John Singer Sargent

 

Oggi siamo nello studio di Sargent, pittore particolare, perché nato in Italia da genitori statunitensi studia nel nostro paese, all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ma riesce ad entrare anche all’École des Beaux-Arts di Parigi. In lui troviamo lo spirito del suo tempo e, attraverso i numerosi ritratti da lui eseguiti, le atmosfere del bel mondo. Ma anche lo studio in cui gli artisti operano è importante, può dirci molto della loro personalità. Continuiamo, dunque, a raccogliere immagini di questi spazi di lavoro e a riproporvele. Volete sapere di più su John Singer Sargent? Leggete la scheda su Wikipedia

 

La pasta: utilizzata come primo piatto nel menù

 

 

La sua diffusione
Nel Mezzogiorno, in generale, ed in particolare in Sicilia anche anticamente si ha un consistente sviluppo della lavorazione della pasta. Dopo la dominazione araba, l’isola divenne punto di convergenza fra la tradizione mediorientale e l’Europa (Provenza e Renania). Nell’isola, la tradizione romana della lagana, sopravvissuta, si fuse con quella del Talmud palestinese. Si ritiene, infatti, che la pasta risalisse a molto tempo prima in Oriente. Gli arabi, semplicemente, portarono la sua lavorazione sia in Sicilia che in Spagna. Qui, è rimasta l’usanza di abbinarla al brodo. Testi antichi britannici, d’epoca medievale, ci riportano del famoso piatto dei macrows o lozens, sempre, comunque, fatti di pasta fresca, che veniva condita con formaggio e burro.

Tuttavia, in Italia, a differenza della penisola iberica, ebbe una diffusione maggiore, con più ricette e molti formati, lunghi o corti. Crebbe così una cultura della pasta. L’Italia, infatti, può considerarsi l’unico paese al mondo in cui sia prosperata un’usanza così forte da farne un piatto nazionale. La differenza maggiore sta nel suo consumo quale piatto singolo, utilizzato come primo all’interno di un menù. All’estero, invece, fa da contorno a portate di carne o verdure.
Pur se, nella nostra penisola, continua a consumarsi la pasta da brodo, ad essa si contrappone l’uso della cosiddetta pastasciutta. Dal medesimo impasto della lasagna, nacquero i vari formati, a partire dalle tagliatelle o vermicelli. Ugualmente i maccheroni, bucati all’interno, come ci riporta Maestro Martino.

Ebbero una nascita antica pure altri tipi, quali i croseti, formentine e quinquinelli, ma anche la pasta ripiena, come ravioli e tortelli. Il termine di “pasta”, prende in considerazione tutti i suoi tipi e formati: pasta da brodo, pasta fresca e pasta secca. La cosa si fa risalire già dal 14º secolo. Nel 15º secolo, a partire dai medici, nasce la dieta della pasta, consumata in grande quantità, essendo ritenuta ricca di salutari “umori vischiosi”.

Il termine di “pasta”, oggi prende in considerazione tutti i suoi tipi e formati: pasta da brodo, pasta fresca e pasta secca.

Gli occhi di Marion e quelli di Lucie

 

Gli occhi di Marion sono chiari, come il cielo limpido della primavera; quelli di Lucie, conosciuta in libreria, sono bruni, il colore del parco in autunno attraversato da uno sprazzo di sole quando sorride. Marion e Lucie potrebbero rappresentare lo specchio dello stato d’animo di Théophile declinato nella giornata: la prima radiosa, come avrebbe amato essere Théophile se il mondo glielo avesse permesso; l’altra profonda, quanto le sue meditate letture, che sapeva restituire con levità, come una piuma. Anche la cucina di Marion la ritraeva: piena di mille accortezze, di oggetti rutilanti, complementari al verde del terrazzino che chiamava “il mio orto profumato”. «I ricordi possono essere colorati – obiettò la ragazza – non solo nuance seppia come ti appaiono senza fantasia». Tirò per una manica Théophile fino al salotto e dal cassettone estrasse una foto in bianco e nero tinteggiata a mano, dove bimbetta giocava coi fratelli. Ognuno ha i suoi colori, ribatté Théophile, ed anche a lui sovvenne inaspettatamente di una mattina estiva in via Veneto a Roma, nei locali temperati del café Doney. Era la sua prima vacanza in Italia e, nella memoria di quindicenne, forse anche il suo primo vero espresso. I ricordi sono segni che seguono sogni, proseguì. Vagheggi conclusi, senza più evoluzione. Tracce di accadimenti come scalfiti sullo stipite di una porta vecchia. «La smetti sì o no?» lo interruppe Marion schermandogli, con le lunghe dita, gli occhi malinconici. A distoglierlo dall’inseguire inquietudini nuvolose, fu l’inatteso aroma di croissant proveniente dal forno. Dolce Marion dalle mille sorprese.

Théo Feel, Racconti senza senso nella babele delle lingue.

Pubblicato da Entasis.it

 

Ekta, svedese dalla chiara visione artistica

 

BLOGROLL vi propone questa settimana una particolare serie di libri d’artista, che ci hanno colpito subito, come hanno impressionato l’editore svedese che li ha pubblicati, Racconta infatti che durante una visita nello studio dell’artista Daniel Götesson (classe 1978), conosciuto col nome d’arte di Ekta, lo sguardo è caduto su alcuni dei suoi taccuini, nascosti in un cassetto sotto il tavolo. Le loro pagine hanno attratto l’attenzione e incuriosito per il loro contenuto: un insieme di collage, disegni, strati di vernice, nastri. Evidenziano particolari momenti di sollievo dello spirito creativo di Ekta e rappresentano, al contempo, il terreno della sua sperimentazione. I tre libri della serie, pubblicati da ll’Editions, sono splendidamente realizzati come riproduzioni in facsimile degli schizzi originali dell’artista. Ogni pagina degli originali è stata digitalizzata e meticolosamente post-prodotta. I libri sono stati poi stampati su carta non patinata Munken, e la copertina rivestita in pelle nera con texture e titoli in rilievo realizzati in lamina d’oro.

Un opuscolo integrativo, conservato in una tasca all’interno della copertina posteriore del III volume, presenta un saggio d’autore, affidato al drammaturgo e artista Henrik Bromander, invitato ad a scrivere liberamente in base al contenuto dei tre volumi di schizzi. Inoltre è incluso un saggio critico di artisti e galleristi come Mattia Lullini e Alina Vergnano di Nevven Gallery. La serie di libri, limitata a 300 copie, è disponibile per l’acquisto sul sito https://lleditions.se/

GUARDA IL LIBRO D’ARTISTA DI EKTA

 

 

Albert Einstein

 

Citazioni e aforismi sono passati dalla carta al web. Ne leggiamo in continuazione, ma noi stessi dimentichiamo di mettere in pratica quanto abbiamo sollecitato all’attenzione degli altri. Non sarebbe il caso di passare dalle citazioni alle citAZIONI? Oppure sforzarci di rifletterci su?

Fonte immagine: Albert Einstein

La bellezza utilitaria dei mobili Shaker’s

 

Per gli Shakers il lavoro era concepito come atto di devozione religiosa, in conseguenza di questo la loro produzione, prima individuale ed artigianale, poi sempre più industriale, si è sempre distinta per la sua accuratezza. Gli Shakers (società di coloro che credono in una seconda apparizione di Cristo) sono giunti negli Stati Uniti d’America nel 1774, provenienti da Manchester in Inghilterra, dovendo sfuggire alle persecuzioni della Chiesa anglicana. Hanno fondato una serie di comunità negli stati del New England.

Sono chiamati Shaking Quaquers, “i quaccheri che si agitano”, nel corso delle loro cerimonie religiose ballano, scuotendo ed agitando mani, piedi e capo, per liberarsi dai peccati e dalle negatività quotidiane. Ad alcuni capitava di cadere addirittura in trance. Erano guidati da una particolare filosofia di vita, basata sulla professione di fede e sui principi dell´uguaglianza e della modestia. Secondo ciò la bellezza risiede nell’utilità, tanto che forma e funzione coincidono. Questo principio sarà ripreso dai “funzionalisti” nei primi anni del Novecento. Infatti i funzionalisti, come gli Shakers, eliminano ogni elemento non essenziale dagli oggetti che realizzano, anticipando le moderne teorie del design.

Ognuna di queste comunità aveva organizzato la propria attività agricola e la lavorazione del legno, materiale con il quale potevano costruire a mano mobili e utensili domestici. Il principio religioso al quale si ispiravano era concretizzato da pulizia e ordine, sinonimo di devozione. Evitavano il depositarsi della polvere, cosicché durante le pulizie di casa, i mobili erano appesi a una funzionale fascia di legno dotata di pioli e disposta lungo le pareti delle stanze.

Le loro realizzazioni erano caratterizzate da precisione e semplicità di linee. Il mobilio multiuso era, infatti, spoglio di fregi e decorazioni (contrariamente al mobilio neoclassico in voga in Europa). Molto presto, i loro prodotti, soprattutto utensili da lavoro e mobili per interni ed esterni, iniziarono ad essere apprezzati anche fuori della comunità, dando vita a un’economia in grado di essere diffusa e divenire di sostegno all’intera collettività religiosa.

Lavorare sulla cultura senza inseguire il gusto

 

C’è bisogno di cultura. Cosa intendere? L’ultima volta che sono stato a Pisa, nel museo dell’Opera del Duomo eravamo quattro persone; ma dalle finestre vedevo brulicare nella Piazza dei Miracoli migliaia di visitatori presi a scattare foto nella posa spassosa di “sorreggere” la Torre pendente. Sto parlando di una città icona del turismo internazionale. Quale cultura, dunque? Personalmente sono per una conoscenza democraticamente diffusa. So bene che pochi fra quei vacanzieri sono interessati al tema dell’arcata cieca nell’architettura del romanico pisano; ma compito di chi si occupa di cultura non è nascondere la complessità del sapere, ma comunicarlo in modo semplice e interessante. Ho trascorso un bel pomeriggio con mio figlio a discutere sull’approccio ai problemi intricati escogitato da Richard Feynman quando era studente a Princeton. A volte la cultura è considerata pure noiosa. Benedetto Croce, in un saggio sui Teatri di Napoli, racconta di quel gesuita settecentesco che mentre predicava in piazza si vide sottrarre ascoltatori dalla comparsa di un Pulcinella. Ricorrendo anche lui a frizzi e lazzi da commedia dell’arte, il predicatore riuscì di nuovo ad attrarre il pubblico che via via stava dileguandosi. Croce non dice se il religioso abbia continuato poi a far riflettere sulla vita e sulla morte. Perché l’importante è non smarrire la linea dell’orizzonte, nel tentativo di calcare la scena a favore del pubblico. La cultura è sempre edificante. Ecco perché all’Entertainment è preferibile l’Edutainment, cioè quel trattenimento educativo che suole richiamarsi all’espressione latina “ludendo docere”, insegnare giocando. Divertire sì, non mancando di seminare e raccogliere frutti, come vuole l’etimologia della parola “cultura”. Conservare sementi. Sempre più. Per dare valore al presente e proiettarlo nel futuro.

Pubblicato su 100NOVE n. 34 del 7 settembre 2017

Alexandre Cabanel nel suo studio di Paris (1885)

 

Vi siete mai chiesti dove vivono la propria creatività gli artisti? Lo studio in cui operano è importante, può dirci molto della loro personalità. Proveremo dunque a raccogliere immagini e a riproporvele. Iniziamo, dunque, con una carrellata retrospettiva che parte con l’Ottocento e giunge ai nostri giorni.

Oggi facciamo visita ad Alexandre Cabanel. Pensate: nel 1863, l’anno in cui il famoso quadro di Manet intitolato Colazione sull’erba trovava posto nel Salon des Refusés destando scandalo per la sua immoralità, La nascita di Venere di Cabanel era accettato nel Salon ufficiale, riscontrando grandi elogi. Ma chi era Cabanel?

“Fu pittore di storia, di genere e ritrattista: conteso dai collezionisti d’Europa e d’America, richiesto come ritrattista, fu nemico del Naturalismo e dell’Impressionismo, e fu attaccato da Émile Zola e da tutti coloro che difendevano la necessità di un’arte meno soave e più realista. Il collega Édouard Manet lo disprezzava, tanto che le sue ultime parole prima di morire furono “Sta bene, quello!”, riferendosi proprio a Cabanel”. Continua su Wikipedia.

 

Vermicelli confezionati con la luna di agosto

 

I primordi della Pasta
Oggi, la pasta comune viene realizzata con la semola di grano duro, mentre quella fresca con la farina di grano tenero. I documenti antichi non ci riportano quale sia stato l’uso della semola, se non utilizzata per le pappe.
Tutto nasce, comunque, dalla sfoglia di pasta fresca, che oggi chiamiamo lasagna. Ad essa seguivano diverse lavorazioni casalinghe e vari tipi di formati di pasta fresca, da consumarsi in casa il giorno stesso della fattura. Essendoci, tuttavia, la necessità di sportarsi, o ritardare il consumo, già in epoca araba (e poi medievale), nacquero i vermicelli secchi, che si presentavano piccoli, filiformi o graniformi.
Erano essiccati al sole, per poi venire consumati secondo necessità. Le poche informazioni disponibili, ci tramandano una sua lunga durata, anche di due o tre anni. La precauzione per la loro giusta lavorazione, era di confezionarli “con la luna di agosto” (a dire di mastro Martino). Così potevano essere trasportati, acquistati o conservati. Un vero “prodotto industriale” già in epoca medioevale.

Cottura e condimento
I Vermicelli secchi, secondo le informazioni, venivano cucinati e conditi nel ragù stesso, che non poteva, però, essere come quello attuale, essendo il pomodoro non ancora importato dall’America.
Si utilizzava la pasta anche nei brodi molto grassi, ma pure unitamente al riso o nelle minestre con legumi. Secondo testi del 1200, esistevano per uso formati da brodo, con una misura simile ai legumi stessi, chiamati “chicchi da cuocere in brodo”. Inoltre, la pasta, spesso, si univa a carne o verdure. Praticamente, creando un couscous dove la pasta è uno degli ingredienti. Questa lavorazione era infatti diffusa in Spagna e nel Nord Africa. In Algeria viene consumata, tuttora, la “reshta”. È sostanzialmente un couscous, realizzato con pasta fresca, cotta al vapore, e gli altri ingredienti del tipico couscous arabo. In Spagna, invece, i piccoli vermicelli vengono inseriti nella paella fideria. Anche il gusto era molto diverso dall’attuale, tant’è che i vermicelli secchi venivano fatti rinvenire nel latte di mandorla unito a zucchero e zafferano.

Un dialogo continuo con l’eclisse

 

 

Théophile avrebbe voluto imparare ad assaporare il tempo, come non era stato mai capace di fare sino ad allora. Ascoltare ogni voce, ogni piccolo rumore intorno a lui, ogni gorgoglio, stropiccio, fruscio, brusio, persino l’eco del silenzio. Un tenue fiato d’aria gli accarezzò il volto e scarmigliò i capelli. Dalla sua finestra si apriva la mattina sui tetti di Bouville. Gli avevano sempre ricordato quelli del primo scatto di Daguerre: ombrosi, statici, silenziosi, com’era esattamente la condizione del suo spirito in quel momento preciso. L’unico cenno di mobilità sarebbe stato un sogno, che credeva di non saper più mutare in realtà. Perché la vita è troppo breve da vivere. Lo aveva scritto anche da ragazzo, su di un quadernino di scuola, vedendo entrare suo padre nella stanza. Ora ricordi come quello aumentavano sempre più e lui avrebbe voluto fermarli, come il tempo di un orologio rotto. Avrebbe voluto che quella immobilità intorno a lui, spenta, non producesse più ricordi, solo sogni futuri. Ma non sapeva con chi portarli avanti, perché intorno a lui non c’erano che affetti scomparsi. Un dagherrotipo in cui i personaggi in posa svaniscono uno ad uno. Persino i libri, troppi libri, erano scritti da autori scomparsi. Un dialogo continuo con l’eclisse. Per questo avrebbe voluto imparare ad assaporare il tempo, tornare a guardare il cielo del mattino, ad ascoltare l’orologio campanario scandire di nuovo le ore della sua giornata. Da quanti anni non vi faceva più caso? Fu allora che si sentì investito dal profumo di caffè che Marion, al piano di sotto, aveva preparato. Scorse il suo gatto sonnacchioso tra i vasi del balcone. Voleva riprendersi la vita, nessuno gliel’avrebbe concessa. Chissà se Marion gli avrebbe offerto almeno un espresso.

Théo Feel, Racconti senza senso nella babele delle lingue.

Pubblicato da Entasis.it