Pasta secca: pregiudizi al Nord e grande consumo al Sud

 

Pur essendo presente sin dagli inizi della storia della pasta, la variante secca, realizzata con grano duro, si è sviluppata in età più tarda, raggiungendo la sua piena affermazione, con lo sviluppo dei pastifici industriali nel XX secolo. La cucina oggi comprende le due varianti, secca e fresca, in un ampio ricettario che raccoglie preparazioni storiche e moderne.

Al contrario, nel XVII secolo, Guglielmino da Prato scrive un breve trattato di economia domestica dove critica largamente l’uso della pasta secca. Non è solo frutto dei pregiudizi dell’epoca, ma lui stesso la ritiene fatta di ingredienti popolari, con farine vecchie, per cui il suo consumo potrebbe essere indicato solo in periodi di grande carestia. Non è alimento per nobili (in particolare del Nord), i quali dovranno preferire di mangiare pasta fresca, appena fatta in famiglia. Tali pregiudizi, col tempo, divengono un luogo comune. Prodotta principalmente nelle regioni del Mezzogiorno, la pasta secca è ritenuta infatti alimento vile e popolare. Non stupisce se tali presupposti finiscono per creare il soprannome dei napoletani come “mangiamaccheroni”.

Vari formati di pasta secca.

Ma se nel XVII secolo, abbiamo cuochi che disprezzano la pasta secca, ne abbiamo altri che, nonostante i pregiudizi, inseriscono questo tipo di pasta nel menù del proprio signore. È il caso del cuoco Giovan Battista Crisci, che spazia nel campo della pasta prodotta nelle regioni meridionali, cucinando maccheroni di Puglia, maccheroni di Palermo e tagliarini di Cagliari, oltre che vermicelli napoletani. Tutti tipi di pasta detta “d’ingegno”, prodotta con torchio e trafila. Crisci è un cuoco innovatore, che non ha paura del futuro e confeziona i suoi “vermicelli d’amido”, simili alla pasta cinese. Tuttavia, non avendo ulteriori informazioni, se non da lui stesso, è difficile comprenderne la fattura.

Sta di fatto, che nello stesso secolo, abbiamo l’Italia gastronomica divisa in due. Mentre nel Meridione la pasta arriva sulle tavole della nobiltà napoletana, al Nord si è ancora ostici nei suoi confronti. Abbiamo, infatti, nel XVII secolo, Bartolomeo Stefani, cuoco del Nord, che sembra disconoscere la pasta, non solo quella secca, ma, addirittura quella ripiena. Al Sud, invece, Antonio Latini, contemporaneamente, porta in tavola un brodo di cappone con maccheroni di Cagliari ed una spolverata di parmigiano.

Al di là delle differenze nel XVII secolo, tra Nord e Sud dell’aristocrazia gastronomica, il consumo e la “sperimentazione” continuò a produrre sempre nuove ricette con la pasta, dando vita a quella prolifica fantasia in cucina che abbiamo ereditato dal passato. A Napoli, in particolare, si creano infinite rielaborazioni, culminate con l’invenzione di timballi e sartù. Questo ricco tesoro di esperienze e varietà di ricette, andò oltre i confini locali, conquistando ampi mercati e, di conseguenza, una serie di riscontri letterari anche all’estero, come è d’esempio la trattatistica gastronomica francese.