Vivian Maier – Da Mary Poppins con la Rollei a fenomeno cult

 

Vivian Maier

 

Qualcuno domanderà notizie sull’identità della misteriosa Vivian Maier. Altri risponderanno che la conoscono come una bambinaia di Chicago che portava a spasso i frugoletti che le erano stati affidati e, mentre vagava per la città, scattava in continuazione fotografie. Qualche volta uno scatto la ritraeva riflessa in una vetrina, qualche altra volta i soggetti erano gli stessi bambini, ma solitamente erano scene di vita cittadina, riprodotte in bianco e nero. Immagini che nessuno conosceva fino al momento della loro scoperta in un armadio, apparentemente abbandonato. Immagini che neppure lei osservato, se non attraverso il suo obiettivo fotografico al momento dello scatto, visto che da quell’armadio sono emersi centinaia di rullini fotografici mai sviluppati e stampati. Ma quando finalmente le immagini videro la luce rivelarono una eccezionale e (forse) inconsapevole “fotografa di strada” che aveva ritratto l’America del XX° secolo. Michele Smargiassi sul Venerdì di Repubblica riassume la storia della scoperta in poche righe: «Nel 2007 un agente immobiliare di nome John Maloof si imbatte casualmente nella vendita all’asta del contenuto di un magazzino, acquista scatoloni pieni di fotografie, trova che siano capolavori, scopre su Google che l’autrice, una tata di Chicago con l’hobby della fotografia, è morta qualche giorno prima, pubblica degli esempi sul web, e il mondo s’inchina commosso e stupefatto a un genio sconosciuto».

Il nome di Vivian Maier da un giorno all’altro, grazie ad internet, è diventato famoso in tutto il mondo; molti apprezzarono così il suo lavoro meticoloso di ripresa fotografica, che la portò alla celebrità. Lei, al contrario, non se lo sarebbe mai immaginato. Pamela Bannos, docente di fotografia alla Northwestern University, trasformatasi nella sua biografa americana, l’ha ritratta in modo scrupoloso, raccogliendo le poche notizie possibili ed esaminando gli scatti. Il libro si intitola “A Photographer’s Life and Afterlife”, come dire la vita conosciuta – raccontata dai suoi stessi frugoletti divenuti oggi giovanotti e signorine in carriera – e quella dell’aldilà, cioè quel limbo di misteriosa ed oscura esistenza che la stessa Maier, consapevolmente, ha voluto occultare. La cosa più importante, sostiene la professoressa  Bannos, è che la Maier non era una babysitter che studiava per diventare fotografa, ma una vera fotografa che si manteneva come babysitter per vivere. Per cui la tesi del libro è smontare tutta quella mitologia creata dai Social Network e dimostrare il lavoro coscienzioso che nessuno ha potuto esaltare quando la Maier era in vita. Questo per il fatto che la stessa Maier ha scelto di non mostrare il proprio lavoro. Il motivo? Probabilmente perché pensava che negli ambienti della fotografia d’arte (e non commerciale) i giochi fossero già fatti.

 

VIVIAN MAIER (New York, 1º febbraio 1926 – Chicago, 26 aprile 2009) è stata una fotografa statunitense, della cui attività artistica si sapeva ben poco fino a pochi anni prima della sua scomparsa. Vivian Maier e, soprattutto, la sua vasta quantità di negativi è stata scoperta nel 2007, grazie alla tenacia di John Maloof, anche lui americano, giovane figlio di un rigattiere. Nel 2007 il ragazzo, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, ad un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL VENERDÌ (LA REPUBBLICA)

Cercando la vera Vivian Maier, al di là delle leggende

Una sintesi storica sul rapporto fra uomini e piante

 

Il libro è il prodotto culturale di una interessante Giornata di Studi sulla Scuola Medica Salernitana. Nel corso dell’incontro, organizzato dall’associazione culturale Adorea, in collaborazione con l’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri della provincia di Salerno e il Centro studi “Hippocratica Civitas”, è stato presentato l’eBook che qui sfogliamo, riguardante gli atti del convegno scientifico “Erbe, manoscritti, incisioni. Esplorazioni nel mondo del Regimen e della fitoterapia”. Per l’occasione è stato coinvolto il mondo accademico dell’ateneo salernitano, al fine di sottolineare la continuità e la modernità, in materia di erbe e di rimedi, ereditate dalla dottrina e dall’insegnamento dalla secolare Istituzione, che ha rappresentato il vanto e la gloria della città di Salerno.

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Massimo Fini – Quando, su Photo, mise a confronto 20 sederi femminili

 

Dice bene Massimo Fini, al quale divertiti dedichiamo il FLIP di oggi, giorno di riposo: «Scrivere di eros è difficilissimo. Anche grandi autori che si sono cimentati nel romanzo erotico hanno dato esiti deludenti. Forse il migliore lo ha scritto una donna, Violette Leduc Teresa e Isabella: è la storia omosessuale di due ragazze adolescenti, non c’è una sola parola cruda ma, forse proprio per questo, la tensione è altissima». Violette Leduc, meno conosciuta in Italia che in Francia, è scrittrice di spicco, amica di Maurice Sachs e di Simone de Beauvoir, che la sostennero con tutti i mezzi affinché scrivesse, incidendo sul conformismo dei suoi anni. Anche Fini spezza il conformismo, quando, a modo suo, si presenta come «il più polemico dei polemisti italiani». L’estratto, che presentiamo, pubblicato da Cinquantamila.it, è spassoso ed “erotico” nel modo giusto. Parla di un articolo nato per caso e che ha reso famoso il suo autore, almeno fra le sue amiche alle quale piace fargli analizzare le proprie piacevolezze anatomiche. Lo rammentiamo pure noi, quell’articolo, ma a differenza, noi ricordavamo solo le parti anatomiche e non l’autore che le descriveva. Massimo Fini lo conosciamo meglio come giornalista e scrittore, a cominciare dal suo saggio più recente: La modernità di un antimoderno. Ora Marsilio ha raccolto i suoi libri più autobiografici in Confesso che ho vissuto, dal quale prendiamo spunto. Sono settantaquattro anni densi di esperienze ed anche eccessi: whisky, sigarette, sesso e querelle. Così compare nella intervista rilasciata al Corriere della Sera e che riportiamo di seguito. Buona lettura domenicale.

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MASSIMO FINI (Cremeno, 19 novembre 1943) è un giornalista, saggista e attivista italiano. È stato una delle firme più note de L’Europeo negli anni 1970-1990, de Il Giorno negli anni 1980 e de L’Indipendente negli anni 1990, ritenuto un profondo conoscitore dello scenario internazionale. È nato a Cremeno, in provincia di Lecco. Il padre, Benso Fini, pisano, era giornalista della «Nazione». La madre, Zinaide Tubiasz, era nata nella Russia zarista in una ricca famiglia di religione ebraica (Fini ha affermato di essere “tecnicamente” ebreo, anche se non si sente tale) che, dopo aver perso tutto con l’avvento del regime comunista, aveva scelto l’esilio in Lituania. Dal Paese baltico la famiglia aveva mandato Zinaide a studiare all’Università di Parigi. A Parigi si era rifugiato Benso Fini dopo l’avvento del regime fascista in Italia, e i due si erano conosciuti nella capitale francese. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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MARSILIO EDITORI

Confesso che ho vissuto

Andare per musei alla ricerca dell’estetica del quotidiano

 

Scandagliando in musei, biblioteche e archivi dell’Emilia-Romagna la presenza di progetti, prototipi, disegni e oggetti di design, questo censimento condotto dall’Istituto regionale per i beni culturali conferma il primato dell’industria creativa tra Rimini e Piacenza. L’ebook curato da Claudia Collina, primo numero della collana “IBC Digital”, indaga in particolare 439 realtà museali, di cui 50 hanno mostrato nuclei collezionistici inerenti il design, una materia che per i suoi confini indefiniti è stata circoscritta in insiemi e sottoinsiemi in base agli studi più recenti.

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Sofocle – Rispettiamo le leggi dello Stato per evitare un campo di conflitti

 

Il libro che FLIP presenta oggi è l’opera congiunta di due fra i maggiori esponenti del Diritto costituzionale italiano, Marta Cartabia e Luciano Violante, scritto come dice il sottotitolo “per indagare i dilemmi del diritto continuamente riaffioranti nelle nostre società”.  Il libro si intitola “Giustizia e mito. Con Edipo, Antigone, Creonte”, laddove Edipo, Antigone, Creonte, sono i personaggi concepiti da Sofocle, capaci evidentemente ancora oggi di mettere in luce delle verità. Leggiamo a questo proposito la scheda curata dalla casa editrice “Il Mulino”: «Antigone, ovvero il conflitto tra coscienza individuale e ragion di stato, tra legge morale e legge positiva. Edipo, ovvero la tensione tra verità storica e oggettiva e verità soggettiva, tra domanda di giustizia e intransigenza nell’amministrarla, tra colpa, errore e responsabilità. Creonte, ovvero il contrasto tra la legge e la sua opposizione. Altrettanti dilemmi del diritto che riaffiorano continuamente nelle nostre società. Per quanto emancipata dal suo primitivo nucleo vendicativo, e oggi amministrata con molte garanzie, sancite soprattutto dalle costituzioni contemporanee, la giustizia infatti non risana mai del tutto i conti, né per le vittime né per i carnefici».

Tematiche di certo non semplici, ma di sostanziale interesse. Vale conoscere di più sui contenuti del libro, leggendo l’articolo di Sabino Cassese sul Corriere della Sera, giurista e accademico, giudice emerito della Corte costituzionale. Per chi volesse aggiornarsi anche sugli autori del libro, la scheda de “Il Mulino”, ce ne offre l’opportunità: «Marta Cartabia, professore ordinario di Diritto costituzionale, è attualmente Vice Presidente della Corte costituzionale. Per il Mulino ha pubblicato «L’Italia in Europa» (con J.H.H. Weiler, 2000) e curato «I diritti in azione» (2007), «Dieci casi sui diritti in Europa» (2011) e «La sostenibilità della democrazia nel XXI secolo» (con A. Simoncini, 2010); per Oxford University Press è coautrice di «Italian Constitutional Justice in Global Context». Luciano Violante, già professore ordinario di Diritto e Procedura penale, magistrato e parlamentare, presidente della Camera dei deputati dal 1996 al 2001, è presidente di italiadecide, associazione per la qualità delle politiche pubbliche. Fra i suoi libri «Politica e menzogna» (2013), «Il dovere di avere doveri» (2014) e «Democrazie senza memoria» (2017), tutti pubblicati da Einaudi».

 

SOFOCLE figlio di Sofilo del demo di Colono (496 a.C. – Atene, 406 a.C.) è stato un drammaturgo greco antico. È considerato, insieme ad Eschilo ed Euripide, uno dei maggiori poeti tragici dell’antica Grecia. Sofocle nacque nel 496 a.C. nel demo di Colono, che era un sobborgo di Atene. Figlio di Sofillo, ricco ateniese proprietario di schiavi, ricevette la migliore formazione culturale e sportiva, cosa che gli permise a 15 anni di cantare da solista il coro per la vittoria di Salamina. La sua carriera di autore tragico è coronata dal successo: a 27 anni conquista il suo primo trionfo gareggiando con Eschilo. Plutarco, nella Vita di Cimone, racconta il primo trionfo del giovane talentuoso Sofocle contro il celebre e fino a quel momento incontrastato Eschilo, conclusasi in modo insolito senza il consueto sorteggio degli arbitri: Eschilo, in seguito a questa sconfitta, scelse il volontario esilio in Sicilia. In tutto Sofocle conquistò 24 vittorie, arrivando secondo in tutte le altre occasioni.  (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Il diritto nello specchio di Sofocle

Patrimonio e paesaggio per avvincere studenti e professori

 

“SPAZIO E CARTOGRAFIA” rientra in una collana di strumenti operativi funzionale all’educazione al Paesaggio a scuola e che coniuga il momento formativo con l’esperienza d’aula raccontata per la comunità professionale dei docenti. È frutto dell’esperienza di formazione dei docenti “PAESAGGIO e paesaggio a scuola”, svolto in collaborazione con Clio ’92 e MiBACT – Segretariato Regionale per l’Emilia Romagna, nell’ambito dell’attività didattica per l’anno scolastico 2016/2017.

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Desmond John Morris – I surrealisti? Scoprii subito che erano diversi l’uno dall’altro

Foto di gruppo degli artisti surrealisti. «Un gruppo di figli di papà», così li definiva Giorgio De Chirico che vi aveva fatto parte.

L’etologo Desmond Morris è diventato famoso in tutto il mondo nel 1967, col suo bestseller La scimmia nuda. Vi chiederete: come mai uno studioso è riuscito a trasformare un libro scientifico in un bestseller? Lo spiega lui stesso, da maestro o meglio da presentatore televisivo: «Quando ero un giovane scienziato dell’Università di Oxford, usavo il gergo tecnico. Come tutti i miei colleghi. Quello che scrivevamo era difficile da comprendere: volevamo apparire il più possibile accademici. Poi, mi è accaduto qualcosa di inaspettato. Sono andato a Londra e ho cominciato a parlare di animali in tv. Ho curato un programma televisivo ogni settimana. Per undici anni. È allora che ho imparato a servirmi di un linguaggio più diretto».  Dopo una vita di studi dedicata a esaminare gli aspetti che accomunano l’uomo agli altri esseri appartenenti al mondo animale, nella ricerca di un denominatore comune, oggi fa invece seguito la sua volontà di analizzare criticamente i “numeri primi” della natura, che dovremmo essere noi umani. Quale è la «caratteristica più appassionante che ci rende unici»? Si è domandato Morris. La risposta è stata: l’arte. Perché l’arte, sostiene riferendosi ad Aristotele, può «rendere straordinario l’ordinario». Lo fa proponendo un nuovo libro, questa volta dedicato a Le vite dei surrealisti (edito da Johan&Levi). Racconta una storiella su Dalì, forse il più famoso fra i pittori surrealisti, che un giorno si spinse perfino a dichiarare: «Il Surrealismo sono io». Quando un suo amico mostrò a Dalí la prestazione pittorica compiuta dallo scimpanzé Congo, l’artista la osservò con interesse e poi sentenziò: «La mano dello scimpanzé è quasi umana; la mano di Jackson Pollock è in tutto e per tutto quella di un animale». Non è semplicemente una battuta di spirito, se Morris riesce a leggervi quello che noi non vi abbiamo per nulla colto. Interpreta Morris: «Il commento di Dalí la dice lunga sul modo in cui si era sviluppato il Surrealismo dalla sua nascita nel 1924. Nel primo manifesto Breton lo definì come “automatismo psichico puro”, un concetto che si addice perfettamente a ciò che faceva Pollock quando picchiettava il colore sulla tela. Secondo questa definizione il pittore americano sarebbe il surrealista per antonomasia mentre Dalí, in confronto, apparirebbe più che altro come un grande maestro del passato».

A novant’anni Morris ha deciso di leggere il mondo che ha conosciuto, utilizzando l’ottica dello studioso e nel contempo quella dell’artista che era da giovane, quando dipingeva quadri surrealisti con i quali nel 1950 esponeva a fianco di Joan Mirò. Oggi, da anziano signore, non trasforma la memoria in nostalgia fine a sé stessa, ma attraverso la ricerca riesce a mantenere il gusto della conoscenza. «Ho sempre condotto una doppia vita. Il cervello umano ha due emisferi: mentre uno è specializzato nell’analisi fattuale, l’altro si occupa prevalentemente dell’intuizione e della fantasia. Sono uno scienziato analitico, che studia il comportamento animale e umano. Ma sono anche un artista surrealista, interessato al funzionamento della mente inconscia. Quando lavoro come scienziato, rendo semplice ciò che è complesso. Quando lavoro come artista, rendo complesso ciò che è semplice. A novant’anni dipingo ancora nel mio atelier ogni sera fino alle 4 del mattino». Dal 1947 fino a oggi ha realizzato circa tremila dipinti e seimila disegni, una produzione da fare invidia ad un professionista dell’arte, e dal 1987 ha preso anche a vendere le sue opere. È straordinario e semplice, quanto la sua spiegazione sulla nascita dell’arte: «Nelle prime tribù di cacciatori-raccoglitori, l’uccisione di un grosso animale era motivo di gioia. Per rendere speciale quell’evento, le tribù decoravano il loro volto con colori vivaci, indossavano costumi speciali, facevano musica e ballavano. Così sono nate le arti. Da allora abbiamo sempre apprezzato coloro che sono riusciti a rendere le cose “straordinarie”». È la forza dei maestri: staresti ore a sentirli parlare; non recitano brani a memoria ma esperienze di una vita. Oppure le scrivono nei libri, come ha fatto Desmond Morris.

LEGGI ANCHE “LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA)”: L’arte di Desmond Morris «Sì, sono un surrealista»

DESMOND JOHN MORRIS (Purton, 24 gennaio 1928) è uno zoologo ed etologo britannico, divulgatore scientifico e autore di libri sulla sociobiologia umana. Dopo aver studiato alla Dauntsey’s School di West Lavington, in Wiltshire, e aver prestato il servizio militare, ha frequentato l’Università di Birmingham, laureandosi brillantemente nel 1951 in zoologia. Nel 1954, grazie alla sua tesi sul comportamento riproduttivo dello spinarello, curata dal Premio Nobel Nikolaas Tinbergen, ha conseguito il dottorato presso l’Università di Oxford. In seguito, iniziò a lavorare per la Società Zoologica di Londra come curatore dei mammiferi dello Zoo di Londra, ma nel 1966 lascia l’incarico dopo contrasti interni. Si pose inizialmente all’attenzione del pubblico negli anni sessanta come presentatore del programma televisivo Zoo Time della Independent Television (ITV). La fama mondiale arrivò però nel 1967 con la pubblicazione del saggio La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE

Pare surreale, ma questi artisti erano tutti figli di papà…

Gli animali nel millenario progetto culturale dell’uomo

 

Gli artefatti forniscono informazioni essenziali sulle radici culturali e storiche della comunità umana e costituiscono un’imprescindibile lezione di design; partendo da questo presupposto il libro affronta la problematica del rapporto uomo-animale fornendo alcuni elementi di contestualizzazione e percorrendo trasversalmente l’argomento, senza la pretesa di mettere un punto fermo, quanto piuttosto ponendo una serie di spunti per ulteriori approfondimenti e documentando, anche con esempi didascalici, quella articolata realtà. Il testo illustra, inoltre, un inventario di oggetti chiaramente di ispirazione zoomorfa, animalier, ovvero addirittura ibrida. Si tratta di differenti tipologie e livelli di oggetti che possono essere visti come una sequenza temporale di ‘storia delle cose’.

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Tom Wolfe – Lo scrittore che ha fatto un falò di certa finta cultura americana

 

 

Tom Wolfe è stato uno dei personaggi simbolo di questi ultimi trent’anni. Giornalista statunitense di primo piano, autorevole e noto in tutto il mondo, quando decise di mettersi a scrivere libri, pure nel settore letterario è immancabilmente diventato autore di primo piano. Per denotare la sua scrittura tutta particolare inventò il “New Journalism”, usando uno stile narrativo del tutto letterario anche quando si trattava di articoli giornalistici. Pubblicava su riviste come Esquire, New York, Rolling Stone e da sempre era giornalista del New York Herald Tribune. L’articolo che abbiamo scelto nel FLIP di oggi, curato da Matteo Persivale per il Corriere della Sera, lo ritrae in modo efficace a tutto tondo, perché nel caso di Tom Wolfe è facile trovare tanti estimatori quanti detrattori, come capita a chi ha una personalità carismatica e niente affatto anodina nei confronti di vizi e virtù della contemporaneità. Il primo tratto identitario era il suo abbigliamento elegantissimo, da dandy ottocentesco, con i completi immancabilmente di colore bianco, portati d’estate e d’inverno: giacca e panciotto, fazzoletto nel taschino, ghette, scarpe lucide e bastone da passeggio.

Nato a Richmond, in Virginia, il 2 marzo 1930 aveva studiato a Yale per dedicarsi da subito alla carriera giornalistica, dando vita a reportage straordinari, col suo cocktail dal carattere tutto particolare fatto di giornalismo e letteratura shakerati: periodi interminabili ma comprensibilissimi, uso di neologismi, parole in corsivo o in maiuscolo, punti esclamativi e poi ancora punti esclamativi, dettagli curiosi, descrizioni introspettive. Soprattutto lo distingueva la capacità di evidenziare il conformismo diffuso ed era altrettanto capace di attirarsi addosso gli strali di quelle categorie prese di mira dai suoi caustici testi. Rimarrà famoso per aver inventato l’appellativo di «radical chic», col quale si irrideva di quella moltitudine di rivoluzionari da salotto che riempivano all’epoca circoli politici, aule universitarie, ritrovi mondani. L’espressione apparve per la prima volta a giugno del 1970 sul New York Magazine, in un articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Il party descritto era quello dato da Felicia, consorte del compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein. L’ambiente di un attico sfarzoso, personalità della cultura e dello spettacolo newyorchese, camerieri esclusivamente bianchi (e non i neri esibiti dalla “noblesse” razzista). Il ricevimento era stato organizzato come raccolta fondi a sostegno delle “Pantere nere”, gruppo rivoluzionario di estrema sinistra.

Fra tutti i romanzi di Wolfe ricorderemo “Il falò delle vanità” (1987). Perché, in fin dei conti, è la vanità, declinata in mille sfaccettature, che lui colpiva con le sue parole ricercate. La vanità espressa nel mondo della finanza di Wall Street o nel mondo apparentemente antitetico dell’arte o dell’architettura contemporanee. Il suo website ufficiale informa: «Il suo nuovo romanzo I Am Charlotte Simmons , è ora disponibile in edizione economica da Picador. Wolfe vive a New York con sua moglie, Sheila; sua figlia, Alexandra; e suo figlio, Tommy». Qualcuno potrebbe dire che il sito non è aggiornato, dal momento che “Io sono Charlotte Simmons” è uscito nel 2004, seguito nel 2012 da “Le ragioni del sangue” (Back to Blood). Ma spicca soprattutto che “Wolfe vive a New York”. La qualcosa è in un certo senso vera; perché gli autori che hanno descritto e animato le polemiche di un’epoca non muoiono mai, almeno fintanto che non muoiono tutti coloro che ne hanno goduto o sofferto.

 

TOM WOLFE, all’anagrafe Thomas Kennerly Wolfe Jr. (Richmond, 2 marzo 1930 – New York, 14 maggio 2018), è stato un saggista, giornalista, scrittore e critico d’arte statunitense. Wolfe studiò presso l’Università Yale ottenendo un PhD in American Studies. Il suo primo impiego come reporter fu presso lo Springfield Union (Massachusetts) nel 1957. Tre anni dopo fu assunto presso il The Washington Post e vi resta fino al 1962; successivamente si trasferisce al New York Herald Tribune. Scrive articoli anche per la rivista Esquire. È considerato un padre del New Journalism, quella scuola di scrittura sbocciata negli anni Sessanta che adotta e adatta gli stili ed espedienti della narrativa propri della letteratura nel giornalismo, aderendo a una scrittura più consona alle riviste che ai quotidiani per la sua lunghezza. L’innovativo stile, grazie a Wolfe, Truman Capote, Gay Talese, conobbe un’eccezionale fioritura e molti emulatori. Nel 1965 pubblica il libro The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby, composta dalla raccolta di alcuni suoi articoli. Anche il successivo The Pump House Gang è una raccolta di articoli. Nel 1970 pubblica Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers, un libro composto da due articoli già pubblicati sul New York Magazine, dove per la prima volta conia il termine radical chic. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Morto Tom Wolfe, il cronista delle vanità. Inventò il termine radical chic

Il panorama degli oggetti racconta la diversa provenienza

 

Tra le sfide della contemporaneità, quella dell’affermarsi di una società in cui persone provenienti da diverse parti del mondo e con culture differenti appare sicuramente la più urgente. Se è vero che per tale realtà non esistono formule valide in assoluto è altrettanto vero che il modello interculturale, sicuramente non facile da realizzare, appare il più corretto e portatore di interessanti sviluppi. In un tale contesto all’Italia, per posizione geografica – in mezzo al mare di mezzo – trascorsi storici, propensione culturale, spetta un importante ruolo. Le migrazioni di massa, la sfida della società in cui persone con storie, usi, modelli di pensiero diversi si confrontano sono un fatto sociale e, come tale, investono ogni settore della cultura. Anche il mondo degli oggetti che ci circondano si presenta sempre più come un panorama variegato in cui le cose, in maniera più o meno esplicita, ci raccontano la loro diversa provenienza.

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