Il Simbolismo: Klimt e l’Art Nouveau

 

Nel 1894, Klimt aveva ricevuto l’incarico dall’università di Vienna di realizzare i pannelli che dovevano decorare il soffitto dell’aula magna. Il tema era appropriato, trattandosi di raffigurare l’illuminismo, e, con esso, il trionfo della Luce sulle Tenebre. Un tema quindi culturale e simbolico per l’università. La commessa, però, fu rimandata di vari anni dall’artista e già questo aveva mal disposto i committenti. Quando Klimt, alla fine presentò la sua opera, i notabili si trovarono davanti corpi nudi intrecciati. Scandalo e rabbia: l’opera fu rifiutata. Klimt non badò alla polemica sorta. Proseguendo, nel 1902, per il Palazzo della Secessione compose il Fregio di Beethoven, in occasione della quattordicesima mostra secessionista. Il tema era svolto in maniera enigmatica, quanto visionaria. La raffigurazione esprimeva tutte le angosce ed i dolori, ma anche le fragili aspirazioni dell’uomo moderno, di quegli anni, verso il futuro.

Nel 1903, Klimt ebbe “l’incontro della sua vita”, ma non con una persona, ma con un’opera d’arte. In quell’anno, infatti, si recò a Ravenna ed ebbe la rivelazione dei mosaici bizantini. L’accostamento di colori puri opachi ad altri più lucidi fino ad arrivare alle superfici splendenti dell’oro, gli ispirarono un modo nuovo di esprimersi artisticamente. Tornato, ricco di un linguaggio innovativo, l’artista si avvicinò ai Wiener Werkstatte (Laboratori Viennesi), creati da poco. In questo periodo, foriero di novità, egli realizzò i quadri più conosciuti della sua carriera, espressione ufficiale della sua vita artistica: Giuditta I (1901), Le Tre Età della Donna (1905), il Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (1907) e Il bacio (1907-08), la Danae (1907-1908) e L’Albero della Vita (1905-1909).
L’uso dell’oro caratterizza questo periodo della sua carriera, tant’è che viene denominato dai critici, come “periodo aureo”. Rifacendosi ai mosaici di Ravenna, i suoi quadri sono rigidamente bidimensionali, con campiture distinte, non sfumate, ma lineari. Prevale il simbolismo delle composizioni, e l’uso delle figure femminili, trattate in maniera sensuale ed erotica, nell’armonia dell’immagine generale.

Nel 1909, Klimt dipinse la seconda raffigurazione di Giuditta II. Con questo quadro egli apre il periodo consecutivo, che viene detto “periodo maturo”, o “terza fase klimtiana”. In quest’anno, infatti, ha inizia un totale ripensamento artistico sulla propria opera. Art Nouveau e Belle Epoque, lentamente vanno sfumando, in prossimità della Prima Guerra Mondiale. Si afferma, intanto, l’arte, più avanzata, di Van Gogh, Matisse e Toulouse-Lautrec. Mentre arriva la pittura espressionista, tornano a riproporsi i capolavori impressionisti, come quelli di Claude Monet. Klimt cerca di rispondere ai suoi dubbi, diminuendo l’uso dell’oro e delle linee, adottando una tavolozza di colori più accesi. Cerca di uscire dalle raffinatezze dell’Art Nouveau, in una maniera più intuitiva e spontanea.
Nonostante i cambiamenti l’astro artistico gli valse ancora molti riconoscimenti. Fu premiato alla Biennale di Venezia del 1910, e vinse il primo premio dell’Esposizione Internazionale di Arte di Roma, nel 1911. Pochi anni dopo (nel 1918), giunse inaspettata la morte per un attacco cardiaco.

ENCICLOPEDIA TRECCANI: ART NOUVEAU

VIDEO SU ART NOUVEAU E KLIMT:
Le opere di Gustave Klimt
Art Nouveau Architecture (1/3)
Arte in dieci minuti: IL NOVECENTO: dal Simbolisto allo Stile Liberty (Arte per Te)
Paris 1900 : La Belle Époque, l’Exposition Universelle, l’Art Nouveau

Immagine di copertina
: Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I (1907)

 

 

Dalla a alla @, è tempo di libri!

 

«Amanti dei libri di tutta Italia unitevi e venite a Milano, inizia Tempo di Libri, dal 19 al 23 aprile. L’iniziativa invaderà la città in stile Fuori Salone. Avrà un fulcro di espositori in Fiera ed eventi sparsi ovunque, come mostre e incontri con gli autori». Con questo lancio il nuovo blog di Mondadori Portfolio ha lanciato il salone del libro milanese appena concluso. Cos’è Mondadori Portfolio? Sono articoli sempre nuovi arricchiti dalle foto esclusive dell’agenzia fotografica del Gruppo Mondadori. Se poi le foto ti piacciono, si possono acquistare per dare uno stile unico alle nostre idee creative. Buona lettura con BLOGROLL.

MONDADORI PORTFOLIO

Fonte immagine: A Milano è tempo di libri

Antichi mestieri: lo Stalliere

 

Anche se la mattina, per andare al lavoro, prendiamo l’automobile e non il cavallo, non vuol dire che questi siano scomparsi. Certo non sono più utilizzati per gli spostamenti o i viaggi, come anticamente, ma in quasi tutte le città se ne possono trovare (ma non per strada). Chi si occupa di loro, sostanzialmente, a tutt’oggi, ripete un mestiere antichissimo, fatto di esperienze semplici ma millenarie.
Il primo consiglio (ovvio) è quello di iniziare presso scuderie, maneggi ed allevamenti, cioè, dove sono i cavalli. È un mestiere, comunque, per chi li ama, li cura e li pulisce. Se l’attività di stalliere è a portata di tutti, non richiedendo specifici studi, è gradita una certa esperienza, che comunque si può creare nel tempo. Scegliete voi se andare al galoppo o al trotto, l’importante che sia a cavallo ed in mezzo la natura.

La cavalleria nell’età classica
Tra i cavalli più antichi e famosi nella storia vi è quello detto “Cavallo di Troia”. Ricorda lo stratagemma, inventato da Ulisse, per penetrare nelle difese troiane, dopo anni di assedio. È così famoso da divenire un modo di dire, d’uso comune. Tuttavia, il “piè veloce” era quello di Achille, mentre il mitico cavallo di Troia fu realizzato da Epeo, sotto le direttive, addirittura, della dea Atena. Il cavallo (allora così raro) come realtà divina?
Fino all’invenzione dell’automobile, cioè quasi un secolo fa, l’uomo ha sempre usato il cavallo come mezzo di locomozione: negli spostamenti, nel traino di carri e, militarmente, per l’attacco vincente al nemico. Tutt’oggi, i reparti corazzati dell’esercito (composti da carri armati), rientrano nella “cavalleria”. La prima arma da guerra con il cavallo, infatti, era completa di equino, cavaliere e arco con frecce. Era l’armamento dei popoli nomadi, come pellerossa, mongoli o barbari. Più tardi, tra i greci ed i persiani, invece, si diffuse l’uso del carro da guerra, chiaramente, sempre trainato da cavalli.

I greci scoprirono il ruolo della cavalleria nella guerra del Peloponneso, quando tra i contendenti apparse la cavalleria tessala, costituita grazie alle pianure della Tessaglia (la Grecia è prevalentemente montuosa). I cavalieri greci venivano chiamati hippikon, ma non erano molti (a causa dei costi di mantenimento). Nelle guerre persiane, gli ateniesi contavano un gruppo di 300 cavalieri. Più tardi, dopo il V secolo, la loro importanza crebbe con i primi finanziamenti economici agli hippikon. Dopo il 442 a.C. il reparto a cavallo di Atene supera le 1000 unità. Anche Sparta e Corinto seguono l’esempio ateniese, dotandosi di una prima cavalleria.

In realtà l’uso di guerrieri a cavallo, non attecchì mai veramente, né in Grecia, né a Roma, almeno fino alle guerre puniche (i romani utilizzavano solo la fanteria). A loro spese, questi fecero esperienza della forza della cavalleria. Grazie alla cavalleria, infatti, Annibale li sconfisse nella battaglia di Canne (216 a.C.). La sua arma segreta si chiamava “cavalieri numidi”. Quando questi, per accordi politici, passarono dalla parte dei romani, lo stesso Annibale venne sconfitto nella battaglia di Zama (202 a.C.) dal romano Scipione l’Africano. Ciononostante, la forza dell’esercito romano si mantenne sulle legioni di fanteria. Solo nel periodo del tardo impero, si iniziò ad utilizzare maggiormente i cavalli. Il nemico, pressante sul confine settentrionale, i barbari, utilizzava il classico connubio arciere e cavallo, che era più veloce e sfuggente. Lo stesso controllo delle frontiere costrinse all’uso del cavallo. Come i mongoli invasero la Cina, i barbari fecero altrettanto con Roma. Proprio grazie ai cavalli.

ENCICLOPEDIA TRECCANI: LA STALLA
ENCICLOPEDIA TRECCANI: IL CAVALLO

VIDEO ANTICHI MESTIERI:
una mattina 2011 nella stalla di Degas e Carolina
i cavalli della polizia nella stalla della Masseria IRISI di S.Eufemia Lamezia Terme
Al lavoro nella stalla / Working in the horse stable

 

 

C’era anche Messina nella vita di Parigi

 

Quando leggo o scrivo, attraverso mondi, respiro situazioni inusitate. Le può condividere per intero solo chi prende cuore a spulciare archivi e biblioteche, alla ricerca di libri, manoscritti, cartoline e lettere. Possono saltare agli occhi aspetti poco noti del passato. Prendete “La Revue des jeux, des arts et du sport”. La copertina del settimanale illustrato, datata 7 giugno 1879, diffonde una “gravure” dello Stretto di Messina, disegnata da M. Sutter e incisa da H. Linton. È lo spettacolo di chi sta oltrepassando per mare la rupe di Scilla e presto incontrerà i gorghi di Cariddi. La meta è la Falce del porto e sullo sfondo campeggia l’Etna fumante. L’ho trovata per caso, mentre scrivo sulla modernità, parlo con Zola durante “Les soirées de Médan” o incontro Courbet nella cella di Sainte-Pélagie. Perfino in una rivista di parole crociate, rebus, giochi di carte e di scacchi, ma anche d’arte e di sport, leggi l’ombra lunga della guerra del 1870, «année maudite», e della disfatta di Sedan. Dopo lo sconquasso, per una Parigi che comincia «à se retrouver un peu», lo Stretto di Messina è il luogo del sogno e del mito. È giunto il tempo di tornare di nuovo ad incontrarsi, viaggiare od ospitare, perché prima dell’invasione non c’era posto che per gli stranieri a Parigi: «nelle sale dei cabaret alla moda, all’orchestra, nelle prime logge dei teatri eleganti o nei balconi d’onice degli scaloni dell’Opera». Il teatro di Società, ad esempio, è uno dei passatempi da considerare e, “sabato scorso”, una piece d’Alphonse de Jalin, – pseudonimo d’Alexandre Dumas – ha debuttato al “Théâtre de Messine”, nel bell’hôtel “italien par l’aspect” e grandioso per la distribuzione intelligente… Concorderete che è un leggere diverso su Messina che continuare a sorbire la solita minestra riscaldata.

Il castello reale di Varsavia 1/2

 

Anche la monarchia polacca aveva la sua reggia grandiosa. È il castello di Varsavia, che fu sede ufficiale dei re e dell’amministrazione della corte reale. Mantenne queste mansioni fino alle spartizioni della Polonia. Successivamente divenne residenza del presidente della Polonia (1926-1945).

Cenni storici
La parte originaria della costruzione risale al XIV secolo e si deve ai duchi di Masovia. Dal castello, nel corso dei secoli, è andata formandosi intorno tutta la città di Varsavia. Quest’ultima nel 1596 fu scelta come capitale del regno da re Sigismondo III Wasa e di conseguenza il palazzo divenne sede istituzionale del re e della sua corte. Venne, quindi, ristrutturato per la nuova funzione amministrativa, tra il 1598 e il 1619. Il castello prese una forma poligonale. A sua volta la parte orientale (detta “ala sassone”), fu rinnovata, tra il 1740 e il 1752, su ordine del re Augusto III.

Durante la seconda guerra mondiale, la città ed il castello vennero pesantemente bombardate dagli aerei tedeschi, sia nella fase della conquista della Polonia, nel 1939, sia nel 1944, durante la Rivolta di Varsavia. Le opere d’arte che il palazzo conteneva, vennero, nel 1939, trasferite in un luogo nascosto, prima dell’arrivo dei tedeschi. Al termine della guerra furono di nuovo esposte al pubblico. Dopo la guerra, il castello è stato restaurato, con donazioni private, tra il 1970 ed il 1974. L’opera fu completata nel 1988.

 

ENCICLOPEDIA TRECCANI: POLONIA

VIDEO SULLA REGGIA DI VARSAVIA:
castello reale varsavia 28
Polonia Varsavia La Città Vecchia, Castello Reale di Varsavia, Palazzo della Cultura e della Scienza

 

Charles-Guillaume Étienne

 

Citazioni e aforismi sono passati dalla carta al web. Ne leggiamo in continuazione, ma noi stessi dimentichiamo di mettere in pratica quanto abbiamo sollecitato all’attenzione degli altri. Non sarebbe il caso di passare dalle citazioni alle citAZIONI?

 

Il superamento del Simbolismo: Klimt e la Secessione

Il padre era un orafo della Boemia, la madre colta ed appassionata di musica lirica, cosicché gran parte della famiglia dimostrò doti artistiche. Infatti, oltre a Gustav, anche i suoi due fratelli, Ernst e Georg, divennero pittori. Nonostante le non floride condizioni economiche, Gustav Klimt riuscì ad iscriversi e a seguire le lezioni della scuola d’arte e mestieri di Vienna. Gli studi di arte applicata e le conoscenze personali lo portarono, ben presto, a possedere abilità in diverse tecniche artistiche, del mosaico e della ceramica.

Molto impegnato sul lavoro, Klint iniziò, sin da subito, a farsi conoscere. Già tre anni dopo la fine degli studi, ebbe il suo primo incarico: la decorazione, su progetto di Laufberger (che era stato suo maestro), del cortile del Kunsthistorisches Museum. Giunsero altre commesse (le quattro allegorie del Palazzo Sturany a Vienna ed il soffitto della Kurhaus di Karlsbad). Successivamente, per affrontare i nuovi incarichi, formò un gruppo, con un fratello ed un amico. La nuova squadra si dimostrò subito molto efficace. Con essa realizzò (tra le altre opere) la decorazione del Burgtheater. Conclusione: col successo, guadagnarono molto e divennero di condizione agiata. La fama raggiunta è testimoniata dai frequenti premi ottenuti. Nel 1888, infatti, Klimt conseguì dall’imperatore Francesco Giuseppe, un riconoscimento ufficiale.  Nello stesso periodo, le università di Monaco e Vienna fecero altrettanto.

Tutto andava perfettamente bene, ma il destino era in agguato. Nel 1892, improvvisamente gli morì il padre, e da lì a poco, perse anche il fratello Ernst. Il colpo per Klimt fu tremendo, tanto da fermarlo per sei anni dall’attività lavorativa. Tutto il dolore di questi lutti segneranno la sua successiva opera. Un po’ di sollievo gli venne dall’incontro con Emilie Flöge, che sarà la donna della sua vita e che sopporterà i suoi numerosi tradimenti con altre donne (qualcuno ha calcolato che nella sua vita Klimt ebbe almeno quattordici figli).

La Secessione Viennese
Gli anni conclusivi dell’Ottocento furono, per Klimt, forieri di passi fondamentali. Nel 1897, infatti, egli fondò (unitamente ad una ventina di artisti, pittori ed architetti) la Wiener Sezession (cioè, la “secessione viennese”). Alla base del movimento un’intenzione rivoluzionaria: quella di rifondare l’arte, superando l’accademismo imperante ed asfittico. Volevano raggiungere in maniera nuova le arti plastiche, il design (cioè, le arti applicate), e tutto questo per ridare vita alle arti ed ai mestieri, ma anche per creare una nuova architettura. Il movimento viennese girava intorno ad una specifica rivista: Ver Sacrum (tradotto, “Primavera sacra”). Di questa ne vennero pubblicati 96 numeri (l’ultimo uscì nel 1903). Intorno alla Secessione si riunirono artisti provenienti da altre correnti, come simbolisti, naturalisti ed i modernisti di varia origine. Se la rivista Ver Sacrum era la voce della Secessione, Klimt ne realizzò l’icona visiva, con il quadro della Pallade Atena (nel 1898), cioè la dea greca della saggezza e del sapere (l’immagine realizzata ottenne anche un buon successo).

Tra gli obiettivi della Secessione vi era quello di raggiungere l’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), in tutti i campi dell’espressione artistica o tecnica (come architettura ed arti applicate). Tra le creazioni del gruppo vi fu il Palazzo della Secessione Viennese, divenuto simbolo del movimento e molto copiato in architettura. La Secessione registrò una grande affermazione sia in Germania che in Austria. I pittori ed architetti, che la composero lavorano in tutti i settori, per ottenerne una fusione totale delle tendenze e di un nuovo stile. I viennesi non furono gli unici nell’intento. Nacquero associazioni di artisti in tutta Europa, con il medesimo obiettivo. Il movimento diede origine ad Art Nouveau e Modernismo, nel Vecchio Continente
Tra i nomi altisonanti del gruppo, oltre a Gustav Klimt, vi furono: Egon Schiele, Koloman Moser, Joseph Maria Olbrich, Josef Hoffmann e Otto Wagner. 

ENCICLOPEDIA TRECCANI: GUSTAV KLIMT

VIDEO SU GUSTAV KLIMT:
P.Daverio – Klimt e la Secessione
Klimt: vita e opere in 10 punti
Gustav Klimt opere dal 1883 al 1918 – ‘Art Nouveau – Stile Liberty – Loreto Arte

Immagine di copertinaFoto di Gustav Klimt

Il Simbolismo: i pittori, James Ensor

 

James Sidney Edouard, Barone di Ensor nacque in Belgio, ad Ostenda nel 1860 (morì nel 1949). Introverso come carattere, non si mosse quasi mai da Ostenda. Eppure i suoi quadri, a cui si occupava ogni giorno, divennero un’icona del Simbolismo nell’arte, di fine Ottocento. Dal 1877 al 1880, frequentò l’Accademia di belle arti di Bruxelles. Al compimento del corso, nel 1881, realizzò la prima mostra personale. I suoi quadri iniziali si ispirano al naturalismo belga, che caratterizzava la pittura fiamminga all’epoca. Questo periodo della carriera di Ensor viene definito, dalla critica, “periodo scuro”. Le raffigurazioni, infatti, sono contraddistinte da colori scuri, luci deboli e radenti, che fanno vibrare le composizioni. Essi si rifanno alla tecnica del pittore francese Gustave Courbet. Il periodo scuro di Ensor si concluderà nel 1885.

Tra i nuovi spunti, a quella data, subentrano i riferimenti alla rivoluzione impressionista, con i suoi colori accesi e i suoi soggetti innovativi. Non mancano, tuttavia, i riferimenti alla pittura storica del periodo classico, come a Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio. Ne inizia una nuova analisi personale, dove finisce per ritrovare tali temi (la crisi del rapporto tra l’uomo e la natura) nell’avanguardia francese. Viene affascinato, in particolare, dai movimenti Simbolisti e Decadentisti. Con la sua adesione al loro pensiero, Ensor si inserirà al centro del cambiamento europeo post-impressionista.

Ciononostante, le sue opere non ebbero un grande successo. Spesso venivano rifiute dalle esposizioni del tempo. Ensor era critico contro i suoi critici, e lo dimostrò con i suoi articoli. Si unì al gruppo di Les XX, ma oltre di questo non fece. Fu collaterale alla sua cultura contemporanea. Ma come succede per i maestri che portano avanti dei contenuti, egli divenne anticipatore di movimenti, come per l’espressionismo, con la tua tavolozza e la sua tecnica di stesa dei colori, ma, soprattutto, anticipatore del surrealismo e del dadaismo, del XX secolo, che a lui si ispireranno. Tant’è che nel nuovo secolo fu rivalutato ed apprezzato, quando, però, il pittore era nella sua parabola discendente.
Come successo per Munch (il museo a lui dedicato), dopo la sua morte), anche la sua casa, ad Ostenda (dove soggiornò principalmente), è divenuta il suo museo, il museo di James Ensor.

La sua espressione
Colori e tematiche collaborano nella pittura di Ensor. I colori stesi velocemente sulla tela con colpi rapidi di pennello, dove i toni chiari sono stridenti tra l’oro, creando una dimensione inquietante. Il suo mondo si evidenzia come ambiguo ed ossessivo. Tra sogno e realtà, prevale l’incubo. Mostri, scheletri, esseri dell’oltre tomba, smorfiano e minacciano una condizione sociale scomoda quanto ipocrita. È la sua ironia verso il mondo borghese. Egli rappresenta la morte che incombe su tutte le vanità borghesi. La società del tempo, infatti, gli appare stupida, inutile e ripugnante, quanto la smorfia di una creatura mostruosa o una maschera di carnevale. In questa crisi che diventa critica, il suo mondo diventa rappresentativo, quanto simbolico. Anticipando il surrealismo, Ensor si dichiara con la sua opera, a tutti gli effetti, simbolista, il suo movimento di piena appartenenza.

ENCICLOPEDIA TRECCANI: JAMES ENSOR

VIDEO SU JAMES ENSOR:
James Ensor part1
Le sorprendenti maschere di James Ensor

Fonte dell’immagine
JAMES ENSOR – Natura morta con maschere

 

 

È possibile manipolare i ricordi?

 

«Potrei prendere la persona più vecchia qui presente, farle un piccolo buco nel cranio, inserire alcuni elettrodi all’interno dell’ippocampo e stimolarlo. E così sarebbe in grado di recitare a memoria un libro che ha letto 60 anni fa”. Nel suo primo discorso ufficiale come Segretario della Casa e dello Sviluppo Urbano degli Stati Uniti, qualche settimana fa Ben Carson, neurochirurgo e politico, utilizzava questo esempio per illustrare le notevoli capacità del cervello umano». È così che funzionano la memoria e il cervello? Non tutti sono d’accordo. Perciò, con BLOGROLL di questa settimana, leggiamo sull’argomento questo interessante articolo di Valentina Daelli, apparso su “Il Tascabile”. Così ne sapremo di più.

Manipolare i ricordi. A che punto siamo davvero con la modifica della memoria al netto di entusiasmi e scetticismi.

ENCICLOPEDIA TRECCANI: FRENOLOGIA

Fonte immagine: mappa frenologica del XIX secolo.
Una testa che contiene più di trenta immagini che simboleggiano le facoltà frenologiche,

Antichi mestieri: pastai e lasagnari

 

La produzione di pasta secca di grano duro, è compito dei moderni pastifici, essendo oramai interamente industrializzata. Ciononostante, la pasta fresca può essere prodotta, anche oggi, semplicemente a casa propria. Nella storia esistono numerosi formati di pasta fresca, anche ripiena. Siccome quando si diventa veramente bravi in un certo lavoro, si può trasformare una passione e avviare anche una professione. Un vero e proprio mestiere, oggi, ad esempio, è la produzione di pasta fresca per il quartiere o per i ristoranti, oppure smerciata, magari, sottovuoto, in negozi e supermercati dell’intera piazza cittadina.

Nel Medioevo
Se all’inizio, la produzione della pasta secca si incentra soprattutto in Sicilia e Sardegna, con presenze nell’Italia meridionale e sulla costa ligure, nascono un po’ ovunque negozi per lo smercio della pasta secca e fresca al dettaglio. I produttori vengono chiamati “lasagnari”, o, più raramente, “vermicellari”. Con la loro diffusione, sorgono le prime corporazioni di pastai. Ad esempio, a Firenze, nel 1311, si forma “l’Arte dei cuochi e dei lasagnari”, a cui si aggiungeranno i “cialdonai”, cioè i produttori di cialde. I produttori di pasta, tuttavia, non creavano la pasta secca, ma, al massimo, la smerciavano. Questa proveniva dai pochi pastai specializzati, che padroneggiavano tecniche più sofisticate, di cui la principale era l’essicazione. Al contrario, a casa, su ordinazione, si confezionava quella fresca.

Per molto tempo, la pasta secca continua ad essere lavorata solo a livello professionale, in Sicilia e Sardegna. È per questo che, nel XV secolo, questi negozi si trovano un po’ ovunque, anche nell’Italia settentrionale. Sono menzionati negozi di pasta, ad esempio, a Roma, Genova, Milano, Venezia, Padova, Reggio Emilia e Bologna. Qui si poteva ordinare pasta fresca, anche fornendo la farina da utilizzare (pagando un prezzo minore). Nel Cinquecento, a Roma si evidenzia una corporazione di vermicellari. Questa si affiancava ai pastai (per la pasta secca) e quella dei lasagnari, per lo smercio di pasta fresca nei quartieri. Essendo la semola di grano duro di difficile reperibilità nel Nord Italia, la farina principale era quella di grano tenero, e, di conseguenza, era molto diffusa la pasta fresca fatta in casa. Il grande consumo richiese un piccolo periodo d’essicazione della stessa pasta fresca.

Poche sono le informazioni desunte dagli scritti dei cuochi medievali. Tuttavia, nei Tacuina Sanitatis, libri di medicina miniati, desunti da testi arabi e della successiva scuola salernitana, le illustrazioni sulla Tria (la pasta), ci rivelano più dello stesso testo. Si scopre così che la fattura della pasta era compito, prevalentemente, femminile e che, all’epoca delle illustrazioni, il lavoro si svolgeva in coppia e non singolarmente. Le immagini, probabilmente, fanno riferimento a quella che doveva essere la piccola manifattura dei negozi di pasta fresca di quartiere e non di quella “industriale” che con il tempo si andrà affermando.

ENCICLOPEDIA TRECCANI: LA PASTA
ENCICLOPEDIA TRECCANI: LA CUCINA REGIONALE

VIDEO ANTICHI MESTIERI:
Pasta Fresca fatta in casa: come preparare un ottimo impasto
Pasta fresca all’uovo, la ricetta di Giallozafferano