Il preludio alla meccanizzazione del settore

 

LA LAVORAZIONE
Riguardo alla tecnica professionale ci informa mastro Martino, che spiega la realizzazione dei vari formati di pasta, dai maccheroni alla siciliana a quelli genovesi o romaneschi. Per la lavorazione dei maccheroni siciliani, ci descrive le varie fasi. Con un impasto, rinforzato da bianchi d’uovo, si realizzano inizialmente dei piccoli ma lunghi tondini, che vengono poi avvolti intorno ad un filo di ferro duro per far loro prendere l’aspetto allungato. Ottenuti i maccheroni, essi vengono preferibilmente essiccati al sole (“nei giorni della luna d’agosto”). Ciò permette un consumo differito nel tempo. Possono essere, infatti, conservati anche due o tre anni, prima di essere mangiati.

Per i maccheroni alla genovese o romaneschi, invece, si parte da una sfoglia di pasta all’uovo, stesa con l’aiuto di un mattarello. Ottenuto lo spessore necessario, la sfoglia è arrotolata su sé stessa. Si tagliano, a questo punto, dei rotolini a spirale, più o meno larghi, che vengono chiamati taglierini o tagliatelle.

Il torchio e la gramola in una illustrazione della grande enciclopedia francese, Parigi 1767

Queste varie tecniche erano probabilmente conosciute, nel medioevo, sia in Sicilia che in Sardegna. Nell’attrezzatura del tempo esistono altri piccoli strumenti, come la “gramola a briga” (che compare nel Codice Diplomatico Barese del 1215), cioè una specie di gramola a stanga, un apparecchio che aiutava ad eseguire il lungo e faticoso lavoro di impastatura per grandi quantità (permetteva di schiacciare e rimpastare più volte, fino ad ottenere la fusione di tutti gli ingredienti nella pasta per la sfoglia).

Inizialmente, la stanga veniva impiegata soprattutto per la lavorazione del pane; entrò poi in uso anche per la lavorazione della pasta. La stanga, anche se in ritardo, fu adottata dai pastai, in maniera ovvia e naturale, perché questi facevano già parte della stessa corporazione dei panettieri e dei fornai. Apparentemente semplice, la stanga è il preludio alla successiva meccanizzazione del settore, con una serie di rivoluzionarie invenzioni tecniche.

Édouard Manet – La ferrovia

 

Edouard Manet – Le Chemin de fer, olio su tela, 1872-1873, National Gallery of Art di Washington.
Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 – Parigi, 30 aprile 1883) è stato un pittore francese, considerato il maggiore interprete della pittura preimpressionista. Sin dal principio Manet era animato dalla volontà di ricercare il vero dietro l’apparenza, e di fissare sulla tela la fremente realtà.

La ferrovia

Manet intraprese l’esecuzione de La ferrovia nel 1872, dipingendo per la maggiore in en plein air, con l’aggiunta di alcuni dettagli secondari eseguita nel chiuso dell’atelier e la rifinitura globale portata a termine nel giardino del pittore Hirsch, all’incrocio tra rue de Rome e rue de Constantinople, dunque a poca distanza dal parco binari della trafficata stazione di Saint-Lazare. Il dipinto raffigura una donna e una bambina, per le quali posano rispettivamente Victorine Meurent, già modella di Olympia, e la figlia di un amico, probabilmente proprio dell’Hirsch. La ragazza di sinistra ha uno sguardo pensieroso e mesto e regge sul grembo un ventaglio, un libro aperto e un cagnolino addormentato (si tratta questa di una citazione dalla Venere di Urbino di Tiziano Vecellio, antico maestro particolarmente amato dal Manet). La bambina di destra, invece, è vestita con un elegante abito bianco e blu e rivolge le spalle all’osservatore: è aggrappata all’inferriata di ferro, e ammira con grande reverenza lo spettacolo del treno in manovra, che si fa strada verso la stazione con grandi sbuffi di vapore. Alla vivace curiosità della fanciulla si contrappone la mestizia della donna, consapevole della propria maturità, la quale infatti non è interessata all’arrivo della locomotiva, anche se interrompe per un attimo la lettura. A completare la composizione vi è un grappolo d’uva, posto a destra del muricciolo.

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Hamilton Mabie

Citazioni e aforismi sono passati dalla carta al web. Ne leggiamo in continuazione, ma noi stessi dimentichiamo di mettere in pratica quanto abbiamo sollecitato all’attenzione degli altri. Non sarebbe il caso di passare dalle citazioni alle citAZIONI? Oppure sforzarci di rifletterci su?

Fonte immagine: Wikipedia

Sedia Thonet: immutata da oltre 150 anni?

 

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“Chi non conosce le sedie di Vienna, che per eleganza …” Così scriveva la Corriere di Catania l’8 maggio 1882. Già, chi non le conosce oggi quasi 140 anni dopo.

La “Sedia di Vienna”, “sedia alla viennese”, “sedia con la paglia di Vienna” o semplicemente “sedia in stile Thonet”. Ci sembrano tutte uguali, tutt’al più con qualche modifica nei riccioli o nella paglia dello schienale. Quando si pensa a questi prodotti l’immagine che ci viene in mente è subito quella della famosa nr. 14.

Un prodotto è costruito in soli 6 pezzi   che viaggia smontato e con una dozzina di viti e che viene assemblato nei negozi dislocati nei vari paesi. Il prezzo originario a listino era talmente basso che era l’equivalente del costo di tre dozzine di uova o di un litro e mezzo di “buon vino della casa”. Un successo è planetario. Intorno al 1930 si calcola che di quel modello ne sono stati venduti oltre 50 milioni di esemplari.  Si capisce perché allora pensiamo a quel modello!

‘Al Moulin Rouge’ di Henri Toulouse-Lautrec, con la sedia Thonet N. 14

Le sedie erano prodotte in varie tinte: noce, faggio, mogano particolarmente apprezzato il color ebano; Le tinte venivano date a pennello con aniline ad acqua. Il cliente poteva costruirsi la propria sedia non solo per il colore ma per il materiale del sedile (paglia, compensato o imbottito) con rinforzi aggiuntivi tra sedile e schienale (i famosi arcanti) e con viti di rinforzo al sedile.

Le sedie Thonet si adattavano poi benissimo ai locali pubblici; le sedie erano leggere e resistenti, facili da spostare, da pulire, da aggiustare; la grande scelta di gamma permetteva di non confondersi con altri locali concorrenti ma permetteva anche qualità (e prezzi) diverse; l’azienda Thonet introdusse già negli anni ottanta  i sedili e gli schienali di compensato che abbassarono ancora di più i costi ed eliminarono le problematiche legate alla paglia e al costo di impagliatura nel caso di rotture. Non solo: il compensato permise di personalizzare gli schienali e i sedili non solo con decori floreali o geometrici ma con scritte e i nomi dei Cafè stessi.

Testimonianza di ciò ne sono le fotografie dell’epoca (Paul Verleine nel 1892 o, sempre a Parigi, Ernst Hemingway al Cafè La Rotonde, Sthendal a Padova al Cafè Pedrocchi) e le varie pubblicità (in Francia la Mokaine, in Italia i magazzini Mele, o la birra Metzger illustrata da Dudovich ad esempio) o i quadri (Toulousse Lutrec, Steinlen, Völkel, Irolli, Evenpoel) che raffigurano sempre gli avventori dei bar di un tempo seduti su delle sedie in legno curvato.

 

[Ringraziamo l’arch. Giovanni Renzi per l’attenzione che ci ha riservato, contribuendo ad eliminare le inesattezze ravvisate in questa pagina. l’arch. Renzi è un esperto che si occupa professionalmente di consulenza e formazione sulla storia del marchio Thonet, datazione pezzi storici, organizzazione di mostre (Friedberg, Udine, Milano), valutazione del materiale storico. Molti articoli sull’attività di questa storica azienda si possono trovare sul suo Blog www.legnocurvatodesign.it ].

 

Artusi in cucina: minestre asciutte

 

Ripubblichiamo, in un modo del tutto particolare, un classico della cucina nazionale: LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE di Pellegrino Artusi, riferimento assoluto della cucina ottocentesca. Arte e scienza si incontrano in questo manuale, nel quale sono riportate le nozioni fondamentali della gastronomia italiana. L’arte del cucinare si fonde con l’arte del narrare e le ricette vengono raccontate attraverso esperienze personali, aneddoti, citazioni colte che inducono al “gusto” per la lettura. I segreti escono dalla cucina attraverso pagine da scorrere con piacere per assaporare, anche mentalmente, gustose pietanze a base di carni, verdure e legumi, specialità panarie e dolciarie.

“Una per una” ecco le ricette di Pellegrino Artusi. Rivisita la gastronomia ottocentesca tra cucina e cultura, realizzando piatti sorprendenti tutti da gustare. Sfoglia ogni settimana le ricette che preferisci o acquista l’eBook integrale.

Cliccando sul link della copertina sottostante, potrai sfogliare gratuitamente: Minestre asciutte  

 

Nostalgia della “piazza S. Martino” di un tempo

 

Michelopoli. Ci sono convention accolte con enorme favore di popolo, che riportano la memoria ad anni tanto lontani da ritrovarli soltanto sui libri di storia. Piazza Cairoli in baracca ricorda i giorni del bisogno. Quando il 16 febbraio del 1909 l’onorevole Micheli annota sull’ultimo numero di “Ordini e notizie” che «tutto sta per rientrare nelle condizioni normali», l’emergenza è ormai trascorsa, ma le sorti di Messina sono ancora da prevedere. Come oggi. Tra la baraccopoli provvisoria – che l’onorevole Giuseppe Micheli, deputato parmense, ha eretto in “piazza S. Martino” – e i primi alloggi della città definitiva del piano Borzì, passeranno non meno di 20 anni. Si dovrebbe scrivere la storia di una città di legno che fece da connessione tra la Messina del passato e quella della rinascita. Transitoria sì, ma col carattere pressoché stabile, che grande influenza ebbe sull’assetto futuro: con strade ortogonali, isolati, alloggi per la residenza e padiglioni speciali per uffici pubblici e scuole. Certo per chi ha vissuto i giorni dell’emergenza l’immagine della città «piena di baracche nuove, belle, allineate» rinfranca l’animo e il ricordo dei ricoveri di fortuna allestiti con materiali di recupero può suscitare persino la nostalgia nel rievocare i momenti trascorsi. Scrive uno dei soccorritori: «Chi potrà dimenticare quei primi giorni meravigliosi nei quali si dibatteva l’avvenire di Messina, la cui vita debole e quasi spenta palpitava intorno ai pochi fuochi di piazza S. Martino? Sotto l’acqua torrenziale rincasavamo stanchi a tarda sera e dopo l’unico pasto pareva soffice anche la terra». Sentimenti poetici, come quelli suscitati in chi gusta un arancino nella grande festa gastronomica di oggi, tra aromi e sapori. Ma nonostante ogni impegno, la scenografia ha richiamato (purtroppo) la “piazza S. Martino” di un tempo.

Pubblicato su 100NOVE n. 40 del 19 ottobre 2017

 

Edgar Degas – La famiglia Bellelli

Edgar Degas, La famiglia Bellelli, 1858-1867, olio su tela, Musée d’Orsay, Paris
Hilaire German Edgar Degas (Parigi, 19 luglio 1834 – Parigi, 27 settembre 1917) è stato un pittore e scultore francese. L’influenza esercitata da Degas non si limitò al solo Ottocento e lo stesso artista divenne un imprescindibile punto di riferimento per le generazioni future.

La famiglia Bellelli

In questo dipinto Degas raffigura la zia Laure in compagnia del marito, il barone Gennaro Bellelli, e delle due figlie, Giovanna e Giulia. A sinistra della composizione si erge statuaria la zia Laure, ammantata in un abito nero che la fa quasi sembrare l’eroina di un dramma tragico. È alta, maestosa, autoritaria, e spicca per la dignità quasi monumentale che assume, tanto che sembra possedere la solida volumetria di certe donne giottesche. Rivolge alteramente lo sguardo a destra, dove è seduto il marito, ma lo ignora e, anzi, lo oltrepassa: questa impassibilità, apparentemente crudele, viene giustificata dalla difficile situazione coniugale che opprimeva entrambi. A soli ventotto anni Laure era convolata a nozze con Gennaro Bellelli, un avvocato e giornalista di tendenze liberali che, imbevuto di patriottismo, nutriva consistenti simpatie per l’indipendenza italiana, tanto che divenne un entusiasta partigiano di Cavour. Proprio il suo credo politico fu causa di notevoli frizioni con il governo borbonico, che di tutta risposta lo esiliò a Firenze. Bellelli fu profondamente amareggiato e deluso dall’esito della sua lotta e le sue angosce si riverberarono nella sua vita sentimentale, che divenne in breve tempo burrascosa e, anzi, evidenziò come il matrimonio contratto con Laure fosse stato di convenienza. La stessa Laure risentì grandemente di queste asperità coniugali, fedelmente testimoniate dalla fitta corrispondenza che intrattenne con Degas, cui chiese: «Ho ragione di vedere sempre le cose in nero?». Le ferite intime di Laure, causate «dal carattere immensamente sgradevole e disonesto» di quella «persona non grata», erano purtroppo lente a rimarginarsi: «Vivere qui con Gennaro di cui conosci il carattere detestabile e senza che abbia una seria occupazione è qualcosa che mi trascinerà nella tomba» avrebbe detto la donna al pittore, con atroce lucidità. Era questa, quindi, l’atmosfera che si respirava a casa Bellelli quando Degas vi era ospite. Il pittore, dal suo canto, sa rendere l’inquietudine di questo muto dramma domestico con una sottigliezza psicologica tutta contemporanea.

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La fattura della pasta


Anche nel campo della lavorazione della pasta, l’Italia, in particolare del Mezzogiorno, si evidenzia per l’uso di tecniche più avanzate. Già a partire dal XV secolo, infatti, appaiono i primi strumenti per la lavorazione, mentre all’estero e nel Mediterraneo rimane esclusivamente manuale. Se poche sono le informazioni desunte dagli scritti dei cuochi medievali, una nota curiosa è rappresentata dai Tacuina Sanitatis, libri di medicina miniati, desunti da testi arabi e della successiva scuola salernitana. In essi si affronta il tema di una corretta alimentazione. Vi sono, quindi, dei capitoli sulla Tria (la pasta). Ma mentre il testo descrive la tecnica manuale (essendo lo scritto d’origine araba), le miniature, d’epoca medievale più tarda, ci danno, rispetto alla loro limitatezza, maggiori informazioni. In esse la lavorazione viene rappresentata nella fase iniziale e finale del processo, dove appaiono i vermicelli, pronti per l’essiccazione. Si scopre così che la fattura della pasta è compito prevalentemente femminile e che, all’epoca della rappresentazione, il lavoro si svolge in coppia e non singolarmente. L’illustrazione dei maestri lombardi fa riferimento a quella che doveva essere la piccola manifattura dei negozi di pasta fresca di quartiere e non di quella più industriale.

Tacuinum Sanitatis Bibliothèque nationale de France, Parigi

Gustave Caillebotte – Parigi in un giorno di pioggia 

Gustave Caillebotte, Strada di Parigi in un giorno di pioggia, 1877, olio su tela, Art Institute of Chicago.
Gustave Caillebotte (Parigi, 19 agosto 1848 – Gennevilliers, 21 febbraio 1894) è stato un pittore francese. Nonostante l’impegno impressionista interpretò gli stilemi del movimento in modo assolutamente personale, senza abdicare alla propria formazione e ubbidendo soprattutto alla propria sensibilità.

Strada di Parigi in un giorno di pioggia

Si tratta questo di un dipinto pregevole per molteplici motivi. Partiamo dal contesto urbanistico: a essere raffigurato, infatti, è l’incrocio tra rue de Moscou, rue Clapeyron e rue de Turin – la strada che, partendo dal primo piano, si disperde nello sfondo. Oggi quest’intersezione viaria, collocata a pochissima distanza dalla stazione di Saint Lazare, altro luogo assiduamente dipinto dagli Impressionisti, prende il nome di place de Dublin. È importante osservare come le sopraccitate arterie stradali siano il frutto delle imponenti innovazioni del tessuto cittadino volute da Napoleone III e orchestrate da Georges Eugène Haussmann, il barone che al labirintico intrico di strade medievali ha sovrapposto un’efficiente maglia di viali larghi e rettilinei, i boulevard, per l’appunto. Pur suscitando lo sdegno di molti pensatori ed intellettuali (si pensi a Charles Baudelaire) l’intervento haussmanniano seppe conferire a Parigi una fisionomia più compiuta e monumentale, con la costruzione di strade e piazze piene di luce, di aria, di lampioni elettrici (importante novità per l’epoca), di modernità: sono gli spazi urbani visibili proprio in questo dipinto, che in questo modo si configura come una preziosa «fotografia» del tumultuoso riassetto metropolitano che, nell’Ottocento, aveva coinvolto non solo Parigi, ma tutte le maggiori città europee. Strada di Parigi in un giorno di pioggia, in effetti, concede ampi spazi all’acciottolato umido della carreggiata, o alla lanterna che, divampando nel cielo foriero di burrasca, divide la composizione geometricamente, in due parti uguali. Le qualità fotografiche dell’opera, che come già accennato è un eccezionale documento figurativo della vita parigina di fine Ottocento, sono notevoli: si osservi il taglio compositivo, con i soggetti che fuoriescono dallo spazio pittorico.

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Isaac Asimov

 

Citazioni e aforismi sono passati dalla carta al web. Ne leggiamo in continuazione, ma noi stessi dimentichiamo di mettere in pratica quanto abbiamo sollecitato all’attenzione degli altri. Non sarebbe il caso di passare dalle citazioni alle citAZIONI? Oppure sforzarci di rifletterci su?

Fonte immagine: Biografia