1742, ma anche un amante dell’arte e collezionista, il conte Carl Gustaf Tessin è stato un giocatore importante nel mercato dell’arte parigina.

Fino 16 gennaio 2017. Gesto barocco – Collezioni di Salisburgo. Con circa 100 opere di origine austriaca, la mostra evoca i cantieri aperti a Salisburgo dalla fine del 17° secolo e per tutto il secolo successivo, le cui decorazioni pittoriche hanno abbellito le ville barocche della Germania del sud.

Sfogliate l’Agenda del Louvre

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Le torri, l’importanza è essere più alto 2/2

 

Anche l’altezza della casa-torre era in funzione della potenza della famiglia che vi abitava. Più era alta, maggiore era il prestigio dei proprietari. Per dare snellezza alla costruzione spesso la base era ridotta, mettendo a rischio la stessa stabilità della costruzione. Frequenti erano, infatti, i crolli. Per ovviare al problema, a partire dal XII secolo, si iniziò la cosiddetta “scapitozzatura”, cioè la demolizione dei piani più alti.

Col tempo, in Italia, al potere delle famiglie si aggiunse quello delle istituzioni comunali. Non dovendo essere il loro prestigio inferiore ai singoli privati, fu posta una limitazione alle case-torri: i cittadini, quindi, non potevano superare in altezza la torre dell’edificio comunale. Aumentando la floridezza delle famiglie, e non potendosi spingere più in alto, le case-torri vennero sostituite da palazzi veri e propri, molto più ampi e comodi. Essi sostituirono le vecchie abitazioni o le inglobarono.

La mania costruttiva delle torri nel medioevo, è ben rappresentata dalla cittadina di San Gimignano (in Toscana). All’interno del tessuto urbanistico d’epoca storica si sono conservate ben quattordici torri, della settantina iniziali. Le torri rimaste mantengono i caratteri originari e si presentano senza alcuna scapitozzatura. Il discorso vale anche per la città di Bologna, dove esistono ancora una ventina di torri. La più famosa ed integra è anche la più alta, raggiungendo i 97,20 metri di altezza: la Torre degli Asinelli.

La tendenza che spinge alla costruzione delle torri finisce in periodo rinascimentale. Tuttavia, se si smette di costruirle in città, esse sono ancora presenti in campagna. Vecchie torri vengono inglobate in casolari o in ville. La nuova funzione di esporre un orologio, in posizione ben visibile a distanza, ne rinnovano l’uso. In campo militare, viceversa, esse vengono del tutto dismesse. L’invenzione dei cannoni, le farà trasformare in bastioni o fortificazioni alla moderna.

Le torri medievali furono col tempo decimate da fulmini o terremoti. Nei secoli, ed in particolare nel XIX, molte torri, non avendo più uno scopo, vennero abbattute per creare piazze o slarghi. Ciononostante, nello stesso secolo, l’introduzione dello stile medievale in architettura, farà sì che, con un recupero nostalgico, si costruiscano nuovi edifici caratterizzati proprio dalla presenza di torri medievaleggianti.

La torre, nell’architettura attuale, è ben presente. Esistono, ad esempio, le case a torre, cioè edifici residenziali dove l’altezza prevale sulla larghezza, con edifici spesso isolati in un complesso puntiforme. Non dimentichiamo, poi, quello che può essere il simbolo della modernità, cioè al grattacielo, edificio che si sviluppa decisamente in altezza, su tutte le altre abitazioni di media elevazione.

 

 

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Ecco Riccardo III candidato americano

 

Siamo al paradosso. L’operatrice di un call center mi chiede se sono il signor Walter Tobagi. Rispondo che lo hanno ammazzato le Brigate Rosse. Attonita ribatte: «Mi dispiace, com’è stato»? La poverina non ha idea di chi fosse Tobagi, tantomeno che possa esistere un’associazione a lui intitolata. Il suo stesso Corriere della Sera notifica su iPad «la spiegazione delle elezioni americane scritta da Shakespeare». Posta così, è facile che la telefonista anzidetta si convinca che il Bardo sia un editorialista con un pezzo sulle ultime battute elettorali. La notizia non è però risibile. La riferisce il New York Times nel commentare l’idea del professor Stephen Greenblatt che il miglior manuale per capire come potrebbero finire le elezioni USA 2016 sia il dramma shakespeariano “Riccardo III”, sociopatico duca di York divenuto re. Eppure sono convinto che certi titoli bizzarri siano disorientanti. Erano innovativi quando i quotidiani letti da mio padre annegavano nel grigiore; oggi scoppiano di rutilanti colori, come quegli inserti dove non distingui più la pubblicità dagli articoli. Qualche consulente di marketing forse crede che il “core business” dei giornali sia attrarre l’attenzione di un distratto lettore, anziché fare informazione. Prendi certe rassegne stampa all’insegna del gratuito. Sono sul web o ad aprire la casella mail. Trovi online persino il top dei settimanali; ma chi li divulga a scrocco due giorni prima che escano nel mio abbonamento? Ahinoi! Questo lo chiamano marketing dei servizi… ma volendoti “servire” il piatto della tentazione, certuni esperti non capiscono che il lettore lascerà in tavola anche salmone e caviale, quando confuso si sarà riempito lo stomaco di noci e fichi secchi.

Fonte immagine: Wikimedia Commons

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Les galeries de Bois al Palais-Royal 2/3

 

Ho già raccontato dell’architetto Louis Victor e della realizzazione di quella cortina di edifici porticati delimitanti i giardini del Palais Royal. Ma immaginereste voi che quei lavori interrotti proprio davanti al Palazzo, sul lato meridionale del perimetro edilizio, avrebbero contribuito, in modo del tutto occasionale, all’invenzione di una nuova tipologia edilizia che caratterizzerà Parigi nella prima metà del secolo XIX? Andiamo con ordine.

Nel 1786, i finanziamenti del progetto si prosciugano e non resta che recintare la parte ancora da erigere, della quale esistono al momento le sole fondazioni e nient’altro. Il Duca – quel Philippe Egalité diretto discendente del fratello del Re Sole – decide di rimpinguare il bilancio concedendo ad un imprenditore di elevare un capannone di legno. Serve a proteggere la “platea” di fondazione, ma nel medesimo tempo può essere sfruttato come spazio commerciale, come è avvenuto per le gallerie in pietra degli altri tre lati. Infatti, i negozi che vi sono stati aperti ai piani terreni pullulano di frequentatori che si riversano ad ogni ora del giorno in caffè, botteghe di alimentari e di bevande, negozi di modiste, venditori di tessuti, parrucchieri.

Quel che è peggio, i portici sono un via vai di persone anche ad ogni ora della notte: sfaccendati, giocatori d’azzardo, borseggiatori, prostitute. Una quantità oggi inimmaginabile di prostitute, che fanno di quelle arcate e di quei giardini un luogo di rendez-vous. Le fonti dell’epoca valutano che alle 600-800 ragazze che stabilmente vivono nelle “maisons privilégiées qui payaient le droit d’exposer des créatures habillées comme des princesses” (Balzac, Illusions perdues) vanno aggiunte le “rondinelle” che a sera si accompagnano ai clienti.

Con il quarto lato di legno (al posto del colonnato aperto di Victor che non s’è realizzato) gli affari si moltiplicano. Questo perché l’idea è realizzare un grande bazar con tre file parallele di negozi, disimpegnate da due gallerie interne, illuminate da grandi finestroni posti sotto la copertura di legno. Non più soltanto un lungo portico, ma una coppia di “passages couverts”. Nascono le Galeries de bois (le Gallerie di legno), alle quali da lì a qualche anno, esattamente nel 1792, si aggiungerà un altro corpo illuminato a vetri. È la Galerie vitrée, il primo percorso vetrato della storia. Balzac scrive a proposito: “Les Galeries de Bois étaient pour la prostitution un terrain public, le Palais par excellence, mot qui signifiait alors le temple de la prostitution”. Dunque con le gallerie in legno si completerà negli spazi pubblici del Palais Royal, quello che era stato cominciato negli ambienti privati. La licenziosità è praticata senza vincoli, tanto che invarrà il detto «faire leur palais».

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Il timballo delle feste 3/3

 

Il sartù, affine al timballo ed al pasticcio, etimologicamente deriva anche dal francese surtout che indica una decorazione da centrotavola. L’idea di creare un timballo di pasta è tuttavia tipica dell’Italia meridionale, Napoli e Sicilia in particolare. È in Sicilia, proprio nell’isola del sole, che padre Labat, tra i primi viaggiatori del grand tour, scopre per la prima volta all’inizio del XVIII sec. un pasticcio di maccheroni: “Non avevo mai visto pâtè di maccheroni. I maccheroni erano stati cotti in un brodo di latte di mandorle, di cannella, della vera uvetta di Corinto, dei pistacchi del Levante, delle scorze di limoni, i salamini più delicati e guarniti con pasta di Genova”

Dal prototipo di un timballo che evoca retaggi arabi e rinascimentali, passiamo a quello più aristocratico e più famoso della letteratura italiana, un “torreggiante timballo di maccheroni”: Don Fabrizio, principe di Salina, lo offre ai suoi ospiti, per celebrare l’importanza e la solennità del primo pranzo a Donnafugata, feudo e località di villeggiatura della famiglia. La superficie dorata di questo “trionfo di gola” rappresenta una premessa ai tesori che vi si celano all’interno. Primo fra tutti il tartufo, fungo ipogeo, che pur essendo presente nel sottobosco della Sicilia, non rientra nella sua tradizione culinaria: forse perché di dimensioni più modeste rispetto a quelli noti del Piemonte e dell’Umbria, forse per il suo aroma meno intenso o forse semplicemente perché i cuochi siciliani preferivano esaltare i loro piatti con i profumi del Mediterraneo.

La demi-glacé, il fondo bruno, è un ulteriore elogio alla professionalità e all’abilità dei monsù. I tempi di cottura prolungati, la varietà delle carni e delle verdure utilizzate, le operazioni scandite ad intervalli di tempo regolare, fra le quali la schiumatura, la filtrazione, la sgrassatura ne fanno un autentico boccone da re. Una portata che non tutte le bocche sono in grado di apprezzare ed infatti soltanto il Principe, autentico Gattopardo, si accorge di quanto la demi-glace sia carica: “…l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.

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