La distinzione fra reale e possibile

 

Questa settimana con BLOGROLL facciamo una capatina sul sito del Sole24 ore. Cosa ci ha attratto? Un interessante articolo di Paolo Legrenzi: «In italiano i verbi indicativi descrivono la realtà, quelli congiuntivi il possibile: Desidererei che rimanessi con me, la combinazione “congiuntivo + condizionale” l’immaginario o l’irreale: Se Vittorio avesse potuto, sarebbe rimasto con noi. I bambini padroneggiano queste distinzioni tra reale, possibile e immaginario e come le esprimono?». Buona lettura!

I BAMBINI INTELLIGENTI SBAGLIANO DI PIÙ

Antichi mestieri: la ricamatrice

 

Si parla di pizzi, merletti e lavori all’uncinetto. Il mestiere di ricamatore, che prima si imparava in famiglia, oggi è accessibile in scuole professionali, che offrono corsi specifici. Vi sono anche corsi di ricamo on-line. Essendo un lavoro artigianale non di moda bisogna sceglierlo per passione. Ci vuole pazienza e creatività. Le applicazioni non mancano. Dai tessuti ricamati per una casa raffinata, fino al restauro di antichi merletti. Se non si trova la possibilità di entrare in laboratori specializzati, è preferibile associarsi con altre appassionate del mestiere. Bisogna tener conto infatti, della grande competizione con le ricamatrici cinesi. Ecco perché il lavoro dev’essere di qualità.

Sin dalla Bibbia si parla di ricami, ma è nell’epoca normanna che si afferma l’arte del ricamo. Con tessuti e decorazioni colorate si vestivano papi, re e aristocratici. I primi laboratori di ricamatori, però, nascono in Italia, nel Trecento. Quindi, una crescita in grandezza. Successivamente, nel Cinquecento, l’arte del ricamo si trasmise tra le nobildonne nelle varie corti. La pratica era così diffusa, che in questo secolo vengono pubblicati i primi libri sul tema. Ad esempio, Il Burato: Libro de recami, redatto ed illustrato da Alex Paganino.

Nel XVIII secolo, viene fondata la Grand Fabrique, per volontà di Luigi XIV, dove il re riunì tutte le ricamatrici di Francia. L’intenzione era di possedere un abbigliamento d’altissimo livello, ma l’arte del ricamo fu impiegata anche per la decorazione degli arredi delle sue grandi e numerose Regge.
Pizzi e merletti erano molto amati nel Settecento, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento maschile. Il mestiere di ricamatore in questo periodo ebbe un momento di grande prosperità. Gli istituti religiosi lo insegnavano a giovani praticanti. Da qui presero piede, anche, le raffigurazioni a merletto che si riferivano a passi della Bibbia o del Vangelo. In epoca moderna, come ad esempio negli anni ’50 del secolo scorso, il mestiere di ricamatrice si imparava dalle suore o dalla propria nonna, dopo la scuola dell’obbligo.

ENCICLOPEDIA TRECCANI: IL RICAMO

VIDEO: I consigli di una ricamatrice: Maria Candida Cenci

 

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Una mente lucida quanto il marmo

 

La Maniera moderna di cui parla Vasari si riferisce a maestri come Leonardo, Michelangelo, Raffaello, che seppero esprimere il vertice di un’arte iniziata con Cimabue e Giotto. Quando quest’arte sfociò nel Manierismo, si prese a modello unicamente lo stile dei tre grandi maestri, tralasciando i canoni classici e guardando alla modernità. Questa sintesi solo per riflettere su quale fosse la maniera di dipingere o scolpire di Michelangelo, che tanto influenzò il tempo. L’attestano i libri, ma se le prove giungono da rilievi diretti è come trovarsi a contatto con l’artista. Antonio Forcellino lo ha dimostrato col recente restauro della Tomba di Giulio II scolpita da Michelangelo nella basilica romana di San Pietro in Vincoli. Forcellino ha reso tangibili le tracce del maestro, la sua maniera: «Si vede chiaramente che Michelangelo dava dei colpi trascinandoli per 10-11 centimetri». Con precisione imprimeva su martello e scalpello il suo controllo assoluto. «È lo stesso effetto che si ha osservando la Cappella Sistina con le sue pennellate perfettamente parallele e sempre alla stessa distanza». Se il marmo deve assorbire luce usa la gradina o il calcagnuolo, due tipi di scalpello, dentato l’uno, corto l’altro. Per una maggiore luminosità usa la pomice; se vuole lucentezza adopera il piombo. Per chi si occupa d’arte il senso della scoperta sta nell’applicazione di una tecnica i cui rilievi la evidenziano da stili diversi, come quei segni di raspa che Michelangelo, a differenza degli aiuti, non avrebbe mai usato. Persino un artista segue una maniera di operare, un metodo di lavoro. Per chi non si occupa d’arte il senso del discorso è: abbandonate ogni creatività istintiva. Non crediate di raggiungere obiettivi per come viene viene.

La Regina Vittoria a Buckingham Palace

 

Nel 1837, la giovane regina Vittoria fece di Buckingham Palace la residenza reale ufficiale. Ma non tutto era oro quello che luccicava. Il palazzo presentava degli inconvenienti tutt’altro che secondari. Escludendo le sale principali di rappresentanza belle e sfarzose, il resto della casa era molto meno decorato. Ma non basta: i caminetti per riscaldarsi d’inverno facevano un eccessivo fumo, tanto che bisognava spegnerli e rimanere al freddo. L’introduzione delle nuove lampade portò la preoccupazione di fughe di gas ai piani bassi. La casa era sporca e male odorava. La servitù era indolente e pigra. Quando la regina Vittoria si sposò con il Principe Alberto, nel 1840, quest’ultimo si incaricò di riorganizzare il palazzo, risolvendo i vari problemi.

La coppia reale, però, riteneva la reggia insufficiente in quanto a spazio, per loro ma anche per la corte. Nel 1847, fu incaricato il vecchio architetto Edward Blore, che si era già occupato della reggia, di costruire l’ala est, che vediamo, essendo il lato pubblico dell’edificio, dove è presente il famoso balcone dove anche attualmente si affaccia la regina e dove è passata tanta storia (anche europea). Nell’ala vennero realizzate altre stanze di rappresentanza, su progetto di Sir James Pennethorne.

La giovane regina Vittoria e il principe Alberto, amando molto la musica ed il ballo, organizzavano balli a corte e invitavano importanti musicisti dell’epoca, come Felix Mendelssohn e Johann Strauss jr. Quest’ultimo, in onore della principessa Alice, compose un brano musicale, intitolato Alice Polka. A palazzo venivano svolte anche rappresentazioni teatrali e varie cerimonie reali. Una vera e propria favola romantica.
In questa prima fase del suo regno, tra le tante incombenze, la regina Vittoria decise di spostare il famoso arco di trionfo vicino allo Speakers’ Corner di Hyde Park, dov’è tuttora.

Com’è noto, la regina, con la morte del Principe Alberto, avvenuta, nel 1861, divenne malinconica ed austera. Si staccò in pratica dalla vita pubblica e da Buckingham Palace, dove aveva vissuto tanti momenti felici con il marito. Andò, quindi, a vivere in altre abitazioni, come al castello di Windsor, a Balmoral Castle e a Osborne House. Quando era costretta a tornare a Londra soggiornava e svolgeva le cerimonie pubbliche al castello di Windsor. In questo periodo, quindi, il palazzo, non usato, declinò anche materialmente, in uno stato di abbandono.
Se vuoi vedere un video su Buckingham Palace, clicca:
VICTORIA AND ALBERT: PART 1
VICTORIA AND ALBERT: PART 2

 

Le storielle di Pitrè: Giufà e i vestitucci suoi

 

Giufà, giacché era mezzo rimbambito, nessuno gli faceva una cortesia, come sarebbe a dire di invitarlo o dargli qualche cosa (in denaro o da mangiare).

Giufà una volta andò in una masseria, per avere qualcosa. I massari appena lo videro così malandato poco mancò che non gli scagliassero il cane addosso; e lo mandarono indietro più storto che dritto.

Sua madre capì la cosa, e gli preparò una bella camicia, un paio di calzoni e un gilè di velluto.

Giufà, vestito come un campiere, ritornò nella stessa masseria e lì dovevate vedere che gran cerimonie! … e lo invitarono a tavola con loro. Anche a tavola tutti continuavano con le cerimonie.

Giufà, per non sapere né leggere né scrivere, quando gli servivano il mangiare, con una mano si riempiva la pancia, con l’altra mano ciò che avanzava se lo riponeva nelle tasche, nel berretto, sotto la camicia.

Ad ogni cosa che riponeva, diceva: «Mangiate, vestitucci miei, ché voialtri siete stati invitati, non io!».

Il Simbolismo: Jean Moréas, il fondatore

 

Il poeta Jean Moréas, oggi poco conosciuto, fu un importante autore francese di fine Ottocento. Di origine greca, battezzato col nome di A. Papadiamantopoulos, nacque nel 1856 ad Atene, ed essendo di famiglia benestante (suo padre era giudice), ebbe l’opportunità di studiare il francese in patria. Imparata la seconda lingua, assai bene, nel 1875, partì alla volta di Parigi. Qui si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, per proseguire i suoi studi di legge, ma mentre studiava ebbe il modo di frequentare importanti circoli culturali (tra cui quello dell’Hydropathes). Qui, ebbe l’opportunità di conoscere parecchi letterati ed artisti francesi. Tra i nomi dell’epoca, possiamo citare: Guy de Maupassant e Léon Bloy; ma anche Alphonse Allais e Charles Cros. Jean “contagiato” si mise a scrivere testi, ottenendo un buon successo come poeta.

Dopo un breve soggiorno ad Atene, tornò a Parigi, per stabilirvisi definitivamente nel 1880. Successivamente, nel 1884 e nel 1886, pubblicò le sue prime raccolte di poesie. I due testi avevano una chiara ispirazione al poeta “maledetto” Paul Verlaine (1884-1896), contemporaneo. Quest’ultimo con le sue malinconie poetiche ispirò alcuni pittori impressionisti e musicisti (quali Reynaldo Hahn e Claude Debussy). Verlaine, come Charles Baudelaire, seguivano il movimento decadentista. Ciononostante, a questo proposito, Moréas contestò l’esoterismo della poesia decadente, ma soprattutto l’ambiguità della definizione “decadentismo”, osservando che “potrebbe essere chiamato con maggiore precisione i simbolisti.”

È proprio partendo da questo concetto, che Jean Moréas pubblicò il “manifesto letterario” del Simbolismo, nel supplemento letterario de Le Figaro, il 18 settembre 1886. Dopo la pubblicazione, egli lasciò i suoi riferimenti decadentisti e la corrente (Parnaso, del 1 ottobre 1886) formando in seguito, un proprio movimento simbolista, con Adam e Paul Gustave Kahn. Secondo Moréas “la poesia simbolista cerca di rivestire l’idea di una forma sensibile, che, però, non sarebbe il suo obiettivo a sé stesso, ma che, mentre serve per esprimere l’idea, rimarrebbe soggetto”, implicando “uno stile archetipo e complesso, al tempo stesso.

Dopo il manifesto e la definizione del movimento, Moréas cercò di mettere in pratica le sue teorie. Nel 1886, pubblicò la raccolta di poesie Les Demoiselles Goubert, scritto con la collaborazione dell’amico Paul Adam. Fu un completo insuccesso. Ci riprovò nel 1891 con il testo Passionate Pilgrim, ma la musica non cambiò di molto. Successivamente, per una migliore definizione del simbolismo, prese le distanze dagli influssi tedeschi e scandinavi, molto seguiti dagli adepti del movimento. Nel 1892, infatti, fondò la scuola romana, che si rifaceva al mondo greco-latino, proprio contro quegli influssi dell’Europa del Nord. È grazie a questo cambiamento radicale (dovuto, probabilmente, alle sue origini greche), che, nel 1899, pubblicò il suo libro più famoso, intitolato Stanze.  Vi si riscontra un linguaggio di una purezza classica, sul genere di André Chénier. Morì nel 1910. Le sue spoglie sono conservate nel cimitero di Père-Lachaise.

 

Se vuoi approfondire, clicca:
ENCICLOPEDIA TRECCANI: JEAN MORÉAS

Se vuoi sentire e vedere un video, clicca:
CONTE D’ AMOUR di Jean Moréas

 

Il Simbolismo: i contenuti

 

La realtà apparente e materiale è considerata, da un simbolista, fuorviante per un poeta (sfiduciando, quindi, la scienza, il suo metodo e la sua realtà fisica), in quanto esso esprime una realtà più profonda e misteriosa, in quanto inconscia. Egli, attraverso l’intuizione, deve saper cogliere l’intima essenza delle cose, le più varie emozioni e stati d’animo, ma anche saper comunicare impressioni, anche se incerte e indefinite. Le profondità dell’animo umano non possono essere spiegate, ma intuite dal poeta, che, se anche non può spiegare i desideri dell’inconscio o i sogni di un uomo, attraverso la metafora, l’analogia e la sinestesia, trattando delle proprie emozioni, penetra le simmetrie e i misteriosi legami esistenti tra le cose.

Per i simbolisti la poesia è musica, cioè accordi musicali lievi, immagini e concetti sfumati e l’uso di parole non descrittive (perché non potrebbero esserlo), ma evocatrici e magiche. Nasce la figura del “poeta maledetto”. La sua incarnazione per eccellenza è Arthur Rimbaud. Egli teorizza la filosofia del poeta veggente: questo, ai margini della società, conduce una vita disordinata ed estrema e in questo caos penetra in una realtà profonda ed ignota, propria dell’inconscio umano. Per descrivere queste sensazioni di frontiera ha bisogno di forme nuove d’espressione, di una lingua nuova, quella, appunto, del simbolismo.

Se non si può immaginare una società senza simboli, in quanto questi relazionano l’umano con il sovraumano, non si può né limitarne i significati, né attribuirgli un rapporto diretto con un significato specifico. Il simbolo, di per sé, non significa. Questo, infatti, è polivalente, possedendo una molteplicità di sensi e riferimenti, che non si escludono affatto tra di loro, ma si sovrappongono in una sintesi totale. Il linguaggio simbolico, pur se criptico, è, quindi, molto più ampio del linguaggio comune e per questo necessario in ogni forma di didattica.

 

Se vuoi approfondire, clicca:
ENCICLOPEDIA TRECCANI: IL SIMBOLISMO
Se vuoi sentire e vedere un video, clicca:
LE ARTI E LA POESIA: BAUDELAIRE ALLE RADICI DEL SIMBOLISMO

Se vuoi studiare l’argomento, scaricando un pdf, clicca:
SIMBOLISMO e DECADENTISMO

In copertina un particolare di un quadro di Giovanni Segantini

 

 

Nove trucchi pratici per ricordare ciò che si legge

 

Torniamo a leggere le pagine del sito IL LIBRAIO dove troviamo dei buoni consigli per una buona lettura. Infatti «spesso capita di leggere un libro, un testo o un brano e rendersi conto di non ricordare nulla (o quasi) di ciò che vi era scritto. Ecco quindi i “trucchi” per memorizzare meglio ciò che ci passa sotto gli occhi». Tutto questo perché ricordare ciò che si legge è importante. Sul medesimo argomento si è soffermato anche un altro website, Business Insider Italia il quale ha redatto una lista con alcuni suggerimenti e tecniche per memorizzare meglio ciò che leggiamo.

Antichi mestieri: il sarto

 

Il mestiere del sarto non è semplice, come potrebbe sembrare. Occorre gusto e fantasia, ma anche abilità tecnica e attenzione ai minimi particolari. Questo mestiere non si può improvvisare, ma richiede una grande esperienza lavorativa, che ci si crea soltanto lavorando nella pratica quotidiana. Insomma, per fare il sarto ci vuole stoffa.
Non è detto, però, che ci si debba interessare degli aspetti imprenditoriali, ma semplicemente, si può seguire una pratica in una buona sartoria, conquistando, col tempo, professionalità ed esperienza sul campo.
Per svolgere l’attività, oltre al proprio gusto, bisogna, infatti studiare molto per giungere fino alla cultura propria del mestiere. All’inizio, comunque, tra i requisiti, bisogna avere sensibilità, abilità pratiche, inventiva, disposizione alle innovazioni tecniche ed artistiche, ma anche la conoscenza del mondo della moda nelle sue evoluzioni.

Il mestiere del sarto è esistito sin dall’antichità, ma con un concetto diverso: quello di “rappezzatore” (dal termine latino), per poi raggiungere nel tempo il valore di un vero e proprio artigianato specialistico. Il sarto si occupa, sostanzialmente, del confezionamento degli abiti maschili e femminili. Il suo mestiere è andato crescendo di valore, tanto da aver segnato la storia del costume, sia in Italia che all’estero. Da noi, nel primo dopoguerra (tra gli anni ’50 e ’60), è arrivato ad una grande affermazione con la nascita progressiva dell’abbigliamento pronto, per evolversi oggi nell’Alta Moda italiana. Questa si è sempre distinta per fantasia e creatività, nonostante l’industrializzazione tenda sempre di più alla meccanica ed alla essenzialità.

Il mestiere richiede una grande sensibilità e gusto, tanto da consigliare il cliente sull’abito da realizzare e poi vestirlo nel modo migliore, secondo la necessità. Inizialmente (ma anche ora), l’attività consisteva nella creazione di un abito su misura seguendo la moda corrente (stile, taglio e tessuti). Oggi, con il “pret a porter”, il sarto compone vestiti per tutti e spesso ne crea la moda. Con l’industrializzazione del settore tessile, infatti, egli segue la filiera delle attività. Il suo lavoro spesso è di controllo delle singole fasi: il disegno dello stilista, la modellista, che realizza il cartamodello ed i sarti che tagliano e cuciono la stoffa, oltre alla modella che lo indossa. Seguono poi le fasi tecniche della produzione, diffusione, e, naturalmente tutte le fasi economiche legate al mestiere.

Nonostante, la diffusione delle confezioni industrializzate e non più individuali, il mondo dell’alta moda oggi conferma la sia capacità trainante, benzina per le grandi sartorie. Resiste, però, nell’Italia centro meridionale la pratica delle piccole botteghe artigiane, che continuano a vivere offrendo la fattura di capi per occasioni cerimoniali, realizzazioni per vestiti con taglie alte, e per riparazione di abiti precedentemente acquistati.


ENCICLOPEDIA TRECCANI: ABBIGLIAMENTO
ENCICLOPEDIA TRECCANI: LA MODA

VIDEO ANTICHI MESTIERI:
Il sarto Agostino
Vitale Barberis Canonico
Corso alta sartoria

 

Giovan Battista Moroni, il tagliapanni

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Per attivare identità e partecipazione


Antonello da Messina
. Che questa Città, alla ricerca di una identità sopita, veda finalmente in uno dei suoi figli più prestigiosi un punto di riferimento? Si può ben sperare. A Palazzo dei Leoni è presentata la Fondazione di Partecipazione “Antonello da Messina”, per lo studio e la promozione del grande artista rinascimentale. Nell’Aula Magna dell’Università vede luce il volume curato da Grazia Musolino “Testimonianze della cultura figurativa messinese dal XV al XVI secolo”, catalogo della mostra di opere e manufatti sui seguaci di Antonello, ospitata nel 2016 a Palazzo Ciampoli di Taormina. Fra studi e schede di catalogo, una riflessione è incentrata sulla tavoletta bifronte opera giovanile di Antonello, dall’attribuzione alquanto discussa. Ma è l’humus attivo delle botteghe d’arte ad emergere, da quella principale ereditata da Jacobello dopo la morte del padre, a quelle di Antonello de Saliba, di Salvo d’Antonio, fino a Girolamo Alibrandi. Il progetto che si prefigge la Fondazione è ben più arduo e ambizioso. S’intende infatti sviluppare, con i musei ove sono custodite le opere di Antonello, accordi e gemellaggi per divulgarne la conoscenza. A Messina non si mancherà di dare impulso ai luoghi della sua esistenza e al sito archeologico di S. Maria di Gesù Superiore, scelta per volontà testamentaria del pittore come luogo di sepoltura. Giuseppe Previti e Nino Principato sono fra i principali promotori, che hanno nominato presidente del comitato scientifico Silvano Vinceti. La Fondazione si basa sul principio della compartecipazione, prendendo esempio da Livorno dove La Caprillina ha raccolto settemila aderenti per sviluppare progetti sul recupero e la fruizione di opere d’arte. I messinesi si dimostreranno altrettanto splendidi?