Chi poco vede niente pensa: così diceva Filippo Juvarra

 

Filippo Juvarra (Messina, 7 marzo 1678 – Madrid, 31 gennaio 1736) è stato un architetto e scenografo italiano, uno dei principali esponenti del Barocco, che operò per lunghi anni a Torino come architetto di casa Savoia. Filippo Juvarra nacque il 7 marzo 1678 nella città di Messina, figlio di Pietro ed Eleonora Tafurri (o Tafuris), sposata in seconde nozze nel 1668 dopo la morte della prima moglie Caterina Donia. La formazione del giovane Filippo avvenne, nell’ambito artistico messinese, sotto la guida del padre, di professione argentiere, che fu in grado di valorizzare il precoce talento del figlio; in questo modo, Juvarra – descritto dal fratello Francesco Natale come «di naturale molto vivace, e di buonissimo intelletto» – apprese i rudimenti dell’argenteria e venne introdotto all’esercizio del disegno, in parallelo agli studi teologici ai quali venne avviato all’età di dodici anni. Nella bottega del padre l’adolescente Filippo eseguì opere di arte orafa e argenteria anche di un certo pregio, fra le quali si citano un calice (1695), due ostensori per la chiesa delle Giummarre a Sciacca (1697) e per quella di San Giorgio a Modica (1700), otto candelieri (1698) e altri due di grandi dimensioni (1701) per il duomo di Messina.

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Pietro Spirito: Il deficit di politiche europee per il Mediterraneo

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Pietro Spirito*

Nel ridisegno delle connessioni internazionali e nella costruzione della nuova mappa dei poteri tra i principali blocchi del mondo, il convitato di pietra è l’Europa. L’indebolimento della sua capacità politica è cominciato proprio quando, con la nascita della unione monetaria, pareva invece che dovessero essere poste le premesse per un processo federale capace di far affermare sulla scena internazionale un soggetto destinato a pesare sempre più sulle scelte. Per parafrasare il titolo del libro di un politologo americano, Richard N. Haas, “la politica estera comincia a casa”. E quando la casa europea ha cominciato a vacillare nelle sue fondamenta, il peso dell’Europa sugli affari mondiali è diventato via via meno influente.

L’Unione Europea è stata la prima ad intuire che il disegno della integrazione delle reti di collegamento era parte strategica per recuperare competitività sul piano internazionale. A metà degli anni Ottanta del secolo passato Jacques Delors lancio l’iniziativa delle reti transeuropee, con l’ambizione di connettere i Paesi comunitari con infrastrutture maggiormente adeguate ed efficienti.

Ci sono stati due limiti in questo programma comunitario: da un lato i finanziamenti del programma provenivano per larga parte dagli Stati nazionali, ed hanno subito tagli nel periodo della grande crisi, e dall’altro questo disegno di rete non era concepito anche come un modello per connettere l’Europa agli altri principali mercati limitrofi, se escludiamo una proiezione verso Est e verso la Russia.

Anche chi oggi parla di una “Via europea della seta” concepisce un disegno di allargamento e potenziamento delle infrastrutture verso oriente, senza ipotizzare alcuna reale connessione verso la sponda meridionale del Mediterraneo, in qualche modo assecondando un disegno di integrazione solo parziale. E’ mancata, ed ancora manca, una visione comunitaria del disegno delle connessioni che ponga anche il Mediterraneo al centro di un ragionamento di sviluppo.

Questo ragionamento vale anche per la questione delle scelte logistiche che hanno sempre più caratterizzato la definizione delle gerarchie strategiche, sia all’interno della Unione sia sul piano internazionale. Sino ad ora la partita portuale comunitaria è stata caratterizzata da una contrapposizione tra sistema portuale del Nord Europa e sistema portuale mediterraneo, in una concorrenza per attrarre traffici destinati al mercato europeo. Va sottolineato che, come dice Abulafia, “nell’Unione Europea all’inizio del nostro secolo, il centro di gravità dell’Europa si trova ancora al Nord”.

E’ come se si fosse cristallizzato un potere di influenza sancito molto tempo addietro, a partire dalla costruzione della Lega Anseatica, sin dal dodicesimo secolo. L’Europa settentrionale marittima, sin da allora, ebbe la capacità di federare le proprie forze per affermare un progetto egemonico, con una alleanza che coinvolgeva sino a cento città marittime. Il Mediterraneo non è mai riuscito ad esprimere un modello federale che valorizzasse le specificità dei differenti scali, ed è stato caratterizzato invece più da singole temporanee egemonie che da modelli cooperativi.

Va poi sottolineato che – successivamente alla conclusione della seconda guerra mondiale – il Mediterraneo è entrato nella sfera di influenza statunitense, come avamposto della lunga stagione della guerra fredda tra i due grandi blocchi contrapposti delle economie di mercato e delle economie pianificate. In una certa misura la Comunità Economica Europea nasce anche per l’esigenza di non delegare a Stati Uniti e Unione Sovietica la sicurezza europea, non prestare il fianco alle offerte disgregatrici di Mosca, rafforzare la coesione dell’Europa sul piano politico, economico e sociale. Non si riesce a perfezionare anche la Comunità Europea della Difesa, in particolare per la rigida posizione francese, ma nasce una forte integrazione dei mercati che consente di consolidare la ripresa economica dei Paesi europei.

Il Mediterraneo come spazio geografico e politico è parte integrante del processo di integrazione europea sin dal suo avvio. Nella conferenza di Messina, che ha preparato i Trattati di Roma del 1957, tale aspetto politico è al centro della discussione tra i Paesi che daranno vita alla CEE. Tuttavia, politiche mediterranee hanno poi stentato ad emergere nella agenda comunitaria. La rilevante diversità degli interessi e nelle relazioni degli Stati membri nei confronti della sponda sud fu la causa principale del sostanziale fallimento nella creazione di una politica comune.

La costruzione europea è stata sin dall’inizio un edificio sofisticato di sperimentazione istituzionale, un contenitore che ha sapientemente mescolato più ingredienti politici e sociali: Lo spirito di complessità è lo spirito d’Europa. Questa complessità si è nel tempo inaridita di fronte alla difficoltà di arricchire i contenuti di cooperazione, che si sono focalizzati essenzialmente sulla costruzione di un mercato unico governato da una moneta unica. La latitanza delle altre politiche ha reso molto più difficile il bilanciamento con i fattori fondanti di una politica federale, che sono essenzialmente la politica estera, l’armonizzazione delle politiche economiche e fiscali, le politiche di indirizzo strategico su una visione condivisa del futuro.

C’è stata una breve fase, nella storia del processo di integrazione comunitaria, nella quale si è tentato di spostare l’asse dell’attenzione sul baricentro mediterraneo, vale a dire quando, da metà degli anni settanta del secolo passato, si è avviata, ed è poi giunta a conclusione positiva, la trattativa per accogliere Spagna e Portogallo nel disegno di integrazione europea: Si riteneva che la cooptazione di Spagna e Portogallo nella CEE avrebbe riequilibrato il baricentro della Comunità verso il Sud Europa.

Quella illusione è durata sino alla metà degli anni Ottanta, quando il tentativo di riforma istituzionale verso una maggiore integrazione politica, con l’Atto Unico, si è poi infranto con la diluizione delle ambiziose riforme proposte. Subito dopo, a distanza di qualche anno, il crollo dell’Unione Sovietica e delle economie pianificate ha cambiato completamente le carte in tavola.

L’unificazione tedesca prima, e l’espansione comunitaria verso Est poi, è stata la cifra dominante che, da allora in poi, ha caratterizzato prima l’asse, e poi la crisi, della integrazione comunitaria. La stessa costruzione della moneta unica è stata più un modo per imbrigliare la Germania unificata in un disegno di cooperazione obbligata che non una azione di rilancio per rafforzare la costruzione di una Europa federale.

Poi, per quei paradossi che spesso la storia presenta, il disegno di una moneta unica che doveva originariamente servire ad arginare il potenziale eccessivo potere di una Germania unificata, è piuttosto servito ad amplificarne la portata, non per effetto di un destino cinico e baro, ma per le debolezze delle soluzioni istituzionali adottate.

Nel tempo più recente, a partire dalla caduta del muro di Berlino e dallo sgretolamento delle economie pianificate che gravitavano attorno all’orbita sovietica, l’attenzione dell’Europa si è spostata verso Oriente, per allargare la propria sfera di influenza politica e l’ambito dello spazio economico comunitario. Inevitabilmente le risorse finanziarie e le energie politiche si sono direzionate verso questo obiettivo primario, ed ancora una volta è sfumata l’attenzione verso le regioni dell’area mediterranea.

Insomma, il Mediterraneo sembra costituire la promessa costantemente mancata delle politiche comunitarie: sembra sempre sul punto di entrare più volte nelle agende degli impegni della Unione Europea, per poi invece essere superato da altre questioni che incalzano tra le priorità che vanno effettivamente percorse.

Quella del partenariato euromediterraneo è in realtà una storia di un bambino morto nella culla. Da una parte infatti il riacutizzarsi della tensione nel conflitto arabo-israeliano ma anche il tramonto del clima di trionfo neo-liberale successivo alla fine della Guerra fredda, finiscono per far venire meno le condizioni ambientali affinchè l’ambizioso progetto possa realizzarsi.

Dalla prima conferenza euro-mediterranea tenutasi a Barcellona alla fine di novembre del 1995, si sono susseguiti tanti altri vertici e tante altre conferenze su questo tema, senza tuttavia generare quel salto di qualità nel modello di cooperazione capace di determinare una centralità effettiva della politica euro-mediterranea.

Si può registrare una parabola discendente della politica mediterranea della UE, che è passata dall’ambizioso approccio multilaterale proposto dal partenariato euro-mediterraneo del 1995, che nutriva la visione forse utopistica di modernizzare la regione, al ritorno alla pratica degli accordi bilaterali con la politica europea del vicinato e l’Unione per il Mediterraneo. Insomma, mentre si provava a mettere in campo una seria iniziativa euromediterranea, mancava poi il carburante politico per metterla in pratica, e al più si mantenevano in vita simulacri di cooperazione che ne indebolivano ulteriormente la portata.

Romano Prodi, attento osservatore della geopolitica internazionale, doversi anni fa ha sottolineato che “il Mediterraneo è ancora periferia del sistema economico mondiale e non è un sistema anche perché le relazioni marittime o aeree tra l’Italia e l’Africa del Nord, ad esempio, sono ridicole: pochissimi sono i collegamenti, quelli aerei sono recentissimi e sporadici, e manca persino una tradizione. Si è proprio interrotto un fatto storico, ma che dobbiamo e possiamo ricomporre”.

Mentre resta questa gravitazione settentrionale ed orientale delle politiche comunitarie, l’asse dei cambiamenti si sta spostando verso l’orizzonte mediterraneo, ma sembra che la Comunità non se ne sia accorta, salvo che per l’emergenza dell’immigrazione. Dopo la crisi finanziaria del 2007, i cui effetti sono ancora visibili, sono stati proprio i Paesi dell’Europa mediterranea ad entrare in crisi, e sono mancate risposte adeguate per baricentrare in modo più equilibrato le scelte di politica economica e di assetto geostrategico.

L’indirizzo delle politiche fiscali è stato guidato dal solo principio delle politiche monetarie, consistente in un approccio restrittivo alla finanza pubblica, proprio quando sarebbe stato necessario rispondere alla crisi con scelte anticicliche. Una Unione Europea a trazione tedesca ha scelto di controllare rigorosamente solo i parametri del deficit e del debito pubblico, mentre sono stati del tutto trascurati i parametri dell’avanzo eccessivo di surplus nella bilancia commerciale, che pure avrebbero dovuto dar luogo a provvedimenti correttivi secondo le regole di Maastricht.

Si sono adottati due pesi e due misure, con l’effetto di segnare ancor di più l’indirizzo recessivo delle politiche economiche, con una conseguente crisi ancor più dura dei debiti sovrani e con un indirizzo recessivo che ha assecondato il ciclo della crisi, piuttosto che contrastarlo.

Sono così emerse spinte centrifughe dall’euro, che hanno assecondato e sostenuto l’ondata populistica emergente per effetto di una crescita delle diseguaglianze e per un forte incremento della disoccupazione, soprattutto giovanile. L’Europa ha perso così una occasione di rinsaldare una dimensione federale che sarebbe stata assolutamente necessaria, in una fase nella quale il mondo ha avviato un ridisegno degli scenari competitivi tra grandi blocchi economici.

Proprio nell’area mediterranea sarebbe stata necessaria – ed ancora lo è – una iniziativa politica di rilancio della presenza europea. Ed invece si è andati in ordine sparso. All’indirizzo recessivo delle politiche economiche su scala comunitaria si è affiancata l’assenza di una politica estera comune per affrontare la stagione delle primavere arabe ed i grandi riassetti di potere che si sono accompagnati a questo fenomeno.

Nel caso della crisi libica si è raggiunto l’apice di questa contraddizione. Francia e Gran Bretagna si sono contrapposte all’Italia per conquistare spazi di iniziativa economica. Poi, quando è stato ribaltato il regime di Gheddafi, l’Europa ha continuato a balbettare senza essere in grado di esprimere una propria iniziativa per rivitalizzare un Paese strategico, per la sua potenziale rilevanza economica e per il suo ruolo sociale nella crisi della immigrazione. Ed ancora successivamente, in una situazione di balcanizzazione tribale dell’architettura istituzionale, libica, l’Europa non è riuscita a darsi una linea comune per mettere ordine in un Paese strategico per tante ragioni nel gioco degli equilibri mediterranei.

Non si è insomma colta la trasformazione in corso negli assi geostrategici di cambiamento. Per molto tempo, effettivamente, il Mediterraneo è stato marginale nella formazione degli equilibri economici e politici internazionali. Sino alla seconda metà del XIX secolo il Mediterraneo è ancora lo scenario dei grandi viaggiatori, del Gran Tour, di una visione superficiale, estetica di una élite europea in cerca di evasione, in una parola: l’esoterismo di tutta una generazione di artisti e di scrittori.

La stessa fondazione originaria del mercato comune europeo non riesce a generare quell’equilibrio necessario tra orizzonte nordico ed orizzonte mediterraneo dell’Europa: l’unificazione commerciale viene generata dalla necessità di garantire un equilibrio di pace franco-tedesco, dopo due guerre mondiali che erano maturate nel cuore dell’Europa. Il Mediterraneo era stato oggetto nella prima metà del Ventesimo secolo di un processo di colonizzazione subordinato alle visioni egemoniche occidentali.

ll processo di allargamento della Unione Europea ha poi visto protagonisti sostanzialmente la Gran Bretagna prima, ed i Paesi dell’Est Europa poi. L’orizzonte mediterraneo si è allontanato ulteriormente, ed anzi è stato più occasione di confronto e conflitto tra Paesi comunitari che non occasione di politica esterna comune: basti tra tutti l’esempio della crisi di Suez del 1957.

Nella portualità e nella politica marittima, i fronti del Nord e del Sud Europea si sono sviluppati in maniera separata ed antagonistica, più vivendosi come sistemi in competizione che parte di un disegno logistico integrato in uno spazio economico comune.

Ma, mentre il sistema portuale del Nord Europa non conosce concorrenza extra-comunitaria per servire i mercati comunitari, i porti europei della sponda sud subiscono la competizione che viene dalla sponda nord-africana. Stenta ancora ad affermarsi una strategia mediterranea dell’Unione Europea.

Tra gli anni sessanta e la metà degli anni settanta del secolo passato, la strategia europea verso il Mediterraneo è risultata frastagliata e non unitaria, guidata soprattutto da accordi bilaterali poco coerenti e coordinati. Successivamente, nel 1975, è stata definita una “politica globale per il Mediterraneo”, basata su tre tipologie di cooperazione: commerciale, finanziaria ed economica, sociale.

Da quel punto in avanti, non sono stati fatti grandi progressi sotto il profilo della integrazione, che si è sostanzialmente limitata a ribadire i principi definiti precedentemente, con la “rinnovata politica mediterranea”, il “partenariato euro-mediterraneo”, o l’”Unione per il Mediterraneo”.

Quest’ultima iniziativa, partita nel 2008 sotto il forte impulso del Presidente francese Nicolas Sarkozy, è immediatamente ripiegata su se stessa, senza segnare particolari discontinuità rispetto ad una linea originaria che non corrisponde più ai bisogni di una più stretta integrazione dettati dalla agenda internazionale e dalle crisi che si sono succedute nell’area mediterranea.

La Commissione Europea preferisce affidarsi a strumenti più affinati, come i partenariati strategici, le azioni comprese sotto l’ombrello della politica europea di vicinato e gli accordi di associazione. Tuttavia, si è avvertita fortemente la mancanza di un approccio strategico alla questione mediterranea, che ha lasciato spazio per l’iniziativa di altri, a cominciare dalla Cina.

Solo di recente si stanno cominciando a disegnare percorsi istituzionali di cooperazione e di intervento che cercano di porre rimedio ad un vuoto intanto riempito dal disegno egemonico cinese. Qualche segnale si comincia finalmente a muovere. Il 30 novembre del 2017, a Napoli, è stata sottoscritta una dichiarazione per la partnership con la Commissione Europea e l’Unione del Mediterraneo sottoscritta dai ministri degli affari marittimi dei dieci Stati che partecipano alla iniziativa per lo sviluppo sostenibile della blue economy nel Mediterraneo Occidentale. Si tratta di Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna, Tunisia.

La strategia macroregionale costituisce una modalità di cooperazione territoriale elaborata nell’ambito del potenziamento delle politiche regionali dell’Unione Europea. Sinora sono state istituite quattro macroregioni a partire dal 2009 (Baltica, Danubiana, Adriatico-Jonica, Alpina), mentre si discute sulla possibile di istituirne una quinta, quella del Mediterraneo Occidentale. Tuttavia, non è chiaro il livello di istituzionalizzazione e di autonomia funzionale che l’Europa intende assegnare a tale forma di cooperazione.

Esiste oggi una triplice restrizioni ai poteri delle macroregioni: non si possono approvare nuove normative, non si possono creare nuove istituzioni, non si possono ottenere risorse finanziarie addizionali. Insomma, gli spazi di manovra sono molto ristretti, e la forma con la quale le macroregioni possono dare il proprio contribuito alle politiche regionali consiste più nella articolazione di un maggiore coordinamento delle linee politiche già assunte, che non nella formazione di nuovi indirizzi. Le macroregioni non sono dunque veri e propri enti territoriali ma settori di cooperazione funzionale, localizzati in aree territoriali omogenee.

L’”Iniziativa per lo sviluppo sostenibile della blue economy nel Mediterraneo occidentale”, approvata con comunicazione del 19 aprile del 2017 dalla Commissione Europea, si propone le seguenti finalità:

  1. incrementare la sicurezza marittima;
  2. promuovere la crescita sostenibile della blue economy e lo sviluppo dell’occupazione;
  3. preservare l’ecosistema e la biodiversità della regione del Mediterraneo occidentale.

A questi obiettivi occorre cominciare a dare gambe concrete: da un lato servono finanziamenti infrastrutturali per il potenziamento delle reti e delle tecnologie e dall’altro occorre incrementare le connessioni marittime.

Sinora i flussi hanno riguardato prevalentemente il tragico fenomeno delle migrazioni dall’Africa all’Europa, e le contaminazioni sono più collegate alle terribili vicende del terrorismo islamico che mina la sicurezza. Il Mediterraneo adesso è una parola che fa paura, che ci divide e che ci indigna. Non importa più la sua storia millenaria: importano i disperati che vi affogano ogni giorno, importa la crisi economica che da anni lo attraversa come una tempesta, importano i pazzi e gli assassini che ne insanguinano le coste.

Se prevalgono approcci legati alla paura ed alla chiusura nei confronti di fenomeni sociali che devono essere invece governati e gestiti, il Mediterraneo smarrisce il suo orizzonte e perde la sua opportunità. Il protezionismo economico, che si staglia all’orizzonte, rischia di incrociarsi con il protezionismo sociale.

A circa sei anni di distanza dalle cosiddette primavere arabe, il Mediterraneo continua ad essere al centro dell’attenzione internazionale per la forte instabilità che lo caratterizza. E’ quasi un cane che si morde la coda. Il mancato governo delle istanze di cambiamento espresse dai popoli sulla sponda sud del Mediterraneo induce ad altri focolai di incertezza sociale.

Interrotti da meccanismi che riproducono regimi repressivi già precedentemente incapaci di dare risposte ai bisogni sociali, le società arabe e nord-africane si sono trovate anche a doversi confrontare con percorsi di trasposizione forzata delle democrazie occidentali, che si sono rivelati esperimenti anche peggiori rispetto alle autocrazie tradizionali locali. Si è insomma innescata una trappola istituzionale particolarmente intricata da dipanare.

L’assenza di una azione politica per governare i processi di trasformazione che sono ormai ineludibili getta benzina sul fuoco delle tensioni, impedendo uno sviluppo economico che sarebbe l’arma necessaria per traghettare le tensioni verso la sostenibilità sociale ed economica.

Mentre il terrorismo va combattuto con le armi della cooperazione internazionale, per quanto riguarda le dinamiche demografiche siamo in presenza di fenomeni irreversibili. L’Africa è ancora un continente fuori controllo: se nel 2015, con 1,2 miliardi di persone, essa rappresentava il 16% della popolazione mondiale, nel 2050 avrà 2,5 miliardi di uomini e donne, quasi il 26% della popolazione mondiale, e nel 2100 potrebbe raggiungere 4,5 miliardi, il 40% del totale.

Non leggere questi fenomeni di natura demografica destinati a modificare completamente la natura delle relazioni sociali è stato un errore strategico dell’Europa. La morsa dei processi di immigrazione si legge con queste due chiavi di lettura incrociate: da un lato l’inarrestabilità a breve del processo demografico e dall’altro un insieme di conflitti ad alta o a bassa tensione che interessano un vasto scacchiere della intera area mediterranea. Abbiamo così deciso di giocare esclusivamente di rimessa, alimentando le paure dei popoli senza guidare un processo di trasformazione.

Eppure, come spesso accade quando si affacciano alla storia fenomeni di natura fortemente discontinua, essi possono essere guardati secondo prospettive di rischio o di opportunità: saper trasformare in opportunità il rischio potenziale diventa il fattore di vantaggio strategico determinante nella competizione internazionale. Le grandi trasformazioni storiche avvengono perché il solito andazzo non funziona più. I potenti sono usi restare aggrappati alle strategie secolari persino quando la realtà cambia radicalmente.

Si legge nella poesia di Costantino Kavafis (Aspettando i barbari): “E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente”. In fondo, gli Stati Uniti d’America hanno costruito la propria potenza e la propria crescita economica proprio nella capacità di accoglienza della immigrazione.

Sarebbe stata necessaria una poderosa organizzazione sociale di accoglienza, selettiva e rigorosa al tempo stesso, su base comunitaria con principi condivisi. Si è invece andati in ordine sparso, giocando a scaricabarile. L’esito è sotto gli occhi di tutti. L’Europa ha scelto di giocare di rimessa questa partita, alimentando una inconsapevole paura dell’altro che sta orientando i consensi verso opzioni populistiche di chiusura. Quel rischio che si chiamava tanti anni fa “Fortezza Europa” sta diventando realtà, ribaltandone completamente il senso originario.

In fondo è difficile trattare l’argomento mare per un’Europa che si è formata su terra. Le fondamenta stesse della Unione Europea non hanno mai posto la centralità della integrazione marittima, che è rimasta tra le politiche affidate sostanzialmente agli Stati membri, senza una reale volontà di approccio comune.

Con gli scenari internazionali che si stanno delineando, questa assenza di politiche comunitarie marittime costituisce uno dei punti di debolezza strategica di una Europa che si trova oggi in mezzo al guado, e che non riesce ad affrontare la sua crisi di identità, tra volontà di costituire, ormai minoritarie, gli Stati Uniti di Europa e tentazioni, attualmente crescenti, di ridurre i gradi di cooperazione che sono stati consolidati in questi decenni.

Dall’Africa si genereranno flussi migratori di grandissime proporzioni, soprattutto verso l’Europa, a causa sia di fattori climatici, sia ancora di sommovimenti politici. Poco si è fatto per integrare il traffico merci e passeggeri tra le due sponde del Mediterraneo in una logica commerciale. L’Africa del Nord è una frontiera dello sviluppo che costituisce l’opportunità principale non solo per l’Europa del Mezzogiorno ma anche per l’intera Comunità.

Invece di sprigionare una straordinaria iniziativa politica, all’altezza delle sfide che si presentano, è accaduto esattamente l’opposto. Non costituisce reato affermare che le istituzioni comunitarie e unioniste europee, trascinate dal peso economico e diplomatico del motore franco-tedesco e dalle continue spinte entropiche britanniche, abbiano trascurato i vettori di sviluppo, le vulnerabilità e le opportunità insite nella regione mediterranea.

Anche i tempi della navigazione indicano l’urgenza e la necessità di occuparsi innanzitutto del Mediterraneo. La rotta tra Shangai e Napoli impiega 21 giorni di navigazione, mentre quella tra Tunisi e Napoli solo 15 ore. Il tempo resta una variabile strategica della competizione. E la geometria variabile della globalizzazione sposterà la frontiera del futuro verso l’Africa. Se saremo in grado di comprendere ed orientare questa sfida, utilizzando il Mediterraneo come asse strategico, potremo cambiare il destino dell’Europa meridionale, e del nostro Mezzogiorno.

Prima ancora della opportunità africana nel suo insieme, che comunque richiede una visione strategica di lungo periodo, il mondo sarà chiamato a rispondere alla sfida della ricostruzione derivante dai conflitti bellici che si sono determinati negli ultimi decenni e da quelli che ancora sono in corso in Siria: L’Africa sarà nel lunghissimo periodo ciò che nel breve sarà la ricostruzione della Libia e della Mesopotamia.

Nell’area che più immediatamente ci circonda sono destinati a svolgersi eventi che cambieranno la configurazione di quello che siamo e di quello che saremo. Se non ce ne occuperemo noi, saranno altri a farlo al nostro posto, con una conseguente subordinazione politica dell’Europa, dell’Italia e del Mezzogiorno. Il presente e, con ogni probabilità, il futuro della UE risiede nella capacità di dar vita ad un nuovo ordine della centralità, restituendo al Mediterraneo il ruolo che la geografia gli ha sempre assegnato.

Non si vedono ancora i segni di questa evoluzione opportuna, ed anzi continuano ad essere presenti i sentimenti di una rimozione collettiva europea, che tende inevitabilmente a valorizzare i rischi di una presenza mediterranea, non comprendendo anche i vantaggi potenziali che si possono cogliere.

Va richiamata e percorsa una caratteristica fondamentale dell’Europa, vale a dire la sua costante incompletezza, che può diventare – da potenziale handicap – leva attorno alla quale costruire una riconfigurazione che superi la crisi attuale: l’Europa è una entità storica in continua metamorfosi che affronta in forme nuove una tensione ricorrente, e mai compiuta, tra unità e molteplicità. E la tensione tra unità e molteplicità, fra identità e diversità, è diventata, attraverso l’Europa, l’esperienza cruciale della condizione umana nel tempo della globalizzazione, nel tempo della complessità.

In particolare l’area MENA (Middle East and North Africa), che racchiude Paesi con i quali è stato storicamente forte il rapporto politico e l’interscambio con l’Europa, richiede la formulazione di una strategia e di una interlocuzione che stenta ad emergere, nonostante che vi sia consapevolezza sulla necessità di operare in tale direzione.

Mentre l’Europa tarda a maturare consapevolezza, almeno il nostro Paese deve necessariamente fare i conti con se stesso, con la sua collocazione geografica, con la necessità di fare leva sul Mezzogiorno per ricominciare a crescere. Il Mediterraneo già oggi gioca un ruolo rilevante nella struttura degli scambi economici per il nostro territorio.

L’area manifesta, pur tra crisi politiche e conflitti sociali, un potenziale di crescita che merita attenzione. I Paesi del Middle East e del Nord Africa sono cresciuti, nel periodo 1995-2016 ad una media del 4,4%, con un tasso decisamente più alto della Unione Europa a 28 Stati (1,9%). La Turchia ha registrato il valore più alto (4,9% anno). La popolazione dell’area arriverà a 730 milioni di abitanti nel 2050, con un tasso di crescita che è meno intenso del PIL.

Le regioni meridionali del nostro Paese non stanno cogliendo le opportunità che possono derivare dalla attivazione di una forte cooperazione commerciale con le regioni limitrofe ed a più alta crescita del Mediterraneo. Sta accadendo anzi l’opposto.

L’interscambio commerciale tra il Mezzogiorno ed il totale dei Paesi dell’area MENA è stato pari a 13,6 miliardi di euro nel 2016, valore molto inferiore a quello registrato dal Nord-Ovest (25,3 miliardi di euro). Nel 2001 gli scambi commerciali tra il Mezzogiorno e l’area MENA ammontavano a 14,6 miliardi. La crisi del 2009 ha determinato un brusco calo nell’interscambio.

Per il Mezzogiorno gli scambi con l’area MENA costituiscono il 15,7% del commercio estero globale: questo dato ha raggiunto il suo picco nel 2005 (26,7%), mentre dal 2012 al 2016 è risultato costantemente in calo, con una tendenza che dovrebbe invertirsi nel corso dei prossimi anni.

Articolare un programma di sviluppo industriale e commerciale del Mezzogiorno è possibile se ci impegniamo a costruire e ad intensificare delle relazioni commerciali e marittimi tra le regioni meridionali del nostro Paese ed il sistema mediterraneo, con il doppio scopo di consolidare da un lato la ripresa dell’industria manifatturiera nel Sud Italia e dall’altro di dare ulteriori slanci di competitività all’economia marittima del Mezzogiorno.

La produttività dei fattori è generata dalla migliore utilizzazione di lavoro e capitale. Troppo spesso ci si concentra sul rendimento del lavoro, mentre si è distratti sulla ottimizzazione del capitale. La rotazione delle navi sul corto raggio nell’arco mediterraneo può generare una intensità di connessioni senza paragoni rispetto alle rotte lunghe della globalizzazione tra Asia ed Europa.

Cinta poi quell’insieme di fattori che non sono né capitale né lavoro, e che gli economisti racchiudono sotto la denominazione di residuo. Nella organizzazione produttiva dei nostri tempi il residuo pesa in modo crescente: mette assieme le innovazioni tecnologiche, l’efficienza dei servizi, la densità delle connessioni, la qualità delle infrastrutture, la dotazione di capitale umano con adeguate capacità.

E’ nella combinazione consapevole ed efficiente di lavoro, capitale e residuo che – ancora una volta – si potrà interpretare e guidare in modo efficace la produttività totale dei fattori, vale a dire quell’indicatore sintetico capace di esprimere la combinazione degli elementi differenti della prodizione che danno vita alla competitività dei sistemi economici.

Su queste basi può esser rilanciata una politica industria e logistica solida, capace di attrarre investimenti e crescita. In questo modo lo sviluppo si avvicina a noi, ed il miglior sfruttamento del capitale lo può rendere ancora più intenso, attraverso una maglia densa di connessioni che valorizzi gli scambi commerciali mediterranei. Nell’epoca della nuova globalizzazione, alle reti lunghe transoceaniche si possono aggiungere anche le reti corte di prossimità, che possono consentire di rimettere in marcia territori ancora non contaminati dalla logica di una crescita economica basata su industrie ad alto contenuto tecnologico. Serviranno sempre meno braccia e sempre più cervello per produrre valore.

Insomma, lo sviluppo tende a fiorire laddove si generano quegli “ecosistemi innovativi” spesso trasversali rispetto ai tradizionali settori merceologici. La grammatica industriale alla quale eravamo abituati tende a contaminarsi con una nuova lingua basata su una scrittura più complessa, nella quale i perimetri sono continuamente rimessi in discussione secondo il paradigma della creazione e della costellazione del valore.

 

Pietro Spirito, Presidente dell’Autorità di Sistema del Mar Tirreno Centrale. “Il deficit di politiche europee per il Mediterraneo: origini e conseguenze”.

La pasta nel menù alimentare del povero e del ricco

 

La pasta era servita sia sulla tavola del ricco, sia su quella del povero. Tuttavia, diverso era il consumo e diverso il punto di vista. Mentre gli aristocratici e i ricchi in genere, consumavano la pasta come una delle portate, a volte considerata di contorno, i poveri si dovevano accontentare di quella e basta, un vero piatto unico. Ciononostante, la pasta come piatto completo ha attraversato i secoli, lasciando innumerevoli esempi.

LA PASTA DEL POVERO
Sin dall’inizio il consumo della pasta fra il popolo non è passato inosservato. Nei libri e nelle cronache storiche troviamo accenni. Possiamo cominciare dal cronista Salimbene da Parma che ci parla del goloso di pasta fra’ Giovanni da Ravenna, per poi passare alle novelle del Boccaccio (in primis quella del paese di Bengodi). Franco Sacchetti ci narra del piatto di pasta condiviso dai suoi due eroi. Nel 1617, invece, le cronache ci riferiscono del pranzo, a base di pasta, offerto a tutto il popolo dal duca di Ossuna, viceré del regno spagnolo. Ben 10.000 i suoi commensali, che affollano allegramente i giardini di Poggioreale. Gorani, ci riporta, in uno dei suoi scritti, dell’abitudine del popolo di consumare un solo piatto di maccheroni, accompagnato da un bicchiere di acqua e zucchero. Nel 1872, ne fa accenno anche David Silvagni, nel testo Scene di vita napoletana. In esso ci descrive un operaio che, durante la giornata, mangia una volta sola, un unico piatto di maccheroni, di circa 300 grammi, condita da caciocavallo e basta.
Ma col trascorrere dei secoli, nell’Ottocento, la pasta divenne Il piatto quotidiano di tutte le famiglie napoletane, quelle povere e quelle benestanti.

LA PASTA DEL RICCO
Sulla tavola del ricco, a differenza di quello del povero, regna l’abbondanza. Tanto che la pasta viene servita, nel Cinquecento, come copertura, soprattutto del pollame, ma troviamo anche la lepre unita a pappardelle (nel testo di Romoli).  Nel 1517, Folengo nel Baldus ci descrive un piatto di teneri anatroccoli intinti in un brodetto e ricoperti da lasagne.
L’abitudine si manterrà fino al XVIII secolo, soprattutto in Spagna. Sino alla fine del Seicento, nelle corti e nelle grandi case nobiliari italiane, gli chef del servizio di bocca mischiano la pasta con la carne, in varie ricette, in particolare a pollami lessati, ma ve ne sono anche con il manzo.

Francesco de Notaris: La Questione meridionale è questione nazionale

 

In queste pagine presentiamo alcuni degli interventi al Convegno del 7 settembre 2018 presso la Stazione Marittima del porto di Napoli in occasione della presentazione del libro “Per la Macroregione de Mediterraneo occidentale” dei professori Renato D’Amico e Andrea Piraino (Franco Angeli, editore). L’appuntamento è stato organizzato da Paolo Pantani, presidente emerito di Acli Beni Culturali, Stanislao Napolano, presidente dell’Associazione Carlo Filangieri, Giordano Editore e quotidiano online Il Denaro.it.

 

>>> Intervento di Francesco de Notaris

Quella che fino ad oggi abbiamo chiamato ‘questione meridionale’ è questione nazionale, questione europea.
Se non la si risolve non si governa l’Italia intera e si resta prigionieri in una visione di parte.
Il  non aver affrontato la questione ha contribuito a determinare  una ricaduta su tutto il territorio nazionale in termini di sviluppo, a causa della cosi detta fuga dei giovani in cerca di lavoro, che rappresenta una nuova emigrazione differente dalle precedenti, e  per la diffusione della illegalità, del riciclaggio, degli investimenti distorti anche all’estero,  con visibili processi involutivi.
Questo breve scritto non ha alcuna pretesa, tranne quella di ricordare come sia centrale tale questione e come essa sia evidente fin dal tempo dell’unità d’Italia.
Aggiungo che , pur in presenza della visibile consapevolezza delle difficoltà in cui versa il Mezzogiorno, anche a fronte della pubblicazione di studi, saggi e documenti parlamentari nulla o poco accade sul piano concreto e un buco nero provvede ad…archiviare impegni e proposte.
I contributi scientifici, economici, culturali e propositivi che sono numerosi e sui quali è ampia la letteratura sono ben noti e ormai tutti gli Italiani hanno conoscenze per cui sperimentano anche nella quotidianità  le condizioni dello sviluppo dell’intero territorio nazionale.
I dati, le statistiche dell’occupazione, disoccupazione, Pil, etc. sono recepibili dovunque e pubblicati e commentati. L’uomo della strada, pur non avendo conoscenze accademiche, non ha bisogno di leggere documenti e saggi; verifica come sia faticoso vivere nel Mezzogiorno d’Italia, anche per l’insufficienza dei servizi ed il ridimensionamento delle provvidenze proprie dello stato sociale.
Nel nostro meridione una persona su tre è in condizioni di povertà.
Vorrei contribuire con queste note a far comprendere come, da politici, non si possa immaginare di disinteressarsi del Mezzogiorno d’Italia e come siano improprie le valutazioni sbrigative e superficiali che in questi ultimi anni  sono state proposte a proposito della  questione meridionale che è stata ignorata.
E’ di tutta evidenza che mentre si trascurava la questione meridionale e mentre addirittura al Governo c’era chi irrideva agli uomini del Mezzogiorno immaginando  per territori del nord improbabili e antistoriche secessioni tutto il Paese accusava un declino che ha incrociato poi la grande crisi nella quale siamo immersi e dalla quale occorre uscire insieme agli altri Paesi europei.
La debolezza strutturale nella quale vivono  numerose aree del Paese ha reso e rende più faticoso il percorso da intraprendere per battere la crisi.
Accade ciò che si sperimenta in un corpo malato se colpito da ulteriore malanno!
Se un politico, un amministratore, un uomo della classe dirigente non opera valutando la realtà nella quale è immerso e della quale è comunque espressione e si lascia condizionare da convinzioni infondate la sua opera sarà improduttiva o addirittura dannosa.
Ritengo che ciò sia accaduto in questi anni a proposito dell’approccio insufficiente alla questione del governo dell’intero Paese.

Carenza di visione di insieme

Interventi negati, interventi inadeguati, sprechi, classe dirigente meridionale incapace ed anche in parte corrotta,  e classe di governo priva, anche per scelta, di visione di insieme  e poi clientelismo e criminalità ed ancora  disinteresse , abbandono, cattivo uso, distrazione delle risorse, fuga delle migliori energie hanno determinato un disastro che è disastro italiano che appare tale in Europa.
Risulta più che evidente che il fenomeno del complessivo degrado del mezzogiorno attiene alla carenza   2 del senso dello Stato, all’affievolirsi dell’ ethos civile , che si diffonde in tutto il Paese e la ricerca dei privilegi riduce lo spazio dei diritti.
Dico che le sempre annunciate riforme istituzionali non potranno  da sole modificare e rendere migliori i cittadini e il Paese. Esiste un’emergenza etica e morale personale e sociale  insieme a quella democratica dalle quali bisogna uscire affrontandole insieme. La storia di questi giorni , alla vigilia di importanti elezioni politiche, insegna.

Nasce la questione meridionale

La cosi detta questione meridionale nasce e si sviluppa come un particolare aspetto dell’evoluzione borghese e capitalistica del nostro Paese. Dobbiamo pensare che essa inizia già nel 1734 quando Carlo III di Borbone diviene Re nel territorio delle Due Sicilie.
Il Sud, prima dell’unità, ha progredito come il Nord e il Centro sulla base di meccanismi di mercato e dei rapporti di proprietà borghese. Il Sud ha partecipato al rinnovamento del nostro Paese con il movimento illuministico e riformatore nel Settecento poi al tempo della rivoluzione francese, al tempo di Napoleone fino ai moti liberali del nostro Risorgimento.
Non desidero dilungarmi.
Ricordiamo tutti che l’unificazione, che in sé è un bene, rese difficile la situazione economica del Mezzogiorno per la politica fondiaria, del credito e per ciò che avvenne nell’industria.
Non tutti sanno  che una sorta di sanzione ufficiale della questione meridionale avvenne nel 1875  da parte di un fiorentino, di Pasquale Villari che pubblicava su “L’opinione” di Firenze. Nelle sue “Lettere meridionali” scritte da Napoli riconobbe che il tema del Meridione era tra i più rilevanti da considerare.
La questione divenne talmente centrale che Giustino Fortunato nel 1880 parlò di “Due Italie”. Si fece eco, in certo modo,  di quanto affermò Mazzini con lucidità: “L’Italia sarà ciò che il Mezzogiorno sarà”.
Avemmo quindi la prima grande emigrazione tra il 1895 e il 1914: migrazione epocale. Immaginate che quasi tre milioni di italiani abbandonarono il Paese in cerca di fortuna.  La popolazione delle Isole e del Sud ammontava a 12 milioni di cittadini. Un quarto di costoro emigrò. Evidenti  le conseguenze.
Intanto nel 1900 il Presidente del Consiglio Saracco aveva firmato il decreto per la commissione di inchiesta sulla camorra amministrativa a Napoli, che, a 39 anni dall’unità d’Italia , era stata commissariata nove volte.L’inchiesta Saredo evidenziò l’altissimo livello di corruzione al Comune di Napoli e si parlò di alta camorra, come se noi dicessimo oggi di camorra dell’alta borghesia.
Il  Presidente del Consiglio Zanardelli, nel 1902, visitò la Basilicata e si rese conto della questione che divenne questione nazionale.  Dal giorno dell’unità d’Italia Zanardelli fu il primo Presidente del Consiglio che visitò una Regione del Sud.
Non sfugge a politici ed amministratori come questo avvenimento fosse anomalo.
E l’invito al trasformismo da parte di Depretis segnò la cultura meridionale fin dal 1882 e continuò con Crispi e con Giolitti che ebbe nella maggioranza di Governo la deputazione parlamentare meridionale conservatrice. Oggi il trasformismo è chiamato consociativismo.
Fu Nitti che individuò il problema meridionale come un’articolazione di un unico problema nazionale e Salvemini analizzò i rapporti di forza che erano nella società meridionale.
L’intreccio di potere che governava l’Italia e che , a parere mio, persiste, in forma più scientifica e pervasiva fu descritto da Salvemini in questo modo: “I moderati del Nord hanno bisogno dei camorristi del Sud per opprimere i Partiti democratici del Nord. I camorristi del Sud hanno bisogno dei moderati del Nord per opprimere le plebi del Sud”. Forse, con un gioco di parole, eliminando le due parole nord e sud la frase potrebbe essere letta in maniera più aderente alla realtà del nostro tempo.
Salvemini fu isolato e nel 1911 uscì dal Partito socialista.
La questione meridionale era irrisolta prima della grande guerra che aggravò le condizioni dei meridionali.
Su 600.000 morti i meridionali furono oltre mezzo milione. I dati sono ufficiali.
Si comprende che cosa abbia significato questo dato per la ricaduta sulle condizioni delle famiglie, per la forza lavoro, per lo sviluppo negato. E non stiamo parlando di eventi accaduti dei quali abbiamo perso la memoria. Parliamo dei nonni, di qualche bisnonno, dei Cavalieri di Vittorio Veneto che tutti abbiamo conosciuto e visto nelle piazze e nelle strade del nostro Paese ed in particolare nel Sud d’Italia.

Le grandi migrazioni prima e dopo le guerre hanno avuto ricadute sulle famiglie e le donne sono state coloro che maggiormente hanno sofferto e che poi hanno contribuito alla stessa complessiva  periodica ricostruzione ed hanno dato un grande contributo anche nell’Assemblea Costituente.
Della questione si sono interessati in tempi più recenti Sturzo, Dorso, Gramsci da molti concittadini viventi conosciuti, le cui voci rimasero inascoltate.

La carenza delle classi dirigenti

Coloro che hanno avuto ed hanno a cuore il Mezzogiorno ed il Paese intero riconoscono che l’unità d’Italia è stata un bene per il Sud che è entrato in Europa e che era necessario lo sviluppo del Sud per superare dualismo e divario in funzione della stessa unità conquistata.
Bisognava creare una politica tesa al miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi ed il Sud, come tutto il Paese, aveva bisogno di una classe dirigente di alto livello che fosse al vertice delle istituzioni pubbliche da amministrare e governare in modo rigoroso, virtuoso all’interno di una visione unitaria, che doveva essere patrimonio dell’intero Paese.
Il venir meno della borghesia meridionale al ruolo innovativo sperabile, anzi la tentazione talvolta accolta di attingere da fondi dello Stato la ha resa parassitaria, come in gran parte lo è stata, a parere mio, l’imprenditoria che ha anche svolto compiti di mediazione con imprese prosperanti nella illegalità.
Sappiamo come stanno le cose.
Uno dei grandi meridionalisti e quindi un grande italiano come Manlio Rossi Doria, convinto che la questione meridionale fosse questione europea ebbe a dire: “Uno sviluppo economico del Mezzogiorno degno di questo nome non ci sarà se non quando tutti gli italiani, vorrei dire gli europei e non solo i meridionali, si renderanno conto che il problema centrale sta nell’impegnarsi nella battaglia per il risanamento civile e morale prima che economico del Mezzogiorno”.
Tale consapevolezza non è stata e non è patrimonio comune. Il fascismo in anni trascorsi aveva lasciato l’Italia in condizioni disastrose. Avemmo bisogno di ricostruzione dalle macerie della guerra ed il Sud, nonostante interventi mirati, ed anche a causa di una classe dirigente inadeguata, presente anche al Governo, acuì il ‘divario’.
Eppure la questione meridionale fu riproposta all’indomani della Liberazione. Tra il 1946 e il 1950 prese avvio una politica speciale per il Sud. Ricordiamo tutti, ognuno per il suo ruolo, uomini come Saraceno, Alicata, Romeo, Compagna e De Gasperi, Vanoni, La Malfa, De Martino, Pastore e tanti altri. Purtroppo la politica economica venne subordinata ad interessi di forti gruppi economici e i flussi del denaro pubblico furono gestiti da costruttori, speculatori edilizi e burocrati, come accadde anche in occasione del terremoto. Proprio qui a Napoli l’avv.Gerardo Marotta ha parlato di un blocco sociale che all’epoca si creò, anche attraverso l’istituto della concessione e portò all’insabbiamento della politica dell’intervento straordinario che pur produsse realizzazioni, ma insufficienti e a macchia di leopardo e che fu, quindi,  mal governato.
Ricordiamo Augusto Graziani che ha denunciato la nascita di una pletora di intermediari che gonfiava i costi degli interventi e non permise il raggiungimento degli obiettivi di promozione economica e sociale del  Mezzogiorno.Tutti ricordiamo come il Censis negli anni ’80 parlò di regioni tartarughe come la Campania, la Sicilia, la Calabria e la Sardegna  e di altre canguro come l’Abruzzo, il Molise, la Puglia e la Basilicata.
Ancora oggi lo sviluppo del Mezzogiorno è diversificato al suo interno ed al suo interno le condizioni di vita civile ha ancora i caratteri, come affermò Gramsci, di una grande disgregazione sociale.

Da questione nazionale alla politica dello steccato

Gli stessi Vescovi del Sud e poi tutti i Vescovi italiani  parlarono fin dal 1948 e poi nel 1989 e nel 2010  di un Mezzogiorno dallo sviluppo distorto nel quale convivono molti Mezzogiorni mentre invitavano a pensare al Sud come questione nazionale per cui occorreva un programma economico teso ad unificare l’intero Paese.
In anni recenti, di fronte ad un mondo che abbatte steccati, in Italia una rozza e superficiale politica ha operato per costruire cortili in cui rinchiudersi ed ha imprigionato creatività ed iniziative ed ha gridato contro la storia ed ha negato il futuro ed ha costretto gli italiani a sentire in modo forte una crisi mondiale. E chi ha lo sguardo corto non può governare una realtà che esige orizzonti e spazi e nessun confine.
Proprio nel 1994, anno in cui la Lega andò al Governo, la  Svimez indicava nel Mezzogiorno la nuova frontiera della così detta seconda Repubblica, che noi ben sappiamo non è mai esistita, come la stessa Padania, termine di moda, indicante un’immaginaria omogenea area territoriale.
La realtà impone  che  nel Sud vi sia una imprenditoria responsabile, che investa capitali e regga sul mercato, finanziamenti con tassi favorevoli ed una formazione e qualificazione e riqualificazione professionale per imprese da innovare.
Sappiamo che nessuna area territoriale può svilupparsi da sola e quindi va aiutata a svilupparsi facendo maturare e crescere l’innovazione e dove essa si manifesta.
Oggi resta il divario tra Sud e Nord e, come sappiamo. La forbice si allarga. Vogliamo andare alla ricerca delle responsabilità?
Ben le conosciamo e sono diffuse e permangono.
Il Governo di un Paese ha la responsabilità di governare l’intero Paese, per cui è doveroso chiedere che esso operi in funzione e per il bene di tutta l’Italia.

Liberarsi dalla criminalità

Ritengo che è opera prioritaria liberare le nostre Regioni dalla malavita organizzata, qualsiasi denominazione abbia. La “Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali anche straniere”  il 9 Febbraio 2011 approvava la” relazione sui costi economici della criminalità organizzata nelle Regioni dell’Italia meridionale” e riporto alcuni passaggi:
“L’analisi delle relazioni tra impresa, sviluppo economico e territorio, assume infatti un rilievo centrale soprattutto per impostare coerenti ed efficaci politiche di sviluppo e di sostegno in particolare delle piccole e medie imprese. Occorre anche riflettere sulla regolazione sociale deficitaria, individuata quale uno dei problemi storici del Meridione….Parallelamente occorre ricordare che nel Mezzogiorno il problema della disoccupazione ha le radici profonde e più che in altre aree del Paese, e che fin quando il tasso di disoccupazione delle aree più deboli del Paese continuerà ad essere così elevato, sarà sempre un problema contenere lo sviluppo delle organizzazioni criminali. Si deve allora ricorrere ad una utilizzazione proficua dei fondi strutturali per obiettivi infrastrutturali e di riequilibrio territoriale, soprattutto nel Mezzogiorno, con particolare attenzione alle reti viarie ed agli assi ferroviari di riconnessione del Mezzogiorno alle  5   direttrici nord-sud, est-ovest…..E’ necessario in particolare che nelle aree urbane, in molti quartieri dove il radicamento delle mafie è fortissimo, nelle città della Calabria, a Palermo, a Napoli, a Catania, a Bari si intervenga con massicci investimenti virtuosi proprio sul piano sociale ed urbanistico. Si auspica un impegno in tal senso, perché ne deriverebbero effetti enormemente positivi per l’occupazione e l’intera filiera produttiva edilizia che oggi versa in condizioni critiche. Ne avrebbero giovamento anche il commercio, lo sviluppo del turismo e la tutela del territorio, posto che ogni centro storico restaurato sarebbe un centro di attrazione turistica.. Le infrastrutture sono la via che consente alle aree meno dotate del Paese, in un certo momento storico, di potersi riequilibrare e, quindi, di arrivare a uguali condizioni di vita per imprese e persone che operano nelle diverse aree del Paese….Si ritiene dunque necessario rivolgere una particolare attenzione al problema delle infrastrutture nel Mezzogiorno, non solo per favorire il riequilibrio economico delle regioni del Sud, ma anche al fine di valorizzare gli ambiti socio culturali, quali le istituzioni scolastiche, la ricerca, l’università come importante strumento di contrasto alla presenza diffusa della criminalità organizzata per i riflessi negativi che comporta sul tessuto sociale di quelle regioni. Occorre tuttavia assicurare anche la presenza di una classe dirigente che sappia coniugare legalità e sviluppo, che devono procedere insieme perché senza le due dimensioni non si avrà mai una capacità di impatto contro le mafie in grado di sradicarle e non ci si limiterà semplicemente a contenere le manifestazioni violente, quando queste eccedono in un dato momento storico o in un dato territorio. La presenza delle mafie è infatti talmente strutturale da organizzarsi in forma di coabitazione con la società. L’economia, le istituzioni e la politica, al punto tale che oggi rappresenta il nodo principale da rimuovere per liberare le straordinarie potenzialità economiche del Paese, farlo diventare grande e metterlo nelle condizioni di competere in Europa e nella globalizzazione al meglio delle sue possibilità”.
La “Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali anche straniere”  il 22 Gennaio 2013 ha approvato la ‘relazione conclusiva’.La relazione è tutta da leggere e approfondire. Interessante rilevare come sia stata valutata la capacità imprenditoriale delle mafie. Il volume del riciclaggio sarebbe il 12 per cento del PIL e cioè 160 miliardi di euro. Ancora si presume che il fatturato criminale sia di 136 miliardi di euro ed un utile di 104 miliardi di euro.  Il IV Comitato che ha predisposto la relazione sui costi economici della criminalità organizzata nelle Regioni dell’Italia meridionale, in conclusione, stranamente a parere mio,  ritiene di “ non poter serenamente attribuire agli studi prodotti in materia di fatturato delle mafie, ovvero di entità del riciclaggio la capacità di fornire indicazioni utili all’attività legislativa, giudiziaria ed investigativa”.
Stupefacente l’affermazione, riportata in relazione, da parte del dr.Busà Presidente dell’Associazione SoS Impresa il quale ha riportato quanto affermato da imprenditori che hanno affermato che …”prima si pagava il pizzo, adesso gli appalti li ottengono solo le imprese che fanno riferimento alle organizzazioni criminali, precisando che il pizzo si sta trasformando quasi nell’iscrizione ad una associazione. “Chi paga entra nel mercato, in un’economia protetta e, poi, può chiedere al mafioso un favore, può partecipare agli appalti che loro vincono. Può ottenere una determinata fornitura, può avere agevolazioni. Chi si oppone non lavora più…”

E’ stato sottolineato che non esiste settore dell’economia che non sia contaminato dalla presenza criminale e che la nostra economia è ormai impregnata ed infetta.

Ovvie priorità

La SVIMEZ nel Documento 675.1 dell’archivio della Commissione  crede che per contrastare la situazione criminale bisogna mettere in piedi azioni compensative di due tipi. Occorre sostenere i redditi evitando tagli indiscriminati alle prestazioni sociali (pensiamo alla ricaduta sui Comuni, alle difficoltà per una ordinata  gestione, ai sacrifici indotti per i tagli al cosi detto stato sociale, all’aumento delle tasse comunali in 6 conseguenza dei tagli lineari messi in atto dai Governi Berlusconi e Monti)  ed attuare politiche di rigore selettive ripristinando la responsabilità dell’operatore pubblico non come pura entità di spesa bensì come capacità di definire e delineare una strategia…una strategia nazionale…(pensiamo alle conseguenze di una programmazione assente nelle scelte progettuali, al peso della corruzione, alla mancanza di controlli per la spesa e allo spreco delle risorse pubbliche, etc.etc.)
Sembrano a me tali relazioni bei temi scritti, spesso, dagli stessi che appartengono a partiti o movimenti che assumono poi comportamenti che appaiono distanti dai convincimenti espressi in tali condivisibili componimenti.
Abbiamo visto che per ottenere i risultati sperati occorrono la scuola, la cultura, il lavoro, l’aggiornamento per tutti e sviluppare le risorse e le professionalità esistenti.
Ed assistiamo alla moltiplicazioni delle Università ed alla caduta delle iscrizioni a causa dei costi non più sopportabili da famiglie con scarso reddito o prive di reddito certo.
Non è il caso di richiamare le priorità necessarie, ma  il mettere in sicurezza il nostro territorio, intervenire sul patrimonio edilizio, agricoltura, imprese minori, patrimonio artistico, centri storici, turismo, trasporti sono soltanto titoli per interventi strutturali.
Abbiamo una rete commerciale arretrata e carenza di spazi per la fruizione della cultura. Esigere piani per l’ambiente, per l’approvvigionamento idrico, e poi investimenti per la ricerca, l’università, la conservazione e difesa del suolo, per le attrezzature, per la prevenzione sismica, per la riconversione di morenti industrie militari non è una richiesta esagerata o irresponsabilmente esigente.
Se non sbaglio ancora sovrapprezzi termici  penalizzano le industrie del Sud ed il credito bancario  è patrigno al Sud.
Un grande impegno di risanamento urbanistico e lo sviluppo dei servizi essenziali, a cominciare dai trasporti per uomini e merci sarebbero decisivi in un Sud che è Europa  , che non sarebbe Europa senza il suo e nostro Sud. Direi poi  che il tema della ecologia è legato a quello della sopravvivenza .
Il sud è stato individuato come una discarica  e la questione rifiuti lo ha fatto precipitare  in una condizione dalla quale uscirne diventa un’impresa. Non è ininfluente lo scontro tra chi vuole gli inceneritori e chi li rifiuta, tra chi vede nell’industria dell’incenerimento  uno sbocco per la crisi e chi immagina il ciclo con l’obiettivo di ‘rifiuti zero’.
Il futuro richiede ricerca e innovazione tecnologica, che altri Paesi perseguono e che noi tralasciamo.
In ultimo e non ultima è la questione dell’informazione e dello sviluppo dell’editoria dal Sud e nel Sud che necessitano di una politica responsabile e lungimirante.
Infatti non avremo sviluppo se non rinforzando il quadro democratico all’interno della coscienza dei cittadini, a cominciare dai più giovani dei quali va accresciuto il livello di istruzione ed ai quali vanno presentati  uomini esemplari cui ispirarsi, ricchi di ideali e valori e non portatori di messaggi fuorvianti. Una società giusta, solidale e democratica necessita di uomini funzionali a tale progetto.
La costruzione di una comunità nel Sud ha bisogno di una politica che non lasci prevalere la rissa e faccia vincere un clima di pace che favorisca lo sviluppo ordinato ed una progettualità possibile.
Il Governo che verrà può mettere come priorità la più grande innovazione programmatica possibile e mai dichiarata: costruire il Paese in maniera unitaria per competere nel mondo.
Credo che occorra realizzare la nostra Costituzione nei suoi principi e bisognerà guardare avanti e, in questi giorni, all’indomani delle elezioni, ricordiamo Dossetti dicendo insieme a lui: “ La notte è notte, ma con l’anima della sentinella che è tutta tesa verso l’aurora. Sentinella, quanto resta della notte?”

 

Pedro Domingos – L’Algoritmo Definitivo

 

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La nostra società è immersa negli algoritmi. Ogni volta che visitiamo un sito web cercando un libro o un film, o che navighiamo tra i negozi online, lasciamo dietro di noi una lunga traccia digitale che descrive le nostre abitudini e le nostre preferenze; questa traccia è il «materiale grezzo», il database da cui algoritmi sempre più sofisticati traggono le informazioni per proporci il prodotto di cui abbiamo (o crediamo di avere) bisogno. Gli algoritmi ci osservano, ci imitano e fanno esperimenti su di noi, per raggiungere lo scopo che è considerato il Santo Graal della ricerca informatica: l’Algoritmo Definitivo in grado di estrarre tutte le informazioni dai dati e fare tutto, proprio tutto ciò che vogliamo, persino prima che lo chiediamo.

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Christina Dalcher – Vox

 

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Adolfo, continua a raccontare della Sunday law

 

2/2

Sono nel salotto buono di Adolfo Rossi, che pochi conosceranno come giornalista del Corriere della Sera e ancor meno come direttore del Progresso italo-americano, quotidiano statunitense in lingua italiana pubblicato a New York che nei tempi d’oro ha raggiunto la tiratura di ben centomila copie giornaliere. Detto in una parola, il suo quotidiano avrebbe potuto riportare la testata Italians, come la rubrica di Beppe Severgnini, perché non c’era un italiano residente nella grande mela che non lo leggesse. Nei suoi libri ha descritto l’America, come quella delle famiglie arricchitesi con le ferrovie, come da noi oggi possono essersi arricchite con le autostrade. Ma non è di questo che stavamo discorrendo prima della nostra pausa caffè.

Nella pagina precedente raccontavi storie semplici, scaturite dalla vita quotidiana dei tuoi tempi, soggetta a certe leggi astruse. Hai parlato in particolare delle leggi domenicali così come erano applicate a New York, nulla in confronto a come erano applicate New-Haven nel Connecticut.

Quello Stato era già famoso da un pezzo per le sue blue laws. Eccone una pagina: – Nessuno potrà dare il suo voto se non è iscritto in una chiesa di questo dominio. Nessuno camminerà in giorno festivo o passeggerà nel suo giardino o altrove, eccetto che, con compunzione, dalla sua casa alla chiesa e viceversa. Nessuno viaggerà, cuocerà cibi, rifarà letti, spazzerà case, si taglierà i capelli o si farà la barba in giorno festivo. Nessuna donna bacerà i suoi figliuoli nei giorni consacrati dalla Chiesa a pregare il Signore.

Leggi terribilmente restrittive, tanto da sembrare delle imposizioni inquisitoriali. Ci si può giungere anche all’improvviso, quando la società sembrerebbe indirizzata in tutt’altro verso. Anche oggi. Basterebbe leggere certe esternazioni dei “castigatori della tastiera”, che sui Social puntualizzano su tutto, dall’alto della propria ignoranza. Così come basterebbe che qualche Gran manipolatore sapesse usare il clangore delle buccine per cantare una nuova messa.

Senti un po’ quello che toccò a Sara Tuttle e a Jacob Newton per aver osato di trasgredire al “codice blue”. Sara era una buona ragazza, nella primavera della vita, che aveva una gran voglia di prendere marito ed era innamorata di Jacob, un povero e bravo giovinetto del vicinato. Avrebbe voluto fare all’amore con lui, ma il pudore le impediva di essere la prima a parlare, e, da parte sua, il giovinotto non ardiva di farsi avanti perché Sara era troppo ricca per lui. Ma in questi casi, ove manca il coraggio dell’uomo, supplisce l’astuzia della donna.

Una domenica mattina Sara incontrò Jacob per la strada, e, per trovar modo d’attaccar discorso, lasciò cadere i guanti fingendo di non avvedersene. Jacob li raccolse e disse sorridendo a Sara: —Se li volete, desidero una ricompensa. —Ma io non ho denaro con me —rispose la biricchina.— Che cosa posso fare per voi? Jacob mise insieme tutto il suo coraggio e disse: —Vorrei un bacio!

Sara non se lo fece dire due volte e lo baciò. Una pinzochera ingiallita e invecchiata nel desiderio di baci che non aveva mai ottenuti, osservò e denunziò il fatto. E i due colpevoli furono citati davanti al competente magistrato, il quale li condannò a pagare la multa.

Può essere assurdo, ma questa è realtà storica. È vero, fa parte di un tempo tanto distante che parrebbe inverosimile che si ripetesse. Questo, però, è il timore costante. Potrei fare un lungo elenco di film o romanzi sul tema di un futuro distopico; tuttavia il tuo resoconto dei fatti è la testimonianza diretta che l’irrazionale è sempre in agguato. Ma torniamo alla capitale del Connecticut.

Una domenica di novembre del 1883 mi recai a New-Haven a trovare un amico. Da New-York si andava a New-Haven in un paio d’ore, attraversando, fra gli altri paesi, Bridgeport, la patria di Barnum, dove il famoso showman teneva i suoi quartieri d’inverno pieni di cavalli e di bestie feroci. Da quelle stalle, per far parlare di sé, di tanto in tanto Barnum lasciava scappare qualche elefante che scorrazzava per i campi circostanti e rovesciava parecchie siepi, affinché non languisse la cronaca dei giornali locali.

New-Haven, a quei tempi, contava più di sessantamila abitanti, ma era tranquilla come un villaggio; strade belle e larghe, fiancheggiate da filari d’alberi, quasi tutte di legno, piccole, eleganti e simpatiche come tante palazzine di villeggiatura. È rinomata per la Yale University … e per la severità con cui si osserva il riposo della domenica.

Il Yale Colege è oggigiorno uno dei più rinomati e importanti degli Stati Uniti, la terza istituzione universitaria più antica, fondata nel 1701. Quindi la città dovrebbe essere un centro nevralgico di cultura superiore. All’epoca c’era anche una colonia italiana che contava circa un migliaio e mezzo di pacifici e laboriosi operai, assai ben visti dalla popolazione.

Quasi tutti lavoravano nelle numerose fabbriche di carrozze e di oggetti di gomma. Per provare il buon conto, il Municipio aprì per essi una scuola nella quale si davano lezioni gratuite serali d’inglese. Straordinario è il numero di chiese d’ogni culto. Nel solo centro della città ne sorgono cinque, a pochi passi l’una dall’altra. Uno dei punti più belli di New-Haven è dove la città finisce sulla riva del Sound. A levante sorgono alcune collinette e a ponente si stendono fino a perdita d’occhio le acque calme del fiume, popolate di barche e di qualche schooner. Mentre io e l’amico tornavamo in città, facemmo quella domenica uno strano incontro. Ventun persone, fra uomini e donne, elegantemente vestiti, venivano condotti a New-Haven prigionieri, scortati da alcuni policemen. Gli arrestati appartenevano alla miglior società.

Di che cosa si erano resi colpevoli?

Ignorando che le autorità avevano deciso di rimettere in vigore le puritane blue laws, quei signori erano usciti a passeggiare come il solito di tutte le feste. Giunti a un certo punto vennero arrestati come contravventori alla legge sulla domenica, rinchiusi in una masseria come un branco di montoni, e condotti quindi tutti insieme a New-Haven. Tradotti davanti al giudice, alcuni furono rilasciati pagando una cauzione, altri trattenuti in prigione. Quella inattesa risurrezione di leggi cadute in disuso era dovuta alla richiesta degli abitanti della borgata di Foxon. Costoro si lagnavano che «quelli di New-Haven violavano costantemente la domenica passando in vettura a Foxon, con grande disappunto e scandalo dei buoni cittadini».

Anche riunirsi in comitiva e visitare i dintorni della città di domenica era da considerarsi vietato? Queste blue laws erano l’espressione di una visione locale e certamente trincerata verso il prossimo. Comico, ma vero!

È comico, piuttosto, il modo usato per fermare quelli che passavano. Il signor Thompson (che svolgeva il compito di constabile, un dirigente di polizia) aveva imboscato i suoi uomini in un punto in cui la strada era tutta coperta dalle noci che il vento aveva fatto cadere dalle piante circostanti. Come il malizioso constabile aveva preveduto, tutti quelli che arrivarono in carrozza a quel punto, vedendo le belle noci, scesero per riempirsene le saccocce. In quella sbucarono i policemen e li dichiararono in arresto.

E dire che oggi lamentiamo gli appostamenti degli autovelox!

 

Dimmi Adolfo: che cosa pensi della Sunday law?

 

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Spesso faccio qualche passeggiata e vado a trovare i miei amici. Alcuni sono giovani e con figli. Buona parte sono persone anziane. Ho sempre amato conversare con quest’ultime, perché custodiscono memoria di un mondo così distante da quello che solitamente viviamo con trepidazione, perché dal mondo di oggi dipende il mondo di domani. Con le persone “d’altri tempi”, nel vero senso della parola, ragiono sul fatto che all’epoca le vicende da loro vissute lasciavano interdetti né più né meno delle vicende che viviamo noi oggi. Ho deciso di fermarmi a parlare con un giornalista famoso, richiesto all’epoca persino dal Corriere della Sera, dove ha svolto anche il ruolo di redattore capo, per lasciarlo, in seguito, e diventare un diplomatico, e chiudere in modo definitivo con il giornalismo. Non aveva alcun titolo di studio accademico per fare il diplomatico, tanto è vero che alcuni suoi colleghi si sono spinti a presentare un ricorso contro la nomina: ricorso rigettato dal ministero. Non è, però, di questo che vorrei parlare con Adolfo Rossi, nativo di Valdentro, oggi frazione di Lendinara in Veneto. Dopo aver letto alcune sue pagine, casualmente, sono rimasto colpito dello stile secco e moderno, quasi telegrafico. Lui sorride del mio apprezzamento e mi invita a mettermi comodo in poltrona. Iniziamo così la nostra conversazione, ricca di note gustose, perché a me sono sempre interessate “le storie”, quelle che ogni persona, anche la più comune, è capace di raccontare, facendo riemergere gli accadimenti di una vita. Parto da un fatto di cronaca, per capire se esiste un possibile parallelo con il nostro passato; questo perché i fatti quotidiani che leggiamo sui giornali, quando riaffiorano dalle esperienze raccontate direttamente dai protagonisti perdono la dimensione della cronaca per diventare “storia”. Alcuni fatti potrebbero rimanere noterelle, per l’appunto, ma servono se non altro a farne tesoro, a cogliere le costanti e le differenze con quanto noi stessi stiamo vivendo.

Parto, come ti dicevo, da un fatto di cronaca, quello dei lavoratori della domenica, tema delicato che riguarda milioni di persone, quelle che lavorano e quelle che solo di domenica hanno tempo e spirito giusto per andare a fare acquisti. Adolfo, ti chiedo di dirmi qualcosa sul riposo festivo: se ne parlava ai tuoi tempi? Ne hai scritto? 

Una delle cose che mi sorprese di più nell’America del Nord, paese che è considerato il più libero e più pratico del mondo, fu di veder conservate ancora negli statuti di alcuni Stati certe leggi puritane, quacchere, ridicole, odiose, medievali, che fanno a pugni con le idee e con le consuetudini moderne.

Alcuni articoli di quegli statuti di origine inglese, erano assolutamente contrari ad ogni principio di libertà, allo spirito medesimo della costituzione americana; eppure non furono aboliti. La maggior parte delle leggi più assurde caddero in disuso, ma non in tutti gli Stati. Gli articoli più strani erano quelli sul riposo della domenica. Gli articoli di questo codice erano a poco a poco caduti in disuso. Verso la fine del 1882, vi fu un risveglio di puritanismo, e col primo dicembre di quell’anno il codice penale di New-York venne rimesso in vigore in tutta la sua forza. Ciò significava che, alla festa, non si poteva comperar un sigaro, né un caffè; che tutte le botteghe dovevano esser chiuse; che qualunque lavoro era proibito; che per le strade non si vedevano né vetture, né omnibus, né carri dei tramways, né vagoni dell’Elevated.

L’Elevated è l’iconica High Line di Manhattan, la ferrovia sopraelevata nel Lower West Side di New York. Quindi erano sospesi persino i mezzi pubblici? Che esagerazione! Lontana da me, comunque, l’idea di contrapporre presente e passato, soprattutto laddove il passato sembra emergere sempre come migliore rispetto al presente. Non esiste contrapposizione, né paragone, perché cambiano i contesti e un discorso, in questi termini, è inammissibile. A me interessa soltanto ascoltare la tua esperienza: mi permette di conoscere qualcosa in più di cui prima non sapevo nulla. Parlami dell’esperienza che hai fatto in America, i ricordi di quell’ultimo triennio passato nell’isola di Manhattan su cui sorge New York.

Non dimenticherò mai la prima domenica che passai sotto la restaurazione di quel codice. Uscito di casa alle otto di mattina, secondo il solito, cercai coll’occhio, nelle vie deserte, un lustrascarpe. Soltanto dopo una mezz’ora scoprii, sulla soglia di una porta, un povero ragazzo irlandese col viso paonazzo, che, in attitudine sospetta, celava sotto la giacca la sua scatola di lustrascarpe. Mi accostai a quel povero ribelle e gli chiesi se aveva il coraggio di violare la legge. Si guardò intorno e non vedendo alcun policeman, s’inginocchiò mormorando: – Hurry up, boss! (Facciamo presto, principale!). – Che cosa pensi della nuova Sunday law? (la legge della domenica) – gli domandai. – Penso – rispose – che io sono un povero orfano e che devo mangiare anche alla domenica. Uno stivale era già lucidato alla bell’e meglio e il ragazzo s’accingeva a lustrare anche il secondo, quando comparve improvvisamente sulla cantonata un policeman, col suo bravo club (manganello corto) in mano. Io non potei trattenere una risata, ma il policeman si accostò con aria minacciosa e disse al ragazzo spaventato: – È la seconda volta che stamane ti colgo in contravvenzione. A casa subito: se ti vedo ancora, ti conduco alla Station House (stazione di polizia). – Lascerete almeno che finisca le mie scarpe! – osservai io. – No – interruppe severamente l’ufficiale di polizia. – Ringraziatemi se vi lascio andare per la vostra strada; osservate la legge!

La legge va sempre osservata, anche quando non è condivisa!

Con uno stivale lucido e l’altro no, andai verso la bottega del mio barbiere: era chiusa e sulla porta stava scritto tanto di closed. Mi avvicinai alle porte di parecchie altre; tutte chiuse egualmente. Mi rassegnavo a passar la festa con la barba da fare, quando bussando per l’ultima volta all’uscio della bottega di un barbiere tedesco vidi un occhio al buco di una tendina abbassata. Quando quell’occhio si convinse che non ero né un policeman, né un detective, una voce mormorò: – Entrate per la porticina laterale. Tre barbieri stavano radendo tre persone, cogli usci chiusi a chiave, silenziosamente. Parevano malfattori in atto di commettere qualche brutto delitto. Di lì a qualche minuto un policeman bussò, ma nessuno gli rispose. Soltanto il padrone bestemmiava fra i denti e diceva: – Ho cinque figli da mantenere, io. Senza il guadagno della domenica mattina, potrei chiudere durante il resto della settimana. Quella mattina un cittadino veniva arrestato ai Five Points mentre si faceva radere e condotto in questura con mezza barba fatta e l’altra guancia insaponata, insieme col barbiere.

Non credo che tutta la città fosse bloccata! Non mi dire: era bloccata!

Il direttore della sala dei concerti «Koster and Bial’s» che volle provare a dare una rappresentazione con un programma sul quale era scritto: – A beneficio dell’Ospedale tedesco – dovette pagare una cauzione di cinquecento dollari per non essere arrestato, e lo spettacolo venne interrotto. Lo stesso accadde all’Alcazar. Prima di mezzogiorno una cinquantina di persone si trovavano alla Corte di Polizia, accusate di violazione della legge domenicale. Nel sedicesimo distretto erano stati arrestati due lustrascarpe neri. Quattro barbieri sorpresi mentre lavoravano segretamente e condotti subito davanti al giudice, ebbero un bel dire che se non sgobbavano alla festa perdevano la maggior parte dei loro guadagni, e invano protestarono ricordando che perfino ai tempi della Santa Inquisizione fu fatta un’eccezione per il lavoro dei barbieri: dovettero pagare quattro dollari di multa per ciascuno.

Quattro dollari all’epoca erano una cifra. Sembra il soggetto di film comico. Se non me le raccontassi tu, queste storie, potrei pensarle come il prodotto della fantasia di uno sceneggiatore.

Un episodio buffo. A mezzogiorno un tedesco usciva con un canestro coperto sotto il braccio dalla porta laterale di una birreria di Houston Street. Essendo proibito di comperare alla domenica qualunque cosa, anche il pane, un policeman lo fermò e gli chiese: – Che cosa avete in quella cesta? Il tedesco, che aveva un boccale di birra, rispose prontamente: – Un gatto arrabbiato che vado ad annegare nel fiume. È anche questo un lavoro proibito dal codice?

Oggi sarebbe certamente proibito maltrattare un animale, altro che ucciderlo! Questa situazione si è protratta nel tempo?

Alla domenica successiva si rinnovarono le medesime scene. Non solo i saloons grandi e piccoli, ma anche i principali alberghi della metropoli vennero attentamente sorvegliati e alcuni di essi, come l’Astor House, sospesero totalmente la vendita delle bevande alcoliche, rifiutandole perfino agli ospiti dell’albergo. Nei vari quartieri della città si eseguirono più di cento arresti, per lo più di uomini e di ragazzi colti mentre uscivano dalle porte di servizio dei Lager Beer Saloons con qualche pinta di birra. Quelli fra i contravventori che vennero arrestati al mattino poterono pagare una cauzione e tornare a casa nello stesso giorno; ma coloro che si lasciarono prendere ad ora tarda dovettero passare la notte nelle Station Houses in attesa che la Corte di polizia si riunisse il giorno appresso. La terza domenica si ebbe un omicidio. Il policeman John W. Smith era stato mandato in giro, vestito in borghese, alla scoperta di qualche violatore della legge domenicale. Per la solita porticina laterale entrò nella birraria di un certo Patrick Reagan in Madison Street e, senza farsi conoscere, domandò un bicchiere di salsa pariglia che gli fu servito dal padrone stesso.

Scusami, se ti interrompo. La salsa pariglia è quella bevanda gassata che oggi chiamiamo “root beer”, cioè “birra di radice”? Era di bassa gradazione alcolica, per questo tanto in voga negli Stati Uniti ai tempi del proibizionismo. Nell’Ottocento era anche usata nella terapia della sifilide (il “mal francese”); più comunemente come diuretico o come rimedio anti-artritico. Prego, continua.

Poco dopo entrarono tre avventori i quali chiesero tre schooners (grandi boccali). Mentre Reagan spillava la birra da un barile, il policeman travestito si bagnò un dito sotto il rubinetto del barile stesso, e, portatolo alla bocca e assicuratosi che la bevanda versata era realmente birra dichiarò senz’altro il birraio in arresto. In prova della sua autorità gettò sul banco la placca metallica che è il distintivo degli addetti alla polizia. Reagan prese la placca e gliela scagliò sulla testa, dicendo che non si curava di tutte le spie della città: quindi, levando di sotto al banco una vecchia sciabola (il birraio apparteneva ad una di quelle associazioni militari che costituivano la guardia nazionale), si avventò contro il policeman. Questi lo prese di mira col revolver, fece fuoco e lo ferì mortalmente al petto. Reagan spirò poco dopo. Questo omicidio, accaduto per causa di una legge la cui applicazione richiedeva un odioso spionaggio, provocò un grido di protesta da parte del pubblico, e i giornali si misero alla testa dell’agitazione.

Assurdo! Come reagì la stampa?

– Invece della statua di Bartholdi nella baia – diceva il Puck – invece della Libertà che illumina il mondo, gli americani dovrebbero eternare la memoria del codice penale di New-York col seguente monumento. E disegnava il progetto di una statua della libertà incatenata, che sorgeva in mezzo a una strada, la quale, essendo domenica, era tutta deserta: soltanto davanti a ogni albergo, teatro, bottega di qualsiasi genere, stava ritto, col bastone in mano, un policeman. –

Dopo il clamore delle cronache l’opinione pubblica sollevò polemiche, tanto da modificare la legge?

Vennero i meetings e si formarono delle associazioni, le quali si proponevano di ottenere la abrogazione di tutti quegli articoli del codice che, col pretesto del rispetto della domenica, violano la libertà del commercio e sono una vera rovina. La questione fu portata alla Camera dei rappresentanti di Albany – la capitale dello Stato di New-York – e suscitò una vivace discussione, specialmente a proposito dell’articolo che proibisce le corse dei cavalli e gli esercizi ginnastici. Il signor Murphy suscitò una grande ilarità chiedendo che fosse eccettuata dalla proscrizione domenicale almeno la pesca alla canna. Ma tutto fu inutile: la maggior parte degli oratori fecero dei discorsi da predicatori, sulla utilità morale e igienica dell’assoluto riposo festivo, ed espressero una profonda indignazione contro qualunque tentativo di europeizzare la domenica nord-americana. Così il codice dello Stato di New-York rimase invariato: si tollera solo che, alla domenica, i cittadini si facciano lustrare le scarpe e radere la barba. Le porte principali delle birrerie e delle botteghe di liquori sono chiuse, ma si può entrare per la porticina di dietro. Ipocrisie grottesche. Quello che vidi a New-York in fatto di leggi domenicali è nulla in confronto di ciò che osservai a New-Haven nel Connecticut.

Dopo il caffè, Adolfo. Facciamo una pausa, prima di raccontarmi altre storie.

 

A quando la laurea “honoris causa” di Luciano De Crescenzo?

 

Luciano De Crescenzo è uno dei maggiori scrittori italiani tradotti all’estero. Autore di best-seller della filosofia spiegata a tutti, De Crescenzo ha un proprio metodo per comunicare e farsi leggere: «Mi metto nei panni di chi sta a sentire, mentre la maggior parte degli intellettuali non diversifica il linguaggio. Il filosofo medioevale Averroè dice che ogni volta che si scrive un libro bisogna farlo tre volte: una per popolo, una per colleghi e una per i ragazzi. Sono ancora troppi quelli che scrivono solo per i colleghi». Paolo Pantani e molti altri amici da anni chiedono un riconoscimento accademico per il grande “divulgatore”: in questo articolo si raccontano i numerosi tentativi.

Campanilismo

Nu Milanese fa na cosa? embè,
tutta Milano: – Evviva ‘o Milanese!
È rrobba lloro e l’hann’ ‘a sustenè,
e ‘o stesso ‘o Turinese e ‘o Genovese.

Roma? : – Chisto è Rumano e si è Rumano,
naturalmente vene primma ‘e te.
Roma è la Capitale! E si è Tuscano,
Firenze ne fa subbito nu rre.

Si fa na cosa bona nu Pugliese?
Bari, cu tutte ‘e Puglie, ‘o ffa sapè.
Si è d’ ‘a Basilicata o Calavrese,
na gara a chi cchiù meglio ‘o po’ tenè.

È nu Palermitano o Catanese?
tutt”a Sicilia: – Chisto è figlio a mme!
Si è n’Umbro, Sardo, Veneto, Abruzzese,
‘a terra soia s”o vanta comme a cche.

Le fanno ‘e ffeste, aizano ‘o pavese:
senza suttilizzà si è o nun è.
Nun c’è nu Parmigiano o Bolognese
ca ‘e suoie nun s’ ‘o difendono; e pecché

si è nu Napulitano, ‘a città soia,
‘o ricunosce e nun ce ‘o ddà a parè?
S”o vasa ‘nsuonno e nun le dà sta gioia.
E ‘e trombe ‘e llate squillano: ” Tetèee! ”

Qualunque cosa fa, siente: – ” E ched’è? ”
” ‘O ssaccio fà pur’io. ” ” Senza pretese. ”
E chesto simme nuie. Dopo di che,
Nun se fa niente ‘e buono a stu paese?

E tu, Napule mia, permiette chesto?
Strignece ‘mpietto a te, figlie e figliaste.
Arapencelle ‘e braccia e fallo priesto:
avimm’ ‘a stà a ” guaglione ” e simmo maste.

T’avante ‘e vermicielle, ‘e pummarole:
mmescace pure a nuie si ‘o mmeretammo.
Che vvuò ca, cu stu cielo e chistu sole,
te dammo nu saluto e ce ne jammo?

Campanilismo bello, addò sì ghiuto?
facimmolo nuie pure comme a ll’ate.
si no p’ ‘a gente ‘e Napule è fernuto,
e nun sarrammo maie cunsiderate.

Talento ne tenimmo, avimmo ingegno:
nu poco sulo ca ce sustenimmo,
cunquistarrammo chillu posto degno
ca, pè mullezza nosta, nun tenimmo.

Quanno na cosa è bbona e è nata ccà,
nu milione ‘e gente l’ha da dì.
E vedarraie po’ Napule addò va,
cu tutto ca è ‘o paese d’ ‘o ddurmì.

Raffaele Viviani

I tentativi per raggiungere il tanto sospirato riconoscimento

>>> di Paolo Pantani 

Quando penso a Luciano de Crescenzo penso sempre a questa poesia di Raffaele Viviani e ai tanti talenti nostri, mai i valorizzati dalla città. Il caso di Antonio de Curtis è emblematico, non ha avuto riconoscimenti dalla critica teatrale, fu valorizzato, in primis, da Goffredo Fofi, solo dopo la sua scomparsa.
Luciano ha novanta anni, lo conosco da sempre, sin da quando era support-marketing alla IBM, io lavoravo per concorrenza, ma siamo sempre stati amici, nelle trattative che si svolgevano nel mercato delle imprese e degli studi professionali per l’ acquisto di computers, in anni di informatizzazione selvaggia che vanno dal 1970 alla metà degli anni ’80 , si vinceva e si perdeva, ma c’era spazio per tutti. È sempre intervenuto agli eventi che gli proponevo, senza chiedere mai niente, anche se è una grande star: http://www.aei.napoli.it/Locandine/convegno_22_ottobre_2003.pdf 
Da questo convegno, dopo l’avvenuto ” sdoganamento” all’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI, nacque l’idea di in altro convegno, quello di promuovere un riconoscimento accademico alla sua attività di divulgatore filosofico: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/10/07/luciano-la-pietra-filosofale.html
Dopo questo convegno, in un certo senso da precursori della “terza missione” della Università, quello dell’assegnare a persone illustri, che hanno operato sul campo, i riconoscimenti accademici onorifici, cominciò l’interlocuzione con l’allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studi Federico II, il colloquio si mostrò impegnativo, nella città di Gianbattista Vico, Benedetto Croce, il quale non era laureato, ma anche di Parmenide e Zenone di Velia, qui vicino, un riconoscimento “honoris causa” in Lettere e Filosofia non è ancora mai stato dato a nessuno. In quegli anni fu dato il riconoscimento di Professore Emerito a Giuseppe Galasso, quindi la cosa strideva un po’, diciamo così.
Comunque, nacque l’accettazione dell’invito a discuterne, visto che erano comunque possibili possibili azioni di mecenatismo a favore di giovani ricercatori, secondo il preside erano molto meglio di “un monumento in vita” alla figura di Luciano De Crescenzo. Raccontai tutto a Luciano, decidemmo di incontrare comunque il preside, per almeno cominciare a parlarne, correva l’anno 2005, all’epoca Luciano aveva 77 anni. Io ero perplesso, ma da “commerciale”, fidavo molto in una cena convincente in un noto ristorante napoletano, di mercoledì, per gustare uno straordinario sartù di riso. Pensavo che la cosa si sarebbe evoluta, tutte le cose cominciano piccole, poi crescono, è naturale evoluzione. Alla cena erano presenti Luciano De Crescenzo, il preside, Renato Ricci ed io, come amici di Luciano ed io, immeritatamente, anche come organizzatore dell’Evento ” Filosofo..sia”, forse un titolo troppo ottimista.
La situazione non si sbloccò, un riconoscimento così importante non poteva essere trasformato in una “disponibilità a pagare”, sia pure per finanziare opere meritorie come corsi di master universitari per giovani ricercatori.
Alla fine Luciano era tristissimo, lo accompagnammo in taxi all’Hotel Royal, credo che qui naufragò il progetto ambizioso di realizzare una Fondazione Luciano De Crescenzo a Napoli.

Cena fra amici. In apertura di pagina Luciano De Crescenzo (a sinistra) accompagnato da Paolo Pantani.

Comunque, malgrado questo insuccesso, l’amicizia con Luciano è proseguita, seppi che era ”testimonial” della associazione per i diritti del cittadino Civicrazia, di cui sono diventato primo direttore nazionale, mi occupo di politiche e strategie macroregionali.
Lo ammetto, da bagnolese “eretico” ostinato, ho continuato i miei tentativi di raggiungere questo tanto sospirato riconoscimento a Luciano De Crescenzo, cambiando però gli interlocutori, dopo il sostanziale fallimento, ci ha provato inutilmente anche Nino Daniele, amico fraterno dalla giovinezza, Assessore alla Cultura a Napoli e laureato in Filosofia.
Però ci tengo a dire che, nella sua storia della filosofia greca, medioevale, moderna,(ha scritto anche questo Luciano, altro che il semplice “Bellavista”), ha dedicato alla riforma protestante solo una mezza paginetta. La riforma fu la genesi del capitalismo moderno, come sottolineò Max Weber, nel suo citatissimo “etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
Secondo me è la lacuna più profonda di questo libro, ma non ostacola il valore divulgativo dell’opera, tutti gli italiani, del Nord e del Sud, infatti sono tiepidi vero i fattori religiosi, è un popolo antichissimo e sincretico, tutti preferiscono i punti interrogativi a quelli esclamativi, per dirla alla Luciano, adorano i santi, sono superstiziosi e scaramantici, non conoscono le sacre scritture e forse non credono veramente in niente.
Infatti, si stanno preparando in città le celebrazioni del cinquantenario della nascita dell’Ospedale Evangelico di Napoli, Villa Betania di Ponticelli, una realtà fra le più efficienti ed efficaci della sanità pubblica italiana, questo non è un caso, almeno per me che conosco con quanta abnegazione ci si lavora, è un’avventura della Fede. Comunque, non divagando, anche adesso stiamo lavorando per questo obiettivo del riconoscimento a Luciano, grazie al caro amico professore Rocco Giordano, presidente della Giordano Editore, che mi ha presentato il Dott. Francesco Montanaro, Presidente dell’Istituto di Studi Atellani.
Francesco Montanaro, in base alla “terza missione”, ha presentato la richiesta a favore di Luciano De Crescenzo al Senato Accademico della Università degli Studi Federico II, sarà appoggiato da alcuni dipartimenti universitari, finalmente?
Stavolta uso io il punto interrogativo, che tanto piace al nostro grande amico, però la campagna quotidiana che sta facendo da molte settimane un giornale cittadino, con illustri articoli in prima pagina di tutto il “Ghota della Cultura a Napoli”, anche con qualche “autocritica postuma” e pertanto inutile, giova a questo “riconoscimento”, sono diventato anche io scaramantico, NON LO NOMINO, malgrado sia valdese: “non è vero e non ci credo” ma veramente!

 

I mille condimenti della pasta: basilico o pomodoro

 

Il BASILICO

Nel libro Vera cucina genovese, pubblicato nel 1863, non poteva mancare un piatto di pesto. In esso è presente un piatto di pesto d’aglio e di basilico. La lavorazione è molto simile al pesto attuale: vi è una maggiore presenza di aglio e mancano i pinoli. Ma la presenza del pesto risale ad epoca medievale. Infatti, nel testo di Martino, già si ritrova una salsa verde per i maccheroni. Tra gli ingredienti base troviamo formaggio parmigiano, provola morbida e rucola tritata. Al tempo, questo piatto genovese serviva per condire “al magro le lasagne, i taglierini ed i gnocchi”. L’uso della salsa di pesto è fortemente regionale, quasi non si trovava fuori della Liguria. Tant’è che non è presente né nel libro di Artusi, né nel Diario della massaia, che lo segue. Pochi altri esempi in Italia, dove viene, però, denominato in altra maniera. Con il nome di pistou, era aggiunto ad una minestra francese.

IL POMODORO
La salsa di pomodoro è un’invenzione pressoché meridionale. Il pomodoro fu importato dalle Americhe (dal 1592), ma rimase misconosciuto ai cuochi italiani e spagnoli per lungo tempo, nonostante un botanico spagnolo avesse suggerito, da subito, il pomodoro proprio per i sughi. Essendo il meridione sotto il dominio spagnolo, fu da questi portato nel Sud italiano.
Il suo uso gastronomico è sottolineato, nel 1692, da Antonio latini, cuoco molto legato a Napoli. Latini stesso denomina le sue ricette al pomodoro come “alla spagnuola”. Nella sua opera, in due volumi, Latini propone, un’insalata di pomodori, appena grigliati sulla brace, unita ad un battuto di cipolla, timo e peperoncino, con l’aggiunta di un filo d’olio, aceto e sale.
A lui seguono, nel 1773, il libro del Cuoco galante e poi quello di Vincenzo Corrado, che prepara una dozzina di ricette a base di pomodoro. Praticamente di tutto: frittelle, crocchette, pomodori farciti con riso, tartufi o acciughe. Tuttavia, non è ancora lo sposalizio tra pasta e pomodoro. Questo almeno si desume dalla tradizione della cucina aristocratica.
A menzionare, per primo, l’abbinamento tra pasta e pomodoro è il francese Grimod de la Reynière nel libro Almanach des gourmands, pubblicato nel 1807, a cui, però, si preferisce quello tra riso e pomodoro. Più tardi ecco la prima ricetta di un timpano di vermicelli, riportata da Ippolito Cavalcanti, che tratta del sugo fatto con i pomodori.
Nel successivo Manuale del Cuoco e del Pasticcere, del 1832, di Vincenzo Agnoletti di Parma, si parla delle conserve di pomodoro, tanto in voga in quel periodo.
Nella Vera cuciniera genovese, si cita un sugo semplice di pomodoro. Nel Cuoco milanese, edito nel 1863, si parla di una salsa di tomates, mentre nella Vera cucina lombarda, finalmente, ecco la salsa di pomodoro per minestre. Siamo nel 1890.
Da Napoli, quindi, la pasta col pomodoro si diffonderà un po’ dovunque, in maniera radicale, nella seconda metà del XIX secolo. Ma sarà con Artusi che la pasta col pomodoro arriverà alla sua ufficialità. Artusi la cita, infatti, come variante dei maccheroni alla napoletana. Così, da quel momento, Napoli ed il sugo di pomodori saranno coppia di bontà e tradizione. Oggi ovunque nel mondo.