Il procedimento per la curvatura del legno

 

Tecnica di piegatura del legno


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Michael Thonet fu un vero e proprio precursore dell’industrializzazione moderna. Il nuovo procedimento incentrato sulla curvatura del legno evitava di sagomare i singoli elementi componenti la struttura delle sedie al fine di poterli incastrare e incollare tra di loro i giunti a tenone e mortasa. L’innovazione consisteva nell’inumidire elementi di legno (preferibilmente faggio fresco, ricco di linfa) così da rendere la piegatura più semplice. Questi elementi erano inseriti in casseforme metalliche e, quindi, lasciati essiccare al vapore facendo assumere la forma desiderata.

Tutto ciò permetteva economie di tempo e di lavoro, quest’ultimo affidato a maestranze non specializzate. Gli elementi in faggio curvato venivano finiti ed assemblati fra di loro con delle semplici viti a vista. Questa tecnica consentiva perciò di produrre i mobili in serie, di spedirli smontati per nave o ferrovia e assembrarli soltanto giunti a destinazione. Tutto ciò con un abbattimento notevole dei costi di produzione e di trasporto. L’idea quindi consentiva la realizzazione di un kit di montaggio, che permise di cambiare il modo di concepire mobili a basso costo, poiché alle sedie si aggiunse tutto il resto della ricca produzione in catalogo. Le forme che ne derivavano, a differenza della tecnica di produzione, tuttavia non erano per niente innovative, dato che in realtà erano simili alla produzione eclettica dell’epoca, incentrata prevalentemente sullo stile Biedermeier. Questo stile, in voga tra la borghesia tedesca e austriaca nel periodo tra il 1815 ed il 1848, nacque in contrapposizione al ricco Stile Impero, assecondando e facilitando la produzione industrializzata. Per tale motivo il termine Biedermeier era utilizzato in senso dispregiativo, infatti è composto dall’aggettivo bieder cioè semplice, e da uno dei cognomi tedeschi più comuni come Meier: come a dire “mobili che piacciono tanto da essere acquistati dal quel sempliciotto del signor Meier”.

 

Artusi in cucina: minestre in brodo

 

Ripubblichiamo, in un modo del tutto particolare, un classico della cucina nazionale: LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE di Pellegrino Artusi, riferimento assoluto della cucina ottocentesca. Arte e scienza si incontrano in questo manuale, nel quale sono riportate le nozioni fondamentali della gastronomia italiana. L’arte del cucinare si fonde con l’arte del narrare e le ricette vengono raccontate attraverso esperienze personali, aneddoti, citazioni colte che inducono al “gusto” per la lettura. I segreti escono dalla cucina attraverso pagine da scorrere con piacere per assaporare, anche mentalmente, gustose pietanze a base di carni, verdure e legumi, specialità panarie e dolciarie.

“Una per una” ecco le ricette di Pellegrino Artusi. Rivisita la gastronomia ottocentesca tra cucina e cultura, realizzando piatti sorprendenti tutti da gustare. Sfoglia ogni settimana le ricette che preferisci o acquista l’eBook integrale.

Cliccando sul link della copertina sottostante, potrai sfogliare gratuitamente: Minestre in brodo


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bisogna ascoltare con rispetto chiunque

 

Ogni tanto prendo una boccata d’ossigeno e torno sulle pagine di studiosi eccelsi, di quei punti focali di riferimento che mi hanno aiutato a ragionare sul mondo, suscitando in me continue sorprese. Un po’ come è capitato quest’oggi, riprendendo per caso di Eco quel delizioso libro su “Come si fa una tesi di laurea”. Una sua considerazione mi ha sempre irretito: «Ho imparato che se si vuole fare ricerca non bisogna disprezzare nessuna fonte, per principio». All’epoca le tesi si redigevano diteggiando sui tasti delle macchine da scrivere. Si memorizzavano brani con schede di lettura cartacee. I libri si consultavano persino nelle Biblioteche più sperdute o potevi rinvenirli anche nei mercatini. Come accadde ad Eco, che imparò l’umiltà scientifica, acquistando a Parigi su di una bancarella “L’idée du Beau dans la philosophie de Saint Thomas d’Aquin”, pubblicato a Louvain nel 1887 da uno sconosciuto abate Vallet: «un poveretto, che ripeteva idee ricevute e non aveva scoperto nulla di nuovo». Eppure, enunciata in modo marginale, distrattamente, e forse senza neppure comprendere l’importanza dell’asserzione, l’abate fornì al giovane Eco la chiave per superare lo scoglio interpretativo della sua tesi che lo aveva fatto arenare da tempo. L’aneddoto ha un seguito. Eco trasecolò, oltre vent’anni dopo, quando riprese quel libricino che lo aveva illuminato. L’abate Vallet non aveva mai formulato la notazione attribuitagli. Raccontava con stupore: «Era accaduto che leggendo Vallet (il quale parlava d’altro), e stimolato in qualche modo misterioso da quello che lui stava dicendo, a me era venuta in mente quell’idea e, immedesimato come ero nel testo che stavo sottolineando, ho attribuito l’idea a Vallet». Certe Chiavi Magiche, a volte, ce le fabbrichiamo da soli, quando sono così intense talune letture da diventare un dialogo irreale.

Pubblicato su 100NOVE n. 39 del 12 ottobre 2017

 

Jean-François Millet: L’Angelus

Jean-François Millet, L’Angelus (1858-59); olio su tela, 55×66 cm, Musée d’Orsay, Paris
Jean-François Millet (Gréville-Hague, 4 ottobre 1814 – Barbizon, 20 gennaio 1875) è stato un pittore francese, considerato uno dei maggiori esponenti del Realismo.

L’Angelus 

L’opera, una delle più note di Millet, raffigura una coppia di contadini che interrompono il duro lavoro dei campi al suono delle campane che annunciano l’Angelus, mostrati nella loro devozione, intenti nella preghiera. Commissionata dal magnate americano Thomas G. Appleton, L’Angelus attinge da uno spunto ispiratore decisamente autobiografico. All’origine del dipinto, infatti, non vi è un lavoro en plein air, bensì un ricordo di Millet della sua infanzia in Normandia: «L’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per recitare l’angelus in memoria dei poveri defunti».

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La bottega della pasta fresca

 

Preparazione della pasta, Tacuinum sanitatis Casanatense (XIV secolo).

All’inizio, la produzione della pasta secca si incentra soprattutto in Sicilia e Sardegna, con presenze nell’Italia meridionale e sulla costa ligure. Nascono un po’ ovunque negozi per lo smercio della pasta secca e fresca al dettaglio. Vengono chiamati “lasagnari”, o, più raramente, “vermicellari”.  Con la loro diffusione, sorgono le prime corporazioni di pastai. Ad esempio, a Firenze, nel 1311, si forma “l’Arte dei cuochi e dei lasagnari”, a cui si aggiungeranno i “cialdonai”, cioè i produttori di cialde.

I produttori di pasta, tuttavia, non creavano la pasta secca, ma, al massimo, la smerciavano. Al contrario, a casa, su ordinazione, si confezionava quella fresca.
La pasta secca continua ad essere lavorata solo a livello professionale, in Sicilia e Sardegna, padroneggiando tecniche più sofisticate, come l’essicazione. È per questo che, nel XV secolo, le botteghe si trovano un po’ ovunque, anche nell’Italia settentrionale. Sono menzionati negozi di pasta, ad esempio, a Roma, Genova, Milano, Venezia, Padova, Reggio Emilia e Bologna. Qui si poteva ordinare pasta fresca, anche fornendo la farina da utilizzare, pagando un prezzo minore. I negozi erano sottoposti a controlli, per evitare possibili frodi o costi eccessivi. La pena sanzionata dall’autorità consisteva in una multa salata. Nel Cinquecento, a Roma si evidenzia una corporazione di vermicellari. Questa si affiancava ai pastai (per la pasta secca) e quella dei lasagnari, per lo smercio di pasta fresca nei quartieri.

Essendo la semola di grano duro di difficile reperibilità nel Nord Italia, la farina principale era quella di grano tenero, e, di conseguenza, era molto diffusa la pasta fresca fatta in casa. Il grande consumo richiese comunque un piccolo periodo d’essicazione della stessa pasta fresca. Tra le necessità, infatti, vi era l’immagazzinamento momentaneo, la pesatura, l’eventuale imballaggio, il trasporto, anche se per breve distanza, ed altro ancora.

Honoré Daumier – Il vagone di terza classe

 

Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, 1862, olio su tela, 67 × 93 cm, National Gallery of Canada, Ottawa
Honoré Daumier (Marsiglia, 26 febbraio 1808 – Valmondois, 10 febbraio 1879) è stato un pittore, scultore, litografo e caricaturista francese. È noto soprattutto per le sue vignette di satira politica realizzate con la tecnica litografica.

Il vagone di terza classe

La rappresentazione di una condizione sociale umile e poco presa in considerazione dallo Stato è realizzata dall’artista con uno stile drammatico che anticipa i futuri indirizzi della pittura espressionistica di Munch, Ensor, Kirchner e di Egon Schiele. Le figure vengono ritratte in un vagone ferroviario di terza classe, tutte ammassate sulle dure panche di legno, con i finestrini solo da un lato (che lasciano appena intravedere un cielo livido) e lo sguardo perso nel vuoto, evidentemente rassegnate al loro destino di povertà e sofferenza. Ma oltre ai lavoratori, dei quali si intercetta idealmente la fatica, i borghesi si mostrano, in netta contrapposizione con le altre figure, con la loro arroganza, indifferenza e inimicizia, sottolineando così il netto divario tra deboli (madri di famiglia, poveri operai e bambini stanchi) e potenti (ricchi imprenditori), concetto metaforico e reale che emerge dal dipinto. Particolare risalto viene dato alla vecchia in primo piano, vero e proprio centro visivo e compositivo del quadro: è abbigliata con un mantello e ripone le proprie mani ossute sul manico del paniere sul suo grembo. La sua espressione è stanca e segnata, e lascia emergere con violenza la sua povertà materiale e spirituale. Persino il giovane ragazzo sulla destra, addormentatosi cullato dallo sferragliare del vagone, sembra avere una vita segnata dall’infelicità.

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Gustave Flaubert

 

Citazioni e aforismi sono passati dalla carta al web. Ne leggiamo in continuazione, ma noi stessi dimentichiamo di mettere in pratica quanto abbiamo sollecitato all’attenzione degli altri. Non sarebbe il caso di passare dalle citazioni alle citAZIONI? Oppure sforzarci di rifletterci su?

Gebrüder Thonet produce la Sedia N. 14

 

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A Koritschan la Gebrüder Thonet iniziò a produrre la Sedia N. 14, che divenne presto il modello più diffuso dell’epoca e in seguito la sedia più venduta al mondo. Già nel primo poster della società (1859), con 26 modelli, si possono notare   i segni della produzione di massa. La particolarità consisteva nell’utilizzo di parti utilizzabili per più modelli. Thonet e i suoi figli riescono a costruire i primi 13 modelli utilizzando 2 soli tipi di schienale (uno leggermente arcuato per i modelli n.5, n.6 e n.9) e 2 tipi di sedile (uno per i modelli con le asole e l’altro per quelli senza). Il risultato ottenuto era l’armonizzazione degli stili e un risparmio notevole nel processo di produzione.  Ma non erano solo sedie. Del 1860 infatti è la prima sedia a dondolo in faggio curvato, simile a un rocker in metallo fabbricato a Birmingham da RW Winfield & Co.

Al Salone Internazionale del 1861 a Londra, la Gebrüder Thonet presentò vari modelli di sedute economiche e leggere, ma allo stesso tempo di buona qualità, riscuotendo finalmente il plauso universale. Nel 1869 la società lascio decadere i propri brevetti pressata da un mercato che sembrava infinito. Nel giro di pochi anni sorsero concorrenti in tutto il mondo. Tra queste la più importante era la J. & J. Kohn a Vienna ma anche in Italia negli anni Ottanta sorsero tre società concorrenti: a Udine la società Antonio Volpe, ad Acireale la Sardella e a sull’appennino tra Chiavari e Parma la Prima Società di mobili in Legno curvato a vapore. Pur tuttavia i fratelli Thonet avevano come vantaggio competitivo numerosi stabilimenti e una rete commerciale internazionale. Nel 1880 la loro varietà di prodotti era già molto ampia; era possibile acquistare qualsiasi tipo di mobile prodotto da Thonet in uno stile oramai inconfondibile che aveva anticipato lo stile Liberty ma anche partecipato allo stile rinascimentale e al revival gotico. Sempre utilizzando il legno di faggio si potevano comprare specchiere, letti, mobili da giardino, culle, divani e sgabelli pieghevoli.

Dopo la morte del capostipite, avvenuta a settantacinque anni il 3 marzo 1871 i figli continuarono a dirigere un’azienda con oltre ottomila operai solo in Europa con fabbriche dislocate in varie nazioni. Alla fine della prima guerra mondiale la rinomata fabbrica diviene Società per azioni, la quando nel 1923 si fonde con il gruppo Mundus, divenendo il maggiore produttore mondiale di mobili. Nel 1927 il gruppo Thonet-Mundus acquisisce i diritti per i mobili in tubolare metallico iniziando una attiva collaborazione con il Bauhaus. Nel 1931 Pilzer fondatore della Mundus diventa il proprietario e la famiglia Thonet perde il controllo del gruppo e delle aziende associate.

Prima della guerra Pilzer, di origine ebrea, parte per le Americhe per sfuggire alle persecuzioni razziali. Prima di partire vende l’utilizzo del marchio ad ovest del Reno a dei discendenti della famiglia Thonet che ricominciano a produrre in Germania e in Austria dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Nel 1975 dopo due anni dalla morte di Fritz Jacob Thonet i discendenti dei primi fratelli Thonet dividono le due attività in Germania e Austria, stipulando accordi commerciali sul possibile commercio con il nome Thonet nei due paesi. Da questo momento anche in Europa il nome Thonet non fa più capo ad un’unica proprietà e ad un’unica famiglia. Oggi troviamo in Germania una Thonet   più concentrata sul mobile in tubolare metallico e in Austria una Gebrüder Thonet Vienna di proprietà italiana (Franco Moschini) che fa del legno curvato il suo core business.

 

[Ringraziamo l’arch. Giovanni Renzi per l’attenzione che ci ha riservato, contribuendo ad eliminare le inesattezze ravvisate in questa pagina. l’arch. Renzi è un esperto che si occupa professionalmente di consulenza e formazione sulla storia del marchio Thonet, datazione pezzi storici, organizzazione di mostre (Friedberg, Udine, Milano), valutazione del materiale storico. Molti articoli sull’attività di questa storica azienda si possono trovare sul suo Blog www.legnocurvatodesign.it ]. 

 

 

 

Giuseppe Piermarini – La villa Reale di Monza

 

Monza – Villa Reale
Giuseppe Piermarini (Foligno, 18 luglio 1734 – Foligno, 18 febbraio 1808) è stato un architetto italiano.

La villa Reale di Monza

La costruzione della villa fu voluta dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa quale residenza estiva per la corte arciducale del figlio Ferdinando d’Asburgo-Este, Governatore Generale della Lombardia Austriaca dal 1771, che inizialmente si era stabilita nella Villa Alari di Cernusco sul Naviglio, presa in affitto dai conti Alari. La scelta di Monza fu dovuta alla salubrità dell’aria e all’amenità del paese, ma esprimeva anche un forte simbolo di legame tra Vienna e Milano, trovandosi il luogo sulla strada per la capitale imperiale.

L’incarico della costruzione, conferito nel 1777 all’architetto imperiale Giuseppe Piermarini, fu portato a termine in soli tre anni, mentre per terminare l’allestimento dei curatissimi giardini si rese necessario qualche anno in più. Successivamente il giovane arciduca Ferdinando fece apportare aggiunte al complesso, sempre ad opera del Piermarini e usò la Villa come propria residenza di campagna fino all’arrivo delle armate napoleoniche nel 1796.

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La rosa dei venti del Mediterraneo

 

SabirFest, giunto alla IV edizione, inizia oggi e finisce l’otto ottobre. Quattro giorni intensi di manifestazioni disseminate tra Messina, Catania, Reggio Calabria, per far germogliare un seme: il “Manifesto per la cittadinanza mediterranea”. Sarà proposto alla discussione in SabirMaydan, la piazza nella piazza, per ripensare nuove forme di cittadinanza, per superare vecchie e nuove ingiustizie, vecchi e nuovi pregiudizi. Quest’anno l’headline della manifestazione è “Io sto con SabirFest”. Stare dalla parte di SabirFest significa pensare finalmente al Mediterraneo come casa comune, significa stare dalla parte del nostro futuro, perché il Mediterraneo è il nostro futuro. Manco a dirlo, giacché da tempo immemorabile – focalizza Fernand Braudel – nell’universo del Mediterraneo «il plurale ha sempre il sopravvento sul singolare: esistono dieci, venti, cento Mediterranei, e ognuno di essi è a sua volta suddiviso». Grandi contrasti hanno perennemente spezzato l’immagine unica di questo mare, che da sempre è il cuore del Vecchio Mondo. Il Sabir, la “langue franque ou Petit mauresque”, ha cercato di colmare a suo modo il divario, almeno fra la gente di porto e i marinai. Ma ancora oggi la gente vuole parlarsi, per capire flussi e riflussi, e trovare il “legame naturale” fra le proprie culture differenti nate però sulle sponde dello stesso mare. Conoscenza, libertà, solidarietà, diritti, saranno infatti i punti cardinali di una nuova rosa dei venti, grazie alla quale orientare il viaggio in queste quattro giornate. Un programma articolato di appuntamenti con scrittori, registi, giornalisti, artisti, di diverse nazionalità. E poi libri – tanti ne raccoglie la mostra-mercato di SabirLibri – e incontri, e laboratori, cinema, teatro, musica per un pubblico di tutte le età. All’insegna della sacra ospitalità mediterranea.

Pubblicato su 100NOVE n. 38 del 5 ottobre 2017